13 novembre 1960: l’artista afroamericano Sammy Davis Jr. sposa l’attrice svedese May Britt

– A che punto ci troviamo con la questione razziale, Martin?
– Ti spiego a che punto mi trovo io. Mi trovo nella suite più bella di questo albergo, ma non posso andare a passeggio per le strade con mia moglie.
(Sammy Davis Jr., conversazione con Martin Luther King e un amico comune)

Il 13 novembre 1960 Sammy Davis Jr., uomo di spettacolo di fama internazionale e afroamericano, sposò l’attrice svedese May Britt, compiendo per ciò stesso un atto che in trentuno stati dell’Unione era considerato reato.

Solo cinque anni prima, il quattordicenne di colore Emmett Till era stato linciato in Mississippi per aver semplicemente fischiato al passaggio di una donna bianca; nel 1958, un sondaggio aveva rilevato che soltanto il 4% della popolazione statunitense era favorevole ai matrimoni misti e, in quello stesso anno, un giudice della Virginia aveva negato a una donna di colore e a un uomo bianco di celebrare le nozze: “Non c’é nessuna ragione per autorizzare il matrimonio tra le razze. Il fatto che Dio le abbia separate, infatti, mostra che non intendeva farle mischiare.”. Con quelle nozze, Davis attirò la minacciosa attenzione di un’opinione pubblica razzista e malevola, e perfino l’ostracismo dell’allora presidente John Fitzgerald Kennedy, in altre circostanze così sensibile alle questioni dei diritti civili. Non che l’entertainer fosse all’oscuro dei rischi: pochi anni prima, la sua relazione con l’attrice Kim Novak – all’epoca sulla cresta dell’onda – era stata pesantemente osteggiata dall’establishment hollywoodiano.

L’ufficializzazione del legame tra Sammy Davis e May Britt anticipò di sette anni la sentenza della Corte Suprema che rese legale il matrimonio interrazziale in tutti gli Stati Uniti. Ma non fu il solo gesto con cui, nel corso della vita, l’artista tentò di abbattere barriere consolidate in favore del movimento per i diritti civili.

Nato nel 1925, Sammy Davis Jr. era figlio di due ballerini di vaudeville; imparò a ballare fin da piccolo da suo padre e dallo “zio” Will Mastin, il capoballerino della compagnia di cui suo padre faceva parte, e ben presto si unì a loro negli spettacoli nel Will Mastin Trio.

Il padre e lo “zio” cercarono di proteggere il giovane Sammy dal razzismo, dicendogli, per esempio, che gli insulti che ricevevano erano dovuti a invidia e gelosia. Lo scontro con la realtà del pregiudizio razziale avvenne durante la Seconda guerra mondiale, quando Sammy Davis Jr. fu arruolato nell’esercito degli Stati Uniti:

Improvvisamente il mondo sembrava diverso. Non era più di un solo colore. Mi rendevo conto di come mio padre e Will mi avessero protetto per tutta la vita. Speravano amorevolmente che io non arrivassi mai a conoscere il pregiudizio e l’odio, ma si sbagliavano. Era come se avessi camminato dentro una porta girevole per diciotto anni, una porta che loro avevano sempre tenuto aperta in segreto.

Sotto le armi si unì a un gruppo che faceva spettacoli di intrattenimento per le truppe e si rese conto che sul palcoscenico alcuni pregiudizi sparivano:

Il mio talento era la mia arma, il mio potere, il mio modo di lottare. Era l’unica maniera in cui potevo sperare di influire sulla mentalità delle persone.

Lasciato l’esercito, si riunì allo spettacolo di danza e, negli anni ’50, ebbe un enorme successo incidendo album ed esibendo a Broadway il suo talento di cantante, ballerino, attore e comico, per poi unirsi al famoso sodalizio di amici e colleghi artisti The Rat Pack, che comprendeva anche Dean Martin, Peter Lawford, Joey Bishop e Frank Sinatra. Con loro interpretò diversi film di successo e, proprio grazie a ciò, tutto il gruppo poté giocare un ruolo importante nella lotta alla segregazione razziale nei nightclub di Miami e nei casinò di Las Vegas, rifiutando di esibirsi e frequentare quelli che discriminavano i neri: molti locali iniziarono ad adottare un atteggiamento più tollerante, pur di poter vantare la presenza di ospiti così celebri.

 

Nel 1954, Sammy Davis Jr. ebbe un grave incidente automobilistico, che, secondo la versione ufficiale da lui stesso fornita, gli causò la perdita dell’occhio sinistro; circolò a lungo la voce che quella menomazione fosse stata volontariamente inferta all’artista da un sicario assoldato per punirlo e farlo desistere dalla relazione intrecciata con Kim Novak, sebbene non siano emerse prove in proposito, e lo stesso Davis non si sia mai discostato dalla versione dell’incidente.

Appare tuttavia plausibile che un uomo della mafia fosse stato reclutato dal potentissimo produttore cinematografico della Columbia, che aveva sotto contratto la Novak, Harry Cohn, di cui erano note le simpatie per Benito Mussolini e le frequentazioni con il gangster di Cosa Nostra Johnny Roselli. Sammy Davis subì pesanti minacce telefoniche e addirittura un rapimento; nonostante l’intensa passione che lo univa all’attrice, terrorizzato e impossibilitato a difendersi dalle continue pressioni, si convinse a organizzare un matrimonio di copertura con la cantante afroamericana Loray White, che acconsentì alla messinscena in cambio di denaro. L’unione ebbe breve durata, ma servì allo scopo di distogliere l’attenzione dall’artista.

Poco dopo, Sammy Davis Jr. conobbe l’attrice di origini svedesi May Britt: quando il loro amore divenne di dominio pubblico, per essere poi ufficializzato dalle nozze nel ’60, ricominciarono le pressioni e le minacce; per quanto i sodali del Rat Pack, Sinatra in testa, facessero muro per proteggerlo, Davis si ritrovò immerso in un clima d’odio e la moglie si vide rescindere il contratto, poiché i produttori ritennero che il matrimonio avrebbe influito sugli incassi futuri.

Davis fu contestato persino a Londra da gruppuscoli filonazisti, mentre in America dovette fronteggiare le polemiche degli stessi afroamericani, che lo accusavano di “tradire la propria razza” e “vergognarsi di essere nero”; ci furono allarmi bomba e picchetti dell’American Nazi Party in molti dei teatri in cui avrebbe dovuto esibirsi, e ricevette così tante minacce di morte da dover assumere guardie del corpo armate; egli stesso portava un’arma, nelle ormai rare occasioni in cui usciva in pubblico con la moglie.

Nonostante tutto, Sammy Davis Jr. non venne meno alle proprie convinzioni e continuò a lavorare in favore del movimento per i diritti civili, arrivando a raccogliere circa 750.000 dollari dell’epoca (oltre 5 milioni attuali) per organizzazioni quali la National Association for the Advancement of Colored People o la Martin Luther King Jr.’s Southern Christian Leadership Conference.

Fece anche campagna elettorale in favore di John F. Kennedy nel ’60, esibendosi in venti città, perlopiù con i Rat Pack. Ma alla Convenzione Nazionale Democratica in Mississippi fu fischiato mentre cantava l’inno nazionale, e, quando Kennedy vinse le elezioni, i Grandi Elettori degli Stati del Sud minacciarono di disertare il gala inaugurale se tra gli ospiti ci fosse stato anche Davis; il neo eletto presidente, che aveva vinto con una maggioranza risicata e non voleva inimicarsi i rappresentanti del Sud, fece una goffa retromarcia ritirando l’invito e lasciando l’artista ferito e imbarazzato. Due anni dopo, in occasione di un ricevimento alla Casa Bianca per i leader della comunità afroamericana, la coppia Davis-Britt fu fatta allontanare dal palco per le fotografie ufficiali dell’evento, su richiesta dello stesso presidente Kennedy.

La carriera artistica di Sammy Davis Jr. comunque non ne risentì troppo: poté esibirsi per la sovrana britannica, ottenne uno show televisivo e nel 1972 il singolo “The Candy Man” rimase per tre settimane al primo posto della Billboard Hot 100; dopo tre figli, di cui due adottati, il matrimonio con May finì nel 1968, e nel ’70 Davis si risposò con l’attrice Altovise Davis, alla quale rimase legato fino alla morte, avvenuta nel 1990 per un cancro alla gola. Per tutta la vita continuò a lottare per abbattere le discriminazioni, marciando accanto a Martin Luther King Jr. nel 1965, chiedendo uguali diritti per tutti e superando in prima persona molti dei limiti imposti alle persone di colore, nello show business e nel comune sentire.

 

Silvia Boverini

Fonti: https://it.wikipedia.org; P. Stigliano, “Sammy Davis Jr e May Britt, due amanti fuorilegge: il primo matrimonio interrazziale”, www.urbanpost.it; B. Pagan, “Sammy Davis Jr.: Paramount produrrà il film sulla sua vita”, www.movieplayer.it; “Yes, He Did: May Britt & Sammy Davis, Jr.’s Courageous Marriage”, www.withgoodreasonradio.org; J. Lanzendorfer, “Hollywood loved Sammy Davis Jr. until he dated a white movie star”, www.smithsonianmag.com

12 novembre 1969: il giornalista freelance Seymour Hersh scopre l’eccidio di My Lai

Lungo la costa centrale del Vietnam del Sud, 840 chilometri a nord di Saigon, nei pressi di un villaggio ripartito in quattro frazioni, in mezzo alla vegetazione e al silenzio si possono leggere i nomi di centinaia di persone, incisi su tavolette di legno appese agli alberi: ci sono donne, bambini, interi nuclei familiari, un ultranovantenne, un bebé di due mesi. Sono le vittime del massacro compiuto da militari statunitensi, comunemente noto come l’eccidio di My Lai, dal nome di una delle frazioni del villaggio di Son My.

Il 12 novembre 1969 il giornalista indipendente americano Seymour Hersh scoprì la vicenda, avvenuta circa un anno e mezzo prima e fino a quel momento tenuta nascosta dall’esercito, sebbene fosse già in corso un’inchiesta interna in proposito. Nell’autunno del 1969, l’editorialista politico della testata The Village Voice fu informato da una sua fonte che un soldato statunitense stava per affrontare la corte marziale per aver condotto un massacro di civili vietnamiti, e che l’esercito non voleva rendere pubblico il fatto. La notizia fu passata a Hersh, che dovette fare due dozzine di telefonate prima di ottenere un vago resoconto dell’accaduto e il nome del militare sotto accusa, il tenente William Calley; riuscì a intervistare prima l’avvocato difensore e in seguito lo stesso Calley, e, nel giro di venti giorni da quella prima segnalazione, aveva pronto il primo articolo.

Dopo essere stata rifiutata da molti giornali, l’indagine venne infine pubblicata da Associated Press: Hersh riferì i fatti, mettendo in dubbio il numero reale dei morti, e svelò l’accusa mossa dal tribunale militare nei confronti del tenente Calley, ossia che avesse ucciso centonove civili.

 

A testimoniare l’eccidio comparvero anche le foto scattate da Ronald Haeberle, un fotografo militare che alle 7.30 della mattina del 16 marzo 1968 era atterrato in elicottero, insieme a un centinaio di commilitoni dell’11ª Brigata (ribattezzata in seguito “Brigata Macellai”) della Compagnia Charlie, nei pressi di My Lai; in seguito al clamore suscitato dall’articolo di Hersh il quotidiano di Cleveland The Plain Dealer decise di pubblicare le foto, che sconvolsero i lettori. A quel punto, la storia venne ripresa dalle testate più importanti, Time, Life, Newsweek. Hersh sviluppò l’inchiesta in una serie di articoli, che nel 1970 gli valsero il Pulitzer Prize for International Reporting.

Il 1968 era stato l’anno in cui il presidente Lyndon Johnson aveva inviato nuove truppe sul fronte bellico, mentre il Vietnam del Nord e i Viet Cong avevano lanciato la cosiddetta offensiva del Têt, attaccando contemporaneamente trenta obiettivi militari e occupando la maggior parte dei centri abitati e delle regioni più popolate del Vietnam del Sud, compresa la capitale Saigon. Nelle settimane successive la reazione statunitense fu molto dura e violenta e furono colpiti numerosi territori in cui si pensava si muovessero i guerriglieri. A My Lai il 16 marzo arrivò la Compagnia C, primo battaglione, 20º fanteria dell’11ª brigata della 23ª Divisione di Fanteria dell’U.S. Army, guidata dal tenente William Calley.

Quando i soldati statunitensi fecero il loro ingresso nel villaggio, di buon mattino, non trovarono alcun Viet Cong ad attenderli. Era giorno di mercato, c’erano donne che preparavano il riso per la colazione, c’erano vecchi e bambini. Gli abitanti furono raggruppati mentre i soldati ispezionarono le loro capanne. Nonostante avessero trovato solo poche armi, nonostante non fosse stato sparato un solo colpo e non fosse presente nessun uomo in età militare, i soldati diedero il via alla strage. Alcuni furono trinciati dalle baionette, altri ammassati nei fossati e fatti saltare in aria con le granate. Donne e bambini inginocchiati a pregare attorno a un tempio furono ammazzati con un colpo di fucile alla testa. Le donne tentavano di coprire con il corpo i propri figli: le une e gli altri vennero sterminati, così come i piccoli che tentavano di fuggire. Le capanne furono date alle fiamme e, quando gli abitanti ne uscirono per non rimanere bruciati vivi, finirono falcidiati dalle raffiche di mitra. Donne e bambine vennero stuprate e mutilate, ad alcuni fu strappato lo scalpo, ad altri la lingua. Il villaggio fu raso al suolo. Neanche il bestiame scampò al massacro.

L’entità della carneficina avrebbe potuto essere ancor maggiore se non fosse giunto un elicottero americano in ricognizione. “Ovunque guardassimo, vedevamo dei cadaveri”, avrebbe riferito in seguito il pilota, “si trattava di neonati, di bambini di due, tre, quattro, cinque anni, di donne, di uomini molto anziani”. L’equipaggio decise di atterrare e frapporsi tra i vietnamiti superstiti e i soldati, intimando a questi di porre fine alle atrocità, sotto la minaccia di aprire il fuoco contro di loro, poi si procedette all’evacuazione dei superstiti. Per quell’azione, trent’anni dopo, al pilota Hugh Thompson, all’artigliere Lawrence Colburn e al capo dell’equipaggio Glenn Andreotta fu conferita l’onorificenza più alta dell’esercito statunitense per atti d’eroismo che non coinvolgano il nemico, la Soldier’s Medal. L’elicottero si lasciò alle spalle 347 cadaveri, secondo alcune fonti, 504 secondo quelle più accreditate.

Per un anno, di My Lai non si seppe nulla. L’esercito svolse le sue indagini, dapprima condotte dal colonnello Henderson, comandante della 11ª Brigata, poi, in seguito alla lettera del soldato Tom Glen, presente ai fatti, che denunciava il comportamento delle truppe statunitensi, dal maggiore Colin Powell, che nel suo rapporto concluse:

A diretta refutazione di quanto ritratto, c’è il fatto che le relazioni tra soldati americani e popolazione vietnamita sono eccellenti.

Le due commissioni d’inchiesta costituite dall’esercito portarono a giudizio 14 militari, tra cui il capitano Ernest Medina e il tenente Calley: tutti assolti tranne quest’ultimo, condannato nel 1971 al carcere a vita per omicidio premeditato di 22 civili e per aver impartito l’ordine di sparare. Calley si difese sostenendo di aver semplicemente eseguito gli ordini del suo superiore, il capitano Medina, che, da parte sua, negò tutte le accuse e fu rilasciato. In seguito, tuttavia, avrebbe sostenuto che erano state fornite alcune informazioni, rivelatesi poi inesatte, secondo cui i civili non si sarebbero trovati in quel momento nel villaggio. Più tardi, un tenente dell’esercito sudvietnamita avrebbe riferito ai suoi superiori che il massacro fu una vendetta per uno scontro a fuoco con truppe Viet Cong che si erano mischiate ai civili.

Sotto la pressione dell’opinione pubblica che, in gran parte, lo considerava nient’altro che un capro espiatorio, Calley ricevette un atto di indulgenza da parte dell’allora presidente Nixon e fu trasferito agli arresti domiciliari; scontò questa pena per poco più di tre anni, prima di essere rimesso in libertà vigilata nel 1974.

Sulla base del rapporto Peers, l’inchiesta sulle cause del massacro, il Dipartimento della Difesa americano adottò la direttiva che richiede che truppe e ufficiali arruolati ricevano una precisa formazione sulle leggi della guerra. In guerra, infatti, i civili non possono essere presi deliberatamente di mira, a meno che non partecipino direttamente alle ostilità. Tale principio semplice affonda le sue radici in un’idea altrettanto semplice e cioè che, contrariamente a quanto si è ritenuto per molto tempo, in guerra non proprio tutto è concesso. Ciò significa che il conflitto non fa di qualsiasi condotta una condotta lecita: se proprio guerra deve essere, che almeno ci siano delle regole (c.d. jus in bello). La condizione dei civili nei conflitti armati è tutelata da un apposito trattato internazionale giuridicamente vincolante per le parti contraenti: la Quarta Convenzione di Ginevra (1949).

Ricordando il 50° anniversario della strage, il Washington Post scrisse:

Il massacro di My Lai è stato l’episodio più vergognoso della storia militare degli Stati Uniti ma non una devianza nella guerra americana in Vietnam; gli archivi militari di tre decenni documentano almeno 300 casi che possono essere definiti crimini di guerra […] La guerra aveva regole ufficiali e non ufficiali. Quella ufficiale indicava l’evacuazione dei civili nelle zone a rischio, quelle ufficiose chiedevano di ‘sparare su qualsiasi cosa si muova’.

Nel corso del processo per l’eccidio di My Lai, qualcuno affermò che “non puoi permetterti di tirare a indovinare se un civile sia o meno un Viet Cong. O ti sparano, o spari tu a loro”; a proposito di quelle uccisioni, i giudici militari parlarono di “omicidi”, il tenente Calley e gli altri coimputati di “obbedienza agli ordini”.

Silvia Boverini

 

Fonti: www.wikipedia.org; www.pulitzer.org;  R. Costanzo, “Quando gli americani uccidono i civili”, www.sicurezzainternazionale.luiss.it; “Il massacro di My Lai, cinquant’anni fa”, www.ilpost.it; “Vietnam, il Washington Post a 50 anni dal massacro di My Lai: ‘Vergogna Usa’”, www.dire.it; G. Costigliola, “Il massacro di My Lai: ieri come oggi l’orrore senza fine della guerra”, www.globalist.it

Quella notte di Taranto, tra l’11 e il 12 novembre, che fu di lezione perfino per i giapponesi

Nella notte tra l’11 e il 12 novembre del 1940, durante la Seconda guerra mondiale, la flotta navale della Regia Marina italiana fu attaccata nel porto di Taranto dagli aerei inglesi della Royal Air Force (RAF), decollati da una portaerei. Restarono uccisi 58 marinai italiani, altri 581 vennero feriti. E sei navi da guerra furono danneggiate. Metà delle navi da guerra italiana erano state messa fuori combattimento. La missione della RAF era riuscita.

Le ragioni del bombardamento

Com’è noto, l’Italia, nel giugno di quell’anno era entrata in guerra al fianco della Germania di Hitler. Mussolini, rilevando con crescente ansia, invidia e timore i successi delle armate naziste che dilagavano in Europa, riuscendo a travolgere ogni ostacolo ad est come ad ovest, aveva rotto ogni indugio e aveva attaccato alle spalle la Francia, a sud, contando sulla sua debolezza, visto che era già abbattuta, pressoché moribonda, per la micidiale avanzata tedesca.

Le «reni della Grecia»

Nell’autunno, Mussolini, frustrato dagli insuccessi riportati dalle truppe italiane nello scontro con i francesi, aveva deciso di accaparrarsi quella parte di Balcani su cui da tempo aveva puntato lo sguardo. Era arrivata, per il duce, l’ora della Grecia.

La “campagna di Grecia” era, infatti, iniziata il 28 ottobre del 1940: le truppe dell’esercito italiano di Benito Mussolini, muovendo dalle basi albanesi, erano penetrate in territorio greco.

Temendo, allora, un intervento militare più corposo da parte dei britannici – che avevano cominciato a fornire aiuti alla Grecia già dai primi di novembre –, tutta la flotta italiana era stata concentrata a Taranto, proprio per contrastare tale manovra.

Gli inglesi non restarono a guardare

Gli inglesi, tuttavia, avevano già cinque anni prima concepito un ipotetico piano per contenere e far rientrare le sanguinarie velleità imperiali di Mussolini che lo avevano portato ad attaccare l’Impero Etiope, senza neanche emettere prima una dichiarazione di guerra. Ma nel 1935, per il governo britannico la guerra di sterminio scatenata dal duce contro l’Etiopia non era stata ritenuta un motivo sufficiente per opporsi militarmente all’Italia.

Cinque anni dopo, però, quando la guerra, tanto temuta e scongiurata, era ormai scoppiata e dilagata, il piano che la Royal Navy aveva studiato a suo tempo tornò d’attualità, nel momento in cui Mussolini decise di «spezzare le reni alla Grecia».

Si trattava di un piano per un attacco aereo notturno alla base navale di Taranto. Essendo trascorsi 5 anni dal momento in cui era stato concepito, alla marina britannica occorrevano informazioni e immagini aggiornate. Anzi, la Royal Navy aveva bisogno di essere aggiornata giornalmente sulla situazione del porto di Taranto. A tal fine, dal Regno Unito si trasferì a Malta una squadra di ricognitori. Inoltre, vennero inviate come rinforzo diverse navi da battaglia sia verso Malta sia verso il canale di Otranto, per intercettare le navi italiane che in quei giorni si facevano la tra Grecia e Albania.

Due attacchi, anzi tre

L’attacco fu deciso per il 21 ottobre, data che aveva un valore simbolico, trattandosi dell’anniversario della vittoria dell’ammiraglio Oratio Nelson a Trafalgar. Però, l’incendio sviluppatosi a bordo della portaerei inglese Illustrious, da cui dovevano decollare gli aerei destinati a compiere la missione, provocò un rinvio. La nuova data decisa era quella della tarda serata dell’11 novembre. L’attacco fu pianificato in due fasi.

Nella prima, 12 aerei dovevano colpire le navi più piccole ancorate nella zona del porto detta «mar Piccolo». Tale fase si sarebbe svolta alle ore 23, impiegando 20 minuti per giungere a termine.

La seconda vedeva entrare in azione 12 areo-siluranti, incaricati di colpire le navi principali nel cosiddetto «mar Grande». Questo secondo attacco iniziò alle 23,50 e durò un’ora circa.

Quella notte del 12 novembre, terminato l’attacco aereo a Taranto, le navi da guerra britanniche intercettarono un convoglio italiano diretto al porto albanese di Valona. Si trattava di quattro piroscafi scortati da una torpediniera e da un incrociatore. I piroscafi andarono a fondo, la torpediniera fu gravemente danneggiata, solo l’incrociatore riuscì a raggiungere il porto di Brindisi. I morti erano 36.

Le patetiche rassicurazioni della propaganda fascista

Sul Corriere della Sera, che dall’ormai lontano 1925 era stato trasformato in un quotidiano filogovernativo, cioè filofascista, venne scritto in prima pagina:

«Strage di apparecchi nemici durante un’incursione a Taranto».

La contraerea italiana, in realtà, era stata a dir poco inefficace. Ma, soprattutto, il punto non era quello. Il fatto, l’unico che contasse davvero, dal punto di vista italiano, era che metà delle navi da battaglia italiane erano state messe fuori combattimento: sei navi da guerra, infatti, erano state seriamente danneggiate: di queste, 3 erano corazzate, incluso il Cavour che non poté riprendere più servizio, 1 era un incrociatore e le altre 2 erano cacciatorpediniere.

L’uscita di Mussolini del 18 novembre fu un “capolavoro” di ambiguità e falsità:

«Effettivamente tre navi sono state colpite, ma nessuna di esse è stata affondata. È falso, dico falso, che due altre navi da guerra siano state affondate o colpite, o comunque anche leggermente danneggiate»

Le conseguenze furono chiare per tutti, anche per i giapponesi, ma non per Mussolini

L’incursione inglese, inoltre, palesò che gli aerosiluranti erano in grado di colpire le navi all’interno delle basi, senza che i bassi fondali costituissero un problema insormontabile. Inoltre, quell’attacco, lanciato dalla portaerei Illustrious, determinò una svolta decisiva nella conduzione della guerra sul mare. Dimostrava, infatti, che le portaerei avevano un ruolo fondamentale.

Non a caso, andò fino a Taranto l’addetto militare presso l’ambasciata giapponese a Roma, per poter raccogliere e trasmettere a Tokyo tutte le informazioni possibili sulle modalità e sull’efficacia del raid britannico. I diversi risvolti dell’attacco avvenuto nella notte tra l’11 e il 12 novembre a Taranto, infatti, furono tenuti in gran conto nella preparazione dell’attacco giapponese alla base statunitense nel Pacifico di Pearl Harbour, che sarebbe avvenuto poco più di un anno dopo, il 7 dicembre del 1941.

Il 12 novembre il ministro degli Esteri e genero di Mussolini, il conte Galeazzo Ciano, scrisse nel suo diario:

«Giornata nera. Gli inglesi hanno attaccato la flotta alla fonda, a Taranto, e hanno colato a picco la Cavour e gravemente danneggiato la Littorio e la Duilio. Per molti mesi saranno fuori combattimento. Credevo di trovare il Duce abbattuto. Invece ha incassato bene il colpo e quasi sembra, in questi primi momenti, non averne valutata tutta la gravità».

 Alberto Quattrocolo

Fonti

Enzo Biagi, La Seconda Guerra Mondiale (una storia di uomini) Fabbri, Milano 1980

Pierre Milza, Mussolini, Carocci Editori, Roma, 2000

Arrigo Petacco. Le battaglie navali del Mediterraneo nella seconda guerra mondiale, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1996.

www.wikipedia.org

Corso in Mediazione Familiare – 18° edizione

da ottobre 2018 a ottobre 2020

Cos’è che trasforma un mondo libero in una cupa prigione

10 novembre, ore 12,45 Port Horcourt: 9 appesi

Era un drammaturgo, uno scrittore e un poeta. Era e non è più. Infatti, nel 1995, all’età di 54 anni (era nato il 10 ottobre 1941), il 10 novembre alle 12,45 il boia, piuttosto inesperto, avendo fatto male il nodo scorsoio, impiccò per ben cinque volte l’intellettuale Ken Saro-Wiwa, prima che il suo collo si spezzasse, uccidendolo in pochi secondi. Durante i quattro precedenti tentativi di esecuzione, il poeta, mezzo soffocato, era rimasto vivo.

Con lui vennero impiccati altri 8. Non erano scrittori, drammaturghi e poeti come Ken Saro-Wiwa, ma come lui vennero giustiziati quel 10 novembre di 24 anni fa, in una caserma di Port Harcourt, città della Nigeria meridionale.

La condanna da parte del tribunale militare si basò sulla testimonianza di alcune persone (che successivamente ritrattarono, ammettendo di essere state costrette a dichiarare il falso), secondo le quali Ken Saro-Wiwa aveva ordinato l’uccisione di quattro persone, durante degli scontri avvenuti nell’ambito di un tentativo di assalto al palazzo in cui si svolgeva un vertice di capi di alcune comunità del Biafra.

Ammazzati perché mettevano «sotto processo la Shell»

Ken Saro-Wiwa aveva fondato il Movimento non violento per la sopravvivenza del popolo Ogoni, circa 500 mila persone che vivono nel Delta del Niger, in quella zona della Nigeria che costituisce uno stato interno ad essa e che si chiama Rivers.

Gli Ogoni si opponevano pacificamente alla devastazione dell’ambiente e, in particolare, a quella distruzione dell’ecosistema del Delta, che è provocata dalle perdite di petrolio dagli stabilimenti presenti nella regione: dal 1958 la Shell, infatti, estraeva petrolio nel territorio del delta del fiume Niger e gli Ogoni, oltre ad essere avvelenati dall’inquinamento provocati dagli impianti industriali, erano stati costretti con la violenza a sgomberare.

 

Un “tipico” esempio di sfruttamento, rapina e devastazione neocoloniale: la stretta connessione tra razzismo ambientale e genocidio

Questa emigrazione realizzata manu militari e la devastazione del territorio e dei suoi abitanti costituiscono un esempio da manuale del neo-colonialismo: danno, cioè, l’esatta evidenza di come esso nient’altro sia che rapina e omicidio su larga scala.

Il Delta del Niger, infatti, è ricchissimo, ma le sue risorse non finivano allora, come non finiscono ora, nelle tasche della sua popolazione, né portavano alcuna forma di progresso o beneficio per gli Ogoni e per gli altri nigeriani. Solo l’1% della popolazione nigeriana traeva (e trae) giovamento – anzi si arricchiva notevolmente – dall’estrazione del petrolio in quell’area. Si trattava (e si tratta) dei vertici dell’amministrazione civile e militare della Nigeria, governata allora dal generale e presidente Sani Abacha, uno dei più spietati, corrotti e avidi dittatori africani.

Il “reato” commesso da Ken Saro Wiwa era, quindi, quello di puntare i riflettori sulla corruzione letale dei governi nigeriani e sulla bieca “politica” della Shell che faceva nella sua terra ciò che mai e poi mai avrebbe osato e le sarebbe stato permesso di compiere in un paese occidentale.

Non a caso la sua era un’accusa esplicita di razzismo ambientale e di genocidio. E per avere reso i suoi concittadini ed il mondo intero consapevole di questa verità ha perso la vita. La Shell l’accusava di essere “troppo emotivo”.

Ken Saro-Wiwa non poteva accettare che una terra così ricca non desse di che vivere ai suoi abitanti, arricchendo, invece, soltanto i grandi azionisti delle società petrolifere straniere e i pochi governanti nigeriani implicati negli affari delle compagnie petrolifera, grazie ad un capillare sistema di corruzione.

Così, Saro-Wiwa scrisse drammi, romanzi, poesie e anche fiction televisive, riscuotendo un apprezzabile successo. Ma non era sufficiente. Il furto e l’avvelenamento proseguivano indisturbati, così come le violenze dirette e indirette sul popolo.

Signor Presidente – scrisse –, tutti noi siamo di fronte alla Storia. Io sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosa povertà del mio popolo che vive su una terra molto generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra; provo fretta di ottenere che il mio popolo riconquisti il suo diritto alla vita e a una vita decente. Così ho dedicato tutte le mie risorse materiali ed intellettuali a una causa nella quale credo totalmente, sulla quale non posso essere zittito. Non ho dubbi sul fatto che, alla fine, la mia causa vincerà e non importa quanti processi, quante tribolazioni io e coloro che credono con me in questa causa potremo incontrare nel corso del nostro cammino. Né la prigione né la morte potranno impedire la nostra vittoria finale. Non siamo sotto processo solo io e i miei compagni. Qui è sotto processo la Shell. Ma questa compagnia non è oggi sul banco degli imputati. Verrà però certamente quel giorno e le lezioni che emergono da questo processo potranno essere usate come prove contro di essa, perché io vi dico senza alcun dubbio che la guerra che la compagnia ha scatenato contro l’ecosistema della regione del delta sarà prima o poi giudicata e che i crimini di questa guerra saranno debitamente puniti. Così come saranno puniti i crimini compiuti dalla compagnia nella guerra diretta contro il popolo Ogoni.

La grande manifestazione: 300 mila in piazza

Il 4 gennaio del 1993, dopo essere stato rilasciato dalla prigione, dove era stato rinchiuso senza aver subito un processo, Saro-Wiwa, con il suo movimento non violento riuscì a portare in piazza oltre 300 mila persone. Protestavano contro le devastazioni ambientali e la cacciata di migliaia di contadini e pescatori dalle zone da parte della anglo-olandese Shell.

Arrestato ancora, l‘ultima volta nel maggio del ‘94,  venne accusato di aver incitato all’omicidio di alcuni presunti oppositori del Movimento. Come abbiamo visto, venne impiccato con altri 8 attivisti prima che scadessero i termini per la presentazione di ricorsi alla condanna.

Nel ‘96  un avvocato del Center for Constitutional Rights di New York fece causa alla Shell per dimostrarne il coinvolgimento nell’impiccagione di Saro-Wiwa. Nel maggio 2009 la Shell patteggiò accettando di pagare un risarcimento di 15 milioni e mezzo di dollari, dichiarando però il risarcimento non costituiva un’ammissione colpevolezza, ma un contributo al “processo di riconciliazione”[1][3]

Le ultime parole di Saro-Wiwa

Prima di morire Saro Wiwa affermò

«Io sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosa povertà del mio popolo che vive su una terra molto generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra».

Il corpo di Saro-Wiwa non fu restituito ai famigliari, ma venne sepolto in una fossa comune. Però, il funerale fu celebrato e nella bara vennero posti i suoi libri e la sua pipa.

L’opposizione alla distruzione del Delta del Niger non è finita con la morte di Ken Saro-Wiwa, ma la forma della lotta politica e non violenta ha assunto la fisionomia e il carattere di una guerriglia. Falde acquifere, corsi d’acqua, foreste, mangrovie e campi coltivati, indispensabili per il sostentamento degli abitanti, subiscono, infatti, un inquinamento costante. Aggravato dal gas flaring, un processo in cui il gas associato alla produzione di petrolio viene bruciato liberando ingenti quantità di anidride carbonica.

Il Delta del Niger oggi

Dal febbraio 2006 il Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger (Mend) ha attaccato gli oleodotti e le installazioni industriali delle JointVenture di cui fanno parte la Shell e l’Agip, realizzando il sequestro di tecnici lì impiegati, inclusi quelli stranieri.

Una sentenza della Corte di Giustizia della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) del dicembre 2012 ha stabilito che le compagnie e le Joint Venture petrolifere che operano in Nigeria (Nigerian National Petroleum Company, Shell Petroleum Development Company, ELF Petroleum Nigeria ltd, AGIP Nigeria PLC, Chevron Oil Nigeria PLC, Total Nigeria PLC and Exxon Mobil) sono responsabili, grazie all’appoggio e alla copertura del governo, di gravi e ripetuti abusi.

Sul Fatto Quotidiano Maria Rita D’Orsogna ha scritto:

La Shell aveva promesso come parte del suo “chiedere scusa” per la morte di Ken Saro Wiwa che la pratica del gas flaring in Nigeria sarebbe finita. E invece le fiamme sono ancora lì che ardono. Il rapporto Onu del 2011 sull’inquinamento di terra, aria, acqua nel Paese testimonia l’enormità dei danni petroliferi, oggi come allora. Ci vorranno trent’anni per ripulire il tutto se mai si inizierà. In alcuni casi i livelli di benzene, un cancerogeno, sono 900 volte superiori alla norma. Non ci sono registri tumore nel Paese. E la Nigeria è ancora povera. Ma qualcosa, ricorda il figlio, è cambiato. Vari tribunali di Londra e New York hanno riconosciuto che la Shell è stata colpevole di inquinamento e dovrà risarcire i residenti. E il solo fatto che l’Onu abbia presentato un rapporto dettagliato e preciso della condizione ambientale della Nigeria è una piccola vittoria. Nessuno potrà dire che non è vero. La Shell ha promesso che verserà un miliardo di dollari per iniziare. Se veramente lo farà non lo sappiamo, ma il mondo sa che è sua responsabilità farlo. La voce di Ken Saro Wiwa non è stata zittita e anzi il suo messaggio è più forte che mai, con una nuova generazione di attivisti che crescono. Soprattutto il mondo oggi sa della tragedia degli Ogoni e questo è grazie a Ken Saro Wiwa.

 

“La vera prigione”

Questo è il testo della sua poesia La vera prigione

«Non è il tetto che perde

Non sono nemmeno le zanzare che ronzano

Nella umida, misera cella.

Non è il rumore metallico della chiave

Mentre il secondino ti chiude dentro.

Non sono le meschine razioni

Insufficienti per uomo o bestia

Neanche il nulla del giorno

Che sprofonda nel vuoto della notte

Non è

Non è

Non è.

Sono le bugie che ti hanno martellato

Le orecchie per un’intera generazione

E’ il poliziotto che corre all’impazzata in un raptus omicida

Mentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari

In cambio di un misero pasto al giorno.

Il magistrato che scrive sul suo libro

La punizione, lei lo sa, è ingiusta

La decrepitezza morale

L’inettitudine mentale

Che concede alla dittatura una falsa legittimazione

La vigliaccheria travestita da obbedienza

In agguato nelle nostre anime denigrate

È la paura di calzoni inumiditi

Non osiamo eliminare la nostra urina

E’ questo

E’ questo

E’ questo

Amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero

In una cupa prigione».

 

Alberto Quattrocolo

 

Fonti:

www.corriere.it/esteri/09_giugno_09/risarcimento_shell_morte_nigeria_scrittore_9b0a16b6-54d1-11de-b645-00144f02aabc.shtml

www.girodivite.it

www.legambientepotenza.it

www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2017/11/10/news/nigeria_lo_scrittore_e_poeta_che_fini_impiccato_dopo_un_processo-farsa-180797861/

www.africa.blog.ilsole24ore.com/2009/06/nigeria-shell-paga-155-milioni-per-uccisione-di-ken-sarowiva.html

www.wikipedia.org

Corso in Mediazione Penale, lavorativa e sanitaria – 18° edizione

da ottobre 2018 a maggio 2020

Il 9 novembre 1989 il muro di Berlino non è più

Iniziato il 13 agosto 1961 (ne abbiamo parlato in questo post), divise la città, e la Germania, per ventotto anni. Il suo crollo non fu repentino, ma lento e inesorabile. Già nella prima metà dell’89, infatti, fu l’Ungheria per prima ad abbassare le barriere della Cortina di ferro: migliaia di Tedeschi passarono il confine, con l’obiettivo di approdare in breve tempo nel mondo occidentale.

Fu poi la volta delle ambasciate di Praga e Varsavia, inondate di persone che avevano intenzione di espatriare. Molte di queste furono accontentate e messe sui treni diretti ad ovest, senza fermate intermedie. I rimanenti iniziarono, nell’autunno del medesimo anno, a protestare sempre più animatamente: 300.000 a Lipsia e più di un milione a Berlino.

Finalmente, il nove novembre, giunse la lieta notizia: si poteva attraversare il muro, senza rischiare di venire fucilati nel tentativo. Iniziò così la fase culminante del crollo, scandita dalle picconate dei cittadini finalmente riuniti, e celebrata dalla riapertura della Porta di Brandeburgo, il 22 dicembre.

Alessio Gaggero

 

L’8 novembre la fiaccola passò a John Kennedy, «un idealista senza illusioni»

L’8 novembre del 1960, John Fitzgerald Kennedy, «un idealista senza illusioni», vinse le elezioni e divenne il 35° presidente degli Stati Uniti d’America.

Un’agiata giovinezza attraversata anche dal dolore e dall’angoscia

John Fitzgerald Kennedy (Brookline, Massachusetts, 29 maggio 1917), era il secondo dei nove figli di Joseph Patrick Kennedy e di Rose Fitzgerald, e anche se apparteneva all’élite e, come egli disse James Mc Gregor Burns, suo biografo nella campagna elettorale del 1960, gli anni della sua formazione furono quelli di chi ha il privilegio di condurre «una vita agiata, prospera, assistita da domestiche e bambinaie, con sempre più sorelle minori con cui giocare e da comandare», fu anche attraversato dal dolore e dalla conoscenza diretta dell’orrore[1].

Quando gli venne chiesto se qualcosa avesse mai turbato la sua infanzia, ricordò soltanto la competizione con su fratello Joseph. Joe era il primogenito ed egli sentiva che era migliore di lui in tutto. E, dato il tipo di educazione che il padre e la madre proponevano ai loro figli, l’essere bravi, determinati, combattenti e preferibilmente vincenti, per John Kennedy – ma tutti lo chiamavano Jack – faceva la differenza tra il sentirsi vivi e meritevoli d’amore e il non esserlo. E, come tutti i bambini, anche Jack aveva bisogno d’amore. Non poteva essere appagato, però, questo suo bisogno dalla madre, Rose, che scoraggiava ogni manifestazione emotiva o affettiva e ogni contatto personale. Una madre «terribilmente religiosa, un po’ distaccata», la definì lui da adulto,[2].

 

Una non comune capacità empatica

Occorre considerare, tuttavia, che Rose non era affatto una madre egoista o distratta, ma una donna che doveva provvedere a un numero considerevole di figli, una dei quali, la terzogenita, Rosemary, nata nel 1918, pativa le conseguenze di un deficit di ossigeno durante il parto [3]. A lei Rose riservò un attenzione e un affetto incondizionati e aiutò i fratellini ad essere sempre dolci e premurosi con lei[4]. Jack, quindi, sviluppò fin da bambino una non comune comprensione per la sofferenza umana. William Walton, un amico, disse che Jack aveva una «meravigliosa capacità di mettersi nei panni degli altri». Non si contano gli episodi in cui dette prova di questa disposizione empatica verso l’altro.

Da un’infermità all’altra

Per Jack, oltre alla scarsa vicinanza emotiva della madre e a questo rapporto competitivo con il fratello maggiore, verso il quale aveva un amore e un’ammirazione sconfinati, però, vi erano altre fonti di sofferenza. Dall’età di tre anni non aveva passato un anno senza avere qualche rilevante disturbo fisico.[5] A tredici anni, poi, iniziò a soffrire di una malattia mai diagnosticata che limitò moltissimo le sue attività. Quell’autunno perse due chili ed ebbe frequenti svenimenti. Negli anni seguenti le sue condizioni non migliorarono di molto[6]. Alla fine del 1940 iniziò ad accusare dolori fortissimi alla schiena e nel ’44, chiusa la parentesi militare, fu sottoposto ad un intervento chirurgico che evidenziò un deterioramento della colonna lombare.

In breve, John Kennedy ebbe per tutta la vita seri problemi di salute. Il morbo di Addison, gravi problemi alla schiena e alla prostata, la colite lo fecero sempre soffrire terribilmente[7]. Tutto ciò lo portò probabilmente a cercare di compensare l’angoscia per una morte costantemente avvertita come imminente con un’attività sessuale compulsiva, ma gli fece anche sviluppare ulteriormente quello stoicismo che nella sua famiglia era considerato un atteggiamento irrinunciabile.

L’interesse precoce di Jack Kennedy per la politica

Nel ’35 si iscrisse all’Università di Princeton, ma dovette lasciarla per avere contratto l’itterizia. L’autunno dopo passò ad Harvard. Nell’estate del ’37 il padre spedì Jack e il suo amico Lemoyne Billings a fare un lungo tour in Europa, dove poté, tra le altre cose, appagare la sua curiosità per le vicende della politica internazionale[8].

Nel dicembre del ’37 il presidente Roosevelt nominò Joseph P. Kennedy ambasciatore in gran Bretagna, la più prestigiosa carica diplomatica degli Stati Uniti[9]. Ciò offrì a suo figlio Jack l’eccezionale opportunità di trascorrere l’estate del ’38 lavorando presso l’ambasciata di Londra[10].

Egli tradusse le sue esperienze di viaggio, i suoi studi, accademici e non, in una tesi di laurea di 148 pagine intitolata Appeasement a Monaco, che poco dopo trasformò in un libro (Perché l’Inghilterra dormì), che ottenne non soltanto buone recensioni ma anche successo commerciale negli USA e in Gran Bretagna.

Abile e arruolato

Nell’autunno del 1940, il ventitreenne Jack ricevette la chiamata dall’esercito. I suoi problemi di salute gli avrebbero consentito una facile via d’uscita, ma egli voleva essere arruolato. Perciò, quando fu riformato sia dall’esercito che dalla marina, non si arrese e chiese al padre a raccomandarlo. Suo fratello Joe, infatti, era stato preso dalla marina nella primavera del ’41 ed egli non poteva essere da meno.

Venne arruolato nell’ottobre del ’41 e adibito ad un lavoro di scrivania dell’Office Naval Of Intelligence. Poi arrivò l’attacco giapponese su Pearl Harbour del 7 dicembre e gli Usa entrarono in guerra. Anche questa volta Jack non poteva tirarsi indietro. Fu spedito nel Pacifico, dove partecipò a diverse missioni, conseguendo il grado di sottotenente di vascello e il comando della motosilurante PT-109, con base nell’arcipelago delle isole Salomone. Nelle sue lettere dal fronte esprimeva ammirazione e stima per gli uomini a bordo dei PT, ma non credeva nell’eroismo e non sopportava la retorica. La notte del 2 agosto ‘43 un cacciatorpediniere giapponese speronò la sua motosilurante, uccidendo sul colpo quattro marinai. Jack, scampato all’effetto letale dell’urto, riuscì a provvedere sostanzialmente da solo al salvataggio del resto dell’equipaggio. Il coraggio e l’abnegazione dimostrati per salvare i suoi uomini gli vennero riconosciuti ufficialmente con la Navy and Marine Corps Medal [11]. Quando un giovane scettico, alla fine della guerra, gli chiese come avesse fatto a diventare un eroe: «È stato facile», rispose, «mi hanno affondato la nave».

La morte di Joe Jr. e gli ulteriori problemi di salute

Le enormi fatiche sopportate nel salvataggio del suo equipaggio per lo avevano terribilmente debilitato. Inoltre, contrasse la malaria: quando rientrò in patria, Jack, alto un metro e 83 cm, pesava solo 58 kg e soffriva dolori intollerabili alla schiena. Venne operato alla fine di giugno del ‘44, come si è già accennato.

Ad agosto l’areo su cui volava suo fratello Joe, era esploso in volo, nel corso di una missione volta a colpire le basi tedesche in Belgio da cui venivano lanciati i V-1 che terrorizzavano Londra. Per Jack fu un colpo tremendo. E subito dopo suo cognato, marito di suo sorella Kathleen, fu ucciso in Belgio da un cecchino tedesco.

Inoltre Jack continuò a stare male diverse volte, dovendo subire dei ricoveri d’urgenza (soffriva anche di duodenite diffusa e colite spastica), sicché, dopo ulteriori visite la commissione medica della marina, lo inserì nelle liste di congedo dal 1° marzo del ’45. Nel 1946 gli fu diagnosticata la malattia di Addison, potenzialmente letale.

I primi passi in politica, il matrimonio e la paternità

Nel 1946 il deputato James M. Curley lasciò il suo seggio, corrispondente a un distretto elettorale a grande maggioranza democratica, per diventare sindaco di Boston. John Kennedy, con l’appoggio morale e materiale del padre, decise che valeva la pena dedicarsi alla carriera che era stata prevista per il fratello: la politica. Corse, allora, per quel seggio e batté il rivale repubblicano con un ampio margine. Fu rieletto due volte. E nel ’52 si candidò per il Senato, vincendo il favorito, il candidato repubblicano Henry Cabot Lodge, Jr., anche se con un margine di soli 70.000 voti.

Anticomunista ma non troppo

Erano gli anni della Guerra Fredda. E in quegli anni anche John Kennedy non vide molti dei guasti morali, degli errori politici, delle assurde sofferenze e delle profonde ingiustizie derivanti dall’anticomunismo dell’epoca[12]. Non attaccava gli avversari politici, insinuando che fossero filocomunisti, come facevano molti altri politici del tempo (inclusi e per primi, i repubblicani sulla cresta dell’onda Joseph McCarthy e Richard M. Nixon), ma in contrasto con il suo compagno di partito e presidente degli Stati Uniti, Harry Truman, votò a favore della legge McCarran che prevedeva la schedatura dei comunisti e delle organizzazioni paracomuniste e l’internamento di costoro in caso di emergenza nazionale[13].

Dal 1951, però, il suo anticomunismo andò ridimensionandosi decisamente. Ad esempio, iniziò ad interpretare la lotta con l’Unione Sovietica su un registro diverso dalla mera sfida muscolare. Per contrastare i tentativi sovietici di assumere il controllo di quei paesi che tentavano di scrollarsi la dominazione coloniale o che vi erano appena riusciti (Marocco, Iran, India, Pakistan, Indocina, Malesia), occorreva sostenerli ed aiutarli a raggiungere una vera indipendenza [14].

Nel ’53 sposò Jacqueline Lee Bouvier. Da lei ebbe quattro figli. La prima, Arabella nacque morta nel ‘5. Poi vi furono Caroline nel ’57, John Fitzgerald Kennedy Jr. nel ’60 (morì nel 1999) e Patrick, morto nell’agosto del ’63, a soli due giorni dalla nascita per una malformazione polmonare.

La campagna per le presidenziali

Il 2 gennaio 1960, Jack annunciò la sua decisione di concorrere alle elezioni presidenziali. Nelle primarie del Partito Democratico dovette vedersela con il senatore Hubert Humphrey del Minnesota, il senatore Lyndon B. Johnson del Texas e a con Adlai Stevenson II, che era stato il candidato democratico nel 1952 e nel 1956, battuto entrambe le volte da Eisenhower[15].

Jack arrivò come favorito alla convention democratica e il 13 luglio Kennedy fu eletto candidato alla presidenza. Kennedy chiese a Lyndon Johnson di essere il suo candidato alla vicepresidenza e nel discorso di accettazione della candidatura enunciò la dottrina della “Nuova Frontiera“, che significava conquistare nuovi traguardi per la Democrazia Americana, battendo il problema della disoccupazione, migliorando il sistema educativo e quello sanitario, tutelando gli anziani e gli emarginati e, in politica estera, intervenendo economicamente in favore dei Paesi “sottosviluppati”.

Ora il suo avversario era il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti, Richard Nixon, vicepresidente degli Stati Uniti nell’uscente amministrazione di Eisenhower.

 

La tiepidezza dei liberal e dei progressisti per il candidato John Kennedy

Jack sapeva che le posizioni che aveva assunto nel passato non gli avevano procurato il sostegno convinto dell’ala sinistra del partito e dell’elettorato democratico. E a settembre decise di affrontare di petto tale questione. Seguendo i suggerimenti di Arthur Schlesinger Jr., redattore dei suoi discorsi elettorali sulla Nuova Frontiera, con un incisivo discorso davanti ai liberal, che cominciarono ad apprezzarlo maggiormente.

Il vantaggio di Nixon nei sondaggi e “l’handicap” del cattolicesimo e della giovane età

A metà settembre, però, i Kennedy era preoccupati per i sondaggi che davano Nixon e il suo candidato alla vicepresidenza Henry Cabot Lodge in vantaggio di 6 punti[16]. Ciò che preoccupava maggiormente John e Robert Kennedy (costui aveva accettato l’offerta del fratello di coordinare la campagna elettorale) erano le obiezioni secondo le quali il cattolicesimo e la giovane età rendevano Jack inidoneo alla Casa Bianca. Secondo alcune stime il cattolicesimo di Jack poteva costagli un milione e mezzo di voti.

Per neutralizzare tale fattore decisivo, Jack decise ancora una volta di affrontare direttamente il problema. Contro il parere del fratello, dell’intero staff della campagna e di Lyndon Johnson il 12 settembre incontrò un gruppo di pastori protestanti – tutti o quasi repubblicani -, all’incirca 300 persone, a Houston. L’incontro fu seguito da milioni di telespettatori in tutto il paese[17].

Il duello televisivo con Nixon

Jack, però doveva ancora convincere gli elettori che non era troppo giovane e inesperto. E per riuscirci gli occorreva un confronto diretto con Nixon[18]. Dick Nixon accettò la sfida.

La sera del 26 settembre negli studi della CBS di Chicago, i due candidati si confrontarono di fronte a 70 milioni di telespettatori americani (i due terzi della popolazione adulta). E Nixon ne uscì male. Kennedy indirizzò i suoi discorsi di apertura e di chiusura direttamente al popolo americano, Nixon, invece, impiegò sia l’introduzione che la dichiarazione conclusiva per evidenziare tutti i punti in cui era in contrasto con il candidato democratico. Così, Jack diede l’impressione di essere un leader deciso a gestire i più gravi problemi del paese, mentre il candidato repubblicano apparve come uno che cerca solo di prevalere sull’avversario. Henry Cabot Lodge sentenziò:

«Quel figlio di puttana ha appena perso le elezioni».

Il confronto sulla politica estera

Kennedy sapeva, però, di aver vinto solo un round. Inoltre, chi aveva seguito il dibattito alla radio, anziché alla televisione, giudicava vincente Nixon. Kennedy doveva, quindi, dimostrare agli elettori che era arrivato il momento di riportare un democratico alla Casa Bianca. Lo fece con le cifre sull’economia e sulla disoccupazione[19]. Poiché secondo la società di rilevazione Gallup per quasi tutti gli americani il problema più importante per l’America, però, era costituito dai rapporti con la Russia, Kennedy attaccò Eisenhower e il suo vicepresidente Nixon per avere lasciato che l’Unione Sovietica raggiungesse un armamento nucleare superiore a quello americano[20]. Nixon, allora, cercò di spaventare gli elettori in due direzioni opposte. Sostanzialmente fece intendere agli elettori che Kennedy avrebbe rischiato la guerra nucleare con una inutile corsa agli armamenti oppure che, con un atteggiamento tipico dei democratici e, segnatamente, dei liberal e progressisti, pacifisti ad oltranza, non avrebbe realizzato investimenti adeguati per la difesa del paese.

Se questa fu una mossa falsa di Nixon, altrettanto sbagliata e ancor più deplorevole fu quella di Kennedy su Cuba. Sottolineando che la rivoluzione castrista era avvenuta durante la presidenza Eisenhower – Nixon e lasciando intendere che auspicava un intervento unilaterale contro Cuba, suscitò l’indignazione dei liberal e rese possibile a Nixon rinfacciargli di aver sfidato irresponsabilmente anche Mosca.

La questione razziale

Uno dei temi più delicati della campagna elettorale era quello relativo ai diritti civili delle minoranze. In particolare, degli afroamericani. Jack era convinto del diritto morale dei neri di rivendicare leggi che stabilissero pari opportunità, ma temeva l’irritazione dell’elettorato democratico bianco del Sud degli Stati Uniti, ostinatamente e rabbiosamente contrario alla politica progressista del partito democratico sul tema dei diritti civili[21]. Era preso tra due fuochi e doveva scegliere tra due alternative. Scelse quella in cui credeva di più. Iniziò, quindi, a intervenire a numerose assemblee di afro-americani, deplorando le scelte di Eisenhower di aver eliminato il diritto dei neri di accedere all’edilizia popolare sovvenzionata dallo Stato e proponendo il suo programma per l’affermazione dei diritti civili. Nel corso della campagna, ascoltando le persone che incontrava, si era sinceramente convinto dell’irrinunciabilità della battaglia antirazzista e antidiscriminatoria.

Il sostegno a Martin Luther King

Decisivo nel procurargli l’appoggio degli afroamericani fu la posizione che assunse nei confronti di Martin Luther King. Costui, che era stato arrestato per avere tentato di violare la segregazione razziale in un ristorante di Atlanta, era stato, poi, condannato a 4 mesi di lavori forzati per aver violato i termini della libertà vigilata, commettendo un’infrazione stradale (che, in realtà, King non aveva commesso).

L’iniziativa dei fratelli Kennedy che portò alla scarcerazione del reverendo King, contrapposta alla totale inerzia di Nixon, procurò a Jack un importante vantaggio tra gli elettori afroamericani. Ad ottobre, la vittoria pareva sicura.

La delusione del voto popolare

Il sondaggio finale della Gallup, tre giorni prima del voto, dava Kennedy al 50,5% e Nixon al 49,5. Il candidato repubblicano era rimontato. E la notte dello spoglio John Kennedy ebbe la conferma che il suo ascendente sull’elettorato era stato solo marginale. Alle 3,30 del mattino, quando andò a dormire, i risultati davano i due candidati ancora pari.

Fu solo a mezzogiorno che si ebbe la certezza assoluta della vittoria. Kennedy ottenne 303 voti elettorali contro i soli 219 di Nixon, ma il voto popolare registrò una vittoria con un margine molto basso: rispetto a Dick Nixon, Jack aveva avuto appena 118.574 voti in più su 68.837.000 voti complessivi. Era andato a votare il 64,5% degli aventi diritto al voto  e Kennedy aveva conseguito la presidenza con soltanto il 49,72 % del voto popolare[22].

Nelle elezioni di 56 anni dopo, quelle dell’8 novembre 2016, il candidato repubblicano, Donald Trump, prevalse sulla candidata democratica Hillary Clinton, divenendo 45° presidente degli USA grazie al voto di 304 grandi elettori contro i 227 della Clinton, per la quale, però, votarono 2 milioni e 900 mila persone in più di quelle che votarono per Trump.

Le prime conseguenze di una vittoria risicata

Kennedy si rendeva conto che la sua risicata vittoria non lo legittimava ad intraprendere iniziative radicalmente nuove, inducendolo, invece, a porsi, entro certo limiti, in continuità con la presidenza Eisenhower. Quel margine così contenuto lo persuase che doveva dimostrarsi capace di dialogare con i repubblicani, per far comprendere al popolo americano che, come presidente, avrebbe sempre posto l’interesse nazionale al di sopra della politica di partito.

Decise, così, di incontrare Nixon. E questa decisione ebbe l’effetto sperato, visto che il New York Times apprezzò la decisione di Kennedy di avvicinarsi ai repubblicani, non escludendo il loro contributo costruttivo. In realtà, l’incontro con i due ex sfidanti, stando a Jack, non fi né interessante né divertente.

«È stato un bene per tutti che non ce l’abbia fatta», confidò al suo consigliere e amico Kenneth O’Donnell, durante il viaggio di ritorno.

Soprattutto, la sua decisione di aprire ai repubblicani e di porsi in continuità con la precedente amministrazione lo indussero, già due giorni dopo le elezioni, ad annunciare che avrebbe confermato Allen Dulles e J. Edgar Hoover, rispettivamente nei loro incarichi di direttore della CIA e della FBI.

È anche possibile che, rispetto a Hoover, la sua decisione fosse condizionata dal timore di rivelazioni sui suoi innumerevoli rapporti extra-coniugali. In seguito, Lyndon Johnson, affermò che era meglio tenere Hoover dentro la tenda a pisciare fuori, piuttosto che lasciarlo fuori a pisciare dentro.

 

Alberto Quattrocolo

Fonti

Robert Dallek, John Fitzgerald Kennedy, una vita incompiuta, Arnoldo Mondadori S.p.A., Milano, 2004

John k. Galbraith, Una vita nel nostro tempo, Mondadori, Milano, 1982

Rose Kennedy, Tempo di ricordare, Mondadori, Milano, 1974

www.cultura.biografieonline.it

www.wikipedia.org

 

[1] Joseph P. Kennedy e la moglie erano entrambi di origini irlandesi e facevano parte dell’élite irlandese di Boston. Rose, era figlia dell’ex sindaco di Boston (del Partito Democratico), John Francis Fitzgerald. Mentre il padre di Joseph, il nonno paterno del futuro presidente, era stato deputato, prima, e senatore democratico, poi, del Massachusetts. Joseph. P. Kennedy fondò, nel 1928, la casa cinematografica RKO Radio Pictures, con David Sarnoff, boss della RCA, Radio Corporation of America. E fu sostenitore di Franklin Delano Roosevelt durante la prima e la seconda campagna elettorale (1932 e 1936). Il presidente lo ricompensò per il suo appoggio nominandolo presidente della commissione Borsa e Finanze, deputata a riformare quelle regole di Wall Street che avevano consentito il “martedì nero”, vale a dire il crollo della Borsa del 1929.

[2] «Molto fredda, molto distante da tutto. Dubito che in vita sua abbia mai scompigliato affettuosamente i capelli del ragazzo. Per lei non esisteva il dovere di far capire a tuo figlio che gli sei vicina, che ci sei. Lei non c’era»: con queste parole la descrisse Charles Spalding un amico che frequentava la famiglia Kennedy

[3] A cinque anni non era in grado mangiare o vestirsi da sola, aveva limitate capacità verbali e fisiche. Come raccontò la madre in un’intervista, Rosemary era lenta nei movimenti, alcune azioni non era in grado di farle, la lettura e la scrittura risultavano molto difficili per lei: scriveva da destra verso sinistra. Rosemary Kennedy aveva solo 23 anni quando fu sottoposta a lobotomia che la ridusse quasi in uno stato vegetativo: incontinente, trascorreva ore a fissare le pareti, non pronunciava che parole senza senso, aveva perso l’uso di un braccio e camminava a fatica, tanto da essere confinata sulla sedia a rotelle. Morì ad ottantasei anni nel 2005.

[4] Rose considerava la disabilità di Rosemary come una sorta di dono del Cielo, un modo con il quale Dio ammoniva quella famiglia ricca e privilegiata affinché ricordasse che nella vita non si deve solo prendere ma anche dare

[5] Anzi, tre mesi prima di festeggiare il suo terzo compleanno contrasse una forma di scarlattina così virulenta da dover essere ricoverato per due mesi in ospedale e trascorrere altre due settimane in sanatorio. Poi arrivarono la varicella, varie infezioni ad un orecchio e altre infermità che lo costrinsero a passare moltissimo tempo a letto.

[6] A quattordici anni e mezzo, pesava poco più di 50 kg e a 16 anni era ancora fermo a 53, inoltre aveva dolori alle ginocchia, infezioni all’orecchio, dolori addominali, anomalie nelle urine, gonfiore delle ghiandole, problemi agli occhi. A seguito di un ricovero d’urgenza, a 17 anni, i medici gli comunicarono un’ipotesi diagnostica: una forma letale di leucemia. Jack scrisse al suo compagno di corso Lemoyne Nillings «mi danno già per morto». Alto e incredibilmente magro, veniva chiamato dai compagni Faccia di topo. Sei mesi dopo, ricoverato in un’altra clinica, fu ripetutamente sottoposto ad esami tanto dolorosi, quanto invasivi e imbarazzanti, da cui emerse che soffriva di colite spastica, inizialmente diagnosticata come ulcera peptica. Perdeva peso, tre chili e mezzo. Soffriva anche di problemi digestivi. Ma non si lamentava che con Lemoyne Billings, cui scriveva lettere ironiche, per celare il disagio e l’angoscia, confidandogli che non ne poteva più dei continui clisteri cui era sottoposto. L’anno seguente gli fu diagnosticata un’agranulocitosi, una diminuzione dei leucociti, probabilmente dovuta alla terapia farmacologia che seguiva, che lo rendeva più esposto alle infezioni. Nel ’36 fu nuovamente e lungamente ricoverato. E risultò che aveva i globuli bianchi molto al di sotto dei valori normali. Se il 1937 andò tutto sommato bene, salvo alcuni ricoveri, tra il ’38 e il ’40 continuò ad essere tormentato da problemi allo stomaco e al colon.

[7] Non poche conseguenze ebbero anche le terapie farmacologiche che doveva seguire, a partire dall’uso di steroidi, che già negli anni Quaranta si impiantava da solo nella gamba, incidendo la pelle con un coltellino, per combattere gli effetti debilitanti del morbo di Addison.

[8] Ma il suo approccio alla situazione europea non consisteva soltanto nel leggere libri, giornali e altre pubblicazioni locali. Faceva domande alla gente comune, ai contadini, ai camerieri, ecc., chiedendo loro cosa ne pensassero del regime hitleriano, delle mire della Germania, della linea Maginot, sulla politica del New Deal, su Mussolini.

[9] Roosevelt credeva che quell’irlandese-americano che si era fatto da sé non si sarebbe lasciato irretire dal governo conservatore inglese e dalla sua politica di appeasement (più che come pacificazione, il termine appeasement andrebbe inteso nel senso di compromesso al ribasso, di compromesso a tutti i costi) verso la Germania hitleriana. L’approvazione che Joe Kennedy diede all’accordo di Monaco tra Hitler, il primo ministro britannico Neville Chamberlain, il presidente francese Daladier e Benito Mussolini disconfermò le previsioni di Roosevelt sul suo nuovo ambasciatore a Londra. E, del resto, non molto popolari furono le parole di apprezzamento spese dall’ambasciatore sull’accordo raggiunto dalle 4 potenze europee ai danni della Cecoslovacchia. «Dovevate scegliere tra la guerra ed il disonore. Avete scelto il disonore e avrete la guerra», fu il commento di Winston Churhill, che, quasi da solo, cercava di mettere in guardia il mondo dalle mire ferocemente espansionistiche del totalitarismo nazista.

[10] In un successivo giro, nel ’39, visitò anche la Francia, la Germania, la Polonia, l’URSS, la Grecia, il Libano, la Bulgaria, la Turchia, la Siria e la Palestina. Il suo tour finì con l’invasione tedesca della Polonia e l’inizio del secondo conflitto mondiale

[11] Kennedy nuotò per tre miglia nell’oceano trascinando un compagno fino a Plum Pudding Island dove si rifugiò con gli altri naufraghi. La notte successiva da solo, incurante degli squali, nuotò per cinque chilometri, per raggiungere una posizione da dove poter avvistare eventuali navi statunitensi. Non avendone vista alcuna, decise che l’unica speranza di sopravvivere per tutti consisteva nel raggiungere l’isola di Olasana, dove si sapeva che vi era cocco in abbondanza. Infine, infine, riuscì a provvedere al salvataggio di tutto l’equipaggio. Infatti il mattino seguente la PT-157, come da accordi radiofonici, si presentò sul luogo dell’appuntamento concordato con Kennedy. Guidata da lui personalmente, la motosilurante raggiunse la scogliera e poi Olasana

[12] La paranoia anticomunista e l’isteria, politicamente conveniente, della “caccia alle streghe” non lo avevano contagiato come accadde a milioni di altri americani, né si poteva definirlo schierato con Joseph McCarthy – che conduceva, a capo della Commissione senatoriale di inchiesta sulle attività antiamericane, una spettacolare quanto vergognosa caccia al comunista all’interno del governo, delle forze armate, dell’industria dello spettacolo, ecc., definendo come sovversivi e filosivetici anche coloro che avevano solo una vaga sensibilità progressista  -, tuttavia riteneva che il rischio di una vittoria comunista richiedesse il sacrificio di alcune libertà, inclusa quella consistente in una limitazione per i cittadini del diritto di esprimere il dissenso.

[13] Nel 1954, quando il Senato era ancora indeciso se censurare McCarthy, Kennedy aveva preparato un discorso in cui diceva che avrebbe votato a favore della censura, ma non pronunciò, perché, il 2 dicembre 1954, quando il Senato decise per la censura, Kennedy era ricoverato in ospedale.

[14] In questo contesto si colloca il suo discorso pronunciato in Senato nel 1957, con il quale criticò l’appoggio che il governo USA (presieduto da Dwight Eisenhower) offriva al dominio coloniale francese in Algeria. Sulla base di questa sua linea di rinnovamento nei confronti dei cosiddetti “Paesi Nuovi”, venne eletto presidente della Sottocommissione per l’Africa dalla commissione estera del Senato.

[15] Stevenson, pur non correndo ufficialmente, era uno dei favoriti e raccoglieva la gran parte dei consensi liberal del partito.

[16] Le tattiche elettorali di Nixon e i suoi duri attacchi democratici degli anni ’50 ricordavano da vicino l’isteria anticomunista di McCarthy, eppure il candidato repubblicano era già in vantaggio, pur senza avere ancora sferrato alcuno dei suoi tipici colpi bassi.

[17] Così commentò l’incontro uno degli uomini del suo staff: «Mio Dio, guardatelo… e ascoltatelo! Se li sta mangiando in un boccone. Quel ragazzo sarà un grande presidente!»

[18] Eisenhower sconsigliò il suo vicepresidente dall’accettare la sfida di un dibattito televisivo con Kennedy. Non era mai stata fatta prima una cosa del genere. E, poi, sosteneva Eisenhower, da questo tipo di confronto Kennedy aveva tutto da vincere e Nixon tutto da perdere.

[19] Tra il 1953 (anno di inizio del primo mandato di Eisenhower alla Casa Bianca e il 1959) la crescita economica degli USA era stata in media del 2,4% annuo, mentre nei vent’anni precedenti di amministrazione democratica aveva avuto esiti ben diversi e dal 1939 al 1952 era stata quasi del 6%. Ciò spiegava Kennedy costituiva anche un problema nella lotta al comunismo, visto che l’Unione Sovietica, secondo le analisi della CIA cresceva sopra il 7%.

[20] In realtà, Eisenhower aveva informazioni che smentivano tale svantaggio, ma non era disposto a rivelare le sue fonti, mentre Jack aveva dei dati terrificanti.

[21] Egli sperava che la nomination vicepresidenziale di Lyndon Johnson rassicurasse i democratici meridionali, ma sapeva che ciò non era sufficiente.

[22] Tutti nel suo staff avevano previsto un margine di vantaggio tra il 53 e il 57%. Quel vantaggio di circa 120 mila voti appena fu uno shock. Probabilmente avevano sottovalutato la persistenza diffidenza dell’elettorato verso un candidato cattolico.

7 novembre 1944, battaglia di Piazza Lame a Bologna

Chi fosse giunto a Bologna, nell’autunno del 1944, avrebbe trovato la città con numerosi quartieri semidistrutti e in buona parte ancora ingombri dalle macerie, poiché i bombardamenti aerei anglosassoni si erano succeduti con ritmo e intensità sempre crescenti. La zona più colpita è quella di Porta Lame, dove non abita più alcun cittadino e quasi nessuno transita nei pressi degli imponenti ruderi di quello che era stato l’Ospedal Maggiore bombardato.

Fra le rovine dell’Ospedale si è insediato il Comando della 7ª Brigata Garibaldina (G.A.P.) e, fin da settembre, vi ha acquartierato circa 230 uomini, in previsione di una rapida avanzata alleata, con l’intento di occupare la città prima dell’arrivo degli eserciti angloamericani, impedendo le distruzioni nazi-fasciste dell’ultimo momento; altri 70 partigiani della stessa Brigata, tra cui cinque donne, occupano due edifici danneggiati poco distante, con un comando di base relativamente autonomo. All’interno delle basi la vita ha una disciplina rigidamente militare, con sentinelle, turni di guardia, sveglia, ritirata, rancio, in attesa delle direttive del CUMER (Commando Unico Militare Emilia Romagna); gli abitanti del quartiere contribuiscono agli approvvigionamenti e tutelano la segretezza del presidio. Gli occupanti sono armati di tutto punto: qualche tempo prima avevano assaltato un treno militare, procurandosi munizioni di ogni tipo, e nei sotterranei dell’Ospedale hanno nascosto anche alcuni mezzi di trasporto.

Secondo alcune ricostruzioni storiche, alla data del 7 novembre 1944 gli Alleati non avevano ancora anticipato il contenuto del proclama Alexander, mentre, secondo altre fonti, avevano già fatto sapere quanto avrebbero detto ufficialmente il 13 novembre con un annuncio radiofonico, cioè che l’avanzata alleata era in fase d’esaurimento e l’offensiva finale era rimandata alla primavera seguente.

Nelle basi bolognesi ai primi di novembre, quando si ha la sensazione precisa che il fronte incomincia a stagnare e che l’arrivo degli Alleati diventa di giorno in giorno meno probabile, la tensione degli uomini è grandissima; il crescente movimento delle Brigate Nere e dei tedeschi nella vicina zona di Porta Lame e le sparatorie che ogni tanto hanno luogo nei dintorni contribuiscono ad aumentare sempre più il nervosismo.

All’alba del 7 novembre, centinaia di militi fascisti delle Brigate Nere e soldati tedeschi della Feldgendarmerie iniziano un rastrellamento nell’area prospiciente Porta Lame; due soldati tedeschi, pare del tutto casualmente, entrano in uno degli stabili occupati dai partigiani e riescono a dare l’allarme prima di essere uccisi.

I nazifascisti accerchiano la zona e attaccano con armi leggere e pesanti, incontrando un inatteso fuoco di sbarramento, al quale rispondono con l’ausilio di cannoni e di un carro armato Tiger, richiamato dal vicino fronte; accanto a loro sono impiegati come incursori gli agenti del Reparto d’assalto della polizia (RAP). Si spara da tutti gli edifici compresi nell’area.

Nel tardo pomeriggio, i partigiani assediati, contando diverse perdite e minacciati dal crollo di una delle palazzine, riescono a superare l’accerchiamento, scappando attraverso il canale Navile con l’aiuto di fumogeni, e si allontanano verso altre basi del quartiere Bolognina, portando a spalla anche i feriti.

Alle 18,45 entrano in azione i combattenti in attesa tra le rovine dell’ospedale Maggiore, aprendo la seconda fase della battaglia. Renato Romagnoli “Italiano” descrive il clima d’attesa alla base dell’Ospedale Maggiore:

Tutti gli uomini erano in posizione di combattimento, ognuno nel posto previsto da presidiare […]. Man mano che passava il tempo, i  partigiani  si  innervosivano,  tutti  si  chiedevano  cosa  aspettasse  il  comando  a farci  sapere  le intenzioni,  a  darci  le  indicazioni  e  l’ordine  di  intervenire  a  fianco  dei  nostri  compagni accerchiati. Ma l’ordine tardava  e noi eravamo costretti a starcene immobili a guardare. […] Finalmente l’ordine arrivò: si attaccava alle sei e mezza del pomeriggio, al cadere delle prime ombre  della  sera.  Il  Comando  di  Brigata  con  l’appoggio  del  CUMER  aveva  nel  corso  della giornata elaborato un piano per dare battaglia.

I vari distaccamenti partigiani circondano le forze nemiche nei pressi del cassero di Porta Lame, infliggendo notevoli perdite; la battaglia infuria fino a notte inoltrata soprattutto attorno al piazzale di Porta Lame, dove i nazifascisti da assedianti si ritrovano assediati, e finiscono col ritirarsi.

Quella di porta Lame è ricordata come la più importante battaglia tra partigiani e nazifascisti all’interno di una città, in tutta la guerra: la più grande per la quantità di forze impegnate da fascisti e tedeschi, per la durata (tutta una giornata, dalle 6 alle 23), per le armi impiegate (come un cannone da 88 e una mitragliera pesante a due canne), per il volume di fuoco; è anche la prima occasione in cui alle donne viene riconosciuto lo stesso diritto di combattere degli uomini. Nel  resto della città, tuttavia, la gente comune non ha la percezione della gravità dello scontro: al di fuori del perimetro di accerchiamento la vita continua come gli altri giorni, rumori di spari e cannonate non costituivano una novità.

“Il Resto del Carlino”, all’epoca esplicitamente filofascista, dà notizia della battaglia in una mezza colonna in cronaca locale, definendo i partigiani come “fuorilegge”,  “senzapatria”  e  “criminali” e intitolando l’articolo “Ardimentosa e decisa azione contro bande di fuori-legge”; l’edizione straordinaria de “L’Unità”, invece, dedica l’intera (e unica) pagina all’avvenimento, sotto il titolo “A Bologna i patrioti sbaragliano centinaia di banditi delle SS tedesche e delle Brigate Nere. Molte decine di nemici morti ed altrettanti feriti sono rimasti sul terreno dell’aspra battaglia”.

Altrettanto contrastante, presso le diverse fonti, è la valutazione circa il numero delle forze in campo e dei caduti. I partigiani contano 12 morti e 15 feriti; sul fronte opposto, secondo il rapporto del questore Fabiani i fascisti avrebbero avuto 11 caduti e 2 i tedeschi, mentre, da un rapporto del commissariato di polizia della zona Galliera, risulta che i caduti fascisti sarebbero stati 18 e quelli tedeschi 15.

Tra i caduti partigiani, si ricorda il tenente Samuel Schneider, pilota sudafricano di origine ebraica, sepolto al cimitero di guerra alleato di Faenza: abbattuto in agosto con il suo aereo sopra le campagne a nord di Bologna, era stato tratto in salvo e nascosto da alcuni contadini della zona; messo in contatto con la Resistenza, di fronte all’alternativa tra essere riaccompagnato oltre le linee nemiche o restare a combattere in loco, l’aviatore aveva scelto di unirsi ai partigiani bolognesi, col nome di battaglia “Gianni”.

In seguito alla mancata insurrezione dell’autunno ‘44, si registrano diversi episodi di rappresaglia nei confronti dei partigiani: infiltrazioni di agenti di polizia, delazioni, la scoperta di altre basi che provocano numerose perdite tra i reparti della 7ª GAP. L’avanzata attraverso la pianura Padana subisce una battuta d’arresto, che durerà fino alla primavera del 1945, quando una nuova offensiva alleata sfonderà in maniera definitiva la linea Gotica, portando alla liberazione di tutto il Nord Italia.

Oggi, a ricordo di quell’evento, presso Porta Lame sono visibili due statue di giovani partigiani, forgiate – per ironica nemesi – con il bronzo fuso dalla statua equestre di Benito Mussolini che durante il fascismo dominava sullo stadio comunale. Oltre ad esse una lapide commemorativa ricorda i nomi dei caduti dello schieramento partigiano e il grido di battaglia partigiano “Garibaldi combatte!”.

Silvia Boverini

 

Fonti:
www.wikipedia.org;
www.storiaememoriadibologna.it;
www.resistenzamappe.it;
www.storiaxxisecolo.it;
“La vera storia di Schneider, aviatore eroe a Porta Lame”, www.corrieredibologna.corriere.it;
www.bibliotecasalaborsa.it;
www.badigit.comune.bologna.it

6/11/2017 don Guidotti colpevolizza una giovane violentata per essersela andata a cercare

Una vittima di stupro che trova il coraggio di denunciare ciò che ha subito si muove su un terreno minato, purtroppo. La probabilità che le vengano attribuite delle responsabilità è grande, come dimostra la vicenda di due anni fa, in cui una ragazza di 17 anni, violentata su un vagone di un treno, è stata oggetto di un post su Facebook di eccezionale aggressività. Don Guidotti, un sacerdote di Bologna, si è infatti scagliato contro la ragazza, a suo avviso ambasciatrice della cultura dello sballo, che, proprio per questo, non meritava alcuna pietà.

 

La questione è stata analizzata anche all’interno di un articolo di Politica e Conflitto, uno dei blog di Me.Dia.Re., cui rinviamo per una lettura più approfondita.

Ciò che sembra emergere, in aggiunta, consiste nella forte influenza che i social media hanno sui nostri pensieri e sui comportamenti che ne derivano. Poche ore dopo la pubblicazione, infatti, lo stesso parroco ha ufficializzato le proprie scuse. Nonostante, a suo dire, avesse “immaginato di fare il commento all’articolo avendo davanti questa ragazza”, rimane la sensazione che, se davvero l’avesse avuta davanti, al posto di schermo e tastiera, toni e contenuti sarebbero stati alquanto diversi. A volte, può essere utile spendere pochi secondi in più, prima di pubblicare.

Alessio Gaggero