Le prime leggi fascistissime

Le “leggi fascistissime” non arrivarono all’improvviso. Il governo Mussolini, già dal 5 novembre del 1925, aveva abilmente sfruttato il fallimentare attentato di Tito Zaniboni (verificatosi il giorno precedente) per sostituire, con norme ad hoc, il principio democratico con quello autoritario a tutti i livelli e per sferrare, con norme e interventi squadristi, violenti colpi ai partiti di opposizione all’antifascismo presente nella società civile.

Già il 6 novembre tutti i deputati che si erano ritirati sull’Aventino, a seguito del rapimento e dell’omicidio (10 giugno del ’24) del deputato socialista unitario Giacomo Matteotti ad opera degli sgherri di Mussolini, furono dichiarati decaduti dal loro mandato. Cessavano di essere parlamentari perché si sarebbero serviti dell’immunità parlamentare per condurre l’agitazione contro il governo e per avere violato lo «Statuto del Regno».

Tuttavia, restava ancora molto da fare per giungere all’instaurazione della dittatura. Un avanzamento decisivo verso questo traguardo fu costituito, appunto, dalle leggi fascistissime che furono approvate nel mese di novembre dell’anno seguente.

I precedenti

Come Mussolini disse a Yvon De Begnac, uno dei suoi biografi ufficiali, il disegno certamente era chiaro, occorreva, però, trovare i modi e i mezzi giuridicamente adeguati per portarlo a compimento. E in ciò fu fondamentale la collaborazione del ministro della Giustizia, l’ex nazionalista Alfredo Rocco.

«Come trasformarlo, quale lo voleva Rocco, quale lo volevo io, questo stato liberale il cui cadavere avevamo raccolto il 28 ottobre 1922, sul piacito della piazza del Quirinale; come trasformarlo, dunque, in stato fascista, in stato del fascismo? Come far superare allo stato italiano la qualifica di liberale che la precaria unità gli aveva inferto? Che cosa dovevamo intendere per stato sovrano “nostro” diverso dallo stato sovrano dei liberali, fatto di libertà che dividono, e non invece di ordine che rende tutti corresponsabili della pace all’interno di un Paese? (…). A tutte le domande Rocco dava risposte precise».

In realtà, oltre alle misure repressive (di cui abbiamo parlato qui), prese a ridosso del fallito attentato di Zaniboni, ve n’erano altre radicalmente liberticide adottate nel 1925.

I colpi alla libertà della vigilia di Natale e di fine anno

Con la legge sui pubblici funzionari del 24 dicembre del ’25 si previde la possibilità di revocare gli impiegati dello Stato le cui opinioni fossero contrarie al regime e alla politica generale del governo e, una settimana dopo, cioè il 31 dicembre, il governo Mussolini adottò nuove disposizioni sulla stampa: in esse, oltre ad essere definito lo status giuridico dei direttori dei giornali, si introdotta la responsabilità civile dei proprietari rispetto ai reati a mezzo stampa, veniva istituito l’Ordine dei giornalisti, al quale non potevano iscriversi le persone sospettate di dedicarsi a qualsiasi «pubblica attività in contraddizione con gli interessi della nazione». La formulazione era vaga e perentoria allo stesso tempo, consentendo, così, di impedire di scrivere sui giornali (chiunque vi scrivesse doveva essere iscritto all’Ordine) a chi avesse un pensiero difforme dai dettami del fascismo. Come la citata legge del 24 dicembre, anche questa spianava la strada alla delegittimazione e all’emarginazione di chiunque dissentisse dalle posizioni del governo. Per dire, tutte le associazioni di cittadini dovevano essere sottoposte al controllo della polizia, in base alla Legge n. 2029/25;

Le leggi che inventarono per Mussolini il ruolo di «Capo del governo e Duce del fascismo», ridussero drasticamente il potere legislativo del Parlamento per darlo al governo e colpirono gli esulti politici

La legge della vigilia di Natale (come si è detto nel già citato post del 5 novembre), inoltre, istituiva per Mussolini la funzione di «Capo del governo e Duce del fascismo», gli affidava la totalità del potere esecutivo, eliminava l’iniziativa parlamentare e lo rendeva responsabile solo davanti al Re e non più davanti alle camere legislative. Inoltre, in virtù di tale legge ciascun ministro o sottosegretario di Stato era responsabile davanti al Capo del governo e al Re, ma non al Parlamento. La successiva legge n. 100 del 31 gennaio del ’26 dava al governo il potere di fare le leggi senza riferirne al Parlamento, che si limitava, quindi, a registrarle.

Però, a Mussolini non bastava togliere spazi istituzionali all’opposizione politica, costringere i giornali, i giornalisti e gli impiegati pubblici a diventare filofascisti. Gli occorreva anche azzittire coloro che dall’estero cercavano di aprire gli occhi agli italiani su tutto ciò che stava capitando loro e su quel che un pezzo dopo l’altro stavano perdendo. Così, la legge del 31 gennaio contenne anche una serie di pene a carico dei fuoriusciti che continuavano la loro attività antifascista. Tra le altre sanzioni fu introdotta la decadenza dalla nazionalità italiana e il sequestro, oppure la confisca, di tutti i loro beni. Tra le prime vittime di questo ulteriore obbrobrio giuridico vi furono Gaetano Salvemini e il giornalista cattolico Giuseppe Donati.

Quella Pasqua del ’26 in cui venne eliminata l’elettività delle amministrazioni provinciali e comunali e furono introdotti i podestà

Altre novità arrivarono a ridosso della Pasqua del ’26. Infatti, con la legge n. 237 del 6 aprile furono estesi i poteri dei prefetti. Le provincie e i comuni furono privati del carattere elettivo. In particolare, le amministrazioni comunali vennero affidate ai podestà nominati dal governo. E la giunta comunale di Roma fu sostituita da un governatore, anch’esso nominato dal governo.

I tre falliti, ma utilissimi, attentati al duce del 1926

Le altre leggi repressive, progettate da tempo, però non furono varate all’inizio di quel 1926. Ancora all’inizio della primavera, il governo Mussolini riteneva che il popolo italiano non fosse ancora uniformemente pronto a quel che egli aveva in mente.

Decisivo per procedere ad una fascistizzazione dello stato senza rischiare di doversi scontrare con l’opposizione di chi ancora poteva validamente contrastare quel disegno – la corona, i vertici militari, gli ambienti conservatori, in primo luogo, e i senatori -, fu il terzo, dei tre tentativi di uccidere Mussolini verificatisi nel 1926.

 I primi due attentati

Il primo attentato avvenne il 7 aprile a piazza del Campidoglio. Violet Gibson un’irlandese di 62 anni sparò contro di lui, mancandolo. Disse che era stata istigata dal Signore a compiere quel gesto. Fu immediatamente rimpatriata in Gran Bretagna. Il secondo consistette nel lancio di un ordigno esplosivo, l’11 settembre, contro l’auto su cui viaggiava il duce, a Porta Pia. L’ordigno rimbalzò sul parabrezza ed esplose a qualche metro di distanza ferendo i passanti. Lo aveva lanciato Gino Lucetti, un giovane anarchico di Carrara, espatriato in Francia l’anno prima per sfuggire alla violenza dei fascisti. Fu immediatamente arrestato dalla polizia, il che gli risparmiò di essere linciato. Era sconosciuto ai servizi di Sicurezza e non venne trovato alcun complice, sicché Mussolini anche in tal caso non poté sfruttare quell’attentato come, invece, aveva fatto nel caso di quello di Zaniboni dell’anno prima.

L’attentato di Anteo Zamboni e il suo linciaggio

Il 31 ottobre a Bologna, durante la commemorazione della marcia su Roma, dalla folla ammassata lungo la via su cui viaggiava l’auto con a bordo Mussolini, Arpinati e Dino Grandi. Partì un colpo d’arma da fuoco, che sfiorò il petto del duce. Immediatamente un gruppo di fascisti saltò addosso ad un quindicenne e lo massacrò. Sul suo corpo vennero trovati segni di strangolamento, tredici pugnalate e l’impatto di una pallottola. Quindi, attorno a lui vi erano persone armate, che lo avevano tempestivamente fatto fuori, forse per impedirgli, una volta arrestato di rivelare qualcosa: i moventi o i mandanti del suo attentato? Si chiamava Anteo Zamboni.

Secondo il processo condotto dal Tribunale Speciale (introdotto dalle leggi fascistissime, che vedremo più avanti), Anteo, come il padre, il fratello e una zia, apparteneva ad una famiglia di «sovversivi immorali». Nel ’28 il padre e la zia furono condannati come complici a trent’anni di reclusione, il fratello, Mammolo, fu inviato al confino, poi andò esule in Svizzera e nel ’40 fu riammesso dei ranghi del Partito fascista [1].

19 e 20 novembre 1926: la Camera e il Senato approvarono le prime leggi fascistissime

L’attentato di Bologna fu subito presentato come un complotto ordito dagli antifascisti, costituendo così il pretesto di cui Mussolini aveva bisogno per sviluppare l’apparato repressivo progettato. Ancor prima di imboccare la via legislativa, però, il governo ordinò ai prefetti di sopprimere gli ultimi organi di stampa dell’opposizione e Mussolini lasciò che i fascisti devastassero i loro locali.

Il 15 novembre del ’26, dunque, il consiglio dei Ministri approvò diversi provvedimenti repressive e la legge per «la difesa dello Stato». Questi testi, noti come leggi fascistissime, vennero approvati dalla Camera il 19 e dal Senato il 20 novembre.

La pena di morte per i “traditori” e il carcere per chi ricostituiva o aderiva alle organizzazioni disciolte

Esse prevedevano la pena di morte per chiunque avesse commesso un atto diretto contro la vita, l’integrità fisica o la libertà personale del re, della regina, del principe erede o del capo del governo, nonché per chi avesse rivelato segreti militari, avesse attentato all’indipendenza della patria, avesse promosso l’insurrezione contro i poteri dello Stato o istigato la guerra civile. Inoltre, infliggevano lunghe pene detentive a chi ricostituiva le organizzazioni disciolte o si affiliava ad esse.

Scioglimento di tutti i partiti e delle organizzazioni antifascisti, soppressione dei giornali antifascisti

Ma quali erano le organizzazioni disciolte? Lo spiegavano le norme. Il Regio Decreto n. 1848 del 6 novembre 1926 , infatti, stabiliva, anche e ancor prima, lo scioglimento di tutti i partiti – così, rendendo legale soltanto quello fascista – e di tutte le organizzazioni suscettibili di agire contro il regime la revoca dei gestori di tutti i giornali antifascisti e la soppressione di tali giornali.  Altre norme annullavano tutti i passaporti e infliggevano gravi sanzioni agli emigrati clandestini.

Il confino di polizia

Infine, veniva istituito il confino di polizia (Regio Decreto n. 1848/26 Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza) per coloro che avessero «commesso o manifestato il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire violentemente gli ordinamenti sociali, economici o nazionali».

L’OVRA, il Tribunale Speciale e la retroattività delle norme penali per la difesa dello Stato

Affinché le leggi fascistissime potessero essere applicate occorrevano le adeguate strutture. Così vennero fondati, in quel 1926, due organi deputati ad applicare quella legislazione dittatoriale: l’OVRA (il significato della sigla non è mai stato del tutto chiaro, né era spiegato dalla norma che la introduceva, il Regio Decreto n. 1904: poteva stare per Organizzazione di Vigilanza e Repressione dell’Antifascismo oppure per Opera Volontaria di Repressione Antifascista) era una polizia politica, segreta, alle dirette dipendenze del regime, e, ad appena due settimane di distanza dall’approvazione delle leggi liberticide, arrestò un gran numero di persone, soprattutto, tra i membri della cosiddetta «centrale comunista», molti dei quali furono deportati nei “bagni di fuoco” delle isole o in piccoli centro del Meridione o del Settentrione (Pantelleria, Ustica, Ventotene, Tremiti, Roccanova, Eboli, Savelli, Aprica); il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato (istituito con la Legge n. 2008/26) era competente per i delitti previsti dalle sopracitate norme approvate dal Consiglio dei Ministri il 5 novembre, seguiva una procedura rapida, severissima, da stato di guerra, pronunciava sentenze inappellabili e non era vincolato dal principio di irretroattività, tanto che giudicò e condannò delle persone che avevano realizzato dei comportamenti prima dell’entrata in vigore delle leggi, elaborate dal ministro Rocco, che le vietava e puniva.

La retroattività della legge penale anche allora era sinonimo di inciviltà, di barbarie, di arbitrio e dispotismo, ma non vi fu una grande levata di scudi, nemmeno da parte di coloro che avrebbero potuto opporvisi senza correre il rischio della repressione fascista, ad esempio e in primo luogo Vittorio Emanuele III. Il Tribunale Speciale, per giunta, non ero composto da membri togati ma da cinque consoli della milizia fascista e presieduto da un generale.

In conclusione, che l’attentato di Bologna abbia o meno svolto un ruolo paragonabile a quello che avrà l’incendio del Reichstag per il regime hitleriano, resta il fatto che le leggi fascistissime, approvate dal Senato 98 anni orsono, un mese dopo quel colpo di pistola che sfiorò Mussolini, furono una tappa fondamentale per instaurare la dittatura in Italia e “fecero scuola” per molti altri aspiranti dittatori in Europa e altrove.

Infatti, con le leggi fascistissime furono totalmente soppresse la libertà di stampa, la libertà della persona, del pensiero, dell’espressione e della parola. E, come abbiamo visto, il Partito Nazionale Fascista divenne l’unico partito ammesso, essendo stati sciolti tutti i partiti, le associazioni e le organizzazioni volte ad esplicare un’azione contraria al regime.

 

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

A. Dal Pont e S. Carolini (a cura di), Il regime fascista di fronte al dissenso politico e sociale, in L’Italia al confino 1926-1943 (pp. XXI-CI), Milano, La Pietra, 1983

R. De Felice, Mussolini il Rivoluzionario, Torino, Einaudi, 2005

R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Milano, Laterza, 2005.

P. Milza, Mussolini, Roma, Carocci, 2000

G. Pisanò, Storia del Fascismo, Milano, Pizeta, 1990

[1] Negli archivi della segreteria particolare di Benito Mussolini vi sono dei documenti che presentano Anteo e, la madre e la zia come persone con disturbi psichici, inoltre costoro e il padre sono descritti come ex anarchici, diventati fascisti, pur senza ripudiare le convinzioni precedenti. Inoltre, sono raccolte testimonianze secondo le quali poco prima che arrivasse l’auto su cui viaggiava il duce, vi sarebbe stata una distribuzione di pugnali ad alcuni giovani.

Girolimoni, una vittima della ragion di stato fascista

Gino Girolimoni, che morì il 19 novembre del 1961, fu una vittima della region di stato fascista. In particolare, diventò un capro espiatorio perfetto per accreditare l’infallibilità del regime fascista in quella primavera del 1927. C’era in giro un serial killer che rapiva, stuprava e ammazzava le bambine. Sette in tutto, le sue vittime E colpiva a Roma dal 1924. Il governo Mussolini, che procedeva spedito verso l’instaurazione della dittatura e doveva offrire un’immagine granitica di inesorabile efficienza poliziesca, rischiava di perdere una quota di credibilità se non trovava presto un colpevole.

Toccò a Gino Girolimoni (che era nato a Roma il 1º ottobre 1889), un fotografo e mediatore di cause per infortuni.

Il primo, il secondo e il terzo caso

Emma Giacomini, una bimba di quattro anni, fu la prima vittima. Era stata rapita, il 31 di marzo del 1924, mentre giocava in un giardino pubblico, non lontano dalla madre. Ad un tratto la donna si era accorta dell’assenza della figlia. La quale era stata ritrovata, a Monte Mario, quella sera. Nonostante la violenza patita era ancora viva. Dopo un paio d’ore, una donna aveva udito le grida di una bambina e, accorsa, aveva trovato la piccola parzialmente svestita, ferita e con un fazzoletto legato al collo. Intenta a soccorrere Emma, la donna aveva appena scorto un uomo, all’incirca 45enne, che si ricomponeva gli abiti e si dileguava.

Il fatto non suscitò particolare eco mediatico. Ma poi toccò ad Armanda Lonardi, di appena 2 anni, di essere aggredita da uno sconosciuto in via Paola, il 4 giugno 1924. L’uomo cercò di portare via la bimba, ma questa reagì urlando e scalciando, attirando l’attenzione dei passanti, sicché l’uomo la lasciò e fuggì. Quella sera, però, a Trastevere, sparì Bianca Carlieri, di 4 anni. Secondo delle lacunose e incerte testimonianze il rapitore poteva essere un uomo non propriamente giovane, piuttosto alto e ben vestito. La mattina del giorno successivo, dalle parti di San Paolo fuori le Mura, fu ritrovata Bianca. Era stata strozzata e violentata.

Si diffondono orrore, panico e angoscia

Quest’omicidio fu subito ricollegato alle violenze inflitte ad Emma Giacomini e Armanda Lonardi. Le forze dell’ordine, che fermarono diversi individui, nessuno dei quali pareva corrispondere al profilo del ricercato erano sotto pressione per lo sgomento e l’indignazione che si diffondevano in tutta Italia. Ai funerali di Bianca Carlieri avevano partecipato una folla considerevole e la stampa dava risalto alla vicenda con titoli ad effetto

Un’altra vittima

La settimana dopo, però, la stampa si concentrò su altro. Il 10 giugno venne rapito, da sicari del regime, l’onorevole Giacomo Matteotti, il deputato del Partito Socialista Unitario che il 30 maggio aveva denunciato in Parlamento il clima di violenza squadrista e la palese illegalità con cui il governo Mussolini aveva gestito la campagna per le elezioni svolte ad aprile di quel 1924. Il corpo di Matteotti venne poi ritrovato il 16 agosto e la stampa in tutto questo periodo si concentrò sul delitto ai danni del deputato socialista e sui risvolti politici che stava producendo.

Nell’autunno, mentre infuriava la reazione squadrista delle camicie nere contro i giornali non allineati al fascismo o avversi ad esso e contro gli esponenti e i partiti politici antifascisti, con il favore del governo e delle forze dell’ordine, avvenne un altro omicidio.

Il 25 novembre, ad essere rapita in Piazza San Pietro fu un’altra bambina di 4 anni, Rosina Pelli. Il cadavere venne ritrovato vicino ad una fornace, di nuovo a Monte Mario, il giorno dopo. Anche lei era stata violentata.

In base alle testimonianze raccolte, la polizia elaborò un identikit: un uomo anziano, magro, con piccoli baffi bianchi ed elegante. Le autorità offrirono una taglia di 10.000 lire per chi forniva aiuto nella cattura

Maggio 1925 – marzo 1927: Altri quattro nuovi delitti

Il 30 maggio 1925, Elisa Berni, di 6 anni, uscì di casa, in via Porta Castello, per andare a prendere l’acqua alla fontana in strada, e sparì. Anch’essa fu ritrovata strangolata e stuprata il giorno successivo

Tra i diversi sospettati vi fu il sagrestano di Borgo Pio. Costui, non sopportando di essere sospettato da tutti di essere un assassino di bambine, si impiccò. Il Ministero degli Interni offrì un premio di 50.000 lire a chi avesse dato elementi utili all’identificazione dell’assassino e promise una promozione immediata al poliziotto che lo avesse arrestato.

Ma il 26 agosto del 1925 il killer colpì una piccola di 1 anno e mezzo, Celeste Tagliaferri, riuscendo a prelevarla dalla sua abitazione di via dei Corridori. La piccolina fu ritrovata poche ore dopo, ancora in vita, sulla via Tuscolana, semisvestita, gravemente ferita al basso ventre. Morì poche ore dopo. Anche nel suo caso le era stato legato fazzoletto al collo.

Il 12 febbraio 1926 un uomo adescò Elvira Coletti, di 6 anni, vicino a casa sua, la portò sul lungo Tevere e la violentò. La bambina riuscì a scappare, ma le informazioni che diede agli investigatori non consentirono di delineare il volto del killer.

Il 12 marzo 1927 Armanda Leonardi, che tre anni prima circa era stata violentata ma non uccisa, fu rapita dalla sua abitazione. La madre, per quanto fosse accorsa, non riuscì a salvarla. Vide, però, il rapitore e lo descrisse come un uomo elegante, con un cappotto nero ed un ombrello. La bambina fu ritrovata il giorno successivo ai piedi dell’Aventino. Anch’essa era stata strangolata e violentata.

Giovanni Massacesi, il proprietario di una trattoria, dichiarò che nel suo locale era entrata una bambina somigliante ad Armanda (aveva visto la foto sui giornali) con un uomo che aveva una ferita sul collo. Venne tracciato un identikit più dettagliato.

Con quel ritratto pare che avesse numerosi tratti in comune Gino Girolimoni.

I timori e le pressioni di Mussolini

Nel frattempo, poiché i giornali, dando voce al panico e all’angoscia popolare, sollecitavano la cattura del mostro, Benito Mussolini, esasperato dall’impotenza degli inquirenti, aveva il timore che il regime potesse essere ritenuto fallibile in un settore particolarmente delicato, la tutela della sicurezza e dell’ordine. Mentre procedeva velocemente la fascistizzazione dello stato e la repressione degli antifascisti in tutti i settori della vita civile, il regime aveva bisogno di non perdere credibilità proprio in quel delicato ambito, laddove si giocava la sua immagine di forza rassicurante che tanto premeva alla propaganda.

Mussolini, così, convocò Arturo Bocchini, il capo della polizia, e gli disse che era giunto l’improcrastinabile momento di catturare l’assassino delle bambine.

La trasformazione mediatica di Girolimoni in un mostro

Gino Girolimoni, incarcerato in atteso di giudizio, venne a trovarsi, così, in un gioco immensamente più grande di lui. Il 9 maggio 1927 l’Agenzia Stefani scrisse che, grazie a «laboriose indagini», a suo carico erano state reperite «prove irrefutabili».

Girolimoni, che era uno scapolo, non ancora 40enne, il cui lavoro gli assicurava un certo benessere, era stato visto accarezzare e regalare delle caramelle ad una bambina di 12 anni e fu ritenuto corrispondere all’uomo che il 12 marzo 1927 accompagnò la piccola Armanda nella trattoria. Inoltre, un ex compagno di caserma, sostenne che il Girolimoni era stato visto da altri violentare una bambina a Casarsa delle Delizie.

Appena era stato arrestato, la polizia aveva diramato un comunicato ad hoc, per assicurare l’opinione pubblica che il mostro era stato catturato. Non poteva che essere lui il killer. Poiché possedeva 12 abiti, era un «trasformista» che usava quei vestiti per colpire e sfuggire alla polizia. La stampa lo definiva «l’immondo essere», mentre crescevano esasperazione e odio nei suoi confronti per il suo rifiuto di confessare. Detenuto in isolamento a Regina Coeli per quattro mesi, Girolimoni continuava a sostenere la propria innocenza. Ma la stampa non gli credeva. Anzi, agganciandosi a suggestioni lombrosiane su L’Impero veniva scritto che: «Ha due occhi stranissimi, dal taglio quasi mongoloico; lo sguardo è obliquo, falso, sfuggente»

Alcuni, pochi, inesorabilmente onesti

Durante la detenzione di Girolimoni, però, il commissario Giuseppe Dosi continuò ad insistere sull’estraneità ai delitti di Girolimoni e, infine, ottenne la riapertura del caso. Ma la sua onestà e la sua tenacia, che pure furono fondamentali per evitare la condanna di un innocente, non gli valsero alcun riconoscimento. Anzi, venne arrestato e internato per diciassette mesi in un manicomio criminale.

Girolimoni, che era assistito dall’avvocato Ottavio Libotte, fu prosciolto, infatti, dal giudice istruttore Rosario Marciano: anche il pubblico ministero Mariangeli ne aveva chiesto l’assoluzione per non aver commesso il fatto. Era l’8 marzo 1928 quando Girolimoni venne prosciolto da ogni accusa. Decisive, in tal senso, furono le discordanze nelle testimonianze fornite contro di lui prima e dopo l’arresto.

Venne fuori che la dodicenne a cui Girolimoni aveva dato le caramelle lavorava nella casa di una signora sposata che il mediatore corteggiava e di cui aveva preferito non parlare nel corso degli interrogatori per non metterla in imbarazzo. Inoltre anche quella dell’ex commilitone si rivelò essere una falsa testimonianza. Soprattutto, però, fu accertato che quando Armanda Leonardi era stata rapita ed uccisa, Gino Girolimoni si trovava fuori Roma.

Benché prosciolto, il suo volto restò imprigionato nell’immagine del mostro.

Anche se prosciolto e dichiarato innocente. La vita di Girolimoni fu devastata per sempre. Per tutti egli era ormai il mostro. Cambiò città e lavoro, ma il sospetto che, in realtà, proprio lui fosse il mostro, non essnedo mai stato individuato il vero stupratore e assassino delle bambine, lo perseguitò per tutta la vita.

Morì il 19 novembre del 1961. Esattamente 57 anni fa. Era poverissimo. Aveva cercato di sfangarla riparando biciclette o facendo il ciabattino a San Lorenzo e al Testaccio.

Al funerale presero parti pochissimi amici, fra i quali il commissario Dosi. Dosi era stato liberato nel 1940, ma solo dopo la caduta del fascismo era stato reintegrato nella polizia.

Il film di Damiano Damiani, con Nino Manfredi

Nel 1972 uscì nelle sale un film durissimo, interpretato magistralmente da Nino Manfredi, che interpretava la parte di Gino Girolimoni. Il titolo era Girolimoni, il mostro di Roma. Autore del soggetto e della sceneggiatura era lo stesso regista Damiano Damiani, con la collaborazione di Fulvio Gicca Palli, Enrico Ribulsi.

La pellicola, in effetti, volgeva più di uno sguardo al presente e, in particolare, alle vicissitudini di Valpreda. Ma gli impliciti riferimenti all’attualità nulla toglievano alla sua forza.

La ricostruzione dell’epoca era ineccepibile non solo e non tanto sul piano scenografico, ma soprattutto nella complessiva capacità di ricreare il clima del periodo e di rappresentare gli ambienti in cui la vicenda si sviluppò.

Il film, oltre ad avere molti meriti cinematografici, aveva anche quello umano e civile di restituire dignità e giustizia a quell’uomo cui il caso, il cinismo e la ragion di Stato avevano rovinato la vita.

Infatti, la notizia del proscioglimento di Girolimoni, per ragioni di opportunità politica, fu pubblicata con la massima discrezione, in poche righe nelle pagine interne. Né egli ebbe alcun indennizzo per l’ingiustizia patita.Coloro che videro il film, però, molto probabilmente smisero di considerare le parole pedofilo e Girolimoni come sinonimi.

 

Un contributo fondamentale a questo esito mesto, ma onestamente civile, lo diede il finale della pellicola. Un finale che non si dimentica e che va visto. Anche per rammentarci cosa succede alle persone quando vengono etichettate come dei mostri. In quelle sequenze Nino Manfredi, infatti, riesce a farci sentire quanto l’ingiustizia, la diffamazione, l’emarginazione e l’etichettamento possono penetrare nell’anima di un uomo.

Nel marzo 2009 la trasmissione televisiva Chi l’ha visto? ha dedicato a Girolimoni un servizio proposto in più di una puntata. Anche Carlo Emilio Gadda si riferì al caso Girolimoni, all’interno di una nota alla prima edizione del suo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana.

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

www.criminologiaediritto.myblog.it

www.iltempo.it

www.wikipedia.org

Sta diventando pericoloso essere poveri in questo Paese

Un film epocale, la cui battuta chiave «Sta diventando pericoloso essere poveri in questo Paese», venne presentato in anteprima, una sera di 39 anni fa, a New York, al Cinema One, ad una platea di 8.000 spettatori. Si trattava del capolavoro maledetto di Micheal Cimino, I cancelli del cielo (Heavens’Gate, 1980) [1].

 

Un film spettacolare, struggente e violento, sull’immigrazione

Prima d’essere presentato a quell’anteprima del 18 novembre del 1980, I cancelli del cielo era già considerato un film leggendario, per l’esplosione del suo budget (aumentato del 600%) dovuto alle costosissime ambizioni del regista, ma anche per i suoi contenuti e la sua forma. Un western colossale, però anomalo, in quanto privo di inseguimenti, scazzottate e duelli; un film dalla durata smisurata, contraddittoriamente intriso di nostalgia verso un passato descritto come feroce, sordido, squallido e crudele. Un’opera di incredibile cura spettacolare, che propone una struggente denuncia sull’irrealizzabilità, fin dalle origini, del Sogno Americano. Un film totale, perciò: sontuoso e tragico, violento e sensuale, d’azione e contemplativo, politico e malinconico, realistico e spettacolare, di denuncia e anti-retorico, umanistico e nichilista, epico e anti-eroico, che parla del passato, sì, ma del passato rimosso e, quindi, del presente.

Parla, infatti, di emigrazione.

«Non è per caso che il nostro cinema ha così poco affrontato l’immigrazione – ha detto Micheal Cimino. – Gli americani hanno voluto dimenticare questa parte della loro storia, creandosi il mito del West. Quelli che si stupiscono di trovare un francese ne I cancelli del cielo, si stupirebbero lo stesso, ne sono sicuro, di trovare un ristorante cinese in tutti gli stati del West, ma noi dobbiamo ai cinesi la costruzione delle nostre ferrovie attraverso il West! Il nostro inconscio collettivo ha rifiutato questa domanda sulle origini: da dove veniamo? Come siamo arrivati qui? La classe media, in particolare, si rafforza dimenticando le proprie origini».

Ricchi contro poveri, poveri contro poveri… E violenza per tutti

Cimino, allora, trentanove anni fa, accettò la sfida di misurarsi con il mito del West, ma per mostrarne le reali origini, rievocando fatti realmente accaduti nel Wyoming alla fine dell’Ottocento e, in particolare, la guerra che i grandi e ricchi allevatori dichiararono a quegli immigrati provenienti dall’Europa dell’Est cui il Governo aveva assegnato terre da coltivare e cintare.

I personaggi

Sullo sfondo di una massa notevole di personaggi, molti dei quali hanno sbozzati con guizzi di impressionante realismo, si stagliano alcune figure: James Averill (interpretato da Kriss Kristofferson) e William (Bill) Irivine (interpretato da John Hurt), già amici ai tempi dell’università, entrambi giovani rampolli di famiglie altolocate del New England [2]. Il primo è diventato lo sceriffo della contea di Johnson, nel Wyoming, in cui si trovano quei 125 migranti che l’associazione degli allevatori, su proposta del loro presidente Frank Canton (Sam Waterston), con l’approvazione del governatore e l’appoggio del presidente degli Stati Uniti e del governo, intende eliminare, assumendo 50 killer [3]. Il secondo, che si definisce una vittima della propria classe, perennemente ubriaco, fa parte del gruppo degli allevatori. Pur non abbandonandolo, ne mette, però, a nudo lo squallore degli alibi morali invocati, nel tentativo di dissuadere almeno qualcuno tra i componenti dal mettere in opera il loro proposito. Poi, verificata l’inutilità del suo tentativo di conciliazione, comunica ad Averill il progetto stragista.

Vi è poi Ella Watson (Isabelle Huppert), una prostituta francese, che gestisce il bordello ed è sulla lista delle persone da uccidere, perché colpevole di accettare in pagamento il bestiame che gli immigrati rubano agli allevatori. Averill, che è innamorato di lei, vorrebbe portarla via dal Wyoming e fuggire lontano dal bagno di sangue che sta per compiersi.

 

Non meno centrale è il personaggio di Nathan D. Champion (Christopher Walken), già immigrato e divenuto un killer al soldo degli allevatori, che, però, agisce entro i limiti di una legalità un po’ stiracchiata nel far fuori gli immigrati che rubano i bovini. Ed è anch’egli innamorato di Ella. E, a differenza di Averill, non intende soltanto vivere con lei, ma vuole sposarla [4].

Inoltre, un ruolo solo apparentemente marginale è  quello del capostazione Cully (Richard Masur), che, immigrato anch’egli, non riesce a non sentirsi vicino alla disperazione, alla fame dei nuovi arrivati dall’Europa. Non è un eroe e non finirà in modo eroico, venendo invece abbattuto con raggelante e divertito distacco.

 

Decisamente rilevante è la figura di John L. Bridges (Jeff Bridges), proprietario del bar in cui gli immigrati scommettono sui combattimenti dei galli e del locale in cui si radunano. Si tratta di una delle figure che emergono dal gruppo dei migranti, insieme al Sig. Eggleston (Brad Dourif) e al presidente dell’associazione dei commercianti, Charlie Lezak (Paul Koslo) [5].

È proprio Bridges colui al quale per primo Averill comunica la notizia del massacro pianificato.

Sta diventando pericoloso essere poveri in questo Paese. Soprattutto, se si è stranieri

Micheal Cimino riguardo ai contenuti del film è sempre stato terribilmente esplicito [6].

Il canovaccio era basato su fatti realmente accaduti.

«Tutto quello che vedete è autentico – la lista stilata dagli allevatori, la potenza delle loro associazioni, l’ingaggio di cinquanta mercenari, l’ammontare della loro prima offerta, l’approvazione all’operazione fornita dal governo e dal presidente degli Stati Uniti (…). Il telegramma del governatore che legge Sam Waterston è riprodotto parola per parola. Come lo è la nota scritta da Nate Champion prima di morire. Come lo sono la gran parte dei discorsi pronunciati dagli allevatori nell’incontro con gli emigrati (…). Per gli americani lo choc è stato notevole. La maggior parte di loro ignora la propria storia. Non sanno, o non vogliono sapere».

D’altra parte, anche i dialoghi del film non hanno perso un grammo di attualità. E, al di là della trama in sé e del contesto western in cui è collocata, non possono non far scattare associazioni mentali con il presente allo spettatore europeo e nordamericano di oggi.

Si pensi a Nate Champion, che, dopo aver freddato, con una fucilata all’addome, un immigrato, reo di aver sottratto e macellato un manzo per nutrire la propria famiglia ridotta alla fame, ne risparmia un altro, che si sta accingendo a rubare del bestiame, e si sente da quello rinfacciare di aver tradito il proprio gruppo, le proprie origini, essendosi venduto agli allevatori. Nate, che, poi, cavalcando accanto ad una colonna di immigrati in marcia, grida la sua rabbia verso di loro, verso quel che rappresentano e, quindi verso di sé: la rabbia di chi non è più povero come quei miserabili che sanziona, perché si è messo dalla parte della legge del più forte, cioè dell’ingiustizia umana e della giustizia formale, dalla parte, dunque, della disumanità. Così gli urla contro che devono andarsene, devono sloggiare, devono tornare al loro Paese.

C’è chi non può non restare umano

Ma si possono anche ricordare le osservazioni del capostazione, Cully, che, camminando in mezzo alla massa, cenciosa, sporca, malata e denutrita, degli adulti e dei bambini immigrati, che vanamente attendono l’assegnazione della terra loro promessa, confessa ad Averill di non riuscire a non solidarizzare con quelle persone. Spiega che le vede morire di fame. E, siccome anche lui, in fondo, è un essere umano, non può restare indifferente. Così, ammette quasi a malincuore, cerca di aiutarli, anche se ciò lo colloca ai margini della legge e lo pone contro quel potere istituzionale che, invece, appoggia l’associazione dei grandi, ricchi e potenti, allevatori di bestiame (che, infatti, come già anticipato, lo faranno uccidere).

Anche Nate Champion, del resto, “l’ex-immigrato”, integratosi grazie al lavoro di sicario al servizio di Frank Canton, alla fine si schiererà contro gli allevatori, pagando con la vita la sua ribellione. Analoga sorte toccherà a John L. Bridges. Che non soltanto ha condotto l’attacco dei migranti contro i killer, ma è rimasto vicino ad Averill e Ella anche dopo la battaglia.

C’è chi trova il modo di smettere di essere umano

Interessante è anche, per il suo echeggiare qualcosa di vero anche ai giorni nostri, quanto dice Frank Canton nel discorso all’assemblea degli allevatori di cui è il leader:

«Questo non è più un paese di povera gente».

Non siamo più i cenciosi di prima, ora siamo diventati proprietari, allevatori, abbiamo delle responsabilità vero le nostre imprese e i nostri simili e non possiamo permetterci di essere solidali con i diseredati di oggi; non possiamo consentirci di vedere la loro umanità; non siamo più come loro ed essi sono altro da noi: questo è il succo del suo intervento.

La presa di una distanza siderale dall’Altro, è indispensabile per de-umanizzarlo. E de-umanizzarlo è indispensabile per emarginarlo, perseguitarlo o ucciderlo.

Per riuscire in questa operazione psichica individuale e collettiva di neutralizzazione della coscienza dell’umanità altrui, però, Frank Canton deve suscitare, o rinforzare, anche la rabbia, l’odio, la paura e il disprezzo sia dei benpensanti sia dei delinquenti anglosassoni nei riguardi degli immigrati. A tal fine, ricorda ai suoi soci come gli immigrati rubino impunemente il bestiame suo e degli altri grandi allevatori.

Gli immigrati non sono esseri umani, ma dei ladri e degli anarchici

Illuminante è il dialogo tra l’inizialmente incredulo sceriffo James Averill e Bill Irivine. Quando il primo esprime i proprio dubbi sull’effettiva possibilità che gli allevatori riescano ad avere la legittimazione legale per perpetrare la strage programmata, la risposta del suo amico è: «In linea di principio tutto si può fare».

Tutto si può fare, cioè, se si detiene il potere e se si trova il modo di de-umanizzare l’Altro, facendolo risultare, agli occhi della legge e dei membri che contano nella comunità, come una minaccia di sovversione, di destabilizzazione, di disordine e di insicurezza. Anarchici e ladri, li definisce ripetutamente Frank Canton, sia per motivare gli altri, anche i sicari, al macello, che per autolegittimarsi Per questo risulta falsa e immediatamente falsificata l’affermazione dello stesso Bill che, poco prima di essere ucciso, rivolge a chi guida i killer nella loro opera di annientamento:

«Non è come con gli indiani. Non puoi ucciderli tutti».

Il lucido, ubriaco, osservatore della realtà si sbaglia. Si può eccome, invece, uccidere i migranti come se fossero indiani. Infatti, la battuta è pronunciata, paradossalmente, mentre il massacro sta accadendo. Come nel caso dello sterminio gli indiani, per riuscire ad ammazzare i migranti basta pensare – e far pensare agli altri – che quelli che si perseguita, si deruba della terra e si uccide non sono esseri umani, ma esseri inferiori, selvaggi e pericolosi, per giunta.

Il tradimento del “buonista”, del “radical-chic” ante-litteram

Non per caso, ma per reale convinzione, quindi, Canton accusa Averill di essere un traditore. Un traditore della propria classe. «Contrasti i nostri sforzi in difesa della proprietà e della nostra classe». La replica, ad effetto ma inefficace, dello sceriffo è: «Tu non sei della mia classe, non lo sarai mai».

Anche il capitano della cavalleria, pur sapendo vedere per quello che è lo spudorato orrore del massacro programmato, rinfaccia ad Averill di essere ricco e, perciò, incoerente. Radical-chic, si direbbe oggi. Il capitano, infatti, che pure gli passa la lista dei nomi di coloro che gli allevatori intendono sopprimere, proprio non sopporta la vista di questo aristocratico, disposto a rischiare la propria vita per restare umano e agire da essere umano fino in fondo, mentre egli, invocando il vincolo del dovere di obbedienza agli ordini, anche se criminali, non è disposto a rischiare neppure quel po’ di certezze e di posizione sociale acquisite con la carriera militare.

Le vittime (gli immigrati) non sono entità astratte

Michel Cimino, in un’intervista, disse:

«Vedi, per esempio, quello che noi abbiamo fatto agli indiani per spogliarli delle terre. Il cinema ha potuto farvi delle allusioni, ma a condizione che le vittime restassero delle entità astratte, non persone in carne e ossa».

Dal suo punto di vista, questo «spiega perché la prima reazione suscitata da I cancelli del cielo, dove dei bianchi massacravano degli altri bianchi, era di totale incredulità».

Michel Cimino, coerentemente con questi presupposti, non idealizza le vittime. Quel che vuole è proprio far sentire agli spettatore la logica spietata del conflitto tra allevatori e stranieri, mantenendoli su un piano di realtà.

Il regista non è disposto, quindi, a compromessi hollywoodiani, non cede alla retorica, e rappresenta gli immigrati come persone, con le loro sfaccettatura, contraddizioni e squallori. Non sono belli e e neppure buoni. Soprattutto, non sono entità astratte.  Quando Ella si schiera con gli immigrati, alcuni rifiutano il suo aiuto perché è una prostituta e la mandano all’inferno. «Ci sono già», risponde lei.

Anni dopo ha osservato Cimino: «Gli immigrati stessi non sono degli idealisti. Possono essere tanto crudeli quanto i loro avversari».

Gli immigrati non sono dei santi, ma persone in carne e ossa

Infatti, nel film si vede che questi coloni europei sperperano il loro denaro, o la carne dei pochi bovini razziati agli allevatori non solo con le prostitute, ma anche nelle scommesse sui combattimenti dei galli. E ricorrono alla violenza omicida nelle loro liti.

Inoltre, alcuni di loro cercano di schierarsi con gli allevatori. Tra quelli meno disperati, più colti, già imborghesiti, già integrati, vi è, infatti, chi cerca uno spazio di trattativa, di compromesso, a costo di abbandonare al loro destino quelli segnati sulla lista nera. Ed è proprio lo sceriffo a far notare a questi angosciati voltagabbana, il vano tradimento di se stessi cui vorrebbero dare corso e l’ovvia necessità di lottare e opporsi alla strage, se vogliono, davvero, salvare la pelle propria e altrui: «Cristo, Charlie, loro sono solo cinquanta, voi siete duecento!».

Micheal Cimino, infatti, a questo riguardo disse. «Già emerge una nuova classe sociale disposta a collaborare, a cercare di imitare gli allevatori».

Non sono santi, gli immigrati, dunque. Ed è proprio ciò che rende più vera e più attuale sia la vicenda sia la conclusione del regista, secondo il quale, l’ambiguità regna da tutte le parti. Va detto, però, che Micheal Cimino aggiunge:

«Gli allevatori hanno dalla loro la legge, ma non la morale; per gli immigrati la situazione è quella inversa».

Gli sfruttati, gli ingannati e i massacrati sono gli immigrati, i poveri. Chi li froda prima, li de-umanizza poi – per emarginarli e, infine, ammazzarli legalmente -, sono i ricchi o coloro che, manipolati dai potenti, hanno paura di restare poveri per sempre o di tornare ad esserlo. Costoro, in effetti, ingrossano le fila di coloro che «si oppongono a tutto ciò che fa progredire il Paese», come dice, durante l’assemblea degli immigrati nel salone dell’Heaven’s Gate, con la voce strozzata e gli occhi pieni di lacrime di rabbia, angoscia e impotenza, il personaggio interpretato da Brad Dourif.

I conflitti con la produzione e sulla distribuzione de I cancelli del cielo

L’amarezza che trasuda il film è probabilmente uno dei fattori all’origine del suo insuccesso commerciale. Secondo Steven Bach, l’opera non riuscì a coinvolgere il pubblico perché non lo stimolava nei più elementari livelli di simpatia, data l’ambivalenza di tutti i personaggi e la disperazione intrisa nei risvolti storici e attuali della trama. Ma, forse, fu anche il clima politico e culturale, decisamente conservatore e anti-progressista, connesso con l’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca, a determinare il fallimento commerciale dell’opera

I cancelli del cielo è noto, infatti, per essere il film che ha fatto affondare finanziariamente la United Artists. Il che è vero fino ad un certo punto, però, resta vero che fu un fiasco commerciale tremendo, uno dei più clamorosi nella storia della Settima Arte [7].

Lo sforamento del budget e di tutti i piani di lavorazione

Micheal Cimino era reduce del successo spettacolare di Il cacciatore (The Deer Hunter, 1978), che sul mercato americano aveva incassato il triplo (quasi 50 milioni di dollari) del suo costo (circa 14 milioni) e, candidato a 11 Oscar, ne aveva riscossi 5 (miglior film, regia, attore non protagonista Christopher Walken -, suono e montaggio), quando la United Artists (che, dal ’67, era di proprietà della Transamerica) decise di renderlo uno dei registi di punta delle sue produzioni. Così, Cimino, dopo aver scontato il rifiuto di alcune sue proposte, poco attrattive per la UA, ottenne l’approvazione di un’opera tratta da un soggetto della fine degli anni Sessanta, The Johnson County War. E ottenne carta bianca per realizzare un western ,ambientato dopo la fine della Guerra di Secessione, che illustrasse un paese tutt’altro che pacificato, anzi totalmente immerso nel sangue della violenza razzista e repressiva dispiegata dalla classe dominante dei grandi allevatori.

Concepito inizialmente come un western dal costo produttivo medio-basso, con un preventivo di circa 2 milioni di dollari, da realizzare nell’arco di due mesi e mezzo, per essere distribuito con una durata attorno ai 120 minuti, il progetto divenne rapidamente tutta un’altra cosa. Con la scelta del regista, di fatto, il progetto iniziò subito a trasformarsi.

Il nuovo budget fu portato a 6 milioni di dollari e la durata estesa a tre ore di proiezione. Cimino, però, voleva farne un’opera-mondo. Un film colossale, ma non un semplice un monumento, bensì un affresco lirico e movimentato, un’opera spettacolare, che fosse anche realistica e intimista, un atto di accusa politico dal respiro epico, bigger than life, certo, però, capace di far sentire agli spettatori l’odore e il sapore della vita vera degli affamati migranti provenienti dall’Est Europa, dei ricchi e grandi allevatori, dei killer prezzolati e delle prostitute.

Ma quest’opera, per come Cimino la pensava e la sentiva, non era compatibile con un budget contenuto. Alla fine raggiunse un costo di produzione di 44 milioni di dollari, necessari a finanziare: quasi due anni di lavorazione; la costruzione di elaborate scenografie, di città, treni e ferrovie; l’impiego di oltre 600 maestranze, di centinaia di comparse (770 solo per la scena iniziale del ballo, le cui riprese richiesero 6 mesi), di  decine di attori impegnati per ruoli di contorno ma che dovevano avere la faccia giusta e con pochi cenni o parole riuscire ad essere più che credibili, autentici; un montaggio di durata superiore ai 300 minuti.

Il massacro della pellicola

Il budget speso finì con l’essere pari alla metà delle risorse della United Artists di quell’anno – il 1979, anno di inizio delle riprese -, sicché la casa di produzione non poté realizzare altri film: con quel kolossal si giocava tutto. E perse.

Il film venne presentato allo staff della UA il 26 giugno del 1980. Durava 5 ore e 25 minuti. L’angoscia degli uomini della casa di produzione raggiunse livelli inediti. Si decise di rimontarlo per ridurne la durata, che, infatti, con l’accordo del regista, fu accorciata a 3 ore 39 minuti.

La disastrosa anteprima del 18 novembre 1980 e le delusioni successive

All’anteprima del 18 novembre al Cinema One, i critici uscirono sconcertati. E il giorno dopo lo distrussero. Vincent Canby, il critico del New York Times scrisse che il film era “un inqualificabile disastro”. Ciò certo non giovò a stimolare l’accoglienza da parte del pubblico. Il 19 novembre il film uscì in solo due sale, incassando nel weekend, appena 12.000 dollari. Cimino, allora, chiese all’UA di poterlo tagliare ulteriormente, consapevole com’era di giocarsi con quest’opera l’intera carriera. La nuova versione, di 2 ore e mezza, venne proposta al Festival di Cannes e presentata nelle sale (ben 850 sale negli USA, senza alcuna promozione, però), nel 1981, e i 3 milioni complessivi di incasso avrebbero costituito un successo soddisfacente se si fosse trattato di un film d’autore a basso budget. Il film andò appena un po’ meglio in Europa, ma nel frattempo, la UA venne ceduta alla Metro Goldwyn Mayer di Kirk Kerkorian per un prezzo di 350 milioni di dollari.

Osservò Peter Biskind:

«quello fu l’ultimo momento in cui Hollywood produsse, rischiando, lavori ad alta qualità (…) I tredici intercorsi tra Gangster Story (Bonnie and Clyde, Arthur Penn, 1967) e I cancelli del cielo, del 1980 furono l’ultimo periodo in cui fu un’esperienza veramente entusiasmante fare film a Hollywood (…). L’ultima volta che l’intera comunità della gente del cinema contribuì alla qualità; l’ultima volta che ci fu un pubblico in grado di sostenerla».

Dopo l’enorme risonanza mediatica dell’esito fallimentare de I cancelli del cielo, non soltanto Cimino subì l’ostracismo hollywoodiano, venendo “salvato”, poi, da Dino De Lauretiis (che gli assegnò la regia de L’anno del dragone), ma letteralmente si chiuse un’epoca.

 

Tuttavia, il regista di quest’opera, costata 44 milioni di dollari per svelare al pubblico quanto sta diventando pericoloso essere poveri in questo Paese, non si pentì dei suoi sforzi.

«Quando si dà tutto quello che si ha, non ci possono essere rammarichi per il lavoro che si è compiuto. La gente mi chiede: “Come sei sopravvissuto a I cancelli del cielo?”. C’è una semplice verità: più si dà, più si diventa forti. E credo che John Ford sopravviverà, Akira Kurosawa sopravviverà, Luchino Visconti sopravviverà, che continueranno ad avere un impatto profondo per la qualità delle loro emozioni, non per una superiorità tecnica, ma perché hanno il cuore dalla parte giusta».

Micheal Cimino, che è morto due anni fa, il 2 luglio del 2016, nella sua casa di Beverly Hills, all’età di 77 anni, aveva il cuore dalla parte giusta.

«Cimino fa sempre del cinema. Alla grande. Pensa per immagini e racconta per sequenze. E proprio per questo la sua descrizione amara e disperata dell’America (passata, presente e futura) risulta così originale e affascinante», ha scritto Aldo Viganò nella sua scheda su I cancelli del cielo, avendolo prima definito il regista più geniale e più disordinato del Nuovo Cinema Americano.

 

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

AA. VV., Il Cinema. Grande Storia illustrata . De Agostini, Novara, 1982

A. De Luca, Micheal Cimino, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2005

G. Mancini, Micheal Cimino, Le Mani, Genova, 2007

A. Viganò, Western in cento film, Le Mani, Genova, 1994

 

[1] Perché inserire in questa rubrica (Corsi e Ricorsi) un post sul film maledetto di Micheal Cimino? Corsi e Ricorsi ricorda ogni giorno, o quasi, nelle stesse date di pubblicazione dei post dei fatti, accaduti dall’anno 1900 in avanti, che abbiano a che fare con il conflitto nelle sue diverse accezioni. Molti contributi fin qui pubblicati hanno riguardato eventi bellici, altri hanno avuto ad oggetto episodi di criminalità politica, diversi hanno ricordato i delitti e i massacri commessi dalle organizzazioni mafiose, altri ancora hanno richiamato eventi eversivi, colpi di stato… Uno dei primi post (quello del 7 luglio 2018) celebrava la data di nascita di Vittorio De Sica, rievocando alcune delle sue opere più scomode, più conflittuali e scomode per la mentalità e per le forze politiche dominanti al momento della loro realizzazione. I cancelli del cielo racconta, invece, di un conflitto sanguinosissimo tra gli immigrati dell’Europa orientale e i grandi allevatori del Wyoming alla fine dell’Ottocento, denunciando gli ingenti e spietati interessi economici sottesi alla repressione xenofoba messa in atto. Inoltre, il film è conflittuale anche su altri registri, visto che è stato realizzato in un clima di conflittualità, prima latente poi esplicita, tra il regista e i produttori e visto che, una volta presentato, ha continuato a generare conflitti. Conflitti non fisicamente violenti, certo, ma, dal punto di vista di questa rubrica, non meno interessanti, nel loro essersi sviluppati su livelli diversi, ma tra loro intrecciati: estetico, politico, economico e interpersonale.

[2] Il film inizia con la festa di laurea degli studenti di Harvard, tra cui vi sono James Averill e William (Bill) Irivine, che ascoltano il discorso del rettore (interpretato da Joseph Cotten)Costui spiega che l’America non si fonda sulla ricchezza ma sulla cultura e che è questa il collante che tiene insieme il Paese. Vent’anni dopo circa, James Averill è sceriffo (marshall) della contea di Johnson, Wyoming, un territorio per popolare e colonizzare il quale il Governo ha assegnato una certa quantità di acri ai migranti provenienti dall’Europa (soprattutto Orientale).  I grandi allevatori della zona però non vogliono rinunciare all’uso dei pascoli che dovrebbero essere proprio gli appezzamenti destinati agli immigrati.

[3] La giustificazione risiede nel fatto che gli immigrati razziano il bestiame per macellarlo e mangiarlo e che la giustizia civile non riesce a fermare tali crimini né a perseguire i colpevoli. Bill Irvine, semi-alcolizzato, tenta di opporsi a tale decisione, ma non viene ascoltato. La comunica, però, James Averill, che affronta Canton, ammonendolo di non mettere in atto il suo piano criminale.

[4] Nathan D. Champion, che, pur essendogli rivale in amore, ammira e rispetta Averill, vive in una capanna fuori città insieme con un altro bounty killer, interpretato da Mickey Rourke.

[5] Nate Champion chiede a Ella di sposarlo, e lei accetta, ma la banda dei killer, nel frattempo arrivata nella valle, dopo aver ucciso il capostazione che stava correndo ad avvisare la comunità, massacra le ragazze del bordello e stupra Ella. Mentre costei sta per uccisa, sopraggiunge Averill, che ammazza quasi tutti i suoi assalitori e la salva. Il killer scampato viene ucciso poco dopo da Nate, che dichiara a Canton il suo disprezzo. Il mattino successivo Canton e i suoi circondano la casa di Nate e del suo amico e li ammazzano. Gli immigrati, guidati da Bridges, danno, quindi, battaglia ai killer. Averill, dapprima riluttante, si unisce a loro nel caotico, cruentissimo scontro. Nonostante vengano decimati, gli immigrati riescono ad avere la meglio sui killer (alla battaglia partecipa come osservatore anche Bill Irvine, che nel corso dello scontro viene ucciso da Ella). Arriva, però, l’esercito, chiamato in soccorso da Canton. La cavalleria degli Stati Uniti con la scusa di prendere in custodia i killer, li mette al riparo da ogni persecuzione legale. Averill si accinge a lasciare la città insieme ad Ella, ma all’uscita dalla capanna di costei, Canton e alcuni killer sparano loro addosso, ammazzando la ragazza e Bridges. Averill uccide a sua volta Canton e i suoi sicari e raccoglie il corpo di Ella tra le sue braccia, piangendo. Molti anni dopo, a bordo del suo lussuoso yacht, al largo di Newport, nel Rhode Island, Averill ricorda i tragici e sanguinosi giorni di quel tentato genocidio.

[6] Anche negli anni successivi alla sua distribuzione, ilregista non ha esitato a chiarire il risvolto di attualità di questa vicenda, collocata storicamente alla fine dell’Ottocento e sviluppata cinematograficamente secondo i moduli del genere Western emersi dopo la rivisitazione di registi tra di loro diversamente “violenti”, quali Sam Peckinpah (soprattutto, Sierra Charriba, 1965, Il mucchio selvaggio, 1969, La ballata di Cable Hogue, 1970 e Pat Garrett e Billy Kid, 1973) Arthur Penn (Il piccolo grande uomo, 1970) e Ralph Nelson (Soldato blu, 1970).

[7] Certo la storia del cinema, e soprattutto quella del cinema hollywoodiano, è punteggiata di squassanti insuccessi commerciali. Costose produzioni che non riuscirono ad ottenere quel successo commerciale per conseguire il quale erano state progettate e realizzate. Per lo più si tratta di kolossal biblici o storici, con scenografie imponenti e macchinose, masse di comparse e cast all-stars. Da Intolerance (di David Wark Griffith,1916) a I crociati (di Cecil B. De Mille, 1935), da Giovanna d’Arco (di Victor Fleming, 1948) a La più grande storia mai raccontata (di George Stevens, 1965), da I re del sole (di Jack Lee Thompson, 1961) a La grande strage dell’impero del sole (1969, di Irving Lerner), da Cleopatra (di Joseph L. Mankiewicz, 1963) a L’ultima valle (di James Clavell, 1970), da La caduta dell’impero Romano (di Anthony Mann, 1964), a Nicola e Alessandra (di Franklin J. Shaffner, 1971), per citarne solo alcuni del periodo precedente al film di Micheal Cimino, che può anche essere considerato un film storico. Ma vi sono stati anche flop colossali di kolossal movie ambientati in contesti bellici, alcuni dei quali sinceramente intrisi di spirito antimilitarista, se non addirittura pacifista. Anche temporalmente a ridosso del film di Cimino, alcuni di questi film ambientati in contesti di guerra (o di guerra civile) – di cui non pochi erano autentiche opere personali dei rispettivi autori -, pur riscuotendo un buono, o almeno un discreto, apprezzamento critico e pur ottenendo dei premi, furono dei flop finanziari: Quelli della San Pabblo (di Robert Wise, 1966), Duello nel Pacifico (di John Boorman, 1969), Tora, Tora Tora (di Richard Fleischer, 1970), Non è più tempo di eroi (di Robert Aldrich, 1970), Quell’ultimo ponte (di Richard Attenborough, 1977). Tra i più clamorosi insuccessi nel campo del Western, genere nel quale non solo nominalmente il film di Cimino si inscrive, oltre a La battaglia di Alamo (di John Wayne, 1960: mandò quasi in rovina John Wayne, che oltre ad averlo diretto, lo aveva anche prodotto, ma non la United Artists che lo aveva distribuito nelle sale cinematografiche), a Cimarron (di Anthony Mann, 1960), a L’oro di Mackenna (di J. Lee Thompson, 1968), vi sono due immediati precedenti di I cancelli del cielo, realizzati entrambi nel 1976, cioè nel duecentesimo anniversario dell’Indipendenza degli Stati Uniti, da due registi assolutamente controcorrente, cui l’industria del cinema aveva dato fiducia per la loro capacità di attirare il pubblico attraverso opere scomode, sincere e, quindi, controverse: Buffalo Bill e gli indiani (di Robert Altman) e Missouri (di Arthur Penn).

 

17 novembre 1973: repressa nel sangue la “Rivolta del Politecnico” di Atene

Venite a prenderle”: così, usando le stesse parole di Leonida alle Termopili, il 17 novembre 1973 gli studenti in rivolta asserragliati nel Politecnico di Atene risposero ai militari che intimavano loro di deporre le armi.

Il movimento studentesco greco era uno dei gruppi sociali più esposti nella contestazione contro la Giunta dei colonnelli, che aveva preso il potere sei anni prima: la prima tangibile manifestazione dell’intensità di quella resistenza, con una vasta risonanza internazionale, si era avuta nel 1970, in piazza Matteotti a Genova, quando lo studente di geologia Kōstas Geōrgakīs si uccise dandosi fuoco in segno di protesta.

Il golpe militare del 21 aprile 1967 fu l’esito di trent’anni di lacerazione e incertezze. In base agli accordi di Jalta, nel dopoguerra l’influenza politica nella penisola era stata attribuita per il 70% al Regno Unito (in accordo con gli Stati Uniti) e per il restante 30% ai sovietici; in assenza di un indirizzo politico chiaro e di una casa reale autorevole, le preesistenti tensioni sociali sfociarono in una guerra civile (1945-49). In realtà, Stalin considerava la Grecia una pertinenza occidentale e fornì scarso supporto alle formazioni comuniste locali, mentre il Regno Unito intervenne militarmente favorendo la vittoria del governo monarchico, per poi disimpegnarsi dall’area lasciandola, di fatto, sotto l’influenza statunitense. L’ingerenza americana negli anni della Guerra Fredda produsse una forte struttura anticomunista nei servizi segreti militari greci, con tutte le caratteristiche di un’operazione stay-behind.

Alla metà degli anni Sessanta il governo di centro di Andreas Papandreou entrò in crisi, reso ancora più instabile dalla congiuntura economica e dalle divergenze con il nuovo sovrano, il giovane Costantino II; iniziò una stagione turbolenta, di governi incapaci di ottenere la fiducia in parlamento, tentativi di alleanze improbabili e proteste popolari. In tale clima, fu gioco facile, per un gruppo di colonnelli e generali dell’esercito greco, dare il via ad un fulmineo colpo di stato che lasciò esterrefatto il paese, irritati i sovietici e “ironicamente divertiti” gli americani, che in ciò vedevano la nascita di un altro dichiarato alleato contro il comunismo. Atene e i ministeri della capitale caddero in poche ore, così come i vertici dell’esercito. Nel pomeriggio la stessa residenza del re fu assediata dai blindati e i colonnelli impiegarono qualche ora a convincere il giovane sovrano a legittimare la giunta militare come nuova guida del paese.

Il nuovo governo soppresse immediatamente le libertà civili e di stampa, mentre iniziavano gli arresti di massa, che nei giorni successivi al golpe arrivarono a oltre 10.000 tra oppositori, vecchi leader politici e intellettuali. Si instaurò un regime para-fascista guidato da Georgios Papadopulos: i riferimenti ideologici erano chiaramente ispirati al militarismo mussoliniano, la propaganda era simile a quella del ventennio, si invitavano i giovani alla carriera militare, si mitizzava la storia antica della Grecia, si reprimevano tutte le forme di libera associazione ed espressione.

Contemporaneamente i militari hanno proibito i capelli lunghi, le minigonne, Sofocle, Tolstoj, Mark Twain, Euripide, spezzare i bicchieri alla russa, Aragon, Trotskij, scioperare, la libertà sindacale, Lurcat, Eschilo, Aristofane, Ionesco, Sartre, i Beatles, Albee, Pinter, dire che Socrate era omosessuale, l’ordine degli avvocati, imparare il russo, imparare il bulgaro, la libertà di stampa, l’enciclopedia internazionale, la sociologia, Beckett, Dostojevskij, Čechov, Gorki e tutti i russi, il “chi è?”, la musica moderna, la musica popolare, la matematica moderna, i movimenti della pace, e la lettera “Ζ” che vuol dire “è vivo” in greco antico.
(Voce narrante nel film “Z – L’orgia del potere”, Costa-Gavras, 1969)

Sul piano internazionale, la Giunta dei colonnelli si mantenne ancorata alla NATO, con il benestare di USA, Gran Bretagna e Germania Ovest, nonostante gli appelli all’ONU dei paesi scandinavi per le violazioni continue dei diritti umani. L’alleanza con gli Stati Uniti portò nei primi anni della dittatura a una certa spinta in campo economico, con sostanziosi investimenti americani nell’industria e nelle infrastrutture, mentre Papadopoulos cercò di stimolare il turismo internazionale e ridare lustro all’immagine del paese, offuscata dalle notizie circa il largo impiego di violenze e torture contro gli oppositori.

La crisi economica dei primi anni ’70 e i primi periodi della distensione internazionale fecero mancare gradualmente il terreno sotto i piedi al governo dei colonnelli. In aggiunta alla prevedibile opposizione da sinistra, il regime dovette anche affrontare il dissenso dei vecchi partiti della destra fedeli alla corona e degli uomini d’affari danneggiati dall’isolamento internazionale in cui venne a trovarsi la Grecia, oltre al malcontento della classe media, colpita dalla crisi economica che i militari furono incapaci di affrontare, malgrado i consistenti aiuti provenienti dagli USA.

I tentativi di Papadopoulos di modernizzare il paese e concedere alcune libertà democratiche generarono una spaccatura all’interno della giunta golpista, oltre a rafforzare la capacità organizzativa degli oppositori e in primis degli studenti, che furono all’origine della rivolta del Politecnico di Atene del novembre 1973.

La mobilitazione degli universitari contro il regime seguiva di alcuni mesi quella attuata dagli studenti di giurisprudenza e il successivo brutale sgombero dalla facoltà manu militari. Questa volta l’apparato repressivo della dittatura non riuscì a intervenire immediatamente e migliaia di lavoratori, studenti medi e di altre facoltà accorsero al quartiere Exarchia in sostegno agli occupanti; durante le giornate del 14, 15 e 16 continuarono a susseguirsi assemblee, iniziative, furono barricati gli ingressi dell’università, venne attivata una stazione radio che trasmetteva in tutta la zona di Atene. Psomi – Paideia – Eleftheria (pane, istruzione, libertà) le parole d’ordine della rivolta che risuonavano per la capitale, mentre un messaggio ripetuto chiamava a raccolta la popolazione:

Qui il Politecnico! Popolo greco, il Politecnico è la bandiera della vostra sofferenza e della nostra sofferenza contro la dittatura e per la democrazia.

La Giunta dei colonnelli impose la legge marziale e sospese la fornitura di energia elettrica a tutta la città, ma il Politecnico era dotato di generatori di emergenza, subito messi in funzione, e la protesta crebbe di intensità e partecipazione, tanto da spingere il governo a far circondare il quartiere dall’esercito, in modo da fermare l’afflusso di gente.

Alle tre di notte del 17 novembre, furono inviati i carri armati contro gli occupanti. Gli studenti, arrampicati sui cancelli dell’entrata principale, cercarono di bloccare l’avanzata dei tank appellandosi ai soldati, con gli altoparlanti e alla radio: “Fermatevi … non potete assassinarci, siamo vostri fratelli, combattiamo per la libertà. Soldati, fratelli nostri, com’è possibile che spariate sui vostri fratelli? Che sia versato sangue greco? Fratelli no …”; altri cantavano l’inno nazionale, interrotto bruscamente dal carro armato che sfondò l’ingresso del Politecnico.

La repressione fu brutale. Contemporaneamente allo sgombero, nel resto della città si moltiplicarono le barricate e gli scontri. Ventiquattro persone furono uccise tra i manifestanti all’esterno dell’edificio (molte di più, secondo altre fonti), i feriti furono centinaia; tra le vittime anche un bambino di 5 anni, ucciso dal colpo di fucile di un soldato durante i rastrellamenti che seguirono; il diciannovenne Michael Mirogiannis fu assassinato a sangue freddo con un colpo di pistola alla testa a pochi metri dal Politecnico dal colonnello Nikolaos Dertilis, secondo la testimonianza dell’autista del militare al processo che si sarebbe tenuto anni dopo, a democrazia ripristinata.

Al termine degli scontri, l’ala dura della Giunta decise la deposizione di Papadopoulos, sostituito dal generale Dimitrios Ioannidis, che pretese di ritornare alla “purezza” originaria del regime, imponendo nuovamente coprifuoco, legge marziale, repressione poliziesca.

Invisa ormai alla maggioranza dei paesi occidentale e agli Stati Uniti che le avevano voltato le spalle, la dittatura scivolò sul fallimentare tentativo espansionistico nei confronti di Cipro del luglio ’74; l’insuccesso portò alla deposizione di Ioannidis e al ritorno in patria del leader moderato in esilio Karamanlis, che guidò la Grecia verso il ritorno alla democrazia vincendo largamente le elezioni politiche del novembre 1974. I militari golpisti furono sottoposti a regolare processo e condannati; il generale Ioannidis fu anche riconosciuto responsabile per il massacro del 17 novembre.

La rivolta del Politecnico di Atene viene celebrata ogni anno con tre giorni di festeggiamenti. Le manifestazioni in ricordo degli eventi del 17 novembre 1973 si concludono con il tradizionale corteo verso l’ambasciata americana nel centro di Atene, una protesta simbolica per il sostegno offerto al regime dei colonnelli da parte degli Stati Uniti.

Silvia Boverini

 

Fonti: www.wikipedia.org; “La rivolta del Politecnico ad Atene”, www.ilpost.it; “17 novembre 1973: lo sgombero del Politecnico occupato ad Atene”, www.infoaut.org; “Εδώ Πολυτεχνείο! – Qui Politecnico! La rivolta degli studenti del Politecnico di Atene (1973), www.puntogrecia.gr; G. Casagrande, “Atene 17 novembre del 1973: venite a prenderle”, www.globalist.it; E. Frittoli, “Grecia: 50 anni fa il golpe dei colonnelli”, www.panorama.it; E. Terzi, “Ieri accadde: laureati in libertà al Politecnico di Atene”, www.articolo21.org; D. Bellegra, www.nuovaresistenza.org

Master in Scienze Criminologiche

Corsi per aziende

da ottobre 2018 a ottobre 2020

La violenza contro gli operatori: prevenzione, de-escalation e gestione dell’aggressività dell’utenza nei confronti degli operatori

19 e 25 febbraio 2019

La prevenzione e gestione dei conflitti tra professionisti e pazienti/loro famigliari anche nelle ipotesi di evento avverso

19 marzo 2019

Il 16.11.1977 Carlo Casalegno viene ucciso dalle Brigate Rosse

Ancora non avevano sparato per uccidere un giornalista. Inizialmente in effetti, nemmeno in quest’occasione avrebbero avuto intenti omicidi: pensavano di limitarsi a gambizzarlo, ma poi qualcosa cambiò. In peggio. Invece di mirare in basso, infatti, Fiore sparò dritto in faccia all’allora vicedirettore de La Stampa, dopo averlo chiamato per farlo voltare. 4 colpi che gli devastarono il viso e gli lasciarono solamente 13 giorni di terapia intensiva alle Molinette: morì il 29 novembre, dopo che un transitorio miglioramento aveva riacceso la speranza nelle persone a lui vicine.

Scrisse articoli troppo ostili alla lotta armata che le Brigate Rosse, di contro, sostenevano e attuavano. Di più, invitò i cittadini a non sottrarsi alla chiamata per la giuria popolare nel primo procedimento alle stesse BR: ognuno doveva fare la propria parte. Casalegno tenne salda la mano sulla sua penna, e questo gli costò caro.

L’aver espresso il proprio pensiero gli costò la vita, come se non avesse vissuto in uno stato democratico. Forse però, la democrazia iniziò a farsi strada anche all’interno di quei movimenti che lo avevano ucciso: il figlio Andrea, già membro di Lotta Continua e dei movimenti del ’68, espresse idee molto chiare in merito:

Non si può uccidere una persona per le sue idee.

Anche perché non si distrugge un simbolo, ma:

Persone in carne ed ossa, padri e mariti.

Fu probabilmente questo uno degli elementi che contribuirono alla radicale modifica a cui andarono incontro i movimenti stessi.

Alessio Gaggero

 

Cosa significa “coventrizzare”?

Il termine coventrizzare (“to coventrate”) è nato in riferimento a quel che accadde alla città inglese di Coventry, tra il 14 e il 15 novembre del 1940.

Tra le città britanniche che nel secondo conflitto mondiale venivano colpite dall’aviazione tedesca vi era anche Coventry. Bombardata già una prima volta il 25 agosto 1940 e, ancora, ad ottobre, con attacchi più brevi, che uccisero 176 persone, colpendo non soltanto l’aeroporto, ma anche l’ospedale, Coventry non aveva ancora visto il peggio. Non era stata, infatti, ancora “coventrizzata”. Ciò accadde soltanto a metà novembre di quell’anno. Quella che è stata chiamata l’ora più buia per la Gran Bretagna, tuttavia, era già iniziata in piena estate.

Arriviamo a Coventry, quindi, partendo da alcuni tra i tanti fatti accaduti in quella prima estate della Seconda Guerra Mondiale.

La disperata resistenza della Gran Bretagna

A luglio del 1940, l’Inghilterra era rimasta sostanzialmente da sola a fronteggiare l’avanzata delle forze nazifasciste – tedesche e italiane – in Europa e in Africa. Il Belgio e la Francia si erano arrese ad Hitler. Il contingente militare britannico, che aveva cercato di fermare le poderose conquiste delle armate tedesche, era stato evacuato da Dunkerque e da altre spiagge e porti francesi. Era iniziata la battaglia d’Inghilterra (di cui abbiamo parlato qui).

L’11 luglio Winston Churchill, che era diventato primo ministro di un governo di unità nazionale, disse ad un generale: «Non ho mai odiato gli unni nell’ultima guerra, ma adesso li detesto come pidocchi». I tedeschi, «gli unni», infatti, due giorni avevano iniziato a bombardare il suolo inglese e quel giorno avevano colpito il Galles meridionale. In una settimana 88 civili erano stati uccisi dalle bombe germaniche. L’invasione tedesca pareva imminente. E Churchill prevedeva che, in quel caso, anche le donne britanniche sarebbero state chiamate a combattere contro i soldati tedeschi. Il 14 luglio alla radio disse:

«dobbiamo batterci tutti senza perdere fiducia e senza venire meno al nostro dovere, finché l’oscura maledizione di Hitler scomparirà dalla nostra epoca»

Nel frattempo erano i piloti della Royal Air Force (RAF) quelli che, in condizioni disperate, tentavano di fermare quell’opera di devastazione svolta dall’aviazione tedesca e, in misura minore, da quella italiana. I bombardamenti sull’Inghilterra, cioè, che doveva preludere all’operazione Leone Marino: lo sbarco sulle coste britanniche del contingente d’invasione.

Il 15 settembre era finita la Battaglia d’Inghilterra

Churchill non era disposto a cedere a nessuna prospettiva di negoziato con la Germania. Sapeva che sarebbe stato soltanto un inganno. Hitler fino a quel momento aveva sempre violato gli accordi stipulati e se n’era perfino infischiato della neutralità dei singoli Stati quando gli aveva fatto comodo invaderli.

«… per quanto la prova sia dura o lunga, o entrambe le cose, non verremo mai a patti, non tollereremo che si parlamenti; possiamo mostrare misericordia, mai la imploreremo», aveva detto il Primo ministro britannico nel suo discorso radiofonico di quel 14 luglio 1940.

Il 24 agosto, però, per la prima volta i bombardieri tedeschi colpirono Londra, in pieno centro, di giorno. Il giorno dopo Churchill ordinò che la RAF colpisse Berlino. Era una questione non solo militare ma politica, occorreva dimostrare al popolo tedesco che gli inglesi, per quanto feriti, non cedevano, anzi si rialzavano sempre e si battevano; e occorreva dar prova di tale capacità reattiva anche alla gente di Londra. Nelle settimane seguenti, però, i bombardieri tedeschi continuarono a colpire Londra e gli aeroporti della RAF, nonostante gli sforzi dei piloti britannici, che, sui loro Spitfire, incessantemente ingaggiavano, in condizioni di inferiorità numerica, frenetici combattimenti contro quei bombardieri e contro i caccia di scorta a quelli, nel disperato tentativo di contrastare l’opera di devastazione in corso.

Domenica 15 settembre 1940, si diressero verso Londra 230 bombardieri e 700 caccia tedeschi. Arrivarono ad ondate a partire dalla metà mattina. A mezzogiorno circa tutti gli arei da caccia della RAF erano in volo. Se fosse arrivata una nuova ondata di bombardieri tedeschi, non vi sarebbe stato un solo aereo inglese di riserva da far decollare per contrastarla. E la nuova ondata arrivò. Gli aerei inglesi in volo dovevano, quindi, tornare alle basi per rifornirsi e tornare su a combattere.

I tedeschi non la spuntarono sui caccia inglesi. Persero quel giorno 59 bombardieri. Troppi per ripetere un attacco di simili dimensioni.

I bombardamenti continuarono, ma per gli inglesi era chiaro che il momento peggiore era superato.

Un lungo bombardamento senza fine

Il 17 settembre Churchill intervenne ai Comuni:

«Sono sicuro, come lo sono che domani sorgerà il sole, che ne usciremo vittoriosi».

Quel giorno, però, l’esercito italiano, muovendo dalla Libia, aveva invaso l’Egitto, penetrandovi per 60 miglia. Inoltre, la nave passeggeri City of Benares che stava navigando verso il Canada era stata affondata dai siluri tedeschi. 77 bambini e 72 adulti britannici erano stati inghiottiti dall’Atlantico.

Il 17 ottobre, mentre nella sola Londra, erano già stati spazzate via dalle bombe 10.000 civili e gli aerei tedeschi colpivano anche le navi mercantili provenienti nell’Atlantico, per quanto la fiducia degli inglesi si fosse ridestata, il timore di un’invasione tedesca era ancora attualissimo. Il 21 ottobre era stato affondato il 500° mercantile inglese. Erano già andate perse due milioni di tonnellate di merci. Quella sera affondarono altre 41 navi mercantili provenienti dal Canada.

I bombardamenti inglesi su Torino, Monaco di Baviera e Taranto

L’8 novembre la Royal Air Force tentò di demoralizzare il nemico. Attaccò sia Monaco di Baviera che Torino. Qui, per la prima volta, i 12 aerei inglesi che bombardarono la città colpirono gli stabilimenti della FIAT Lingotto. In questa prima fase della guerra, i bombardamenti sulla città sabauda non avevano ancora raggiunto l’intensità che si sviluppò dal 1942, incidendo limitatamente sulla vita quotidiana dei torinesi. I danni erano limitati, come anche il numero delle vittime, ma il bombardamento causò qualche imbarazzo al governo di Mussolini, la cui retorica sull’invincibilità dell’Italia fascista venne intaccata.

Decisamente più importante fu il bombardamento su Monaco di Baviera, anche per il valore simbolico e politico, quindi propagandistico di tale incursione, sulla città in cui si trovava il quartier generale del Partito Nazionalsocialista.

Occorreva, però, alla Gran Bretagna, qualcosa di più del bombardamento sulla Hauptstadt der Bewegung (“capitale del movimento” nazista); peraltro quell’incursione su Monaco di Baviera non era paragonabile a quelle compiute dai tedeschi sulle città inglesi. Ai britannici occorreva una vittoria vera.

Era vero che il 15 settembre i caccia e i bombardieri tedeschi avevano avuto la peggio sul cielo londinese, ma quella sconfitta germanica era stata dovuta ad una reazione difensiva, non ad un attacco aereo britannico. inoltre le bombe tedesche continuavano a distruggere i centri inglesi e ucciderne gli abitanti, senza sosta.

La vittoria per gli inglesi arrivò finalmente l’11 novembre, a Taranto. Si trattò della prima vittoria navale inglese da quando Churchill era primo ministro. Come abbiamo ricordato nel post dedicato a quel fatto, l’attacco sul porto pugliese mise in ginocchio la flotta della regia marina, che Mussolini intendeva impiegare per sconfiggere l’energica difesa opposta dall’esercito greco all’invasione dispiegata dal contingente italiano presente in Albania.

14 novembre 1940: è arrivato il momento di colpire gli italiani

Il 14 novembre Churchill partecipò al funerale di Neville Chamberlain, l’ex primo ministro con cui tanto aveva polemizzato ai tempi del patto di Monaco. Winston Churchill riteneva folle e suicida il tentativo di Chamberlain di trattare con Hitler. Però, rispettava l’onestà e l’amore per la pace che avevano indotto Chamberlain a fidarsi del Fuhrer. Resse, pertanto, il drappo funebre durante le esequie. Poi, tornato a Downing Streett, telegrafò a Sir Archibald Wavell, il comandante delle forze britannica nel Nord Africa:

«È arrivato il momento di assumerci rischi e colpire gli italiani per terra, cielo e mare».

Si riferiva alla Libia, divenuto una colonia italiana a seguito dell’invasione del 1911 (ne abbiamo parlato qui, qui e qui).

14 e 15 novembre: la coventrizzazione di Coventry

Alle 15,50 i servizi di informazione seppero che potevano arrivare i bombardieri tedeschi e che sarebbero stati tanti. È controverso se fosse noto o meno da subito al Primo ministro la destinazione degli aerei tedeschi. Pare probabile che ritenesse che il bersaglio principale fosse Londra.

Furono subito fatti decollare dei bombardieri inglesi per colpire gli aeroporti nel continente da cui sarebbero partiti i bombardieri tedeschi. Anche su Coventry si alzarono in volo i caccia britannici. Questi, nel corso dell’attacco che poi fu dispiegato dall’aviazione tedesca, arrivarono ad essere un centinaio.

Tre ore dopo circa giunsero centinaia di bombardieri tedeschi a ondate. Le difese antiaeree, preallertata dal Ministero dell’Aereonautica, svilupparono un tale fuoco, da costringere i bombardieri germanici a non scendere ad una quota più bassa. Tuttavia, le fabbriche di munizioni di Coventry vennero centrare e anche il centro cittadino con la sua cattedrale, che fu ridotta in macerie.

Le incursioni iniziate, in quella sera di plenilunio (il nome in codice del raid tedesco era “Sonata al chiaro di Luna”), si protrassero fino alle 6.15 del mattino successivo, il 15 novembre 1940.

Alle 2 del mattino la contraerea inglese aveva smesso di sparare per mancanza di munizioni. Le fabbriche erano ridotte ad un ammasso di rovine in fiamme, le vie delle città erano inondate delle macerie degli edifici, Oltre duecento incendi avevano prodotto un unico gigantesco rogo con una temperatura di circa 1.500 °C. Le fiamme rendevano visibile la città agli altri bombardieri in avvicinamento anche a 200 chilometri di distanza.

Vennero uccisi 568 civili soltanto nel centro. Ma il bombardamento, complessivamente, nonostante la popolazione si fosse rifugiata all’inizio dell’attacco nei ricoveri (spesso di fortuna), costò la vita a 1.236 persone e ne ferì, anche gravemente, migliaia. Furono 4.330 le abitazioni distrutte insieme a due ospedali, tre chiese, l’80% delle fabbriche, i rifugi antiaerei, le stazioni ferroviarie e di polizia, gli uffici postali, i cinema e i teatri, tutta la rete dei trasporti tramviari e stradali, le centrali elettriche, la rete di distribuzione del gas e dell’acqua e, come detto, la cattedrale di Coventry, il simbolo della città, risalente al XIV secolo, che fu colpita da 12 bombe incendiarie.

La reazione inglese

Per una settimana i bombardamenti tedeschi colpirono anche Birmingham e Londra. Nella capitale persero la vita 484 civili, mentre 228 furono uccisi a Birmingham.

La rappresaglia inglese colpì Berlino il 16 novembre e il 18 Amburgo, uccidendo 233 civili tedeschi.

 

Notizie buone per Churchill dal fronte Nordafricano

I bombardieri tedeschi continuavano a colpire, e l’8 dicembre anche la Camera dei Comuni fu parzialmente distrutta. Quello stesso giorno, però, Sir Archibald Wavell, Commander-in-Chief Middle East, comunicò che era riuscito a prendere prigionieri in Nord Africa 500 soldati italiani; il giorno dopo scrisse di averne presi altri 7.000, inclusi 3 generali. Il 4 gennaio del 1941, ne venivano catturati altri 45.000 e il 6 gennaio le truppe britanniche di Wawell riuscivano ad entrare nella città libica di Tobruch.

Un mese dopo Wavell faceva prigionieri altri 130.000 italiani e si impadroniva di tutta la Cirenaica.

Churchill, allora, elaborò l’idea di fare della Cirenaica «l’inizio dell’Italia ibera». Secondo, il suo progetto la Gran Bretagna, proprio partendo dalla Cirenaica, doveva staccare gli italiani da Mussolini. Anzi, pensò di inviare circa 5.000 soldati italiani antifascisti in Italia. Il 12 febbraio, però, giunse a Tripoli, al comando dell’Afrikakorps, Erwin Rommel, il generale tedesco che Hitler considerava il suo asso nella manica, con l’ordine di cacciare gli inglesi dalla Cirenaica. Mentre gli italiani in Africa Orientale, venivano sconfitti dalle truppe inglesi e perdevano le colonie dell’Etiopia e della Somalia, l’Afrikakorps alla fine di aprile, in Libia, aveva fatto retrocedere le ormai stremate truppe anglosassoni della Western Desert Force verso il confine egiziano. Iniziava per gli inglesi e gli australiani rimasti a Tobruk un lungo assedio.

La guerra, del resto, era ancora agli inizi. Tante, davvero tante, altre città furono coventrizzate, in Europa come in Asia, nei successivi quattro anni e mezzo.

 

Alberto Quattrocolo

 

Fonti Correlli, I generali del deserto, BUR, Milano, 2001

De Luna, Torino in guerra, in N. Tranfaglia (a cura di), Storia di Torino. Dalla Grande Guerra alla liberazione (1915-1945), Vol. 8, G. Einaudi, Torino 1998, pp. 695-829

Gilbert, Churchill, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, 1992

Patricelli, Marco, L’Italia sotto le bombe. Guerra aerea e vita civile 1940-1945, GLF Laterza, Roma – Bari, 2009

Shirer. (1962), Storia del Terzo Reich, Giulio Einaudi Editore S.p.A., Torino, 1962

www.wikipedia.org

Cos’è questo golpe? Io so

Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).


Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l’aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del “referendum”.
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l’altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l’organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo”, sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il ’68 non è poi così difficile.
Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all’editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.

 

A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi – proprio per il modo in cui è fatto – dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All’intellettuale – profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana – si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al “tradimento dei chierici” è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un’opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all’opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell’Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un “Paese separato”, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.


La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch’essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch’essi hanno deferito all’intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l’intellettuale viene meno a questo mandato – puramente morale e ideologico – ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell’opposizione, se hanno – come probabilmente hanno – prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono – a differenza di quanto farebbe un intellettuale – verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch’essi mettono al corrente di prove e indizi l’intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com’è del resto normale, data l’oggettiva situazione di fatto.
L’intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso – in questo particolare momento della storia italiana – di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l’intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che – quando può e come può – l’impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi “formali” della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico – non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento – deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente – se il potere americano lo consentirà – magari decidendo “diplomaticamente” di concedere a un’altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon – questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.

Pier Paolo Pasolini
Corriere della Sera, 14 novembre 1974.