Irruzione in casa di un Presidente del Consiglio

In quella fine di novembre del 1923, l’ex Presidente del Consiglio dei Ministri Francesco Saverio Nitti stava tornando a Roma con la propria famiglia, ma ad accoglierlo trovò una pessima sorpresa: un nutrito gruppo di fascisti, inviati da Cesare Rossi e dallo stesso Mussolini, stava devastando la sua casa con chiaro intento intimidatorio. Per violare la proprietà privata di una persona tanto in vista quanto il Capo del Governo di tre anni prima, gli squadristi dovevano avere ottimi motivi.

Nitti aveva iniziato ad attirarsi le prime aperte antipatie fasciste quando, da Primo Ministro, entrò in tensione con D’Annunzio: l’occupazione di Fiume, che quest’ultimo aveva realizzato nel 1919 dopo aver raccolto intorno a sé una serie di nazionalisti ed ex combattenti, e la conseguente richiesta di annessione al Regno d’Italia provocarono grosse difficoltà al meridionalista. Unitosi a Mussolini e Alfredo Rocco, il Vate organizzò addirittura una campagna di diffamazione incentrata sull’espressione giuliana cagoia, imputando a Nitti di aver rinunciato alla difesa degli interessi nazionali.

Più avanti, dopo essersi allontanato per un paio d’anni dalla politica, commise l’errore di accettare la proposta di Mussolini e D’Annunzio di formazione di un governo di ‘concentrazione nazionale’: non si avvide subito del pericolo portato dal partito fascista. La marcia su Roma del 28 ottobre 1922 fu però un segno incontestabile del rischio che l’Italia stava correndo, e questo fu finalmente chiaro anche per l’ex Presidente, tanto che, dopo il primo discorso di Mussolini alla Camera, si rifiutò di concedergli la fiducia, a differenza di altri politici come Giolitti e De Gasperi.

L’aperta contestazione dello status quo gli costò diversi atti intimidatori da parti di gruppi fascisti, cosicché preferì allontanarsi momentaneamente dalla capitale. Tornò nella sua regione d’origine, la Basilicata, dove scrisse e pubblicò molto, fino ad aggiudicarsi diverse candidature al Nobel. A Roma lo aspettava tutt’altra accoglienza, come già si è ricordato. Per questo, neanche un anno dopo, si trasferì con la famiglia a Zurigo e, in seguito al discorso del duce di inizio 1925, che inaugurava la ‘dittatura a viso aperto’ del fascismo, a Parigi.

Qui rimase per vent’anni e la sua casa fu a lungo base di un fervido dibattito antifascista, cui parteciparono nomi come Pietro Nenni, Filippo Turati, Carlo Rosselli e Gaetano Salvemini.

«Vi sono altre guerre in preparazione. Il sentimento nazionale, trasformato in nazionalismo, mira alla depressione di altri popoli».

Alessio Gaggero

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Il 29 novembre 1944 si consumava l’eccidio del monte Camulera

Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione.
(Piero Calamandrei, Discorso ai giovani sulla Costituzione nata dalla Resistenza, 1955)

Il 29 novembre si ricorda l’eccidio del Monte Camulera, nei pressi di Murialdo, nell’entroterra savonese, dove nel 1944 le Brigate Nere catturarono e trucidarono cinque partigiani.

La Resistenza al nazifascismo fu molto attiva nell’area, sia sulla costa (alla città di Savona sono state conferite la Medaglia d’Oro al Valor Militare e al Merito Civile), sia sull’Appennino ligure-piemontese.

Durante la Seconda guerra mondiale la città capoluogo subì massicci bombardamenti aerei a causa della presenza di industrie belliche e del porto, riportando gravi danni, specialmente agli antichi quartieri della zona portuale. Particolarmente intenso fu il bombardamento navale del 14 giugno 1940, nel corso del quale Savona fu fatta segno di oltre cinquecento colpi d’artiglieria sparati dalla marina francese; l’evento bellico più grave in assoluto fu il bombardamento da parte di oltre 150 aerei alleati, che, il 30 ottobre 1943, quasi distrusse un intero quartiere nella zona portuale, mieté 116 vittime tra bambini, donne, anziani e provocò un migliaio di feriti; un altro bombardamento alleato avvenne il 12 agosto 1944, e una delle bombe destinate ai vicini depositi petroliferi cadde nella frazione Rocca di Legino, proprio all’ingresso del rifugio antiaereo in cui avevano trovato riparo 41 civili, tutti morti per lo spostamento d’aria provocato dall’esplosione.

Sino alla Liberazione i bombardamenti continuarono e si intensificarono e le difficoltà dovute alla fame, al freddo, alla mancanza di lavoro, si aggiunsero alle rappresaglie, le deportazioni, il terrore, le torture praticate dai fascisti e dagli occupanti tedeschi. Alla popolazione savonese, in quei giorni, mancava tutto: legna e carbone per il riscaldamento, sapone, sale, scarpe, vestiti, copertoni per le biciclette e tutto ciò che poteva servire al sostentamento. La rabbia per le condizioni di vita in cui versava la popolazione, le critiche ormai aperte per la guerra, l’esasperazione per le privazioni, i disagi dello sfollamento, l’insufficienza delle razioni alimentari spinsero i lavoratori ad aderire in massa allo sciopero proclamato il 1° marzo 1944 in tutte le città del Nord Italia.

Tutte le fabbriche si fermarono, così come le attività nel porto, nonostante i lavoratori fossero consapevoli di esporsi a una pesante repressione: anche a Savona, infatti, nei giorni precedenti, il Commissario Prefettizio aveva fatto affiggere un manifesto recante la scritta “Scioperare è un reato da punire con la massima severità”. Gli scioperanti speravano che alla loro astensione dal lavoro potesse seguire un qualche tipo di insurrezione armata ad appoggiare la loro agitazione, ma i tempi non erano ancora maturi e le forze partigiane operanti nel Nord Italia non erano abbastanza strutturate.

Ciononostante, oltre cinquemila lavoratori nell’intera provincia di Savona scesero in piazza, chiedendo migliori condizioni salariali, la fine dell’occupazione nazista ma soprattutto manifestando la loro ostilità nei confronti della R.S.I., che combatteva a fianco della Germania. L’ambasciatore tedesco a Roma, Rahn, aveva ricevuto personalmente da Hitler l’ordine di far deportare il 20 per cento degli scioperanti e, anche se questo provvedimento non fu poi eseguito nella misura indicata per “difficoltà tecniche inerenti ai trasporti” e per il danno che ne sarebbe derivato alla produzione bellica, circa 300 lavoratori savonesi furono dapprima condotti in Questura e da lì, dopo esser stati interrogati presso la sede della G.N.R., furono trasferiti a bordo di camion all’Istituto Merello di Spotorno, una Colonia Elioterapica adibita a campo di concentramento, da dove furono poi deportati nei campi di lavoro in Germania.

L’esasperazione e l’insofferenza della cittadinanza si erano peraltro già manifestate l’anno prima, quando la città intera fu scossa dall’entusiasmo della breve illusione per la caduta di Mussolini, nei giorni immediatamente seguenti al 25 luglio ’43: l’annuncio radiofonico di Badoglio sorprese gli abitanti chiusi nei rifugi antiaerei, ma il giorno successivo un enorme corteo sfilò per le vie e le piazze del centro, unendo lavoratori e cittadini in festa, furono bruciate bandiere e simboli del fascio, la Casa Littoria e le sedi rionali fasciste furono invase. La gioia ebbe breve durata: i militari della Polizia Portuale aprirono il fuoco sui dimostranti, uccidendo due donne e ferendo numerose persone; il giorno dopo, una nuova manifestazione di protesta si concluse in un comizio, dove si distinse, tra gli altri oratori, l’operaio dell’ILVA Angelo Bevilacqua.

Originario del vicino paese di Albisola Superiore, reduce della Grande Guerra, già assessore al Comune di Savona per il Partito Comunista d’Italia, militante antifascista incarcerato per propaganda sovversiva, all’indomani dell’armistizio “Gin” Bevilacqua coordinò il recupero delle armi dalle caserme abbandonate dai militari allo sbando, per raggiungere poi il distaccamento partigiano Stella Rossa nell’entroterra. Col nome di battaglia di Leone, il suo compito fu soprattutto quello di muoversi continuamente tra gruppi partigiani, paesi e case di contadini per assicurare collaborazione, aiuti e collegamenti efficaci: il suo carisma e la profonda convinzione in ciò che faceva lo resero capace di persuadere e incoraggiare compagni e contadini. I testimoni lo ricordano sempre in ordine, ben rasato e vestito di una giacca di velluto verdognola, rispettato da tutti. Era solito girare disarmato. Continuò a svolgere le sue funzioni anche quando, in seguito alla formazione di nuovi e numerosi distaccamenti, divenne Ispettore della IV e V Brigata.

A fine novembre 1944 Leone si trovava presso il comando della V Brigata, quando giunse la notizia di un grosso rastrellamento: anziché fuggire con i compagni, provò a raggiungere il distaccamento “Nino Bori”, che, formato da molti giovani alle prime armi, avrebbe potuto trovarsi in difficoltà, riuscendo ad aiutare alcuni partigiani sbandati a mettersi in salvo; poco dopo fu catturato con alcuni compagni sul monte Camulera, che all’epoca era una base partigiana dalla quale partivano gli attacchi verso i convogli militari tedeschi, dalle Brigate Nere al comando del tenente Ferrari.

Durante l’interrogatorio, al tenente che gli faceva notare che la sua fine era vicina, rispose:

Quello che sta per succedere a me, può succedere a te domani, con una differenza: io so perché muoio, tu non lo saprai nemmeno.

Picchiato e colpito più volte col calcio dei fucili, Leone venne finito con numerosi colpi di arma da fuoco insieme ad altri quattro partigiani.

I corpi furono sepolti provvisoriamente dagli abitanti del luogo in una fossa comune nella neve alta, per essere poi riesumati in primavera e consegnati alle famiglie d’origine; oggi riposano nel cimitero di Zinola, nel Sacrario dei Partigiani che ospita anche gli altri martiri savonesi. Il luogo dell’eccidio è meta di una commemorazione che si tiene ogni anno. “Gin” Bevilacqua è stato insignito alla memoria della Medaglia d’Argento al Valor Militare nel 1945.

Silvia Boverini

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Fonti:
www.isrecsavona.it/pubblicazioni/quaderni/quaderni-savonesi-34.pdf; www.anpi.it; G. Milazzo, “Lo sciopero generale del 1° marzo 1944 a Savona”, www.rsvn.it; www.it.wikipedia.org; “Murialdo ricorda i caduti del Monte Camulera: 70° anniversario”, www.savonanews.it; I. Borgna, “Savona illusa: scatti in città del 26 e 27 luglio 1943”, Quaderni, n. 14, www.isrecsavona.it; P. Calamandrei, “Discorso ai giovani sulla Costituzione nata dalla Resistenza”, Milano, 26 gennaio 1955

Veneto Fronte Skinhead vs Rete Como Senza Frontiere

Tre anni fa, la sera del 28 novembre 2017, una scena surreale ha colpito i membri di un’associazione di Como. Surreale nella misura in cui sembra uscita da un (evidentemente non troppo) lontano passato: una quindicina di persone con maglie nere, che, non invitate, impongono la propria presenza e le proprie parole a una pacifica riunione associativa. Quanti di noi fanno parte di realtà assimilabili, quantomeno formalmente, a Rete Como Senza Frontiere possono facilmente immaginare la situazione.

Mentre si sta discutendo di uno dei punti all’ordine del giorno, suona il campanello. Forse sono i soliti ritardatari che non hanno avvisato. Qualcuno va ad aprire e un fiume di persone si riversa nella stanza con fare militaresco, circondando il tavolo e tutti i presenti. In rispettosissimo silenzio, ascoltano il loro portavoce, che legge un duro messaggio in contrasto netto con i fini dell’associazione che hanno invaso. Qualche insulto e levano il disturbo, senza torcere un capello a nessuno.

Nessuna violenza? La valutazione spetta ai giudici competenti, alla cui attenzione sono stati sottoposti i presunti reati di intimidazione, violazione di proprietà privata e apologia di fascismo. La motivazione alla base del blitz, invece? “La sostituzione del popolo europeo con dei non popoli” sostenuta dai “soloni dell’immigrazionismo a ogni costo“, vale a dire la Rete stessa.

Rimane significativo ciò che dice Annamaria Francescato, portavoce dell’associazione:

Evidentemente diamo fastidio e quindi… bene, però vuole anche dire che il lavoro da fare è molto, perché se loro fanno queste cose vuol dire che si sentono legittimati.

Forse, però, una breccia nel muro nero è stata aperta proprio quella sera, facendo intravedere uno spiraglio di speranza: l’ultima persona ad uscire dalla stanza prende un volantino direttamente dalle mani di un membro di Rete Como.

Alessio Gaggero

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Il 27 novembre 1978 viene ucciso Harvey Milk

Io non volevo essere un eroe, volevo solo essere felice.
(P. Paterlini, “Il mio amore non può farti male – Vita (e morte) di Harvey Milk”)

Il 27 novembre 1978, a San Francisco, il consigliere comunale Dan White, appena dimessosi in aperta polemica con una legge che estendeva la portata del riconoscimento dei pari diritti delle persone omosessuali, si introduce nell’edificio municipale attraverso una finestra aperta del seminterrato, con una pistola e 10 caricatori in tasca; cerca di convincere il sindaco George Moscone a riconfermarlo e, non riuscendoci, gli spara ripetutamente. Pochi minuti dopo, ferisce con tre colpi di pistola il collega consigliere Harvey Milk, finendolo con due colpi a bruciapelo alla testa. Quella sera stessa, dal quartiere di Castro parte un corteo spontaneo di oltre 30 mila persone a lume di candela in memoria dei due rappresentanti cittadini uccisi.

Harvey Milk è ad oggi ricordato come paladino dei diritti civili per le persone omosessuali e la comunità LGBT, ma sarebbe riduttivo incasellarlo in tale categoria perché, come è stato scritto, il suo principale insegnamento è in realtà la determinazione nel manifestare il proprio orgoglio di parlare, di partecipare, di esserci e, prima di tutto, di essere; in tal senso, nella sua vicenda di vita c’è la storia dei diritti civili in America e della città di San Francisco, la storia delle cose dette a caro prezzo, la lotta per vivere una “quotidianità impossibile, perché negata dai guardiani del desiderio”.

Nato a Woodmere (New York) nel 1930 in una famiglia ebraica di origini lituane, laureato in matematica, si arruola nella marina statunitense, da cui è congedato con onore, con un provvedimento che maschera però una delle molte “purghe” di omosessuali nelle forze armate.

Nel 1972 si trasferisce con il compagno a San Francisco, dove apre un negozio di macchine fotografiche nel quartiere Castro, dagli anni Sessanta punto di riferimento per la comunità gay e lesbica di tutto il paese. Qui Milk sente rinascere il bisogno di vivere apertamente la propria vita; nel 1973 si candida per la prima volta come consigliere comunale, convinto della necessità di dare visibilità alla comunità omosessuale, incontrando tuttavia non poche resistenze anche negli stessi ambienti LGBT. La città californiana, all’epoca, incarna un ideale di libertà e apertura nei confronti delle varie sfumature dell’essere umano, offrendo opportunità molto più favorevoli che altrove, ma Milk dovrà tentare per tre volte prima di raggiungere i voti che gli consentiranno di diventare il primo consigliere comunale dichiaratamente gay degli Stati Uniti.

Senza soldi, senza staff e senza particolare esperienza politica, il primo tentativo si rivela un insuccesso: ottiene solo 16.900 voti, la maggior parte provenienti da Castro e altri quartieri più liberali della città. Il suo impegno politico però non si ferma. Nello stesso anno fonda e presiede la Castro Village Association, che ha il compito di sostenere l’economia che ruota attorno alla comunità gay, appoggiando esercizi commerciali e favorendo l’assunzione di lavoratori omosessuali: l’America degli anni ‘70 è profondamente omofobica e, anche a San Francisco, i negozi gestiti da omosessuali sono boicottati e osteggiati dalla popolazione più conservatrice.

Nel 1974 Milk organizza la Fiera di Castro Street, per attirare più consumatori nel quartiere, guadagnandosi così l’appellativo di “Mayor of Castro Street” (sindaco di Castro); l’anno dopo si candida per la seconda volta come consigliere comunale e il suo negozio diventa il centro della campagna elettorale, conquistando il sostegno di tutti i negozianti del quartiere. Il liberale George Moscone viene eletto sindaco e riconosce l’impegno di Milk offrendogli un incarico, nonostante non sia riuscito a essere eletto.

Tra le prime innovazioni del nuovo sindaco vi è la nomina a capo della polizia di Charles Gain, il quale apre il dipartimento anche alle persone omosessuali. Secondo quanto pubblica il New York Times, a San Francisco, negli anni ‘70, risiedono tra i 100 mila e i 200 mila omosessuali, su un totale di 750 mila abitanti. Milk è il più noto esponente della comunità gay e per la terza volta si candida come consigliere, ma perde nuovamente per soli 4.000 voti.

In quegli stessi anni, un movimento cristiano fondamentalista, al grido di “Save our Children” (Salviamo i nostri figli), accusa gli omosessuali di essere un pericolo per la società, forte anche dell’appoggio da parte del senatore conservatore della California, John Briggs, in corsa per la nomina a governatore. Intanto a Castro aumentano le aggressioni e un ragazzo gay muore dopo essere stato accoltellato per il suo orientamento sessuale; alcune settimane dopo, 250.000 persone si radunano a San Francisco per il Gay Pride più numeroso mai organizzato fino ad allora.

Milk prova ancora a candidarsi alle elezioni comunali del 1977. Le sue posizioni diventano più radicali, non si accontenta soltanto del sostegno dei liberali, vuole che i gay siano rappresentati dai gay, per rivendicare eguali diritti e porre fine a secoli di persecuzione. Ma i temi della sua campagna elettorale riguardano anche sovvenzioni per l’assistenza sanitaria, trasporti pubblici gratuiti, la biblioteca civica, i centri diurni di supporto alle madri lavoratrici, la creazione di una commissione cittadina per supervisionare l’operato della polizia, la riconversione a usi civili di strutture militari dismesse, l’introduzione di benefici fiscali per attrarre investitori e recuperare industrie e attività commerciali.

Milk ottiene il sostegno del San Francisco Chronicle e riesce a vincere le elezioni con il 30% dei voti in più rispetto agli altri sei candidati, portando con sé un vento di cambiamento: tutti ora credono che tutto sia possibile. Attorno alla sua figura pubblica si aggregano altre comunità di sconfitti ed emarginati, per motivi etnici, di colore della pelle, di idee politiche, e Milk è consapevole di questo suo ruolo: “Non è la mia vittoria, è la vostra. Se un gay vince, significa che c’è la speranza che il sistema funzioni per tutte le minoranze. Se lottiamo, diamo a tutti una speranza.”.

Come prima cosa fa approvare dal sindaco Moscone una legge per rendere illegale ogni forma di discriminazione basata sull’orientamento sessuale. Durante il Gay Pride del 1978, con quasi 350 mila persone, Milk tiene un famoso discorso, invitando i manifestanti a fare foto, filmare e dichiarare apertamente la propria omosessualità: “Non otterremo i nostri diritti restandocene tranquilli e chiusi in casa […] Stiamo uscendo allo scoperto per combattere le bugie, i miti, le distorsioni, per dire la verità riguardo ai gay, perché sono stanco della congiura del silenzio, e quindi inizierò a parlarne. E voglio che facciate altrettanto. Uscite allo scoperto.”.

L’eloquenza e la crescente notorietà di Milk sono inoltre decisive per bloccare la Proposition 6, supportata dal senatore Briggs, che avrebbe permesso il licenziamento degli insegnanti dichiaratamente gay, solo per il loro orientamento sessuale: dopo un dibattito pubblico in cui Milk si mostra nettamente più convincente, nel novembre 1978 la Proposition 6 viene rigettata dal voto dei californiani, in controtendenza rispetto ad analoghi tentativi di restrizione dei diritti civili, condotti con maggior successo in altre aree degli USA.

Solo pochi giorni dopo, Milk viene ucciso. L’assassino nega la premeditazione e ottiene una pena mite che gli riconosce la seminfermità mentale; secondo molti, la sentenza è motivata dall’omofobia e si scatenano le sommosse notturne note come “White Night Riots”, in cui più di 160 persone finiscono in ospedale. Dan White morirà suicida un anno dopo la scarcerazione.

Harvey Milk credeva fermamente che la politica dovesse rappresentare anche i singoli individui, non solo gli interessi economici, e che dovesse garantire pari opportunità a tutti i cittadini, fornendo al contempo i servizi necessari. Negli anni successivi alla sua morte, l’opinione pubblica statunitense ed europea ha fatto passi avanti, ma la lotta non è finita; la Harvey Milk Foundation, fondata dal nipote Stuart, a tutt’oggi è attiva per contribuire a realizzare la visione di Milk: uguaglianza e autenticità per chiunque, ovunque.

Silvia Boverini

 

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Fonti:
http://milkfoundation.org; www.biografieonline.it; C. Geymonat, “Ucciso Harvey Milk, paladino dei diritti dei gay”, www.riforma.it; P. Paterlini, “Il mio amore non può farti male – Vita (e morte) di Harvey Milk”, Einaudi Ragazzi; www.it.wikipedia.org

Quando il conflitto crea una spirale di violenza senza fine

Un’altra dittatura della prima metà del ‘900 riempie la nostra rubrica: è la volta della Romania di Antonescu, macchiatasi anch’essa di atroci delitti. Quello che ricorre oggi, dopo 81 anni, vede la cattura e l’uccisione di oltre sessanta personalità politiche, come rappresaglia per un omicidio avvenuto in precedenza. Paradossalmente (o forse no), la vasta azione di vendetta non fu espressione di un ordine del despota: la Guardia di Ferro, infatti, agì in piena autonomia, con l’obiettivo di riscattare l’onore del proprio fondatore, ucciso due anni prima per ordine di Re Carlo II.

Quest’ultimo era un forte oppositore della Guardia, partito di estrema destra che prendeva anche il nome di Legione dell’Arcangelo Michele, mentre i suoi membri erano soprannominati Camicie verdi, in ragione della loro divisa. Il monarca, quando ancora ne aveva la possibilità, li mise dunque fuori legge e ne catturò il capo, Corneliu Zelea Codreanu. Ne ordinò altresì la morte, che per lungo tempo fu giustificata da un presunto tentativo di evasione. Quando però, due anni dopo, le Guardie di ferro vennero a conoscenza della verità (non ci fu alcuna tentata evasione), ebbero la possibilità di rivalersi sul nemico, allora molto indebolito.

 

Carlo II fu infatti costretto ad abdicare in favore del figlio il 6 settembre 1940, cosicché il generale Antonescu potesse essere proclamato conducător (equivalente al nostrano duce), assumendo su di sé i poteri di Capo di Stato e di Governo. Vice presidente del Consiglio era all’epoca Horia Sima, successore di Codreanu alla guida delle camicie verdi. Da oppressi a oppressori: senza aspettare il consenso del dittatore, la Guardia di Ferro condannò a morte i prigionieri ritenuti essere in relazione con l’assassinio del proprio fondatore.

Dal canto suo, Antonescu non prese bene questa decisione autonoma e il contrasto si trasformò in ribellione: il conducător fu costretto a chiamare l’esercito per reprimere, ancora un volta nel sangue, i moti d’insurrezione.

Alessio Gaggero

 

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Las Mariposas provarono che il femminile è una forma di dissidenza

Nel 1999 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione 54/134, ha proclamato il 25 novembre “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne”, invitando tutti i governi, le istituzioni, le organizzazioni internazionali e non governative a promuovere ogni anno in quella data attività volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema della violenza di genere.

In realtà, l’Assemblea Generale ha soltanto conferito ufficialità e universalità a questa giornata, poiché la  scelta del 25 novembre è da attribuire ad alcune attiviste latine che, nel 1981, organizzarono a Bogotà il primo incontro femminista Latinoamericano e dei
Caraibi per ricordare il brutale assassino di Minerva, Patria e Maria Teresa Mirabal, che dedicarono la vita a combattere una dittatura sanguinaria, con il nome in codice di Las Mariposas (le farfalle).

Le sorelle Mirabal nacquero tra gli anni Venti e Trenta del Novecento a Ojo de Agua, nella Repubblica Dominicana, da una famiglia benestante; una quarta sorella, Bélgica Adela “Dedé”, mantenne inizialmente una posizione più defilata rispetto alle questioni politiche che in quegli anni scuotevano il paese.

Nel 1930, nella Repubblica Domenicana indebolita da una persistente gravissima situazione sociale ed economica, un colpo di stato aveva condotto a elezioni farsa, con un solo candidato alla presidenza: il generale Rafael Leonidas Trujillo, sostenuto dal gruppo paramilitare “La 42”, che nel corso di una feroce campagna elettorale si occupò di sradicare il dissenso con assalti alle sedi dei partiti d’opposizione, intimidazioni e omicidi. Trujillo divenne così presidente alle elezioni del 24 maggio grazie a minacce e brogli (alle urne si trovarono più voti in suo favore di quanti non fossero gli elettori), instaurando un sistema dittatoriale durato per oltre trent’anni.

La sua dittatura, caratterizzata dall’anticomunismo, dall’ossessione per l’ordine e la disciplina e dal culto della personalità, coincise anche con un lungo e importante processo di industrializzazione e rinnovamento del sistema finanziario del paese, basato sulla repressione degli avversari e sullo sfruttamento della forza lavoro; l’unica formazione politica era il “Partido Dominicano”, gli scioperi furono considerati come “delitti di vacanza” e i lavoratori in lotta incarcerati o assassinati. Il governo di Trujillo è stato ritenuto una tra le dittature latine più feroci dell’età contemporanea, sotto la quale morirono circa 50.000 persone, tra oppositori politici, operai e vittime della propaganda xenofoba anti-haitiana dell’epoca.

La militanza politica delle tre sorelle Mirabal iniziò quando Minerva, la più intellettuale delle tre, il 13 ottobre 1949, durante la festa di san Cristobal organizzata dal dittatore per l’alta società delle province di Moca e Salcedo, aveva osato sfidarlo, sostenendo apertamente la propria opposizione. Quella data segnò l’inizio delle rappresaglie contro Minerva e tutta la famiglia Mirabal, con periodi di detenzione in carcere per il padre e la confisca dei beni per la famiglia.

Minerva mostrò fin da bambina un carattere forte e indipendente e una grande passione per la lettura, il suo paese e la libertà; la sua influenza sulle sorelle fu notevole, soprattutto su Maria Teresa, la più piccola, che la prese a modello e cercò di emularla negli studi, ottenendo un diploma tecnico in Agrimensura. Maria Teresa seguì la sorella sin da giovanissima nella militanza politica, dopo essersi fidanzata con un altro attivista, Leandro Guzmàn, amico del marito di Minerva.

Dopo la conclusione degli studi superiori Minerva chiese ai genitori il permesso di studiare Diritto all’università, suo grande sogno fin dall’infanzia), ma la madre si oppose: conoscendone la veemenza e le consolidate idee politiche, temeva per la sua incolumità; per
consolarla del diniego il padre le permise di imparare a guidare e le regalò un automobile su cui, con grande audacia per i tempi, scorrazzava da sola per tutta la provincia. Nel 1952, all’età di ventisei anni, Minerva riuscì a iscriversi all’Università di Santo Domingo, che frequentò fra divieti e revoche, ma dopo la laurea non le fu consentito l’esercizio della professione.

Minerva, unica donna insieme a Dulce Tejada in un gruppo di uomini, il 9 gennaio del 1960 tenne nella propria casa la prima riunione di cospiratori contro il regime, che segnò la nascita dell’organizzazione clandestina rivoluzionaria Movimento del 14 giugno, il cui presidente fu suo marito Manolo Tamarez Justo, assassinato nel 1963.

Minerva fu l’anima del movimento, a cui aderirono anche le sorelle Maria Teresa e Patria con i rispettivi coniugi. Patria aveva abbandonato gli studi per sposare a sedici anni un agricoltore; molto religiosa e generosa, allegra e socievole, si definiva “andariega”, girovaga, perché amava viaggiare. Era madre di quattro figli e non esitò ad aderire al movimento per “non permettere che i nostri figli crescano in questo regime corrotto e tirannico”.

Il Movimento del 14 Giugno si espanse in tutto il paese, organizzato in nuclei clandestini per operare più efficacemente contro la dittatura. Nel gennaio del 1960 l’organizzazione fu scoperta dalla polizia segreta di Trujillo, il SIM (Servicio de Inteligencia Militar), e molti dei suoi membri furono reclusi presso “la 40” (carcere di tortura e morte). Minerva e Maria Teresa furono incarcerate due volte:
condannate a cinque anni di lavori forzati per avere attentato alla sicurezza nazionale, a causa della cattiva reputazione internazionale di Trujillo per l’attentato al presidente venezuelano Betancourt, furono rilasciate e poste agli arresti domiciliari. Anche i loro mariti e il marito di Patria, Pedro Gonzalez, furono imprigionati e torturati.

L’attivismo delle tre donne aveva ormai attirato l’attenzione del dittatore che, nel corso di una visita a Salcedo, esclamò:

“Ho solo due problemi: la Chiesa cattolica e le sorelle Mirabal”.

Trujillo progettò il loro assassinio in modo da farlo sembrare una disgrazia, per non risvegliare le proteste nazionali e internazionali.

Il 25 novembre 1960 le sorelle Mirabal, accompagnate dall’autista Rufino de la Cruz, andarono a fare visita ai mariti Manolo  e Leandro, trasferiti nel carcere della città di Puerto Plata. L’auto fu intercettata, i passeggeri costretti a scendere e condotti in un luogo appartato, una piantagione di canna da zucchero, dove furono massacrati a botte e bastonate; i loro corpi furono poi rimessi nel veicolo sul quale stavano viaggiando, che venne fatto precipitare da un dirupo per simulare un incidente.

Con la morte delle sorelle Mirabal, Trujillo credette di aver eliminato un problema, ma ciò causò grandi ripercussioni nell’opinione pubblica dominicana (nonostante la censura) e internazionale; ormai inviso all’establishment in tutto il continente, nel 1961 il dittatore fu assassinato con un colpo di fucile mentre transitava in auto alla periferia della capitale Santo Domingo; prima della morte era riuscito, mentre la popolazione era ridotta alla fame, ad accumulare circa 800 milioni di dollari, messi al sicuro in banche straniere.

L’unica sorella sopravvissuta (morirà nel 2014) perché non impegnata attivamente, Dedé, ha dedicato la vita alla cura dei sei nipoti orfani e al compito di custode della memoria delle Mariposas: “Sopravvissi per raccontare la loro vita”; nel 1999 ha pubblicato il libro di memorie Vivas in su jardin dedicato alle sorelle, le cui pagine sono definite come “fiori del giardino della casa museo dove rimarranno vive per sempre le mie farfalle”.

Minerva, Maria Teresa e Patria sono state uccise per le loro idee politiche e perché reputavano un dovere l’esporsi per sostenerle. Sono state uccise perché il loro essere donne irritava il regime: frequentavano l’università, guidavano la macchina, partecipavano a riunioni maschili. Oggi, la loro memoria viene chiamata a simboleggiare tutte quelle donne che subiscono abusi, soprusi, umiliazioni,
violenza fisica o morte.

Nel ricordo della sorella Dedé:

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durante un’epoca di predominio dei valori tradizionalmente maschili di violenza, repressione e forza bruta, dove la dittatura non era altro se non l’iperbole del maschilismo, in questo mondo maschilista si erse Minerva per dimostrare fino a che punto e in quale misura il femminile è una forma di dissidenza”.

Silvia Boverini

Fonti:

A. Foti, “25 Novembre 1960: le ali spezzate delle sorelle Mirabal”, www.terrelibere.org;

F. Rao, “Il 25 novembre: l’eredità storica delle sorelle Mirabal”, www.ecointernazionale.com;

M. Gargiulo, “Sorelle Mirabal”, www.enciclopediadelledonne.it;

www.it.wikipedia.org

Tornando a casa per fare i conti con se stessi.

Uscì quaranta due anni fa Tornando a casa (Coming Home), di Hal Ashby. Negli Stati Uniti arrivò in sala il 2 febbraio del 1978, nelle sale italiane, invece, circa nove mesi dopo, il 24 novembre e piacque alle platee anche al di qua dell’Atlantico[1]. Merito certamente delle sue qualità intrinseche, ascrivibili alla sceneggiatura, alla regia e alle straordinarie performances degli interpreti: Jane Fonda (Sally Hide), Jon Voight (Luke Martin), Bruce Dern (Bob Hyde), Penelope Milford (Vi Munson) e Robert Carradine (Bill Munson) – in nota sono indicati i premi attribuiti al cast artistico e tecnico [2]. Anche la fotografia (di un abilissimo direttore come Haskell Wexler) e la colonna sonora infarcita di canzoni dell’epoca, lo resero un film apprezzato dal pubblico, nonostante il tema scomodo e disturbante[3].

Soprattutto, Tornando a casa colpì seriamente gli spettatori per due risvolti, entrambi politici, seppure in misura e su registri diversi. Uno riguarda il disastroso conflitto in Vietnam, che fu chiamato la “sporca guerra”[4]. L’altro riguarda il rapporto tra i sessi e, in particolare, il rapporto di coppia, con dei cenni non fugaci, di tipo interlocutorio, sull’immagine, sull’identità e sul ruolo della donna e sulla sua emancipazione dagli imperanti modelli maschio-centrici (per chi è interessato alla trama si rinvia a questa nota [5]).

I reduci senza veli di Tornando a casa

Rispetto alla guerra del Vietnam, Tornando a casa, costituì un’opera di rottura: a differenza di molte altre pellicole di quegli anni non era un film di genere (noir, western, musical, bellico o di fantascienza), che indirettamente evocava o esplicitamente rinviava al conflitto nel Sud Est asiatico, Tornando a casa faceva di quella guerra il proprio soggetto [6]. Inoltre, a colpire le platee dell’epoca fu la schiettezza senza filtri con la quale si descrivevano nei dialoghi e si mostravano sullo schermo le conseguenze della guerra sui corpi e sulla psiche dei soldati. Arti amputati, paraplegie, corde vocali recise, virilità persa per sempre, sacche dell’urina piene, incontinenza intestinale: tali effetti erano mostrati o discussi senza reticenze. Ciò dava ai danni dell’esperienza bellica una concretezza e una fisicità inedite per gli spettatori dell’epoca[7].

Tornando a casa non dalla guerra, ma dalla “sporca guerra”

Tornando a casa, inoltre, esplorava anche il senso di colpa, o meglio di vergogna, di chi sapeva di aver ucciso altri esseri umani – soldati, guerriglieri e civili vietnamiti – per motivi che avevano davvero poco a che fare con la difesa libertà.

Tornando a casa come colpevoli e non soltanto come vittime

A differenza di altri Vietnam-movie degli anni Settanta e di gran parte di quelli successivi, Tornando a casa non è assolutorio nei confronti dei soldati americani[8]. Sono, sì, proposti, come vittime della violenza bellica incontrata nelle giungle e nelle risaie vietnamite, dove erano finiti a seguito del “grande inganno” del governo – che ce li aveva inviati come soldati di leva o che li aveva incoraggiati a partire come volontari con la sua propaganda martellante -, ma sono anche proposti come persone responsabili sia di quel che hanno fatto laggiù, sia di quel che è successo a loro. Direttamente responsabili, cioè, di aver commesso atrocità disumane, anche sulla popolazione civile, e corresponsabili della guerra stessa, per non essersi opposti ad essa. Corresponsabili, quindi, per avervi aderito obtorto collo, oppure per averla accettata e avervi partecipato, supportandola, con baldanzoso entusiasmo giovanile o con acritico fervore patriottico. Insomma, responsabili per non aver voluto vedere o capire fino in fondo che si stavano rendendo co-autori di un’ingiustizia senza rimedio.

Tornando a casa per fare i conti con i propri “meccanismi di disimpegno morale”

Il film, pur senza essere un trattato o un filmato d’inchiesta, non ha reticenze nel porre in rilievo, attraverso i dialoghi, il modo in cui gli ex combattenti si rapportano con l’esperienza passata e con le azioni commesse. C’è, così, chi cerca ancora di legittimare se stesso, convincendosi che la propria buona fede lo assolve, perché in fondo stava rispondendo al richiamo patriottico, chi si autogiustifica per aver obbedito agli ordini (in primis la chiamata alle armi), ma vi è anche chi svela i meccanismi auto-assolutori che ha attivato fino a quel momento. Meccanismi di disimpegno morale, li avrebbe definiti Bandura (Bandura, Barbaranelli, Caprara, & Pastorelli, 1996): cioè quei dispositivi cognitivi interni all’individuo, socialmente appresi e costruiti, che liberano l’individuo dai sentimenti di autocondanna e che permettono alla persona di giustificare il proprio comportamento riprovevole, tutelandola da sentimenti di colpa e vergogna. Tra questi, i meccanismi, implicitamente o esplicitamente “denunciati” in Tornando a casa sono:  la «giustificazione morale» dei fini superiori per oscurare la riprovevolezza della condotta compiuta o da compiere;  il «dislocamento della responsabilità», con il quale la responsabilità della condotta è attribuita ad un fattore esterno, ad esempio, ad un’autorità che l’avrebbe imposta; la «diffusione della responsabilità», che consiste nel giustificarsi dicendosi, «ma sì, lo fanno tutti», perciò, si sostiene che si tratta di colpe che, per il fatto di essere di tutti, in definitiva non sono di nessuno [9].

Particolarmente significativo, al riguardo, è il dialogo iniziale, attorno al tavolo da biliardo, in una saletta dell’ospedale tra reduci in sedia a rotella o allettati. Uno di loro, infatti, pur stentando a trovare le parole, si sforza di spiegare a sé stesso e agli altri i meccanismi di difesa con i quali ci si rapporta all’esperienza bellica attraversata. Ma non meno rilevante è il dialogo tra il capitano Bob Hyde e sua moglie Sally, nella stanza d’albergo ad Hong Kong, dove lei lo ha raggiunto mentre è in licenza. Bob le parla delle teste vietnamite, mozzate, che i suoi uomini innalzano sui pali.

Tornando a casa da una guerra senza confini

Un altro elemento posto in rilievo nei dialoghi tra Bob e Sally è una delle caratteristiche peculiari di quella guerra: non esisteva il fronte. Lo scontro a fuoco, l’attacco armato, le bombe potevano colpire i soldati anche nelle retrovie, anche se erano addetti ad attività d’ufficio.

Per questo è particolarmente efficace la scelta degli sceneggiatori di far rientrare in patria Bob a seguito di una ferita alla gamba, procuratasi da solo, involontariamente, con l’M16, camminando sul sentiero, mentre andava a fare la doccia: «Lì devi sempre essere armato. Anche quando vai a fare la doccia… Soprattutto, quando vai a fare la doccia», spiega a Sally e a Vi.

Tornando a casa senza identità

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Per chiudere, non è un merito di poco rilievo il fatto che tutti i personaggi siano persone in cerca di identità.

Sally Hyde

Lo è la protagonista, Sally (e Jane Fonda è davvero impareggiabile nel renderne con sobria misura le diverse sfaccettature), che all’inizio del film accarezza, scaramanticamente la bandiera a stelle e strisce, dopo aver salutato il marito partito per il fronte, ma che ora cerca, con tentennamenti e timori di inadeguatezza, la propria indipendenza da lui e la propria autonomia di pensiero (“un marito” era stata la risposta data al liceo alla domanda su cosa avrebbe desiderato avere con sé, se avesse fatto naufragio su di un’isola deserta). E questa complessità non soltanto rende credibile e toccante il personaggio, ma accentua il significato della scena del rapporto sessuale con il marito Bob, che pare quasi essere pervaso da una sorta di impersonalità da parte di entrambi, nonché le malinconiche e sensuali sequenze della sua prima notte d’amore con Luke Martin. Privato dell’uso delle gambe e reso sessualmente impotente sul piano fisico, è invece capace di procurargli un piacere sconosciuto, facendola sentire per la prima volta titolare del diritto di godere al pari del partner.

Bob Hyde

Non meno complesso e dall’incerta identità è il personaggio di Bob Hyde (uno straordinario e toccante Bruce Dern). Un uomo perbene che, come militare, diventa un killer in divisa, “perbene”, e smarrisce il proprio centro. Costruitosi un’immagine di sé fondata tutta sui valori militari, comincia ad andare in pezzi quando ne riscontra la natura fittizia, illusoria e mendace. È un uomo onesto che scopre le menzogne di cui si è nutrito e che ha contribuito a diffondere. Mostra il dito medio ad un manifestante, ma poi svela a Luke che l’FBI lo ha spiato per il suo impegno anti-Vietnam. Non si capacita del fatto che gli venga assegnata una medaglia, non avendo compiuto alcun gesto di coraggio. «Volevo solo essere un eroe», confessa disperato a Sally, realizzando, ameno in parte, di essersi costruito un falso sé. Ma non sa farsi aiutare da lei, che, del resto, non ha le parole per riuscire a farlo sentire compreso e non sa stargli accanto in silenzio.

Luke Martin

Anche il personaggio di Luke è alquanto sfaccettato. È collerico, spavaldo, provocatorio, ma anche consapevole di avere «un brutto carattere» e profondamente sensibile. È il solo che sa come prendere Billy Munson (il reduce psichicamente disturbato, fratello di Vi, l’amica di Sally) e che riesce a contenerne il dolore e l’angoscia. E nei confronti di Sally è capace non soltanto di farla sentire una donna, ma anche di ascoltarla. Innamorato di sé quand’era un ragazzo (“uno specchio” aveva risposto al liceo alla domanda cosa vorresti avere con te se ti ritrovassi su di un’isola deserta), si trova a fare i conti con un’immagine fisica e mentale di sé totalmente cambiata. Inoltre, ha un sacco di morti da portarsi dietro. E non tutti li ha uccisi per difendere la propria o l’altrui vita, come lascia intendere in alcuni momenti.  Dei tre protagonisti del film è la persona più risolta, ma non è un saggio e neppure riesce ad essere sempre all’altezza della situazione. Ad esempio, nelle sequenze finali, il suo discorso agli studenti, per quanto sincero, rivela un’eloquenza davvero incomparabile con le consapevolezze che ha raggiunto. E tale scelta degli autori evita di conferire al personaggio una statura eroica, conservandone invece, la realtà, umana: è un uomo che, tornando a casa, fa i conti con l’inconsistenza di un’altra frequente, un po’ fasulla e un po’ sincera, scusa. Quella a cui spesso ci aggrappiamo per auto-giustificarci e per tenere a bada il senso di colpa o di vergogna. Quella che più o meno suona così: «non sapevo, non ero consapevole, non avevo capito».

 

https://www.youtube.com/watch?v=x7L9cPxgQno.

 

 Alberto Quattrocolo

Fonti

AAVV., Il Cinema. Grande Storia illustrata, Vol. VIII, De Agostini, Novara, 1982

Stanley Karnow, Storia della guerra in Vietnam, RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano, 1985

Tornando a casa e gli altri film citati

[1] Tornando a casa non fu un successo paragonabile a quello di altre pellicole in circolazione nel nostro paese e altrove in quell’anno – come lo sbanca-botteghino Grease, protagonisti del quale erano un lanciatissimo (dal precedente La febbre del sabato sera) John Travolta e un’adorabile Oliva Newton-John -, però ebbe un ottimo riscontro commerciale.

[2] Entrambi i protagonisti principali (Jane Fonda e Jon Voight) furono premiati con l’Oscar e Voight vinse anche a Cannes. Bruce Dern venne nominato per l’Oscar come miglior attore non protagonista. Il premio andò, tuttavia a Christopher Walken per Il cacciatore, uscito alla fine di quell’anno. Anche Penelope Milford ebbe la nomination all’Oscar come miglior attrice non protagonista, ma non lo vinse (andò alla britannica Maggie Smith, per California Suite). Il regista Hal Ashby fu candidato all’Oscar, che venne, però, assegnato a Micheal Cimino, per Il cacciatore, che complessivamente in quella edizione degli Oscar ricevette 5 premi (a Mcheal Cimino abbiamo dedicato un post su questa rubrica in relazione al suo controverso capolavoro, I cancelli del cielo, 1981). Candidato anche per il migliore montaggio (Don Zimmermann) e battuto nuovamente da Il cacciatore (il premio spettò al montatore Peter Zinner), Tornando a casa ottenne un terzo Oscar per la migliore sceneggiatura originale. Il premio andò al trio di sceneggiatori costituito da Nancy Dowd, Robert C. Jones e Waldo Salt. Costui, in quanto iscritto nel 1938 al Partito Comunista Americano (era la sola forza politica, spiegò, che cercava davvero di contrastare il fascismo e il nazismo in Europa e la sua diffusione negli USA), era finito, nel dopoguerra, sulla lista nera redatta dalla Commissione d’Inchiesta per le Attività Anti-Americane, e fu costretto ad espatriare in Gran Bretagna per evitare più gravi guai giudiziari. Dopo aver lavorato per la TV inglese, rientrò negli USA, quando l’ondata d’isteria anticomunista, scatenata nei primi anni Cinquanta dal senatore repubblicano Joseph McCarthy e dal deputato Richard M. Nixon, era quasi del tutto rientrata. Alla fine degli anni Sessanta, infatti, firmò la sceneggiatura di Un uomo da Marciapiede (1969, di John Schlesinger), che gli valse l’Oscar, quella di Serpico (1973, di Sidney Lumet) e di Il giorno della locusta (1975, di John Schlesinger), prima di entrare nel team degli autori di Tornando a casa, che gli fruttò la nomination a Cannes e l’assegnazione del premio da parte dell’associazione degli sceneggiatori – Writers Guild of America -, ossia il WGA Award. Curiosamente i due film che valsero a Salt l’Oscar furono entrambi interpretati da Jon Voight. Costui, pur figurando come protagonista in altri due degli anni Settanta film apertamente schierati sul fronte contestatario-progressista – ll rivoluzionario (1970), di Paul Williams, e Conrack (1974), dell’ex black-listed Martin Ritt, in mezzo alle quali situa Un tranquillo weekend di paura (1972) di John Boorman -, fu da sempre un dichiarato sostenitore del Partito Repubblicano. Al contrario la sua partner di Tornando a casa, Jane Fonda, come il padre (Henry Fonda), già sostenitrice del Partito Democratico e appartenente all’area progressista di questo, dal 1968, fu sinceramente impegnata nel movimento di protesta contro la guerra in Vietnam, al punto che i suoi detrattori la soprannominarono “Hanoi Jane”. Si era, infatti, recata non soltanto nel Vietnam del Sud, ma anche in quello del Nord per documentare e denunciare la devastazione e l’inutilità dei bombardamenti americani. Aveva, inoltre, sposato l’attivista Tom Hayden, divorziando, in seguito, da lui, ma non dalle sue idee. Jane Fonda, infatti, in quell’edizione degli Oscar del ’79, quando venne premiata per il ruolo di Sally Hyde in Tornando a casa, rilasciò dichiarazioni polemiche verso il film di Micheal Cimino, pur non avendolo ancora visto per intero. Lo accusò di razzismo e di fascismo. Il livello di polemiche attorno a Il cacciatore, del resto era altissimo e procurò anche conseguenze politico-diplomatiche quando venne presentato al festival di Berlino. La delegazione sovietica si ritirò proprio per via del film di Cimino.

[3] Le uniche musiche che si sentono sono, infatti, canzoni di gruppi e cantanti degli Anni Sessanta: Rolling Stones, Beatles, Bob Dylan, Janis Joplin, Buffalo Springfield, Tim Buckley, Steppenwolf, Richie Havens, Simon and Garfunkel, Chambers Brothers.

[4] Gli Stati Uniti, dopo quasi dieci anni di conflitto, ne erano usciti con gli accordi di pace di Parigi del ’73. Il conflitto tra Vietnam del Nord e Vietnam del Sud si concluse poi con l’entrata delle forze nordvietnamite a Saigon il 30 aprile del ’75. Ciò sancì la definitiva e totale vittoria delle forze comuniste in tutta la regione indocinese e il completo fallimento politico e militare dell’intervento americano, ispirato a suo tempo, secondo la cogente logica della “Guerra Fredda”, soprattutto dalla volontà di arrestare la diffusione del comunismo in quell’area come nel resto del mondo. Alla guerra in Vietnam su Corsi e Ricorsi abbiamo dedicato diversi post: uno sull’inizio dell’escalation dell’intervento bellico statunitense, uno sulla strage di My Lai del ’67 ed un altro dedicato all’omicidio di John F. Kennedy.

[5] Sally (J. Fonda), nel 1968 – all’indomani dell’omicidio di Robert F. Kennedy -, dopo la partenza per il Vietnam del marito Bob (B. Dern), capitano dei marines, fa amicizia con Viola (P. Milford), dietista del locale ospedale per reduci, in cui è ricoverato il fratello (R. Carradine) nel reparto psichiatrico. Sally, quasi senza accorgersene, “facendo di necessità virtù”, inizia ad uscire dal ristretto ruolo vissuto fino ad allora di “moglie del capitano”. Si trova a dovere pensare e agire per sé e non più, come aveva fatto fino a quel momento, con la mente rivolta prevalentemente alle esigenze del marito e alla necessità di integrare il menage familiare con i valori, gli schemi e le peculiarità dell’organizzazione militare Questo spaesamento, che un po’ la stimola e un po’ la spaventa, è accentuato dalla necessità di traslocare dalla casa, interna alla base militare, in cui ha vissuto con Bob. Per impegnare il tempo e per rendersi utile, pur conscia della contrarietà di Bob, il quale vorrebbe che lei continuasse a vivere col suo lauto stipendio di capitano e non lavorasse, si offre volontaria come infermiera nell’ospedale per i reduci dal Vietnam. Qui ritrova Luke Martin (jon Voight), già suo compagno al college ed ora reduce dal Vietnam, dov’era andato come volontario. Colpito durante un combattimento alla colonna vertebrale, è stato decorato e congedato con il grado di sergente. Paralizzato dalla vita in giù, è in attesa di poter essere sistemato sulla sedia a rotelle. Dopo uno scontro inziale e alcune interazioni che rivelano l’atteggiamento aggressivo, indisponente e provocatorio di Luke, che l’accusa di fare la volontaria solo per passare il tempo, Sally ne diventa amica. L’amicizia, anzi, dopo un po’ diventa un sentimento di reciproca intesa e attrazione. Sally è sempre più coinvolta nei problemi che devono affrontare i pazienti dell’ospedale. Tenta di denunciare sul giornale dell’organizzazione di volontariato di cui fa parte le carenze di personale, di posti letto e le altre inadeguatezze nella cura e nel sostegno al reinserimento dei reduci – mutilati nel corpo e psicologicamente sofferenti.

Raggiungendo Bob, cui è stata concessa una breve licenza a Hong Kong, sente il disorientamento del marito, il cui patriottismo e i cui sogni di gloria stanno subendo i contraccolpi delle brutalità e della ferocia del conflitto (le racconta che i suoi soldati infilano le teste dei vietcong sui pali). Scoprendo la distanza, muta e sorda, che ormai li separa, rientrata a casa, trascorre la notte con Luke, nel frattempo dimesso dall’ospedale. Per la prima volta prova l’esperienza di un vero appagamento sessuale, di un piacere datole da un partner che proprio nel procurarlo a lei, lo procura anche a sé, pur trattandosi di un fisicamente impotente. Sally inizia, così, un vero e proprio rapporto con lui, tormentato, però, dai sensi di colpa verso il marito, cui vuole ancora molto bene e dall’angoscia e dalla sofferenza di Luke, consapevole che il loro è un amore a termine.

Bob, feritosi accidentalmente ad una gamba, viene rimandato in patria. Luke e Sally si lasciano promettendosi che saranno sempre amici. Per quanto la sua ferita non sia grave, Bob, appena atterrato, appare subito è terribilmente, ma silenziosamente, destabilizzato. Frustrato per non essere diventato un eroe (si è sparato da solo per sbaglio mentre stava andando alle docce), sconcertato dal feroce squallore della “sporca guerra”, realtà che gli sta facendo crollare il mondo sotto i piedi, nei confronti di Sally è ancora più distante di quanto non lo fosse ad Hong Kong, durante la breve licenza. La sera stessa del suo rientro, invece di restare con Sally, che si sforza di farlo sentire accolto, va ad ubriacarsi disperatamente con dei commilitoni, che poi porta a casa. Due agenti dell’FBI, il giorno dopo, lo incontrano nella base miliare e gli mostrano i filmati riguardanti il tradimento della moglie, di cui sono in possesso. Luke, infatti, che settimane prima si era legato per protestare contro la guerra e ai cancelli del centro di arruolamento delle reclute ed era stato arrestato, era pedinato.

[Si consiglia di non proseguire la lettura se non si vuole conoscere il finale del film] Bob prima di tornare a casa va da Luke per informarlo, del fatto che era pedinato dall’FBI e che lui è stato messo al corrente della sua relazione con Sally. Ora, aggiunge, prima di andarsene, sta a sua moglie decidere cosa fare Poi va a casa e prende dalla rimessa un fucile automatico con la baionetta innestata e va a parlare con Sally. È del tutto sconvolto. Parla con Sally – che nel frattempo è stata avvisata telefonicamente da Luke della sua conversazione che ha appena avuto con Bob -, dapprima come inebetito dal dolore, poi con rabbia, quando costei gli dice che si sentiva sola e aveva paura. Soprattutto, Bob non riesce a togliersi dalla testa il Vietnam. È tutto un mondo che sta crollando, lo sconcerta e lo ferisce il fatto che gli diano una medaglia, senza che abbia compiuta alcuna azione eroica.

Luke, preoccupato, nel frattempo è arrivato davanti a casa loro e sentando da fuori le urla di Bob entra in casa. La sua presenza e le sue parole dapprima esasperano Bob, che, poi, però, quando Luke fa cenno ai morti che ha già sulla coscienza, posa l’arma e crolla su una sedia.

Il giorno seguente, Luke parla davanti agli studenti di un liceo, per metterli in guardia dalle bugie della propaganda.  Nel frattempo, dopo una rapida e mesta cerimonia di decorazione, Sally riporta il marito a casa e va con Viola a comprare la carne per il barbecue. Bob, lasciato solo, va in spiaggia, si leva l’uniforme e nudo si getta in mare, nuotando verso il largo. Sally entrando nel supermarket apre una porta in cui c’è scritto “uscita fortunata”.

[6] Vi erano già stati alcuni film in cui i protagonisti erano dei reduci da quella guerra, ma questo era il primo in cui il tema del ritorno in patria dei soldati e del loro interrogarsi sul significato dell’esperienza avuta era trattato in maniera così diretta, schietta e, soprattutto, esclusiva. Anche nel coevo Guerrieri per l’inferno (di Karel Reisz) – proposto anch’esso in concorso al 31° Festival di Cannes quell’anno – il disorientamento post-Vietnam dei personaggi interpretati da Tuesday Weld, Micheal Moriarty e Nick Nolte è alla base del loro precipitare in una vicenda di violenze e di traffici illeciti. Ma si tratta di un noir – molto bello e, soprattutto, originale, per la sua atmosfera disillusa, allucinata e struggente -, i cui rinvii al Vietnam, per quanto espliciti, non esprimono la posizione personale dei personaggi rispetto a quella guerra. Invece, i dialoghi, i sentimenti, i pensieri e le azioni dei protagonisti di Tornando a casa sono sempre, in ogni minuto, condizionati o posti in rapporto con il conflitto vietnamita.

[7] L’unico altro precedente, di impatto analogo, o superiore, a Tornando a casa, era il documentario sui reduci girato da John Huston, Let There Be Light (1945), la cui proiezione, però, fu vietata dalle forze armate, che pure lo avevano commissionato. John Huston, che all’epoca era stato richiamato in servizio dall’esercito, ai rimproveri dei suoi superiori di avere realizzato un film pacifista, replicò: «Signori, se un giorno facessi un film a favore della guerra, voglio sperare che allora mi mettiate davanti ad un muro e mi fucilate». Certo, tra le opere di fiction precedenti a Tornando a casa vi erano stati anche C’è sempre un domani (1945, di Delmer Daves), I migliori anni della nostra vita (1946, di William Wyler) – entrambi grandi successi di pubblico e di critica e, il secondo in particolare, ricoperti di premi – e Anime ferite (1946, di Edward Dmytryk); ma in quelle opere le sofferenze rappresentate erano quelle dei reduci della Seconda Guerra Mondiale, che, per quanto provati e deprivati della vista (C’è sempre un domani), degli arti (I migliori anni della nostra vita) o del loro equilibrio psicologico (tutte e tre le opere citate), venivano accolti come eroi e riconosciuti come combattenti difensori della libertà  della democrazia. Avevano lottato dalla parte giusta. Personaggi, ispirati a persone reali o interpretati da veri reduci, non si maceravano nel dubbio, o non erano afflitti dalla certezza, di aver partecipato ad una guerra che non si sarebbe dovuto combattere.

[8] I film sul conflitto in Vietnam che hanno dato una rappresentazione più sfaccettata dei soldati americani al fronte, mostrando le atrocità da essi commessi, sono stati per lo più prodotti nei decenni seguenti. I più noti sono senza dubbio: Platoon (1985), Nato il 4 luglio (1989) e Tra cielo e terra (1993), tutti e tre di Oliver Stone, che a suo tempo aveva preso parte alla guerra del Vietnam, e Vittime di guerra (1989), di Brian De Palma, che, pur oggetto di forte attenzione mediatica e con attori di sicuro richiamo (Sean Penn e Micheal J. Fox), per le sue sequenze disturbanti, ebbe un successo commerciale inferiore alle attese. L’unica altra opera, tra i film degli anni Settanta, che propone un’immagine ambigua o negativa del reduce del Vietnam è costituita da I visitatori (1972) di Elia Kazan. Un film che, nonostante la firma di un maestro pluripremiato del cinema hollywoodiano e la partecipazione al Festival di Cannes di quell’anno, ebbe, però, una circolazione assai limitata nelle sale cinematografiche. La fonte d’ispirazione del film di Kazan è, peraltro, lo stesso evento reale (il sequestro, lo stupro e l’omicidio di una ragazzina vietnamita da parte di alcuni soldati americani) rappresentato nel successivo Vittime di guerra di Brian De Palma.

[9] Questi e altri meccanismi di auto-legittimazione sono ripetutamente presi in considerazione sia in termini teorici (nei momenti introduttivi) che in termini interlocutori ed esperienziali (in relazione alle simulazioni svolte) all’interno dei percorsi di formazione di Me.Dia.Re. sulla gestione dei conflitti, sulla prevenzione e de-escalation della violenza, nonché nei corsi relativi all’ambito vittimologico e criminologico.

Strage di Bologna: il 23 novembre 1995 arriva la sentenza definitiva

Ci vollero più di quindici anni perché la giustizia potesse fare il suo corso. Oltretutto, come spesso accade, i dubbi permangono tuttora, come abbiamo ricordato in questo articolo sulla strage di Bologna.

Il primo processo dunque, quello che iniziò nel 1987, sette anni dopo l’esplosione. Il primo grado durò un anno: il tribunale della città ferita fece fioccare condanne pesanti, come gli ergastoli per gli autori materiali, affiancate da quelle per calunnia aggravata al fine di assicurare l’impunità agli autori della strage. Quest’ultimo capo d’imputazione fu contestato, tra gli altri, anche a Licio Gelli, il maestro venerabile della Loggia Massonica P2, a cui abbiamo fatto accenno in precedenza.

L’anno successivo si aprì il processo d’appello, chiuso in neanche dodici mesi con assoluzioni e pene ridotte. Come si può facilmente immaginare, la decisione dei giudici di secondo grado destò molte perplessità, e infatti intervenne, un paio d’anni dopo, la Corte di Cassazione:

[la sentenza d’appello è] illogica, priva di coerenza, scarsamente motivata, non ha tenuto conto dei fatti che precedettero e seguirono l’evento e in alcune parti i giudici hanno sostenuto tesi investigative che neppure la difesa aveva sostenuto.

Siamo, a questo punto, nel 1993, quando si riapre il processo d’appello: la sentenza ricalca quella iniziale di primo grado: ergastolo per Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Sergio Picciafuoco (assolto dopo un rinvio in Cassazione); condannati per banda armata Gilberto Cavallini, Valerio Fioravanti, Egidio Giuliani, Francesca Mambro e Sergio Picciafuoco; condannati per depistaggio Giuseppe Belmonte, Licio Gelli, Pietro Musumeci e Francesco Pazienza. Il 23 novembre 1995, la Suprema Corte conferma il giudicato, chiudendo definitivamente il procedimento.

La verità giudiziaria è stata decretata. Quella “stragiudiziale” ha ancora da palesarsi.

Alessio Gaggero

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«Una perdita di futuro» che dura dal 22 novembre 1963

Quel che accadde, a Dallas, il 22 novembre 1963 suscitò negli Stati Uniti uno shock collettivo (1).

La notte di quel 22 novembre 1963 Robert Fitzgerald Kennedy, nella camera da letto che 100 anni prima era stata occupata da Abraham Lincoln alla Casa Bianca, singhiozzava: «Perché, Dio?… Gli innocenti soffrono… Com’è possibile e come può Dio essere giusto?».

«D’improvviso gli era stato tolto tutto»

Il 22 novembre 1963, infatti, a Dallas, suo fratello Jack, cioè John Fitzgerald Kennedy, era stato assassinato (2). Era il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti (sulla rubrica Corsi e Ricorsi abbiamo ricordato la sua elezione avvenuta tre anni e due settimane prima e alcune vicissitudini della sua vita precedente all’assunzione della carica). Lemoyne Billings, un amico d’infanzia dei fratelli Kennedy, ricorda che Bobby si era dedicato in maniera così totale alla carriera del fratello che la sua morte lo aveva lasciato stordito:

«D’improvviso gli era stato tolto tutto».

Anche Jacqueline Bouvier Kennedy era emotivamente distrutta, ma lottò per non essere sopraffatta dal dolore. Il dottor James A. Young, medico della Casa Bianca, che la visitò per tre volte al giorno nei dieci giorni successivi all’omicidio del marito, ricorda che Jackie tentava di restare composta e controllata. Parlava del marito con amore, ne ricordava le ferite alla schiena, esito delle operazioni precedentemente subite, quali simbolo della capacità di Jack di affrontare e sopportare la sofferenza, e pareva aver dissolto ogni risentimento per le sue frequentissime relazioni extraconiugali.

«Il paese è diverso»

Il 22 novembre 1963 Kennedy era atterrato a Dallas. In vista dell’imminente campagna elettorale per le elezioni presidenziali del novembre ’64, aveva deciso di recarsi negli Stati del Sud. Era già stato in Florida il 18 novembre, ora era la volta del Texas. Sapeva che era un contesto ambiguo quello in cui si recava. Una parte rilevante della popolazione gli era ostile, ma egli contava di raccogliere fondi per la campagna e di ricucire alcuni strappi politici. In particolare con il governatore democratico John Connally, il quale, preoccupato per la propria rielezione, era restio ad associare la propria immagine a quella di un presidente che molti elettori locali disapprovavano per il suo sostegno a favore dei diritti civili e contro la discriminazione razziale (3).

Il presidente, poi, era sicuro che, tolti gli estremisti di destra e i razzisti più irrecuperabili, la gente lo avrebbe ascoltato e si sarebbe convinta ad approvare la sua politica e a dargli fiducia per altri 4 anni. Il paese non era quello che pensavano i pezzi grossi della politica e i ricchi, il paese vero era un paese diverso, ripeteva a chi lo sconsigliava dall’andare in Texas.

«Nel paese dei matti»

Tra questi vi era Byron Skelton del Democratic Committee texano, che aveva fatto avere al ministro della Giustizia, suo fratello Bobby, un articolo scritto da un ex generale sostenitore di un’organizzazione di estrema destra, la John Birch Society, che lo prendeva di mira definendolo un pericolo per il mondo libero, cioè per l’Occidente. Skelton pregava Robert Kennedy di convincere suo fratello a non passare da Dallas. Bobby passò la lettera all’assistente e amico di Jack, Kenneth O’Donnell, ma questi sapeva che Jack avrebbe considerato una follia tralasciare una città importante come quella solo per via di un articolo.

Sul Morning News del 22 novembre del 1963, però, fu pubblicato un comunicato proprio della John Birch Society: il presidente e suo fratello, ministro della Giustizia, erano descritti come filocomunisti. L’annuncio era listato a nero.

«Comunque, Jackie, se qualcuno vuole spararmi con un fucile da una finestra, nessuno può impedirlo, perciò perché preoccuparsi?»

Kennedy mostrò il comunicato a sua moglie Jackie e le disse:

«Oggi andiamo nel paese dei matti. Comunque, Jackie, se qualcuno vuole spararmi con un fucile da una finestra, nessuno può impedirlo, perciò perché preoccuparsi?»

Alle 12,30 di quel 22 novembre, mentre viaggiava, con la moglie Jacqueline, con il governatore del Texas, John Connally e la moglie di quest’ultimo Nellie, a bordo della limousine presidenziale, Jack fu colpito da dei colpi di fucile che lo ferirono mortalmente. Quando l’auto scoperta svoltò in Dealay Plaza, infatti, ci furono degli spari in rapida successione. Kennedy e Connally vennero entrambi feriti. Il presidente morì poco dopo in ospedale. Un’ora dopo Lee Harvey Oswald venne arrestato. Fu accusato di avere sparato tre colpi, con un fucile di fabbricazione italiana, il Mannlicher Carcano 91/38 (acquistato poco tempo prima per corrispondenza), dal sesto piano del Book Depository con una carabina italiana, verso l’auto presidenziale. Se non avesse avuto il busto ortopedico, che mantenne Jack in posizione eretta, forse egli ne sarebbe uscito vivo. Il colpo che lo prese dietro la testa, avrebbe potuto non trovare il bersaglio. Alle 13, mezz’ora dopo l’attentato, i medici del Dallas Parkland Memorial Hospital comunicarono a Jackie che il presidente era morto.

Complotto?

Com’è noto, Oswald disse fin da subito di essere un capro espiatorio. Il giorno dopo fu ucciso a colpi di arma da fuoco, nei locali della Polizia di Dallas, da parte di Jack Ruby, che sostenne di avere voluto vendicare l’assassinio del Presidente (4).

Che sia stato davvero Lee Harvey Oswald l’unico autore dell’omicidio o che si sia trattato di una cospirazione è ancora oggi, a 55 anni di distanza, oggetto di discussione e, in qualche modo, di tormento. O, almeno, dovrebbe essere un tormento. Infatti, se si fosse trattato di una cospirazione, ciò dovrebbe costituire un elemento di non poco conto nell’interpretare gli eventi successivi, probabilmente tutti, fino ai giorni nostri, e forse con lo sguardo rivolto non soltanto agli Stati Uniti.

Il biografo Evan Thomas jr sostiene che Bobby a parole accettò l’ipotesi dell’attentatore solitario, fornita dal rapporto ufficiale del governo, ma non smise mai di pensare che l’assassino potesse essere stato opera della CIA, di Sam Giancana, di Jimmy Hoffa (della mafia), di Fidel Castro o degli esuli cubani anti-castristi.

Riguardo a tale ipotesi anche il vicepresidente Lyndon B. Johnson – da quel momento divenuto il 36esimo presidente degli Stati Uniti -, che pure era in aperta frizione con Bobby da sempre, aveva dei sospetti. Kennedy aveva cercato di eliminare Fidel Castro e questi aveva tentato, riuscendovi, di eliminare lui: Johnson formulò tale sospetto considerando che un anno prima il governo aveva scoperto un complotto ordito dalla CIA all’Avana per fare fuori Castro.

«Noi gestivamo una maledetta Omicidi S.p.A. nei Caraibi», ammise LBJ con un giornalista.

Alle 12.30 del 22 novembre 1963, comunque, «era stato tolto tutto» al 46enne John Kennedy, come a sua moglie Jacqueline Bouvier, ai suoi figli di sei e tre anni, ai suoi genitori, alle sue sorelle e ai suoi fratelli. E, in un certo senso, a milioni di persone nel mondo.

«Una speranza eccezionale spezzata di colpo a mezz’aria»

Quel venerdì 22 novembre 1963 non fu un colpo solo per gli statunitensi. L’assassinio di JFK sconvolse milioni di persone in tutti i continenti.

La morte improvvisa e violenta di John Kennedy parve privare gli Stati Uniti e il mondo intero della concreta possibilità di vivere in un futuro migliore. Anche se era presidente da appena 1.000 giorni. Nonostante i diversi errori commessi, specie ma non solo all’inizio del suo mandato, il suo evidente sforzo di costruire rapporti più equilibrati con l’Unione Sovietica, la sua sollecitazione per la limitazione delle armi nucleari e i suoi progetti per garantire a tutti standard di vita più elevati, non lo avevano fatto sentire dalla gente come un politico che retoricamente prometteva pace e prosperità, ma come un uomo mosso da una sincera convinzione interiore. Un umanista intento a procurare progresso e benessere per tutti gli americani e un sostenitore determinato ed equilibrato di un venturo mondo razionale, liberato dalla paura dell’Altro, dall’odio e dalla guerra.

Il filosofo e storico inglese Isaiah Berlin osservò che «la sensazione improvvisa di una speranza eccezionale spezzata di colpo a mezz’aria è, io credo, unica nell’arco della nostra vita. È come se Roosevelt fosse stato assassinato nel 1935, con Hitler, Mussolini e tutti gli altri ancora vivi e una quantità di Chamberlain e Daladier ancora in giro»

Il teologo Reinhold Niebhur affermò: «Non mi ero reso conto di quanto la sua breve e brillante presidenza avesse toccato la l’immaginazione e il cuore della gente comune».

Una presidenza incompiuta

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Quando venne ucciso John Kennedy aveva davanti a sé ancora un anno di lavoro come presidente e, se fosse stato rieletto, il che era assai probabile, ne avrebbe avuti altri quattro. La maggior parte degli storici concorda nel riconoscere che JFK è stato, come minimo, un presidente al di sopra della media. Giudicare la sua presidenza in base a come avrebbe potuto essere, se non fosse stato ucciso, è, tuttavia, un esercizio arduo, troppo condizionato dal favore o dallo sfavore con cui si guarda a questo leader politico, anche a più di cinquant’anni di distanza.

Esiti limitati in politica interna

In politica interna i risultati che egli conseguì furono inferiori a quelli che la sua elezione aveva lasciato sperare.

Le timidezze sui diritti civili

Sul fronte dei diritti civili la sua iniziativa politica fu a dir poco cauta e lenta (ne abbiamo fatto cenno, su questa rubrica, anche rispetto alla sua condotta nei confronti dell’artista afroamericano Sammy Davis Jr). Nonostante i decreti legge approvati e le cause federali intentate contro la segregazione degli afroamericani negli stati del Sud, impiegò troppo tempo a comprendere la reale portata della rivoluzione pacifica promossa da Martin Luther King e, così, rinviò i provvedimenti più radicali che aveva elaborato (5). Pensava che sarebbe riuscito a far passare un vero e proprio statuto dei diritti civili nel secondo mandato, forte della rielezione che gli avrebbe consentito di sconfiggere, con l’aiuto dei repubblicani moderati e liberal, la cocciutaggine segregazionista dei democratici sudisti e dei repubblicani più conservatori.

Ciò lo portò non soltanto a non assecondare le richieste di maggiore incisività provenienti dal reverendo King e dagli attivisti, ma anche le esortazioni di Lyndon Johnson, secondo il quale la Casa Bianca doveva assumere una posizione ferma e chiara sui diritti civili, interpretandola come una questione morale più che politica e, guidando, perciò, una vera e propria crociata per l’affermazione dei fondamentali valori americani, cioè pari diritti e pari opportunità per tutti.

Fallimenti e successi in politica estera

Al centro degli interessi di JFK vi era la politica estera. Questa da sempre lo attraeva notevolmente, e per di più gli eventi internazionali e la guerra fredda non potevano che costringerlo a dedicarvi gran parte delle sue energie.

Dal disastro della Baia dei Porci alla gestione della crisi missilistica a Cuba e al trattato con l’URSS

Anche qui, però, i risultati della sua amministrazione furono eterogenei. Il tentativo di invasione-insurrezione di Cuba, ad opera dei fuoriusciti anticastristi, con l’appoggio della CIA – tale tentativo fallito è noto come la crisi della Baia dei Porci -, costituì indubbiamente un momento oscuro, anzi, criminale e pietoso. Ebbe la lucidità, tuttavia, di resistere a chi lo pressava per un’escalation, sollecitandolo ad inviare le truppe statunitensi per appoggiare gli anti-castristi e rovesciare il governo cubano. Il suo rifiuto di impiegare la forza militare per salvare gli invasori della Baia dei Porci gli procurò l’odio di coloro che si erano aspettati da lui un appoggio a qualsiasi costo contro Castro, ma risparmiò al mondo intero di scivolare in un baratro dal quale sarebbe stato quasi impossibile risalire. Analogamente la gestione della crisi di Berlino, svolta conservando il massimo autocontrollo nei rapporti con il leader sovietico Nikita Krusciov, e ancor di più il modo in cui superò la crisi missilistica a Cuba, risparmiando al mondo intero un olocausto nucleare, gli meritarono lodi incondizionate da tutte le parti.

Sullo stesso registro si colloca il trattato con l’URSS per la messa al bando dei test nucleari, che fu una sua vittoria non soltanto sulla diffidenza dell’ala più dura dei vertici dell’Unione Sovietica, ma anche e soprattutto sulle rigidità dei militari e del Senato americani.

Il rafforzamento dell’impegno militare in Vietnam

La sua gestione della situazione vietnamita non fu altrettanto brillante (6).

L’autorizzazione di Kennedy ad aumentare i consiglieri americani, già inviati a supporto del governo solo nominalmente democratico del Vietnam del Sud, portandoli da poche centinaia a oltre 16.000, pose le basi per la successiva escalation, che degenerò in una lunga, mostruosa, guerra. Inoltre, sia pure con riluttanza appoggiò il colpo di stato vietnamita che portò all’omicidio, che egli non aveva previsto, del presidente Diem. Però, anche rispetto al Vietnam, dopo la morte di Diem, seppe resistere alle pressioni politiche e degli apparati militari che spingevano intensamente verso un graduale intervento bellico a tutti gli effetti. Riuscì anche in quel caso, sia pure in ritardo, a ragionare con la sua testa. Infatti, nonostante le dichiarazioni pubbliche, in cui sosteneva che gli USA non sarebbero mai venuti meno al loro impegno di appoggiare il governo del Vietnam del Sud, aveva deciso che il suo paese non doveva trovarsi incastrato in un conflitto di portata pari a quello coreano concluso dieci anni prima (7).

L’uscita dal Vietnam

Non essendo realmente disposto al pagamento di qualsiasi prezzo per evitare che Saigon cadesse in mano comunista (cioè nell’orbita cino-sovietica), programmò una riduzione della presenza militare americana in Vietnam del Sud. Lo stesso Robert Kennedy circa due mesi prima di quel fatale 22 novembre 1963, nel corso di una riunione con il fratello, gli altri ministri e i vertici militari, aveva fatto presente che se l’avanzata comunista non «poteva essere fermata da qualsiasi tipo di governo» a Saigon, «era giunto il momento di togliersi completamente dal Vietnam». Bobby aveva parlato per sé stesso, ma stava dando voce anche ai pensieri di Jack. Il quale del resto già alla fine del ’62 aveva iniziato a vederci meglio e, diffidente da sempre verso le spavalderie belliche dei vertici militari e dei falchi del Pentagono, comprendeva come quella vietnamita fosse una situazione assai più complessa di come costoro gliela dipingevano caldeggiando di fatto un maggiore impegno nel Sud Est asiatico, foriero di un prossimo intervento militare totale degli USA. Aveva inviato, infatti, in Vietnam, a fare il punto della situazione, Mike Mansfield, cattolico e liberal leader della maggioranza (quindi del Partito Democratico) in Senato. Mansfield gli propose un’analisi schietta: quello era il loro paese, era in gioco il loro futuro e non quello americano, pertanto gli Stati Uniti non potevano ignorare questa realtà se non pagando un prezzo immenso in vite umane. Gli americani, spiegò il senatore a Jack, dovevano alzare i tacchi e andarsene, se non volevano fare, e perdere, una guerra coloniale, come quella combattuta e persa dalla Francia appena alcuni prima proprio contro i nordvietnamiti. E, aggiunse, l’incremento della presenza militare americana andava proprio in direzione di un coinvolgimento bellico. Kennedy criticò il pessimismo di Mike Mansfield, ma poco dopo confidò all’amico e assistente Kenneth O’Donnell:

«Mi sono arrabbiato con Mike per il suo dissenso così completo dalla nostra politica e mi sono arrabbiato con me stesso perché mi sono trovato completamente d’accordo con lui».

22 novembre 1963: un’incalcolabile perdita di futuro

Kennedy, grazie ai successi riscossi nel serrato confronto con l’URSS tanto nella crisi di Berlino quanto in quella missilistica cubana, aveva riscosso una credibilità e un consenso popolare più profondo di quelli che poteva vantare il suo successore Lyndon Johnson. Costui, infatti, si trovò incastrato in quelle logiche conflittuali, di azione e reazione che portarono alla devastante guerra del Vietnam  (su Corsi e Ricorsi abbiamo ricordato “l’incidente del Golfo del Tonchino” del 4 agosto ’64, che “giustificò l’escalation bellica da parte americana in Vietnam e la strage di My Lai). Johnson, del resto, non aveva la scioltezza di John Kennedy nei rapporti con i leader degli altri paesi, né sapeva, al pari di quello, sforzarsi di conoscere e interpretare le istanze, le culture e le prospettive dei loro popoli. Pur essendo un grande negoziatore con i suoi connazionali, o comunque con persone di cui conosceva la mentalità, riuscendo infallibilmente a comprenderne il pensiero e le motivazioni, Johnson fu perfino ingenuo nei suoi tentativi di trovare una soluzione pacifica con Hanoi e, soprattutto, nel non riuscire a capacitarsi di come i nordvietnamiti non fossero disposti ad accettare i dollari americani al posto del loro sogno di unificazione e indipendenza nazionale. Kennedy, invece, aveva iniziato a capire. Tardi, ma aveva iniziato a capire.

Il 28 ottobre del 1962 Jack aveva pronunciato uno dei suoi discorsi più riusciti e toccanti, forse addirittura superiore a quello della cerimonia dell’insediamento. Tra le altre cose aveva detto:

«Che tipo di pace cerchiamo? Sto parlando di una pace vera. Un tipo di pace che rende la vita sulla terra degna di essere vissuta. Non solamente la pace nel nostro tempo, ma la pace in tutti i tempi. I nostri problemi vengono creati dall’uomo, perciò possono essere risolti dall’uomo. Perché in ultima analisi, il legame fondamentale che unisce tutti noi è che abitiamo tutti su questo piccolo pianeta. Respiriamo tutti la stessa aria. Abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli. E siamo tutti solo di passaggio».

Neanche un mese dopo l’agguato mortale del 22 novembre del 1963 Theodore C. Sorensen osservò:

«Moltissime persone hanno notato che la morte del presidente le ha colpite più profondamente della morte dei loro stessi genitori. La ragione, io credo, sta nel fatto che la seconda situazione rappresenta in genere una perdita del passato, mentre l’assassinio del presidente Kennedy ha rappresentato un’incalcolabile perdita di futuro».

 

Alberto Quattrocolo

Fonti

Robert Dallek, John Fitzgerald Kennedy, una vita incompiuta, Arnoldo Mondadori S.p.A., Milano, 2004

John k. Galbraith, Una vita nel nostro tempo, Mondadori, Milano, 1982

Stanley Karnow, Storia della guerra in Vietnam, RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano, 1985

 

(1) Il paese intero fu traumatizzato, destabilizzato quasi come dopo l’attacco giapponese alla base navale di Pearl Harbor del 7 dicembre del ’41 . Si diffuse un’ondata di dolore superiore a quella che era seguita agli omicidi dei presidenti Abraham Lincoln, James A. Garfield e William McKinley e alla morte improvvisa del presidente Franklin Delano Roosevelt nell’aprile del ’45, sostiene Roberto Dallek nella sua biografia su John Kennedy.

(2) Era la seconda volta che Robert Kennedy perdeva un fratello. L’altro, il più grande, il primogenito Joe, era morto in guerra, esploso in volo durante una missione sulla Germania di Hitler, nel ’44. E per quella morte Bobby Kennedy aveva sofferto terribilmente, ma mai quanto il secondo genito di Joseph Patrick Kennedy e di Rose Fitzgerald, i suoi genitori. La morte di Joe, in effetti, aveva sconvolto soprattutto Jack. Mentre quella di Jack distrusse Bobby.

(3) Inoltre, a John Kennedy piacevano le sfide. E sembrava pronto ad affrontarle. La mattina del 21 novembre ebbe un colloquio con Dave Powers. Questi ricordò come quell’uomo di 46 anni gli fosse sembrato più alto del suo metro e 83 cm. Per quanto tormentato dal mal di schiena e dagli altri problemi di salute (di cui abbiamo parlato nel post sopra citato), i suoi 78 kg distribuiti su un fisico da pugile mediomassimo lo facevano apparire il ritratto della salute.

(4) Ruby morì di embolia polmonare, dovuta a un tumore ai polmoni, il 3 gennaio 1967, proprio al Parkland Memorial Hospital.

(5) Inoltre, più di una volta cerò di tenere buoni i razzisti del Sud, nominando alcuni giudici segregazionisti nei distretti federali di quella parte degli USA. Occorsero fatti gravi come le crisi del Mississippi e ancor di più dell’Alabama per indurlo a proporre, cinque mesi prima di essere ammazzato, una proposta di legge sui diritti civili. Si trattava del provvedimento più avanzato mai proposto. Però, anche in quel caso fu disposto ad edulcorarne i contenuti. Credeva che, così ammorbidito, potesse essere approvato da un Congresso in cui i repubblicani e i democratici del Sud erano quanto mai recalcitranti a farsi interpreti della parità dei diritti per gli afroamericani e le altre minoranze. In tal modo, si fece dei nemici mortali tra i razzisti, ma scontentò anche una parte dell’elettorato progressista. I liberal, infatti, solo in parte gli riconobbero l’audacia (e l’indipendenza rispetto agli interessi economici ingentissimi del padre) dispiegata in altri ambiti di politica interna, in particolare, con i provvedimenti proposti per l’eliminazione degli sgravi fiscali di cui godevano i le società petrolifere, che il suo predecessore, il repubblicano Dwight Eisenhower, si era guardato dal toccare. «Dio lo sa come sono queste società petrolifere… Non mi importa se qualcuno ogni tanto la fa franca, ma, Cristo, loro la fanno franca sempre!», spiegò ai suoi più stretti collaboratori. Il Congresso, grazie alla forza delle lobby petrolifere e del gas, nonostante gli appelli pubblici di Kennedy, non fece passare la sua legge. Due mesi prima di quel terribile 22 novembre 1963, la Camera, infatti, approvò, sì, il suo piano progressista di riduzione delle tasse per i ceti medio-bassi, spogliato, però, delle misure riformiste studiate dal suo governo per evitare scappatoie fiscali e produrre maggiori entrate per 4,5 miliardi di dollari. Inoltre, al Senato l’ostruzionismo lo faceva esasperare. E ciò lo induceva a temere che potesse esserci nel 1964 una «bella recessione!». Arrabbiato e frustrato, osservò: «Se non avremo quella maledetta legge sulle tasse, il paese dovrà pagare un maledetto prezzo!». Se è vero, tuttavia che le iniziative riformiste di Kennedy sui diritti civili, sull’assistenza sanitaria, sulla riduzione della pressione fiscale e sui contributi federali all’istruzione non divennero legge durante il suo mandato, è vero che lo divennero sotto la presidenza del suo vice, Lyndon B. Johnson. Costui, da presidente, diede corso al programma progressista di JFK, recuperandolo e integrandolo nel suo programma per le presidenziali del ’64, che denominò Great Society. E vinse, stracciando il candidato repubblicano, il reazionario e ultra conservatore Barry Goldwater.

(6) Era anch’egli condizionato dalla mentalità della guerra fredda e per molto tempo non seppe comprendere fino in fondo le motivazioni granitiche che sostenevano il Vietnam del Nord nella sua lotta per la riunificazione con il Sud. Si trattava, per Hanoi di una lotta in corso da sempre, per l’indipendenza del popolo vietnamita, prima nei confronti dei cinesi, poi dei francesi e infine contro gli USA. Kennedy, invece, soprattutto inizialmente, ragionava in termini di scontro tra Occidente, democratico e capitalista, e Oriente, dispotico e comunista.

(7) Questa decisione di JFk è un elemento centrale per coloro che sono propensi a ritenere che l’agguato mortale del 22 novembre 1963 sia stato organizzato all’interno dei servizi e delle alte gerarchie militari con il supporto, o almeno, con lo stimolo degli industriali del settore bellico.

21.11.17 scoperto il mostro di Gizzeria

Esattamente due anni fa, i carabinieri di Lamezia Terme scoprono una tragedia decennale: un uomo ha segregato l’ex badante della compagna (deceduta) per dieci anni. L’ha costretta a vivere in una serie di appartamenti, impedendole di uscire a contatto col mondo esterno, fino a chiuderla nella baracca dove è stata scoperta dalla forze dell’ordine, a Gizzeria, provincia di Vibo Valentia.

Alla morte della signora che curava, la ragazza, rumena di diciannove anni, è stata resa schiava e costretta a subire le angherie e perversioni dell’uomo, oggi cinquantenne. Per questo lungo arco di tempo, le innumerevoli violenze sessuali hanno portato alla nascita di due figli, una femmina di tre anni e un maschio di nove. Proprio quest’ultimo, durante un controllo stradale della macchina del padre, ha fatto sorgere un dubbio nei carabinieri: la sua condizione eccessivamente degradata li ha spinti a chiedere notizie della madre. Portati sul luogo degli indicibili delitti, hanno compreso la situazione e attivato i servizi: la donna e i bambini sono stati collocati in località protetta, mentre il signore è stato arrestato la mattina seguente.

 

Le condizioni in cui erano costretti a vivere i tre sfortunati emergono chiare dalle riprese dei carabinieri: una baracca di cartoni nel mezzo di un bosco, senza acqua, luce né gas, in condizioni igieniche per cui ogni commento sarebbe inadeguato. La donna non ha mai potuto vedere nemmeno un medico, nemmeno per i parti: le numerose lesioni che lui le causava erano trattate direttamente sul posto, avvalendosi di un filo da pesca per la sutura. Uno degli aspetti più raccapriccianti era forse il costringere il bambino ad assistere alle violenze riservate alla madre.

L’intera vicenda ne ricorda altre tristemente simili, una su tutte il caso Fritzl: in una cittadina austriaca, un padre ha rinchiuso la figlia per ventiquattro anni (tra i 18 e i 42), mettendo al mondo ben sette figli concepiti dalle violenze. La storia ha ispirato prima un romanzo e poi un film, Room, che è valso a Brie Larson numerosi premi, tra cui l’Oscar per la miglior attrice protagonista.

Alessio Gaggero

 

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