4.10.2009, muore Mercedes Sosa, icona della libertà.

Que ha de ser de la vidasi el que canta
no levanta su voz en las tribunas
por el que sufre
(M. Sosa, Si se calla el cantor)

Il 4 ottobre 2009 si spegne a Buenos Aires la cantante folklorica e attivista argentina di fama internazionale Mercedes Sosa. Tre giorni di lutto nazionale, la camera ardente aperta nella sede del Congreso Nacional: una manifestazione di rispetto istituzionale verso un’artista un tempo perseguitata come nemica pubblica e trasformata ora in eroina nazionale.

La sua storia è anche una testimonianza delle vicende più tragiche dell’Argentina del dopoguerra: il regime militare, il susseguirsi di dittature, le decine di migliaia (la stima è ancor oggi incerta) di desaparecidos, la repressione sui settori della società politicamente più attivi, compresi gli artisti. In quegli anni, Mercedes Sosa ha dato voce a uomini e donne messi a tacere dalla violenza, dalla prevaricazione, dall’ingiustizia:

Nella voce di Mercedes – scrive lo scrittore argentino Ernesto Sabato – ci sono mistero, dolcezza, bellezza, malinconia, ma anche la vigliaccheria degli uomini, i bambini orfani, l’urgenza della giustizia, la necessità di una rivoluzione e utopie possibili.

La definirono Cantora del Pueblo, Madre d’America, Pachamama, la voce della terra, ma per la gente sarà sempre e solo “la Negra” (in America Latina la parola ha un’accezione affettuosa). Mercedes nasce a San Miguel de Tucumán, il 9 luglio 1935, da una famiglia molto povera ma serena; canta sin da bambina, in casa, a scuola, alle veglie funebri, alle cerimonie e alle feste di paese, ma detesta esibirsi in pubblico, vergognandosi quando il padre la costringe a farlo. Ciononostante, a un concorso organizzato da una radio locale vince il primo premio e, messi da parte gli indugi iniziali, il padre acconsentirà alla firma del suo primo contratto radiofonico.

Negli anni successivi Mercedes alterna lo studio con le audizioni e l’insegnamento di danze folkloristiche, diventando piuttosto nota dalle sue parti. Nel 1957 sposa il compositore e chitarrista Oscar Matus e si trasferisce a Mendoza, città dell’Argentina centro-occidentale, dove allora si viveva un’epoca di straordinaria effervescenza culturale. Matus, insieme al poeta Armando Tejada Gómez, era uno dei promotori del Nuevo Cancionero, movimento di rinnovamento culturale che aveva per obiettivo il riscatto del patrimonio della musica popolare e il suo adattamento ai nuovi generi e contenuti della società moderna: fino a quel momento,

il folklore era roba di paesaggi, con le canzoni di Matus e Tejada Gómez si scoprì che il paesaggio è importante, ma molto più importante è l’uomo. E, così come cambiò il folklore con l’arrivo di Matus, allo stesso modo cambiò Mercedes e il suo repertorio.

Era necessario affrancarsi dal folclore a buon mercato delle canzonette artefatte, fabbricate su imitazione del repertorio popolare. Era tempo di immaginare un nuovo mondo, di lottare per una società migliore con parole diverse. L’arte, la musica, la canzone, la pittura erano i veicoli attraverso cui mostrare questa nuova realtà, libera e democratica, più giusta e solidale. “El que no cambia todo no cambia nada”: se non si cambia tutto, non si cambia niente. In quegli stessi anni, continui golpe militari minano i governi eletti in Argentina: nel 1955 le Forze Armate rovesciano Perón e stabiliscono la cosiddetta Revolución Libertadora, la Marina Militare bombarda la Casa Rosada, Perón fugge in esilio; cadrà anche il governo di Arturo Frondizi, rovesciato da un golpe militare nel 1962.

In quel periodo Mercedes fa il suo debutto discografico, ma la svolta artistica avverrà nel 1965, al Festival Nazionale del Folklore di Cosquín, dove intona la “Canción del derrumbe indio”, narrando il dolore dell’indigena davanti ai soprusi dei conquistatori bianchi. Al successo si accompagnano le difficoltà nella vita privata, con la separazione dal marito e l’affidamento del figlio ai nonni a Tucumán.

A partire del 1967 inizia una nuova fase nella vita professionale della cantante, che la porterà sui palcoscenici internazionali, e nella vita personale, con l’inizio del rapporto affettivo col suo manager Francisco “Pocho” Mazzitelli, che l’aiuterà a superare l’alcolismo e altre vicende dolorose.

Nel 1969, mentre il paese subisce una nuova dittatura militare, esce l’album “Mujeres Argentinas” dedicato a personaggi femminili della storia nazionale, e Mercedes alterna gli impegni internazionali ai concerti gratuiti e alle registrazioni discografiche. Agli inizi degli anni ’70 escono diversi album importanti sia per la musicalità che per il loro contenuto politico e sociale: brani come “Canción con todos”, “Cuando tenga la tierra” e “Gracias a la vida” diventeranno inni di lotta e di speranza per i popoli dell’America Latina. Nel ’72 canta nel tempio della musica classica, il Teatro Colón, nel ‘73 si esibisce in America Latina, Europa, in Unione Sovietica, assiste a Mosca al Congresso Mondiale per la Pace e a Parigi chiude lo spettacolo della Fête de l’Humanité.

Ma in patria continuano le pressioni e nel 1975, durante il governo di Isabelita Perón, è minacciata di morte dalla Tripla A (l’Alleanza Argentina Anticomunista). II 24 marzo 1976 s’instaura la dittatura di Videla, la più sanguinosa della storia argentina; poco dopo esce l’album dedicato a poeti latinoamericani come Víctor Jara e Pablo Neruda e la censura diventa minaccia: “Ti facciamo saltare sul palco”, dicono le telefonate anonime, mentre migliaia di manifesti invitano la gente di Buenos Aires a non partecipare allo spettacolo; poi una bomba esplode nel bagno della biglietteria del teatro, poco dopo prenderà fuoco la sala più grande. Nonostante la paura, lo spettacolo va in scena per un mese.

A febbraio del ‘78 muore improvvisamente il suo compagno e a ottobre durante un concerto viene arrestata per qualche ora insieme al suo pubblico. La situazione diventa insostenibile: i suoi spettacoli vengono cancellati, la sua voce sparisce dai programmi radiofonici e i suoi dischi vengono ritirati dai negozi. Nel 1979 Mercedes parte per la Spagna: “L’esilio fu il delitto perfetto. Alcuni si esiliarono dentro. Altri […] fuori. Il delitto sta sia dentro che fuori, è perfetto”, dirà.

Fra il ’79 e l’82 si trasferisce a Parigi, poi a Madrid, calcando i teatri di tutta Europa con brani come “Al jardín de la República”, canzone d’amore per la sua terra, o “Todo cambia”, canto di dolore per la lontananza dal suo Paese; la sua voce trasmette speranza alla moltitudine di esiliati nel vecchio continente, ma a dispetto dei trionfi la cantante vive in uno stato di profonda tristezza e solitudine.

Nel 1982, poco prima che la dittatura compia l’ultima carneficina nella guerra delle Falkland/Malvinas, l’artista rientra in Argentina: i concerti al Teatro Ópera di Buenos Aires rimarranno una tappa memorabile nella lotta per la democrazia. Mercedes è affiancata da prestigiosi artisti locali e da un pubblico che, nonostante la paura, affolla la sala per dieci giorni consecutivi; canta una canzone di pace più volte censurata, “Sólo le pido a Dios”, e tutti i concerti iniziano con il brano “Todavía cantamos”, un inno alla resistenza e alla speranza.

Col ritorno della democrazia la cantante rientra definitivamente in patria; nella sua lunga carriera viene insignita di numerosi premi e riconoscimenti internazionali e collabora con artisti di fama planetaria. Considerata la voce più importante dell’America Latina, continuerà a viaggiare per il mondo, dagli Stati Uniti al Marocco, dalla Bolivia a Israele, unendo le doti della sua voce al suo impegno etico per le donne, per la depenalizzazione dell’aborto, contro le dittature, per la verità sui desaparecidos, per la pace e i diritti civili, per l’infanzia con l’Unicef, per la salvaguardia dell’ambiente, lottando al fianco di grandi personalità e degli ultimi della terra, i depredati da tutti, gli indios dell’Amazzonia, di Panama, dell’Argentina.

Nel 2013, pochi anni dopo la sua morte, il ministro della Difesa argentino renderà noto il ritrovamento di centinaia di documenti risalenti al periodo della dittatura di Videla (1976/83), tra cui una lista nera di 331 intellettuali e artisti argentini ritenuti pericolosi per il regime e quindi da eliminare. Mercedes Sosa era tra quei nomi.

Silvia Boverini

Fonti:
M. Venegoni, “Gracias a Mercedes Sosa, La Negra. Guerra alla dittatura con la musica”, www.lastampa.it;
M. Santopadre, “Argentina: scoperta una lista di artisti antifascisti da eliminare”, www.contropiano.org;
R. Braceli, “Mercedes Sosa, la Negra”, ed. Perrone;
C. Ferrari, “Mercedes Sosa, la Cantora del pueblo”,  www.patriaindipendente.it;
A. Langtry, “Mercedes Sosa”, www.enciclopediadelledonne.it

Quando l’Italia portò l’orrore in Etiopia

Mussolini voleva l’Etiopia per dare agli italiani «un posto al sole», della terra e un impero coloniale

 

Benito Mussolini aveva promesso agli italiani «un posto al sole». Aveva promesso un impero. E alle masse dei braccianti, dei senza lavoro, dei contadini che faticavano a sfamarsi aveva promesso terra buona e in abbondanza da coltivare.

Le potenze europee, tutte, avevano colonie in Africa. E, secondo Mussolini, era ingiusto che l’Italia, soprattutto l’Italia fascista, non possedesse un impero coloniale degno di questo nome. Ce l’avevano la Francia e la Gran Bretagna. Non il Regno d’Italia. E lo disse chiaramente Benito Mussolini, arringando una folla oceanica , il 2 ottobre del 1935, tre giorni prima dell’invasione dell’Abissinia[1]. Alla fine della guerra (la Prima Guerra Mondiale), disse, all’Italia, sebbene vittoriosa, «attorno al tavolo della pace esosa non toccarono che scarse briciole del ricco coloniale»[2].

In realtà, l’Italia aveva già la Somalia, l’Eritrea, che era stata una regione dell’Impero Etiope, e aveva la Libia. Ma quelle possedute dall’Italia in Africa erano terre aride, desertiche. Mentre l’Etiopia aveva zolle più fertili.

Per Mussolini, quelle terre africane che erano già in mano agli italiani non bastavano a fare diventare il Regno d’Italia un impero. Occorreva uno spazio più ampio, illimitato, adeguato per chi si sentiva stretto nei confini della penisola.

Il mito imperiale e l’ossessione per le «razze che minacciano la civiltà dell’uomo bianco»

L’Etiopia, oltre ad avere un suolo più fertile, era abbastanza vasta ed era “libera”. Cioè, vi abitavano gli etiopi ed era, insieme alla Liberia, l’unica nazione dell’intero continente africano a non essere stata sottomessa dalle potenze coloniali europee.

Le forze armate italiane, dunque, avrebbero potuto invaderla e sottrarre quelle terre ai loro abitanti, ma senza scontrarsi con le truppe di altre nazioni europee, senza rischiare, quindi, un conflitto incontenibile e insostenibile, oltreché perso in partenza. La conquista dell’Etiopia era l’ideale anche per chi aveva sete di avventure in luoghi esotici. Avventure, però, che non fossero troppe pericolose, dato che si trattava di scontrarsi con un avversario che aveva mezzi, armi ed equipaggiamenti incomparabili con quelli nostrani.

Non vi erano solo ragioni legate alla propaganda, a logiche di politica interna o ad una sorta di individuale e collettivo complesso di inferiorità  – che portava al perseguimento narcisistico, da parte del capo e dei suoi accoliti e fedeli, di un status grandioso e glorioso, riconducibile all’apogeo dell’impero romano.

Vi erano anche altre ragioni: Mussolini, convinto com’era che «il numero è potenza» e, quindi, ossessionato dalla paura per le «culle vuote», temeva che le «razze gialle e nere», aumentando in «numero ed espansione», arrivassero a minacciare, a soffocare perfino, «la civiltà dell’uomo bianco»[3]. Era fermamente convinto che «per l’Italia, come per gli altri Paesi abitati da popoli di razza bianca», si trattasse di «una questione di vita o di morte»[4].

L’Italia ci aveva già provato in Etiopia

L’Etiopia, che aveva respinto anche gli eserciti arabi e turchi, era in amichevoli relazioni con diversi paesi europei.

Non che non ci avessero provato degli europei ad invaderla, a colonizzarla, a “civilizzarla”. Ci avevano provato gli italiani, per la precisione. Circa quarant’anni prima che Mussolini le piombasse addosso, ma gli italiani erano riusciti a prendersi soltanto l’Eritrea.[5].

Dal 1923 l’Etiopia era divenuta membro della Società delle Nazioni. Nel 1930, il reggente ras Tafarì Maconnèn, che aveva ottenuto quell’importante risultato politico-diplomatico, era stato incoronato imperatore col nome di Hailé Selassié e aveva proseguito l’opera di modernizzazione avviata in precedenza.

Il lungo inganno e l’attacco “more nipponico” del 3 ottobre 1935

Nel 1928 il governo di Mussolini aveva firmato con quello di Hailé Selassié un trattato ventennale di amicizia. Dal punto di vista italiano quel trattato non valeva la carta su cui era scritto, tanto che immediatamente il governo fascista autorizzava operazioni di spionaggio e sovversione in territorio etiope [6]. E preparava dei piani per l’invasione [7]

Nel 1934, quindi, era quasi tutto pronto. Incluso un certo non irrilevante entusiasmo o, almeno un consenso crescente, del popolo italiano, che era stato opportunamente martellato con sistematicità da una propaganda, esplicita e implicita, tesa ad infervorarlo per l’avventura, per la conquista, imminente.

Mancava solo un dettaglio, piccolo, ma importante: una scusa. Un argomento da proporre al popolo e all’estero come giustificazione per l’aggressione ad uno stato sovrano, membro per giunta della Società delle Nazioni.

L’incidente di Ual Ual del 5 dicembre del ’34 fu provvidenziale[8]. Si trattava di una di quelle vicende che si sarebbero potute tranquillamente comporre. Ma per Mussolini si trattava del casus belli perfetto. Il 27 dicembre ordinava, quindi, la mobilitazione parziale delle truppe in Eritrea, dove tre giorni prima aveva inviato De Bono, e quella totale in Somalia.

In effetti, già dall’inizio del 1935 il Duce, che aveva deciso di seguire di persona l’impresa etiope, aveva costruito una formidabile macchina da guerra, inviando fino a settembre 498 navi cariche di 4278 automezzi militari, 24500 quadrupedi e quasi 180 mila soldati equipaggiati di tutto punto. Mentre dai porti italiani partivano per l’Eritrea e la Somalia centinaia di cannoni, carri armati, aerei e mitragliatrici, su richiesta dell’Etiopia la Società delle Nazioni costituiva una commissione di arbitrato per dirimere la controversia con l’Italia.

Dieci mesi dopo Ual Ual, tutto era davvero pronto. Il 3 ottobre 1935 iniziò l’attacco, che non fu proceduto da alcuna dichiarazione di guerra.

L’inefficacia delle sanzioni della Società delle Nazioni. Anzi: la loro efficacia come strumento di propaganda interna

L’Italia, dunque, fu denunciata dalla Società delle Nazioni il 6 ottobre 1935 e condannata il 10 dello stesso mese. La condanna consistette nell’adozione, secondo lo Statuto della Società delle Nazioni, di sanzioni economiche: l’embargo su armi e munizioni, la proibizione di concedere prestiti e crediti, il divieto di esportare merci italiane e di importare prodotti per l’industria di guerra.

Le sanzioni, però, nella pratica, non furono affatto tali. La Gran Bretagna lasciò che nel canale di Suez passassero le navi italiane che portavano armi, mezzi e uomini da impiegare contro l’Etiopia, Né, del resto, l’economia italiana accusò il colpo, visto che le sanzioni non riguardavano l’importazione di materie come petrolio, carbone e acciaio di cui aveva principalmente bisogno.

La propaganda del regime, naturalmente, non si fece trovare impreparata. Anzi, le sanzioni furono sfruttate abilmente sulla stampa, alla radio, nei comizi, ecc., per consolidare l’appoggio popolare al regime e alla sua impresa etiope e far apparire l’Italia fascista come vittima anziché come aggressore. Vittime delle «inique sanzioni» imposte dalle «ricche e soddisfatte» nazioni europee.

L’Etiopia stava per entrare nell’Orrore.

«La conquista della terra, – ha scritto Joseph Conrad in Cuore di tenebrache più che altro significa toglierla a chi ha un diverso colore della pelle e il naso un po’ più schiacciato del nostro, non è una bella cosa a guardarla, a guardarla da vicino».

Anche a guardarla dalla distanza di 83 anni, l’occupazione dell’Etiopia da parte dell’Italia non è stata davvero una bella cosa. Non esiste, in effetti, alcuna “impresa coloniale” che non sia stata soltanto o soprattutto, per citare ancora le parole di Joseph Conrad, «pura e semplice rapina armata, omicidio aggravato su vasta scala». Ciò che fecero gli italiani agli etiopi, però, fu anche peggio.

Non soltanto le truppe italiane portarono un uragano di fuoco contro l’esercito etiope, decisamente meno armato e peggio equipaggiato, e contro la popolazione civile, impegnando senza risparmio l’artiglieria, i bombardamenti e i mitragliamenti aerei, ma commisero una serie infinita di crimini contro l’umanità.

Dall’uso dei gas tossici, già da dieci anni proibiti dalla Convenzione di Ginevra, alla distruzione di paesi e villaggi, dall’impiccagione ad altre forme di esecuzione sommaria, dalle rappresaglie alle razzie, nessuna forma di atrocità fu risparmiata al popolo etiope dall’invasore italiano.

Era una guerra di sterminio. Mussolini autorizzava l’uso dei gas tossici sulla popolazione inerme, sul bestiame e sui campi, per farli morire di fame, oltreché asfissiati e ustionati;ordinava di non rispettare i contrassegni della Croce Rossa, consentendo la distruzione di 17 installazioni mediche.

Il Capo del governo, inoltre, autorizzava l’uso di truppe islamiche provenienti dalla Libia – più che inclini a far pagare ad un popolo di religione cristiana (copta), i soprusi patiti in passato dai battaglioni amhara-eritrei, impiegati sempre dagli italiani nell’occupazione della Libia – contando sulla ferocia insista in una guerra di religione.

 

Oh, che bel massacro!

Non furono, però, soltanto Mussolini, Graziani, Badoglio e gli alti ufficiali a spargere, vigliaccamente, atrocità e morte sul popolo abissino. I loro ordini furono eseguiti alla lettera da tutta la scala gerarchica, giù fino all’ultimo soldato semplice. E non con diffusa riluttanza.

Basta leggere le pagine scritte da Indro Montanelli, nel suo XX Battaglione eritreo, o quelle di Alessandro Pavolini, in Disperata,  oppure il Quaderno africano di Giuseppe BottaiVoli sulle ambe di Vittorio Mussolini: non è che emergano, ma sono esplicitati, il più viscerale disprezzo per gli etiopi e l’assenza totale di pietà verso di essi come vittime di violenze e crudeltà, ma proprio  il gusto di ammazzarli, come se il razzismo andasse a braccetto con la propensione per lo sterminio.

Pavolini, ad esempio, che esaltava le gesta della 15° squadriglia di aerei da bombardamento Disperata, sganciava l’iprite sulle forze etiopi, per evitare che sfuggissero al massacro delle armi e dell’artiglieria, non sdegnando di ammazzare anche i contadini che si trovavano nei paraggi. Vittorio Mussolini descriveva la caccia all’uomo, condotta dal cielo, e poi il suo mitragliamento, così come l’incendio dei villaggi e dei campi, sempre con il suo amato velivolo, come «un lavoro divertentissimo». Bottai, non proprio un giovanetto, essendo un quarantenne che aveva già ricoperto la carica di Ministro delle Corporazioni nel governo Mussolini, nel raccontare le sue imprese di distruzione di interi paesi osservava che «i cadaveri di gente nera non commuovono», mentre le macerie delle case sventrate «non stringono il cuore, non fanno nessuna pena». Montanelli, dopo aver descritto l’attacco ad un villaggio etiopico esitato in 67 morti ammazzati e in una razzia degna dei peggiori banditi, concludeva:

«Questa guerra è per noi come una bella e lunga vacanza dataci dal Gran Babbo in premio di 13 anni di scuola. E, detto fra noi, era ora».

Il Gran Babbo cui andava la gratitudine scherzosa di Montanelli era Benito Mussolini.

Parlando dell’attività degli agenti della stazione belga per il traffico di avorio nel Congo, Marlow, il protagonista-narratore di Cuore di tenebra, osservava: «I loro discorsi comunque erano discorsi di sordidi pirati, avventati senza ardimento, avidi senza audacia e crudeli senza coraggio».

 

Alberto Quattrocolo

 

Fonti principali:

Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale II. La conquista dell’Impero, Milano, Mondadori, 2009

Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2014

Nicola Labanca, Una guerra per l’impero. Memorie della campagna d’Etiopia, Milano, Il Mulino, 2005

Denis Mack Smith, Le guerre del Duce, Milano, Mondadori, 1992

Giorgio Rochat, Le guerre italiane in Libia e in Etiopia dal 1896 al 1939, Udine, Gaspari Editore, 2009.

 

[1] È l’antico nome dell’Etiopia.

[2] B. Mussolini, Scritti e discorsi, vol. IX, Dal gennaio 1934 al novembre 1935 Hoepli, Milano, 1935, p.218

[3] B. Mussolini, Scritti e discorsi, cit., p.196

[4] B. Mussolini, Scritti e discorsi, cit., p. 226

[5]  La prima guerra italo-etiopica era stata combattuta tra il 1895 e il 1896 ed era stata vinta dall’impero etiope, che, dopo l’umiliante e sanguinosa vittoria sulle truppe italiane ad Adua (il 1°marzo 1896) – la battaglia costò all’esercito regio 6.000 caduti, 1.500 feriti e 3.000 prigionieri e portò alla caduta del governo Crispi -, aveva perso, sì, l’Eritrea, la sua parte settentrionale, finita sotto il dominio italiano, ma conservò la sua indipendenza. I governi del Regno d’Italia negli anni seguenti, quelli del regime liberale, rispetto al Corno d’Africa, si “accontentarono” di controllare la colonia Eritrea, a nord e la Somalia (prima un protettorato poi una colonia) a sud est. Attraverso la diplomazia il Regno d’Italia continuò a interessarsi dell’Impero Etiope, preoccupando non poco anche i governi francesi e inglesi, ma senza entrare in rotta di collisione con Londra o Parigi e neppure con Addis Abeba. La Francia, va ricordato, teneva per sé, a nord, la piccola Somalia Francese, con capitale Gibuti. L’Impero Britannico si era accaparrato la Somalia Britannica, lungo il confine nordorientale dell’Etiopia, con capitale Berbera. E, se a sud l’Impero Britannico controllava la colonia del Kenya, lungo tutto il confine occidentale vi era il Sudan anglo-egiziano.

[6] Il governatore della Somalia italiana, Guido Corni, infatti, poco dopo, autorizzato da Emilio De Bono, il Ministro delle Colonie, ordinava ad un capitano di introdursi in Etiopia, nella zona orientale, per svolgere attività di spionaggio militare e sobillare la popolazione contro l’Imperatore. A nord, il barone Raimondo Franchetti svolgeva un’analoga attività segreta eversiva, mentre l’ex governatore dell’Eritrea, Jacopo Gasparini, installava un’efficiente stazione di spionaggio e sovversione nella sua azienda agricola eritrea di Tessenei, vicino al confine con il Sudan.

[7] Nel dicembre del 1932, consapevole delle mire del Duce sull’Impero Etiope, De Bono sottopose a Mussolini un progetto per attaccare e conquistare l’Etiopia, ottenendo la promessa di avere il comando supremo delle truppe. Il suo piano fu poi considerato inattuabile, ma non fu scartata l’idea di fondo, che, anzi, era coltivata da Mussolini assai prima che De Bono gli presentasse il piano. Del resto nel febbraio del 1933, il generale di brigata Ferdinando Cona alla Scuola di Guerra svolgeva una conferenza dal titolo Alcune idee sull’impiego delle truppe nel teatro d’operazione eritreo etiopico. Cfr. Scuola di Guerra, Alcune idee sull’impiego delle truppe nel teatro d’operazione eritreo etiopico, riservato, segreto. S.d. 1933, p. 21

[8] Il 5 dicembre 1934 iniziò un violento scontro a fuoco per il possesso 359 pozzi d’acqua, che si trovava in una fascia di territorio etiope, ma relativamente vicina al confine con la Somalia italiana (120 miglia) e illegittimamente occupata dagli italiani fin dal 1926. Dal 1925, infatti, il governatore della Somalia De Vecchi aveva inviato bande di irregolari a stabilirsi a Ual Ual e controllare la linea dei pozzi d’acqua, con l’avallo di Mussolini, e dal 1930 la zona era stata occupata stabilmente dalle truppe coloniali somale italiane, in violazione dei confini stabiliti e ignorando i tentativi di negoziazione condotti dagli inglesi.

02.10.1944, si conclude la rivolta di Varsavia

Ogni abitante deve essere ucciso, senza fare prigionieri. Che la città sia rasa al suolo e resti come terribile esempio per l’intera Europa.
Heinrich Himmler, agosto 1944

Ogni 1° agosto a Varsavia, alle cinque in punto del pomeriggio, risuona l’ululato assordante delle sirene dell’antiaerea. Per un minuto la capitale polacca si ferma completamente. Tram e autobus smettono di circolare e molte vetture accostano ai marciapiedi, mentre le vie si riempiono di persone che sventolano bandiere polacche o indossano fasce biancorosse, tra i bagliori e il fumo di centinaia di bengala.

Gli abitanti della città commemorano così “l’ora W”, ovvero il momento esatto in cui il 1° agosto del ’44 ebbe inizio la resistenza armata agli invasori nazisti, nota come Rivolta di Varsavia. Alle 17.00 l’esplosione di una bomba nel quartiere della Gestapo diede il via all’insurrezione, e quarantamila soldati dell’armata partigiana clandestina (Armia Krajowa, l’Esercito Nazionale Polacco), aiutati da tutta la popolazione, in cinque ore di combattimenti si impadronirono di vaste parti della capitale. Con la Germania in difficoltà su tutti i fronti bellici e l’Armata Rossa alle porte della città, la liberazione sembrò possibile; ma in quei giorni si andavano costruendo gli assetti geopolitici che avrebbero connotato il mondo dopo la fine della guerra, e gli insorti polacchi rimasero intrappolati in una partita più vasta, giocata sopra le loro teste.

La Polonia era occupata militarmente dalla Germania da cinque anni in conseguenza del patto Molotov-Ribbentrop, che, oltre alla non aggressione reciproca, prevedeva anche clausole segrete per la spartizione del territorio polacco tra Germania e Unione Sovietica. Dal 1939 i principali leader politici avevano costituito a Londra un governo provvisorio, che affiancò gli alleati francesi e britannici nella guerra contro i tedeschi: l’esercito, rimasto prevalentemente fedele al governo in esilio, fu impiegato in parte nelle operazioni sui più importanti fronti bellici e in parte nella costituzione dell’Armia Krajowa in patria.

L’Esercito Nazionale clandestino, comandato dal generale Komorowski, fu poco operativo militarmente per la scarsità di armamenti e il timore di rappresaglie naziste contro i civili, ma nel 1944, quando la sconfitta tedesca apparve inevitabile e l’Armata Rossa sovietica penetrò in territorio polacco, il governo in esilio e i vertici militari sentirono la necessità di prendere l’iniziativa. Oltre a voler combattere l’occupante nazista, essi intendevano dimostrare agli Alleati di essere in grado di lottare per liberare la loro patria e conferire alla Polonia, per sottrarsi all’egemonia sovietica, un peso maggiore nelle trattative sul futuro assetto geopolitico mondiale.

I sovietici erano infatti considerati invasori quanto i tedeschi, soprattutto a seguito del genocidio di Katyń del 1940, in cui furono uccisi oltre 21mila polacchi, tra cui molti dirigenti e ufficiali dell’esercito; Stalin negò ogni responsabilità in proposito, attribuendo il massacro ai nazisti, il governo polacco in esilio non gli credette, furono rotti i rapporti diplomatici e Mosca iniziò a supportare invece il c.d. Comitato di Lublino, costituito da comunisti polacchi fuoriusciti.

L’Armia Krajowa, prevalentemente anticomunista, entrò quindi in azione per consegnare ai sovietici la città già liberata, e si venne a creare un paradosso per cui l’astio verso i russi era totale, ma allo stesso tempo si sperava in un loro intervento per scacciare i tedeschi dalla città. Molti storici hanno in seguito valutato come ingenuità politica, se non vera e propria follia strategica, l’aver fatto affidamento al supporto sovietico.

Confidando sul rapido avvicinamento dell’Armata Rossa da est, gli insorti si erano dati l’obiettivo di resistere per una settimana: i combattimenti invece durarono 63 giorni e i sovietici non arrivarono. Nonostante gli appelli all’insurrezione mossi ai polacchi da Radio Mosca e da Lublino, le truppe sovietiche, arrivate il 3 agosto ai sobborghi di Varsavia sulla riva orientale della Vistola, subita una prima sconfitta dalle Panzerdivisionen tedesche smisero di combattere: problemi di rifornimenti insufficienti dopo la lunga offensiva, diranno. Inoltre, i vertici militari e politici moscoviti rifiutarono per sette settimane l’autorizzazione agli aerei inglesi, venuti dal sud Italia al prezzo di enormi perdite, di paracadutare armi e viveri per gli insorti e di atterrare nei loro territori.

Presenti su tutti i fronti di guerra, in Europa, in Africa, in Italia (dove vinsero i tedeschi a Montecassino e liberarono Ancona), i polacchi attesero invano l’aiuto dove si giocava per davvero la loro sorte, a Varsavia.

L’Armia Krajowa godette però del pieno sostegno della popolazione, che costruì trincee e barricate, organizzò comitati spontanei per la distribuzione di cibo, posta e comunicati, per spegnere gli incendi, alloggiare i profughi, curare i feriti e seppellire i morti. L’insurrezione del ’44 fu l’ultima di tante: da centocinquant’anni i polacchi insorgevano contro i più diversi occupanti, ma questa fu la prima che vide il coinvolgimento della cittadinanza, cui si unirono 150 ebrei ungheresi e cecoslovacchi appena liberati da un vicino campo di concentramento. Gli insorti potevano contare su un apporto di circa 40000 combattenti, comprese 4000 donne, ma avevano armi solo per 2500, e affrontavano 15000 soldati tedeschi – che nei due mesi di battaglia arrivarono a 30000 – supportati da carri armati, aviazione e artiglieria.

I tedeschi commisero ogni sorta di crimine di guerra: stupri di massa, uccisioni a sangue freddo di feriti e prigionieri, bombardamenti indiscriminati del centro cittadino, incursioni nell’ospedale, donne e bambini usati come scudi umani.

Dopo sessantatré giorni, 15.200 combattenti polacchi uccisi, 5000 feriti, 15000 prigionieri e 200.000 vittime civili, il 2 ottobre fu siglata la resa: i tedeschi riconobbero agli insorti e ai civili catturati lo status di prigionieri di guerra, tutelati quindi dalla convenzione di Ginevra, ma imposero l’evacuazione della città in previsione dell’esecuzione dell’ordine di totale distruzione di Varsavia. Civili e militari polacchi si consegnarono ai militari tedeschi nell’inerzia di quello stesso esercito sovietico che altrove stava combattendo vittoriosamente contro la Wehrmacht. Circa 55.000 civili furono inviati ai campi di concentramento, altri 150.000 ai campi di lavoro forzato e 700.000 in totale furono costretti ad abbandonare la città.

Varsavia fu saccheggiata, data alle fiamme e rasa al suolo, fabbricato per fabbricato, monumento per monumento, da corpi delle SS sottratti al combattimento per tale scopo. Quando, nel gennaio 1945, l’Armata Rossa entrò finalmente nella capitale abbandonata anche dai tedeschi, gli edifici sulla riva occidentale della Vistola risultavano distrutti all’85 per cento.

L’epilogo della rivolta incrinò i rapporti fra gli Alleati e il governo polacco, che il 3 ottobre rilasciò un comunicato:

Non abbiamo ricevuto alcun sostegno effettivo. […] Siamo stati trattati peggio degli alleati di Hitler in Romania, in Italia e in Finlandia. La nostra rivolta avviene in un momento in cui i nostri soldati all’estero stanno contribuendo alla liberazione di Francia, Belgio e Paesi Bassi. Ci riserviamo di non esprimere giudizi su questa tragedia, ma possa la giustizia di Dio pronunciare un verdetto sull’errore terribile col quale la nazione polacca si è scontrata e possa Egli punirne gli artefici.

Solo nel febbraio ’45, alla Conferenza di Jalta, il governo polacco apprese che Churchill, Stalin e Roosevelt si erano accordati – quasi un anno prima della rivolta – perché la Russia mantenesse i territori polacchi acquisiti nel 1939 e inglobasse il resto della Polonia nella propria orbita. L’NKVD, la polizia politica sovietica che sarebbe diventata il KGB, si diede subito da fare per identificare gli ex membri della resistenza e migliaia di polacchi furono uccisi, deportati o imprigionati. La storiografia occidentale ha a lungo rimosso questo pezzo di storia, unico nel suo genere, in cui un governo fantasma esiliato a Londra e il suo esercito clandestino vennero tenuti vivi e tutelati nel segreto dalla popolazione, che pienamente li appoggiavano.

Nel dopoguerra la città vecchia venne ricostruita identica a come era in precedenza e oggi è riconosciuta come patrimonio dell’Umanità.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.wikipedia.org;
S. Morosi e P. Rastelli, “Varsavia 1944: generosa follia e ferocia impunita”, http://pochestorie.corriere.it;
www.warsawuprising.com;
“La Rivolta di Varsavia (Powstanie Warszawskie), 1° Agosto – 2 Ottobre 1944”, www.quipoloniaeitalia.wordpress.com;
www.anpi-lissone.over-blog.com;
“La liberazione di Varsavia”, www.ilpost.it;
www.eastjournal.net;
L. Berardi, “La resistenza al nazismo esaltata dalla destra polacca”, https://eastwest.eu

Las Vegas, 1/10/17. La più grave sparatoria della storia americana.

La più letale sparatoria mai avvenuta su suolo americano conta 58 morti (escluso l’attentatore) e 851 feriti totali. Una vera e propria strage.

Pensata, con ogni probabilità, proprio per elevare il più possibile il numero delle vittime, considerata la data dello svolgimento dei fatti: la sera del primo ottobre, durante il Route 91 Harvest Festival di Las Vegas, che vedeva assiepate migliaia di persone davanti a un palco all’aria aperta. La dinamica è stata chiarita dagli investigatori, così come l’identità dell’attentatore; ciò che è rimasto nell’oscurità è il movente. A quasi un anno dalla ricorrenza infatti, il 3 agosto 2018, lo Sceriffo di “Sin City” ha confermato il permanere dei dubbi riguardo il perché Stephen Paddock aprì il fuoco sulla folla, 32 piani sotto di lui.

Assiduo frequentatore di casinò, Paddock si trovava nella sua camera presso il Mandalay Bay hotel, che aveva letteralmente riempito di armi: dopo aver sfondato la porta della stanza, le forze dell’ordine trovarono 23 dispositivi e, ovviamente, centinaia di munizioni. L’aspetto ancora più allarmante, però, sarà il ritrovamento, presso la sua abitazione, di altre 19 armi da fuoco, migliaia di munizioni e numerosi esplosivi. In aggiunta, uno degli elementi emersi in seguito, che inasprirà la relativa polemica sul porto legale, fu la modifica che Paddock apportò a due fucili semiautomatici: il bump stock permette, con una spesa relativamente contenuta, di aumentare notevolmente la frequenza dei colpi al secondo, ottenendo, di fatto, una mitragliatrice (la cui vendita, negli Stati Uniti, è illegale dal 1986). Nessuno ti può vendere l’arma intera: i pezzi da assemblare, però, puoi comprarli tranquillamente in negozio.

Dunque, il festival di musica country. Quella sera si sta esibendo Caleb Keeter, come si vede in alcuni video che ancora circolano nella rete. Proprio mentre sta cantando, improvvisamente di sente un rumore ripetitivo, a scatti. Sugli schermi ai lati del palco si vede il cantante girarsi alla sua sinistra, probabilmente allarmato dal rumore stesso. Le immagini si interrompono e inizia la fuga: in pochi attimi, come mostrano i video girati dall’alto, le centinaia di persone assiepate in platea si sparpagliano, ma il rumore non cessa. Paddock continua a sparare, fino a uccidere e ferire il più alto numero di persone della storia delle stragi americane. Più di un’ora dopo sarà ritrovato steso sul pavimento della propria camera: concluse la sua esistenza con un colpo alla testa.

Oscurità, riporta lo sceriffo dieci mesi dopo. Oscurità rispetto ai motivi. Chissà che tipo di oscurità si impadronì della mente di quel signore di 64 anni. Apparentemente tranquillo e benestante, in pensione da qualche anno, Paddock viveva a un’ora di macchina da Las Vegas, dove giocava spesso ingenti cifre e godeva di alcuni benefit ai casinò, come la stanza gratuita e la possibilità di usare il montacarichi dell’hotel. È probabile che fu proprio grazie a queste agevolazioni che riuscì a far entrare indisturbato un tale ammontare di armi nella propria camera.

Come accennato, e come prevedibile, il dibattito sul porto d’armi fu nuovamente innescato da questo triste evento. Se, da un lato, Trump rimandò la questione al dopo indagini, gli oppositori evidenziarono l’urgenza di rivedere la normativa. Il Presidente, aperto sostenitore del secondo emendamento (che garantisce il diritto di possedere armi), vide la campagna elettorale che lo portò alla vittoria, finanziata dalla National rifle association (NRA), grossa fetta della lobby in questione. La sua posizione è sempre stata piuttosto chiara, anche dopo l’investitura, vista la sua partecipazione al congresso annuale della stessa NRA qualche mese prima della strage: rimarcò la volontà di non interferire con il diritto del cittadino americano di possedere armi.

Le invettive contro tale libertà arrivarono da diversi avversari politici, ma non solo. Hilary Clinton, ex Segretario di Stato, parlò chiaramente contro la NRA, incoraggiando il lavoro comune “per provare a impedire che questo succeda di nuovo”. Il democratico Schumer, il giorno seguente, chiese al Congresso di approvare “leggi capaci di vietare le armi, specialmente le più pericolose, perché non finiscano in mani sbagliate”. Chiaro riferimento alla sospensione, firmata da Trump, della norma voluta da Obama: si voleva impedire alle persone con problemi mentali di poter comprare armi. Come accennato, però, non solo deputati e senatori dissero la loro. Il già citato Caleb Keeter, avendo vissuto in prima persona il terrore di quella notte, cambiò radicalmente opinione: da accanito sostenitore del secondo emendamento, dichiarò pubblicamente, e per iscritto, di volere una regolamentazione immediata sull’uso delle armi.

Alessio Gaggero