13.10.1943, l’Italia dichiara guerra alla Germania

ITALIANI! – Con la dichiarazione fatta l’8 settembre u.s., il Governo da me presieduto, mentre annunciava la accettazione da parte del Comandante in Capo delle Armate angloamericane in Mediterraneo dell’armistizio da noi richiesto, ordinava alle truppe italiane di rimanere con le armi al piede, pronte a respingere qualsiasi tentativo di violenza da qualsiasi parte venisse loro fatta.
Con una simultaneità d’azione che evidentemente palesò un ordine superiore da tempo impartito, le truppe tedesche imposero ad alcuni reparti il disarmo, mentre nella maggior parte dei casi passarono decisamente all’attacco. […]
ITALIANI! Non vi sarà pace in Italia finché un solo tedesco calcherà il vostro suolo. Noi dobbiamo, tutti compatti, marciare avanti con i nostri amici degli Stati Uniti di America, della Gran Bretagna, della Russia e delle altre Nazioni Unite. Nei Balcani, in Jugoslavia, in Albania, in Grecia, ovunque si trovino truppe italiane che sono state testimoni di uguali atti di aggressione e di crudeltà, esse devono combattere fino all’ultimo contro i tedeschi. […]
ITALIANI! Vi informo che S.M. il Re mi ha dato l’incarico di notificare oggi 13 ottobre la dichiarazione di guerra alla Germania.
(P. Badoglio, 13 ottobre 1943)

Dopo l’8 settembre e la “fuga di Pescara” della famiglia reale con i vertici politici e militari del regno, ebbe inizio il periodo forse più difficile della storia dell’Italia unita; il territorio fu spezzato in due entità statali, una delle quali – il Regno del Sud – legittima e legittimata anche dalla continuità istituzionale, e l’altra – la Repubblica Sociale Italiana – illegittima e sottoposta al dominio straniero dei tedeschi che, tra l’altro, si erano direttamente appropriati di parte del territorio nazionale (le province di Bolzano, Trento, Belluno, Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana).

Il primo atto politico del governo del Sud fu, appunto, la dichiarazione di guerra alla Germania. In realtà, fra il Regno del Sud e la Germania la guerra già esisteva di fatto, e anche in molte località del Centro-Nord soldati italiani fedeli alla monarchia combattevano contro i tedeschi. La dichiarazione ufficiale era tuttavia indispensabile per poter inviare al fronte, al fianco degli Alleati, i primi raggruppamenti dell’esercito regolare, nonché per consentire all’aeronautica e alla marina di battersi sotto le insegne nazionali. Come disse Eisenhower a Badoglio:

dal punto di vista alleato la situazione può anche restare com’è attualmente, ma per difendere questi uomini, nel senso di farli divenire combattenti regolari, sarebbe assai più conveniente per l’Italia dichiarare la guerra.

Il re aveva cercato in un primo momento di evitare una dichiarazione ufficiale, limitandosi al  riconoscimento dell’alleanza con gli anglo-americani e offrendo una più decisa partecipazione italiana al conflitto. Di fronte però al rigido rifiuto opposto dagli Alleati, i responsabili italiani  avevano dovuto fare marcia indietro e presentare la dichiarazione di guerra alla Germania, come peraltro convenuto nella riunione di Malta, che il 29 settembre aveva specificato le “Condizioni aggiuntive di armistizio con l’Italia” (c.d. “armistizio lungo”).

 

Il re e Badoglio speravano che con tale gesto l’Italia avrebbe potuto evitare le clausole severe della resa incondizionata e magari ottenere la qualifica di alleata; viceversa gli Alleati, pur mantenendo i diritti acquisiti alla firma dell’armistizio, accettarono l’intervento italiano nel conflitto, ma come semplice cobelligerante, ossia riconoscendola come partecipe alla guerra comune ma senza la posizione di eguaglianza giuridica di un alleato: il Regno d’Italia veniva quindi a essere in certo modo subordinato alla volontà e agli interessi degli altri Stati, sia per la condotta della guerra sia per la conclusione della pace.

Con tali premesse, il 13 ottobre 1943 l’Italia dichiarò ufficialmente guerra alla Germania nazista. Le modalità furono alquanto irrituali: l’ambasciatore italiano a Madrid ricevette telegraficamente l’ordine da Badoglio di comunicare all’omologo tedesco che l’Italia si considerava in stato di guerra contro la Germania dalle ore 15 (ora di Greenwich); vedendosi negare un incontro diretto, affidò a un segretario d’ambasciata il compito di recapitare la missiva, e questi la consegnò nelle mani del primo membro della legazione tedesca che aprì la porta, scappando via; rincorso per strada, l’italiano fu costretto a riprendersi la nota; tuttavia, l’ambasciatore italiano concluse che “se i tedeschi hanno ritenuto di dover respingere la nostra nota, vuol dire che l’hanno letta e secondo il diritto internazionale tanto basta perché la dichiarazione di guerra abbia da credersi avvenuta”.

Secondo alcune interpretazioni, peraltro, la dichiarazione di guerra alla Germania non sarebbe stata giuridicamente valida, poiché il governo italiano era “prigioniero” di un esercito (l’anglo-americano) che giuridicamente era considerato, fino all’8 settembre, un nemico-occupante.

Il problema della dichiarazione di guerra non era solo formale, in quanto a questa notifica era legato un sostanziale cambiamento per i membri delle forze armate italiane che si fossero in futuro opposti in armi ai tedeschi, e che fino a quel momento venivano considerati franchi tiratori; altrettanto importante era per gli oltre 600000 militari italiani deportati in Germania, che avrebbero potuto così ottenere lo status di prigionieri di guerra: in realtà ciò non avvenne, poiché coloro che rifiutarono di aderire alla RSI furono definiti Internati Militari (per non riconoscere loro le garanzie della Convenzione di Ginevra) e, dall’autunno del ‘44, “lavoratori civili”, in modo da essere impiegati per lavori pesanti senza godere delle tutele della Croce Rossa.

Sul fronte bellico in Italia, la Marina già collaborava con gli alleati e l’Aviazione si stava riorganizzando negli aeroporti del Sud; delle tre Armi, l’esercito era stato il più colpito dall’armistizio. C’erano nel Sud circa 450.000 uomini che bisognava inquadrare di nuovo se si voleva collaborare attivamente con gli Alleati, inizialmente piuttosto diffidenti nei confronti delle capacità operative dei militari italiani, al punto da suggerirne l’impiego soltanto nelle retrovie.

La prima unità dell’Esercito Cobelligerante Italiano venne formata in un campo di riorganizzazione presso Lecce, con soldati volontari, in parte liberati da campi di raccolta tedeschi. Si costituì il Primo Raggruppamento Motorizzato, che prese parte alle operazioni della Campagna d’Italia accanto alle forze alleate con 295 ufficiali e 5.387 uomini di truppa. Il nuovo esercito ebbe il battesimo del fuoco nella battaglia di Montelungo (dicembre ’43), subendo gravi perdite e un alto numero di dispersi, ma guadagnandosi il rispetto degli Alleati.

Progressivamente ingrandito, fu in seguito inquadrato come Corpo Italiano di Liberazione e alla fine del 1944, a seguito del parziale sfondamento della Linea Gotica, fu ricomposto sotto forma di sei Gruppi di combattimento, otto divisioni ausiliarie e tre divisioni di sicurezza interna. Nel corso dei mesi di guerra, da poche migliaia di persone l’esercito italiano arrivò a contare più di mezzo milione di soldati (400.000 dell’Esercito, 80.000 della Marina, 35.000 dell’Aeronautica); i soldati italiani combatterono al fianco degli Alleati in Abruzzo, Lazio, Marche, Toscana, fino alla grande offensiva dell’aprile ’45 in Emilia Romagna.

 

Ma in quell’ottobre 1943, la dichiarazione di guerra alla Germania non fu accolta bene in Italia: né dalla popolazione, stremata dal tributo di sangue già versato nel conflitto; né dalle forze antifasciste, che non riconobbero autorità decisionale al “re fellone con la camarilla regia” fuggiti al sud; né dal Comitato Centrale di Liberazione Nazionale, in clandestinità a Roma, che approvò all’unanimità un documento, con il quale veniva rifiutata ogni possibile collaborazione con il Governo Badoglio, esigendo la sospensione dei poteri della monarchia.

Quanto allo spirito dei militari in quello scorcio di tempo, così lo descrisse il generale Luigi Vismara, capo di Stato Maggiore del generale Dapino, comandante il I Raggruppamento Motorizzato:

Per comprendere lo stato d’animo di questi soldati bisogna pensare che essi erano stati testimoni del disastro in cui l’Italia era stata trascinata dalla guerra. Erano incerti sull’avvenire riservato al proprio Paese, erano guardati con diffidenza e con punte di malanimo, comprensibili, del resto, da parte dei soldati alleati. Anche la popolazione certe volte li considerava con un sorriso di benevolo compatimento. Quelli, ed erano molti, che avevano le loro famiglie al Nord, pensavano che prima di vederle libere, queste, dovevano subire ancora tutte le conseguenze della guerra. In tali condizioni non si può dire che i soldati fossero animati da entusiasmo. I loro sentimenti erano diversi; capivano tutti che bisognava fare qualche cosa qualunque fosse il destino che ci era riservato, che le popolazioni che man mano sarebbero state raggiunte dalla linea di combattimento che si spostava verso il nord, dovevano vedere anche qualche soldato italiano. Essi in un momento oscuro e triste, certo forse il più oscuro e più triste della storia recente del nostro Paese, hanno compiuto il loro dovere quando il non compierlo era facile e senza pericolo.

Silvia Boverini

Fonti:
“11 settembre 1943: il regno del Sud cominciava a vivere”, www.anpi-lissone.over-blog.com;
“L’esercito italiano nella guerra di liberazione: appunti e ipotesi per la ricerca”, www.italia-resistenza.it;
G. Magnoni,  “Il tramonto di un regno”, www.ilpostalista.it;
www.storiaxxisecolo.it;
www.wikipedia.org;
www.anpi.it

12 ottobre 1984, Margaret Thatcher sopravvive a un attentato dell’IRA

La Lady di ferro e il suo gabinetto alloggiavano al Grand Brighton Hotel in occasione di un congresso del partito conservatore. A notte fonda, erano quasi le tre, esplose la bomba. I vigili del fuoco di Brighton elogeranno l’ottima struttura dell’edificio vittoriano, che accusò il colpo mostrando una ferita profonda, un ampio solco nella facciata, ma rimanendo stoicamente in piedi. Probabilmente, molte vite furono salvate dalla maestria di chi aveva progettato ed eretto quell’imponente palazzo.

L’attacco fu immediatamente rivendicato dall’ala Provisional dell’IRA (Esercito Repubblicano Irlandese):

La signora Thatcher ora comprenderà che la Gran Bretagna non può occupare il nostro paese e torturare i nostri prigionieri e sparare alla nostra gente nelle sue strade e passarla liscia. Oggi siamo stati sfortunati, ma ricordate che abbiamo bisogno di essere fortunati per un solo giorno. Voi dovrete esserlo sempre. Date pace all’Irlanda e non ci sarà più guerra. (T.d.a.)

 

La risposta di Thatcher non deluse i fan più accaniti:

Questa è la portata dello sdegno che tutti abbiamo condiviso, e il fatto che siamo qui riuniti oggi – scioccati, ma composti e determinati – è il segno non solo del fallimento dell’attacco, ma del fatto che tutti i tentativi di distruggere la democrazia col terrorismo falliranno. (T.d.a.)

Il Primo ministro inglese, infatti, non cancellò né il suo intervento, né il congresso: come da programma, alle 9.30, circa sei ore dopo l’attentato, si ergeva davanti alla platea, affermando di aver assistito a “un tentativo di mutilare il Governo democraticamente eletto di Sua Maestà”. Cinque persone aveva perso la vita quella stessa mattina.

In dieci, invece, morirono a causa del braccio di ferro con Thatcher, circa tre anni prima: alcuni membri dell’IRA, prigionieri nelle carceri inglesi, iniziarono uno sciopero della fame per vedersi riconosciuto lo status di prigionieri politici, precedentemente revocato. Il Primo ministro non cedette e, appunto, in dieci non superarono lo sciopero. Ancora una volta, aveva confermato l’appropriatezza del suo soprannome.

Alessio Gaggero

 

La lettera di Einstein sulla ricerca nucleare arriva a Roosevelt l’11.10.39

L’11 ottobre 1939, fu Alexander Sachs a portare al Presidente americano la lettera firmata dal famoso fisico. In effetti, non fu un’iniziativa del solo Einstein, ma furono coinvolti diversi studiosi. Durante la prima metà del 900, infatti, la ricerca sulle dinamiche atomiche e subatomiche viveva un periodo di grande fermento in buona parte del mondo scientifico: Inghilterra, Danimarca, Germania, Stati Uniti e anche Italia, con Enrico Fermi e la scoperta degli isotopi. Fu, tuttavia, un gruppo di scienziati ungheresi espatriati in Inghilterra a rendersi conto del pericolo che il mondo stava correndo e a muoversi di conseguenza: in mano a nazisti e fascisti, il teorizzato (ma, di lì a poco, reale) potere della reazione a catena di fissioni nucleari avrebbe permesso loro di vincere facilmente la guerra.

Per questo motivo, gli Ungheresi, guidati da Leó Szilárd, si rivolsero ad Einstein: la sua autorevolezza, unita alla conoscenza personale della regina del Belgio, avrebbe impedito la vendita dell’uranio (elemento costitutivo delle future bombe) dal Congo Belga alla Germania nazista. Il già citato Sachs, però, venuto a conoscenza del piano, volle dare il proprio contributo. Anche in questo caso, fu una conoscenza personale a fare da guida: per Sachs, infatti, raggiungere direttamente il Presidente americano non costituiva un problema.

Dopo diversi scambi epistolari tra gli scienziati, che discutevano di quale fosse la modalità migliore per convincere Roosevelt, finalmente, a metà agosto ’39, la lettera era pronta. Il mondo, però, non lo era affatto. Il primo settembre, con l’attacco della Germania nei confronti della Polonia, scoppiò infatti la guerra. Sachs dovette dunque attendere l’11 ottobre per poter incontrare uno degli uomini più potenti al mondo. Evidentemente, il Presidente fu convinto della bontà degli argomenti dell’economista, perché dieci giorni dopo si tenne, a Washington, la prima riunione del neonato Comitato consultivo per l’uranio.

Il Comitato e i suoi membri andarono incontro ad alterne vicende, ma, sei anni dopo, si ebbe il primo risultato concreto, come abbiamo descritto in questo post.

Alessio Gaggero

 

2000 partigiani conquistano Alba il 10.10.1944

Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944.
Ai primi di ottobre, il presidio repubblicano, sentendosi mancare il fiato per la stretta che gli davano i partigiani dalle colline […] fece dire dai preti ai partigiani che sgomberava, solo che i partigiani gli garantissero l’incolumità dell’esodo. I partigiani garantirono e la mattina del 10 ottobre il presidio sgomberò. Così la gente, pressata contro i muri di Via Maestra, vide passare i partigiani delle Langhe.
Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n’era per cento carnevali.
[…] Sfilarono i badogliani con sulle spalle il fazzoletto azzurro e i garibaldini col fazzoletto rosso e tutti o quasi portavano ricamato sul fazzoletto il nome di battaglia. La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti; lesse nomi romantici e formidabili, che andavano da Rolando a Dinamite. Cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare […]. Il fatto è che tra loro non c’era un adulto, quelli che avevano fatto il soldato nel Regio Esercito erano forse cinque ogni cento.
(B. Fenoglio, “I ventitre giorni della città di Alba”)

Il 10 ottobre 1944 circa 2.000 partigiani, appartenenti soprattutto alla 2ª Divisione Langhe del 1º Gruppo Divisioni Alpine, occuparono la città quasi senza combattere, dato che i reparti fascisti (300 alpini del battaglione Cadore) abbandonarono la città in seguito a trattative con i partigiani, mediate dalla curia vescovile.

Il 1º Gruppo Divisioni Alpine, al comando del maggiore degli alpini Enrico Martini detto “Mauri”, apparteneva alle cosiddette Formazioni Autonome Militari, denominate anche azzurri o badogliani; composto principalmente di militari, si distingueva per l’indipendenza dal Comitato di Liberazione Nazionale e per la fedeltà al governo del Regno del Sud e agli Alleati: non aveva riferimenti ideologici ufficiali, anche se gli aderenti erano quasi tutti di fede monarchica, liberale, cattolica democratica o moderata, uniti dall’antifascismo e dal rifiuto del comunismo.

 

Le Brigate Garibaldi non erano state avvertite dell’azione degli Autonomi: fermamente contrari per ragioni tattiche e di opportunità, data la scarsa possibilità di difendere Alba, i vertici militari garibaldini considerarono inoltre un grave errore aver consentito ai fascisti di lasciare il presidio “con tutte le armi ed il materiale, mentre vi era la possibilità di prendere prigionieri 300 alpini e un armamento importante”; il CLN inviò comunque “per solidarietà partigiana” un distaccamento garibaldino e uno delle Brigate Giustizia e Libertà.

Tuttavia, al di là delle frizioni tra le diverse anime della Resistenza, storici e testimoni di quegli anni hanno rilevato come ci fosse una sorta di legge interna al movimento e allo sviluppo di ogni guerriglia partigiana, “una legge quasi di gravitazione, che le faceva nascere nelle zone più riposte, e di esplosione in esplosione le faceva tendere verso i centri abitati e cittadini”, per ragioni tecniche, strategiche, ma anche psicologiche. La conquista di Alba ebbe per i partigiani una valenza soprattutto politica e dimostrativa: oltre a dare una capitale prestigiosa alla Langa liberata e porre il Tanaro come confine tra le proprie forze e la Repubblica mussoliniana, rappresentò l’occasione per mostrare alle popolazioni e agli Alleati la propria capacità di creare e reggere organismi amministrativi.

Quasi vent’anni dopo, il comandante “Mauri” così spiegò il senso dell’azione:

I fatti di Alba devono essere considerati in stretto rapporto con la situazione della regione circostante – le Langhe – un paese interamente partigiano, un piccolo Stato libero nel territorio della repubblica fascista. Il sogno di dare una capitale a quell’area di libertà, conquistata a prezzo di tanto sangue e di tanti sacrifici, era nel cuore di tutti.

Considerata il capoluogo del vasto comprensorio collinare delle Langhe, la cittadina contava circa 19.000 abitanti. Nei giorni successivi all’8 settembre, tra quelle colline, che a tanti erano sembrate adatte per la guerriglia, si incontrarono persone dalle provenienze più disparate: intellettuali, studenti e lavoratori più coscientemente antifascisti, giovani che volevano sottrarsi alle leve militari della repubblica di Salò o al “Servizio del lavoro” in Germania, gruppi di prigionieri di guerra inglesi, francesi, russi e slavi evasi dalla prigionia, ma anche numerosi soldati italiani sbandati sfuggiti, con l’aiuto della popolazione, alle uccisioni e deportazioni di militari compiute dai tedeschi subito dopo la notizia dell’armistizio; tutti insieme, costituirono le prime bande di “ribelli” nella zona. Dopo una prima fase di organizzazione, le squadre partigiane fecero la loro comparsa in Alba il 2 dicembre 1943, e nell’estate successiva controllavano una vasta area alle porte della città, a est delle valli cuneesi, fra i fiumi Tanaro e Bormida, nella regione dell’Alto Monferrato e delle Langhe: circa un centinaio di comuni, con una popolazione complessiva di 150.000 abitanti..

L’estensione della zona liberata pose nuovi problemi alle forze partigiane, che dovevano provvedere a difendere numerosi centri abitati, trovare rifornimenti per decine di migliaia di abitanti, avviare le popolazioni verso l’autogoverno. Si costituirono così diverse Giunte popolari, che svolsero, pur tra grandi difficoltà, i compiti specifici delle amministrazioni comunali e rappresentarono un significativo esempio di autogoverno durante la Resistenza.

Nel Monferrato prevalentemente garibaldino e, in misura minore, nelle Langhe guidate dalle Formazioni Autonome, le Giunte assunsero il compito di “riportare la vita civile delle popolazioni delle zone libere al concetto e alla pratica della libertà amministrativa sulla base della democrazia popolare progressiva”; furono razionalizzati gli approvvigionamenti e la gestione delle scorte di beni e generi alimentari, calmierati i prezzi, supportata l’industria vinicola, nel cui ambito fu realizzato il primo contratto collettivo di lavoro, in seguito adattato ed esteso alle altre categorie di lavoratori; furono promosse l’attività sindacale e la stampa, e costituite forme embrionali di autogestione dei tributi e della sicurezza.

Questo era il contesto in cui maturò la brevissima esperienza della Repubblica Partigiana di Alba, così chiamata per ricordare quella istituita in loco da Napoleone (1796-1801); dopo il 10 ottobre, il comando militare venne assunto dal ten. Morelli, comandante della Brigata Belbo della 2ª Divisione Langhe, mentre per l’amministrazione civile fu costituito il CLN, con membri scelti tra i maggiori esponenti politici locali. Di concerto con le autorità civili furono regolamentate le requisizioni di generi alimentari, le officine meccaniche cominciarono a produrre armi, venne stampato il primo giornale di Alba libera (la “Gazzetta Piemontese”), le distillerie avviarono la produzione di alcool (come succedaneo degli scarsissimi carburanti) e fu celebrato un matrimonio.

 

La gestione della cittadina, nonostante la creazione di un CLN, era nelle mani del comando militare degli Autonomi, e risentì delle tensioni irrisolte tra le varie formazioni. Ma l’ingresso in Alba dei partigiani, dopo mesi di clandestinità in collina, era stato spettacolare, un’esplosione di entusiasmo collettivo che segnò il punto di non ritorno per molti giovani cittadini, avvicinandoli alla Resistenza; in quei ventitre giorni, per tutta la città “sembrava di essere in un giorno di mercato tanta era la ressa, la moltitudine, l’andirivieni”.

Nel frattempo, le forze della RSI si riorganizzavano, la Repubblica della Val d’Ossola era caduta e lo stesso Mussolini premeva perché anche Alba fosse riconquistata; si trattò dell’unica operazione del genere condotta in Piemonte dai fascisti senza il supporto dei tedeschi. Dopo i primi scontri e un fallito tentativo di attraversare il Tanaro, l’armata composta dalla Guardia Nazionale Repubblicana, Brigate Nere, X Mas e altri reparti fascisti cercò la mediazione del clero per un accordo con le forze partigiane, che però rifiutarono di scendere a patti.

Di fronte all’ultimatum “Sgomberate Alba o vi annienteremo”, il comandante “Mauri” rispose:

Alba l’abbiamo presa e la terremo. Se in fondo al vostro essere è rimasto un briciolo di italianità dovreste vergognarvi di minacciare ancora, dopo tanti delitti, saccheggi e uccisioni. Restate con la vostra vergogna senza nome; con noi sono tutti gli italiani e tutti gli uomini d’onore e di dignità.

Alla fine, sotto la minaccia del cannoneggiamento dell’abitato, i partigiani dovettero ritirarsi, lasciando sul campo un centinaio di morti e altrettanti feriti. La Repubblica cadde il 2 novembre 1944. Sul giornale fascista Noi e loro si raccontò così la vittoria:

Chiesi a uno squadrista notizie sulla città: ‘Pare morta, disse, poca gente e ostile, quasi tutti i negozi chiusi. Niente donne festanti, bambini accorsi a battere le mani, niente: ma ostilità quasi contenuta e trasfusa nel volto delle cose’.

I fascisti, penetrati in Alba senza il saluto della popolazione, “andarono personalmente a suonarsi le campane”.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.wikipedia.org;
“I fatti militari di Alba in alcuni documenti partigiani e repubblicani (10 Ottobre 1944 – 15 Aprile 1945)”, www.italia-resistenza.it;
www.memoranea.it;
“Langhe e Alto Monferrato”, www.anpi.it;
“L’Alto Monferrato, le Langhe e la città di Alba”, www.1944-repubblichepartigiane.info;
P. Negri, “Caleidoscopio partigiano”, la Stampa 12/10/2014;
D. Masera, “Langa partigiana ’43-’45”, Guanda;
B. Fenoglio, “I ventitré giorni della città di Alba”

Vajont, 9 ottobre 1963

La sera del 9 ottobre 1963, le cittadine di Erto, Casso e Longarone cambiarono per sempre. Il cambiamento fu fisico, ma soprattutto umano.

Erto e Casso, rispettivamente capoluogo e frazione, si trovano in Friuli, mentre Longarone sorge in territorio veneto, nella valle del Piave. In mezzo, il torrente Vajont e la sua diga. Valli strette, costellate di borghi e centri abitati che, in un attimo, furono spazzati via. Arrivò prima l’onda d’urto, che, si stima, raggiunse l’intensità di Little Boy. È infatti probabile che buona parte delle circa 2000 persone che persero la vita in quegli istanti fossero già morte all’arrivo dell’acqua.

Acqua. Fu proprio l’acqua contenuta nell’invaso a generare quell’onda letale: saltò fuori dalle mura di contenimento e piombò a più di cento chilometri all’ora sui territori circostanti, provocando un enorme spostamento d’aria. Di certo, l’acqua da sola aveva poche probabilità di poter compiere un movimento simile. Fu infatti la roccia circostante a spingerla fuori dal proprio contenitore: il monte Toc (da Patoc, in friulano: fradicio, marcio) lasciò che un pezzo si sé cadesse rovinosamente nel bacino sottostante. Il problema fu in termini di proporzioni: la quantità di roccia caduta superava di due volte quella dell’acqua lì presente. Quest’ultima fu costretta a far spazio, saltando fuori, appunto, dalla sede prestabilita.

L’inondazione fu devastante. Solo a Longarone morirono quasi 1500 persone. Se pensiamo che oggi la città conta circa 5000 abitanti, si può facilmente immaginare l’impatto umano del disastro.

Anni di procedimenti penali, che raggiunsero il terzo grado di giudizio, accertarono la prevedibilità dell’evento (aspetto che si pose al centro delle discussioni, anche politiche, sulla vicenda), condannando a diversi anni di reclusione i responsabili, a cui furono attribuiti anche gli omicidi.

Alessio Gaggero

 

8 ottobre 1912, inizia la Prima guerra balcanica: il Montenegro dichiara guerra alla Turchia

Il primo decennio del secolo scorso fu attraversato da forti tensioni nei Balcani (regione di cui abbiamo trattato anche in questo recente post). Turchi, Bulgari, Serbi, Macedoni, Albanesi, Montenegrini, Greci furono i popoli coinvolti direttamente dai conflitti, ma tanti altri paesi si mossero per influenzare lo svolgimento degli eventi. Come in molte situazioni simili, la questione era, in buona parte, territoriale: l’Impero Ottomano, al crepuscolo della sua esistenza, aveva ancora ampi possedimenti in terra europea, grazie alle guerre vinte in precedenza. I popoli ivi residenti, tuttavia, non erano certo a maggioranza turca e la dominazione straniera era diventata insopportabile.

 

Sul finire del 1800, Serbia, Grecia e Bulgaria erano riuscite a riconquistare parti dei territori a cui aspiravano, ma, insieme al Montenegro, avevano mire espansionistiche dirette alla Rumelia, ancora in mano turca. Fu un evento interno all’Impero a dare il la alle prime mosse diplomatico-belliche: nel luglio 1908, i Giovani Turchi, movimento politico in aperta contraddizione con il governo dell’epoca e, forse, ispirato alla Giovine Italia nostrana, imposero al Sultano, marciando su Istanbul, il ripristino della Costituzione ottomana e forti cambiamenti al governo del paese.

L’Austria-Ungheria approfittò immediatamente della situazione di instabilità politica interna all’Impero per annettere in via ufficiale la Bosnia ed Erzegovina, occupata in precedenza. Di conseguenza, la Bulgaria, già principato autonomo, si proclamò regno completamente indipendente a ottobre, e i Greci tentarono l’annessione di Creta. Persa la possibilità di dare alla popolazione serba in Bosnia il proprio vessillo, la Serbia dirottò le proprie mire a sud, verso il Kosovo; la direzione coincideva parzialmente con quella presa dalla Bulgaria, che, avendo ottenuto l’appoggio russo nel marzo 1909, puntava alla Tracia e alla Macedonia. Ad aprile, i Giovani Turchi deposero il Sultano, Hamid II, imponendo il nuovo regime, guidato da Maometto V. Un anno dopo, si mossero sul piano internazionale, appoggiando la rivolta della popolazione albanese in Kosovo, mentre, ad agosto, fu proclamato il Regno di Montenegro. Ultimo tassello del puzzle geopolitico fu, nel 1911, l’inizio della guerra italo-turca in Africa: il Regno d’Italia sbarcò in Tripolitania e Cirenaica, approssimativamente la moderna Libia, velocizzando la disgregazione dell’Impero ottomano.

Più nel dettaglio dei territori oggetto delle mire espansionistiche, la (non ancora) Macedonia, spiccava per criticità: l’Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone lottava, utilizzando attacchi terroristici diretti contro l’amministrazione ottomana, per l’autonomia del proprio popolo; le minoranze etniche afferenti ai paesi limitrofi, invece, puntavano all’annessione da parte di detti stati (Serbia, Grecia e Bulgaria). Impossibile dimenticare, però, la nutrita presenza albanese nel territorio: tra febbraio e agosto 1912, infatti, quasi 45.000 uomini ottennero significative conquiste, tanto da costringere il governo turco a concedere molta autonomia, preludio alla creazione dello stato albanese.

Sul piano internazionale, la Russia mediò i contatti tra Serbi e Bulgari, resi difficili dalla presenza di entrambe le popolazioni in terra macedone: nel marzo 1912, dopo circa due anni di trattative sul tema della spartizione territoriale, strinsero ufficialmente e pubblicamente un’alleanza per il mantenimento dello status quo balcanico, mentre fu tenuto segreto l’accordo sulla spartizione. Due mesi dopo, la Bulgaria firmò un ulteriore trattato con la Grecia, desiderosa di riprendersi Creta e parte della Macedonia. Infine, il Montenegro: sempre tramite la diplomazia russa, si concordò sull’appoggio militare del paese alle azioni dei tre alleati, in cambio dell’annessione di tutto il territorio che sarebbe riuscito a conquistare. Fu proprio l’ultimo arrivato a far scoppiare la Prima guerra balcanica, così come era stato concordato: un villaggio albanese conteso agli Ottomani fu l’utile pretesto per attaccare. Il principe Pietro sparò simbolicamente il primo colpo, ventiquattro ore dopo la dichiarazione di guerra. Era il 9 ottobre 1912.

A nulla servirono i tentativi delle potenze europee di prevenire il conflitto: la Lega balcanica era costituita e la guerra era iniziata.

Alessio Gaggero

 

Anna Politkovskaja viene uccisa il 7 ottobre 2006

Il 7 ottobre 2006 viene uccisa, mentre rincasa con le borse della spesa, la giornalista russa Anna Politkovskaja. Quattro bossoli a terra, un proiettile alla testa: un’esecuzione. Tre giorni dopo partecipano alla cerimonia funebre più di mille persone, fra colleghi, lettori e qualche politico straniero, ma nessun rappresentante del governo russo. Dopo giorni di silenzio, il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin commenta:

Era ben conosciuta fra i giornalisti, gli attivisti per i diritti umani e in Occidente. Comunque, la sua influenza sulla vita politica russa era minima. […] Il suo omicidio ha fatto più danni delle sue pubblicazioni. Chiunque sia stato non resterà impunito.

Dodici anni dopo, il 17 luglio 2018, su ricorso della madre, della sorella e dei figli della giornalista, la Corte europea dei diritti dell’uomo condannerà la Russia per non avere messo in atto indagini appropriate, comminando una multa di 20.000 euro al governo di Mosca.

Lo Stato russo ha mancato agli obblighi relativi alla efficacia e durata delle indagini. [violando così la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo: la Corte rileva in particolare che] se le autorità hanno trovato e condannato un gruppo di uomini direttamente coinvolti nell’assassinio della signora Politkovskaja, non hanno attuato adeguate misure investigative per identificare i mandanti dell’omicidio; […] hanno sviluppato una teoria sull’istigatore, dirigendo la loro indagine su un uomo d’affari russo che risiedeva a Londra, ora deceduto, [ma avrebbero dovuto] studiare altre ipotesi, comprese quelle suggerite dalle ricorrenti, secondo cui nell’assassinio sono stati coinvolti gli agenti del FSB, i servizi segreti russi, o l’amministrazione della Repubblica cecena.

Anna Stepanovna Mazepa Politkovskaja era nata a New York nel 1958, in una famiglia di diplomatici sovietici impiegati presso l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa); laureatasi in giornalismo presso l’Università Lomonosov di Mosca, da subito collabora con radio e canali televisivi indipendenti, interessandosi soprattutto della questione del Caucaso e della politica russa in quella regione.

Dalla fine degli anni Novanta segue il secondo conflitto ceceno e le vicende di Daghestan e Inguscezia per la testata indipendente “Novaja Gazeta”. Nel 1999, quando riprendono gli scontri violenti in Cecenia, la giornalista è convinta della giusta causa di un intervento armato russo per combattere le forze islamiche indipendentiste dell’autoproclamata Repubblica di Ichkeria. Ma con il suo lavoro sul campo si ritrova a testimoniare gli abusi del Servizio di Sicurezza Federale (FSB, i servizi segreti interni continuatori del KGB sovietico) e del GRU (servizi segreti militari), che hanno il controllo delle operazioni, dacché ufficialmente il conflitto ceceno era gestito dalla Russia come un’operazione di antiterrorismo.

Osserva in prima persona e scrive delle violenze sui civili e, dopo la fine degli scontri armati, della corruzione e delle violazioni dei diritti umani nel nuovo regime di Ramzan Kadyrov, appoggiato da Putin. Dopo due libri e numerosi articoli, continua a lavorare sulla Cecenia anche negli ultimi mesi di vita, con un lungo articolo – pubblicato postumo – sulle torture commesse dalle forze di sicurezza governative.

Il suo impegno in difesa dei diritti umani, i reportage dalle zone di guerra e la sua opposizione alle derive autoritarie del governo di Vladimir Putin le valgono il Global award di Amnesty International per il giornalismo in difesa dei diritti umani nel 2001, e il premio dell’OSCE per il giornalismo e la democrazia nel 2003.

Nelle sue inchieste cerca sempre il contatto con gli attori della guerra, siano russi o ceceni, militari o, soprattutto, civili. Anche per questa sua attitudine, che ormai la identifica, nell’ottobre del 2002 è chiamata come mediatrice dai terroristi ceceni che a Mosca hanno occupato il teatro Dubrovka, ma il blitz delle autorità russe rende vana ogni trattativa: il gas immesso nel teatro uccide tutti i terroristi e molti degli ostaggi, e la giornalista accuserà il governo di essere indifferente alla vita dei suoi cittadini, pur di vincere con la forza la partita con i terroristi.

La Politkovskaja ha sempre voluto rivendicare con i suoi scritti il proprio essere testimone partecipe, non semplice spettatrice. La sua prosa diretta e asciutta è incalzante, senza fronzoli, descrittiva, ma lascia trasparire sdegno e compassione; i suoi articoli non sono attacchi politici, quanto piuttosto resoconti, brandelli ricostruiti di realtà, con cui “descrive quello che succede a chi non può vederlo”. È il cosiddetto “advocacy journalism”, quello con cui si perora dichiaratamente il sostegno a una causa, che non è l’indipendenza cecena, ma l’inviolabilità dei diritti umani: in nome di questo va direttamente sul campo, rischiando la vita, vivendo le stesse inumane condizioni del popolo ceceno durante l’occupazione russa, raccontando ciò che vede e vive con una profusione di dettagli e argomentazioni che sbaraglia le obiezioni dei negazionisti.

Niente potrà togliermi il senso di colpa che ho nei confronti di coloro che hanno sacrificato la vita per il mio lavoro, per la mia resistenza al tipo di giornalismo che si sta instaurando in Russia grazie alla guerra ‘alla Putin’. Parlo di un giornalismo ideologico senza accesso all’informazione, senza incontri né conversazioni con le fonti, senza verifiche dei fatti. […] Quel tipo di lavoro, che io credevo morto insieme al comunismo, da noi è ormai considerato la norma, e inoltre è riconosciuto e lodato dalle autorità. Quanto all’altro tipo di giornalismo, quello che comporta uno sguardo diretto su ciò che succede, non solo viene perseguitato, ma si rischia addirittura la vita. Un salto indietro di dieci anni, dopo la caduta dell’Urss!

Mantenere quello sguardo diretto diventa per lei sempre più pericoloso. Espulsa una prima volta dalla Cecenia nel 2001, dopo essere stata trattenuta e minacciata di fucilazione dai militari delle VDV (truppe da sbarco dell’aviazione russa, che smentiscono il fatto come “bugia e provocazione”); intimidita ripetutamente via mail da un poliziotto ceceno da lei accusato di aver ucciso civili inermi; nel 2002, durante un viaggio in Cecenia, costretta a nascondersi per giorni dal FSB, che voleva impedire una sua indagine sull’uccisione di civili; minacciata di azioni giudiziarie per “vilipendio del paese” da parte dei vertici dello stato ceceno (il segretario del consiglio di sicurezza della Cecenia avverte un redattore della Novaja Gazeta che “la Politkovskaja va in cerca di guai”); nel 2004 ricoverata in gravi condizioni, da lei attribuite ad avvelenamento intenzionale da parte del FSB per impedirle di fare luce sugli eventi di Beslan (che abbiamo raccontato in questo articolo); accusata da giornalisti filogovernativi, dopo una serie di articoli critici verso il presidente dell’Inguscezia, di essere “una levatrice del terrorismo e della guerra”.

Il Cremlino ha reagito cercando di bloccare il mio lavoro: i suoi ideologi credono che sia il modo migliore per annullare l’effetto di quello che scrivo. Ma impedire a una persona che fa il suo lavoro con passione di raccontare il mondo che la circonda è un’impresa impossibile. La mia vita è difficile, certo, ma è soprattutto umiliante. A 47 anni non ho più l’età per scontrarmi con l’ostilità e avere il marchio di reietta stampato sulla fronte. Non parlerò delle altre gioie del mio lavoro – l’avvelenamento, gli arresti, le minacce di morte telefoniche e online, le convocazioni settimanali nell’ufficio del procuratore generale per firmare delle dichiarazioni su quasi tutti i miei articoli. […] Naturalmente gli articoli che mi presentano come la pazza di Mosca non mi fanno piacere. Vivere così è orribile. Vorrei un po’ più di comprensione. Ma la cosa più importante è continuare a fare il mio lavoro, raccontare quello che vedo, ricevere ogni giorno in redazione persone che non sanno dove altro andare. Per il Cremlino le loro storie non rispettano la linea ufficiale. L’unico posto dove possono raccontarle è la Novaja Gazeta.

Dopo otto anni dall’omicidio e tre processi, nel 2014 sono stati condannati all’ergastolo cinque esecutori materiali e nessun mandante. La Russia è a tutt’oggi sotto i riflettori internazionali per il numero di giornalisti assassinati o morti in circostanze poco chiare: l’International Federation of Journalists ha commissionato un’ampia inchiesta in merito e reso pubblico un database online che documenta la morte o la sparizione di circa 300 giornalisti a partire dal 1993.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.wikipedia.org;
“Chi non amava Anna Politkoskaya”, tr. it. A. Ferrario, www.balcanicaucaso.org;
“Omicidio di Anna Politkovskaja, la Corte di Strasburgo condanna la Russia: ‘Non ha cercato mandanti’”, www.rainews.it; “La vita di Anna Politkovskaya”, www.ilpost.it;
G. Furlan e I. Gipponi, “Anna Politkovskaja e gli altri. Raccontare la verità a tutti i costi”, www.left.it;
G. Lami, “Anna Stepanovna Mazepa Politkovskaja”, www.enciclopediadelledonne.it;
R. Persia, “Il colpevole ritardo della Corte di Strasburgo sul delitto Politkovskaja”, http://espresso.repubblica.it;
A. Politskovskaja, “Il mio lavoro ad ogni costo”, Internazionale, n. 665, 26/10/2006; www.internazionale.it/tag/autori/anna-politkovskaja;
A. Ercolani, “Anna Politkovskaja, il coraggio della ‘donna non rieducabile’”, www.ilfattoquotidiano.it

06.10.2000. Milošević si dimette da Presidente della Jugoslavia

In quel giorno di ottobre, ventiquattro ore dopo aver riconosciuto la sconfitta alle elezioni, Slobodan Milošević lascia ufficialmente la guida del proprio paese. Sono passati 4 anni dall’investitura a Presidente della Repubblica Federale Jugoslava e 11 da quella della Serbia.

Figlio di un catechista e di un’insegnante, entrambi morti suicidi prima che il figlio compisse 35 anni, Milošević si mosse tra i partiti socialisti e comunisti serbi negli Anni 80. All’epoca, la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia comprendeva ancora Serbia, Montenegro, Slovenia, Bosnia ed Erzegovina, Croazia e Macedonia. Tito, ovvero Josip Broz, nel ruolo di Presidente della Repubblica aveva cercato di mantenere l’unità, soffocando i respiri nazionalisti di ciascun paese, al grido di Fratellanza e Unità. Dopo la sua morte, nel 1980, le cose iniziarono lentamente a cambiare.

Al giro di boa del decennio in questione, si registrano forti tensioni in Kosovo, provincia autonoma della Serbia (al pari della Vojvodina). Qui, Serbi e Albanesi iniziano a scontrarsi violentemente, a differenza di quanto avviene in Croazia e in Bosnia, laddove la convivenza è pacifica. È Milošević a muoversi verso quelle terre, con l’iniziale intento di seguire la linea del suo partito, cioè ristabilire la quiete. Considerato, però, lo stato di discriminazione in cui versavano i Serbi presenti in quelle zone, si schiera dalla parte del proprio popolo, fino a revocare l’autonomia un paio d’anni dopo.

Da questo porto prese il largo, spinto dal vento nazionalista serbo, che sfruttò per raggiungere la presidenza della nazione: la Serbia, in quanto maggiore repubblica della Federazione, avrebbe dovuto guidare la Jugoslavia, da cui era estromessa la minoranza albanese. Siamo intanto giunti al 1990, anno in cui Sloveni e Croati si rendono conto che le proprie posizioni, indipendentiste, sono inconciliabili con quelle del Presidente serbo: un anno dopo, due referendum sanciscono l’uscita di queste due nazioni dalla Federazione e, di fatto, l’inizio della guerra.

Per quanto concerne la Slovenia, la Guerra dei dieci giorni risolve in fretta il conflitto, conclusosi con gli Accordi di Brioni. Milošević aveva molto più interesse a occuparsi della Croazia, laddove c’era una consistente minoranza serba: avrebbe annesso territori croati e, poi, bosniaci, per costituire la Grande Serbia. In effetti, anche la Bosnia ed Erzegovina, nel 1992, si proclamò indipendente per mezzo di un referendum, attirando su di sé la violenza del conflitto bellico. Conflitto che si spegnerà tre anni dopo, con la firma degli Accordi di Dayton, sottoscritti in terra americana.

In seguito allo smembramento della Federazione, avvenuto nel 1992, Serbia e Montenegro si riunirono nella Repubblica Federale di Jugoslavia, presieduta dallo stesso Milošević. Tale realtà combatterà anche in Kosovo, laddove l’esercito di liberazione albanese seminò il terrore, in risposta a presunti crimini di guerra commessi dalle forze armate federali. Solo l’intervento militare della NATO, a suon di bombardamenti, riuscì a riportare i diplomatici al tavolo delle trattative. Era il 1999.

Milošević, a questo punto, non vantava più l’appoggio, interno né esterno, di cui godette dieci anni prima: alle elezioni del 2000, come accennato all’inizio, fu sconfitto dai moderati, che lo costrinsero alle dimissioni. Si concluse in prigione la parabola del politico serbo: il Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex-Jugoslavia non riuscì a processarlo, poiché spirò nel maggio del 2006 nel carcere dell’Aia.

Alessio Gaggero

Il superamento della preoccupazione di persuadere il mediatore della validità delle proprie ragioni

Una delle prerogative del percorso di mediazione e, segnatamente del modello “Ascolto e Mediazione” praticato da Me.Dia.Re., nei suoi Servizi di Mediazione Familiare e in quelli, appunto, di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, è che in esso le parti sono liberate dall’ansia di riuscire ad essere persuasive.

Sia nei colloqui individuali che negli incontri di mediazione, le persone sono sgravate dalla classica preoccupazione secondo cui

dimostrare che ho ragione significherebbe ammettere che potrei avere torto” (Beaumarchais).

Infatti, nello sviluppo del percorso, grazie all’approccio declinato dal mediatore nella relazione con ciascun attore del conflitto, si stabilisce un clima permeato dalla consapevolezza dell’assenza di giudizio.

Il mediatore, quindi, non è vissuto come se fosse una sorta di “giudice che valuta ma non decide”. Cioè, non è visto come un soggetto che: da un lato, valuta i comportamenti, le azioni e gli atteggiamenti tenuti dalle parti nello sviluppo del loro conflitto e giudica chi di loro ha agito o pensato bene o in maniera adeguata e ci invece no; dall’altro, non decide esplicitamente e non condanna o assolve chi ha torto o ragione, ma implicitamente e indirettamente darà maggiore sostegno e favorirà la parte che saprà dimostrargli di essere stata colei che nella relazione conflittuale ha saputo agire con maggiore equilibrio, lealtà, nobiltà d’animo, fedeltà a principi condivisibili universalmente, ecc.

Questo tipo di percezione degli attori del conflitto rispetto al mediatore, questo loro rapportarsi con tale professionista, come se fosse imprescindibile convincerlo della congruità delle proprie reazioni conflittuali alle ingiustizie commesse dalla controparte, sussiste, certamente, al momento del primo incontro. Ma, poco per volta, questa dimensione, generativa di un atteggiamento performante e, invero alquanto stressante, viene meno. Gradualmente è sostituita da una condizione maggiormente rilassata.

E tale transizione si verifica, in particolare, nell’ambito dei colloqui individuali – cioè, separati – con i singoli mediati. L’assenza dell’altro, che, ove fosse presente, sarebbe pronto a ribattere punto su punto ogni affermazione, la consapevolezza di avere quello spazio di ascolto interamente per sé stessi, associati alle modalità relazionali del mediatore, de-tendono le istanze di tipo persuasivo-performante, sicché, la persona svolge di più la comunicazione su un piano di dibattito interno. In breve, mette a confronto le proprie posizioni, idee, frustrazioni, esigenze, ferite, angosce e sofferenze con quelle dell’altro – o meglio con quelle che suppone l’altro sia portatore -, e nel farlo avvia un dialogo con se stesso, con il suo giudice interno, con la rappresentazione che ha di sé e del conflitto e con quella che ritiene abbia la sua controparte.

Tenderà ciascuna parte ancora a darsi più ragione che torto? Verosimilmente sì, altrimenti il conflitto più che già mediato sarebbe quasi risolto. Però, sarà stato rimosso, almeno in gran parte, un enorme ostacolo, potenzialmente impeditivo di ogni possibilità di sviluppo di una relazione efficace tra gli attori del conflitto e il mediatore.

Alberto Quattrocolo

Rielaborazione da:

Lezione di A. Quattrocolo svolta nella quarta lezione della XI edizione del Corso di Mediazione Penale, Lavorativa e Sanitaria

– De Palma A., Quattrocolo A. (2009) La mediazione tra medico e paziente. Un intervento imparziale sul fenomeno crescente del contenzioso per responsabilità professionale medica, Athena Medica srl, Modena.

5 ottobre 1911: l’Italia impone alla Libia i “benefici della civiltà”

Da alcuni anni alcune località sono tornate ad essere nominate sui media: Tripoli, Misurata, Bengasi, Ohms; Derna, Tobruch, e altre ancora. Sono i nomi di città libiche, che vengono citati per lo più in notizie che parlano di bombe, conflitti e violenze.

Queste località erano citate anche nelle notizie che arrivavano, oltre cento anni fa, al pubblico italiano ed europeo dai corrispondenti che seguivano lo svolgersi della guerra italo-turca.

Quelle terre che facevano gola all’Italia

Quasi tutta l’Africa settentrionale, ai primi del Novecento, era sotto il controllo delle potenze europee, in particolare della Francia e della Gran Bretagna. Questa controllava saldamente l’Egitto, mentre la Francia, che già da un pezzo aveva conquistato l’Algeria, sottraendola alla dominazione ottomana, si era impadronita anche della Tunisia, nonostante le mire dell’Italia, e stava colonizzando con successo il Marocco, a dispetto della Germania. Una parte del territorio libico era, invece, ancora sotto il dominio turco, che si estendeva su due delle tre regioni che lo costituiscono (Tripolitania, Cirenaica e Fezzaz). I turchi, in particolare, controllavano due province (Vilayet): la Tripolitania e la Cirenaica.

Queste province, però, da tempo, erano oggetto di un interesse significativo e crescente per l’Italia. La Tripolitania, ad esempio, costituiva il ponte tra la parte occidentale e quella orientale del Nord Africa le sue coste rappresentavano una valvola tra il bacino occidentale e quello orientale del Mediterraneo, laddove, cioè, si trovava quel canale di Suez che collegava l’Europa con l’Estremo Oriente.

Ma, oltre ad essere attrattive per i diversi interessi che andavano a stimolare in Italia, sul piano degli sviluppi commerciali e dei rapporti con le altre potenze, le province turche in Nord Africa lo erano, agli occhi degli italiani, anche per altre ragioni. Se, per gli industriali l’occupazione della Libia ottomana era vista come una possibilità di sviluppo per le loro produzioni, per i contadini poveri del Meridione essa rappresentava la possibilità di conseguire della terra libera da coltivare, terra, cioè, che a loro mancava in patria e che laggiù credevano di poter lavorare fruttuosamente, visto che la immaginavano fertile e abbondante.

Tale convinzione era diffusa non solo tra i braccianti e i piccoli agricoltori. Erano in molti a crederci, perché, in effetti, alla stregua di un Eden veniva descritta da giornalisti e scrittori di peso come Luigi Federzoni, Enrico Corradini e Giuseppe Bevione.

Le fandonie sulla fertile abbondanza della terra libica

Il primo, commentando alcuni giardini dell’oasi di Tripoli, dopo aver descritto ulivi schiantati dal peso delle olive e viti da quello dei grappoli, «altro che deserto!», sbottava, «Siamo in terra promessa». Il secondo era talmente spericolato nel suo ingigantire la fertilità e la ricchezza della natura che viene da chiedersi come qualcuno potesse non scoppiare a ridere leggendo le sue descrizioni: «gelsi grandi come faggi», «il grano e la melica danno tre o quattro volte il raccolto dei migliori terreni d’Europa», «la vigna dà grappoli a incredibili, a venti e trenta chili per frutto», «ulivi grossi come querce».

Forse, gli autori di queste fantasticherie si limitavano a ingigantire la generosa flora dell’oasi di Tripoli – che contava 2 milioni di palme – e a rappresentare l’intero territorio libico come se fosse stato tutto un giardino, invece, di dare conto del fatto che era prevalentemente desertico e inospitale come una fornace.

Molti credettero a tali fandonie per semplice ignoranza, altri per interesse, altri ancora perché, in fondo, volevano essere ingannati.,

I favorevoli alla guerra

Più di tutti, tra i sostenitori dell’impresa bellica in Libia, si facevano sentire e notare i nazionalisti, le cui tesi erano fortemente appoggiate dagli organi della grande stampa. Ma, se l’Associazione Nazionalista Italiana invocava la guerra, ovunque e comunque, ritenendola la giusta cura per i mali dell’Italia, anche gli assai meno bellicosi liberali – che, alla fine del secolo precedente, avevano disapprovato il tentativo fallito di conquistare l’Etiopia, esitato nella sanguinosa sconfitta delle forze italiane ad Adua – erano a favore dell’impresa libica. Singolarmente lo erano anche due soggetti insospettabili di propositi guerrafondai: appoggiavano la guerra contro la Turchia, infatti, anche la Chiesa nel suo complesso e i giolittiani. Anzi, decisiva fu proprio la decisione del presidente del Consiglio dei Ministri, Giovanni Giolitti, noto per essere un politico accorto, freddo e prudente, più attento alla politica interna che a quella estera, specie se foriera di avventure rischiose.

La fiera delle illusioni

Forse, si pensò, Giolitti, impermeabile alla retorica della terra promessa, intendeva con la guerra alla Turchia dare sfogo e contemporaneamente mettere la sordina ai nazionalisti che spingevano forsennatamente per un’avventura balcanica. Oppure, intendeva contenere e distrarre l’irredentismo, le cui spinte gli parevano non meno pericolose, data l’alta possibilità, nel caso si fossero tradotte in azione, di scatenare una conflittualità non facilmente contenibile con gli Stati confinanti.

Quali che fossero le ragioni del presidente del Consiglio, il ministro degli Esteri, Antonino di San Giuliano, figurava tra i più autorevoli e convinti sostenitori della guerra libica, ritenendo che essa si sarebbe risolta in una breve passeggiata militare e che non avrebbe avuto conseguenze sul piano europeo.

Previsioni completamente sballate

Non sarebbe passato molto tempo prima che le previsioni del ministro venissero smentite su tutta la linea.

Gli arabi, cioè i libici, infatti, agirono in maniera diametralmente opposta a quanto avevano creduto il ministro degli Esteri e il console generale a Tripoli, Carlo Galli: non accolsero gli italiani come liberatori dal giogo ottomano, anzi si ribellarono immediatamente all’invasione italiana, dapprima affiancando le sparute guarnigioni turche e, poi, dopo, che queste furono debellate, continuando a combattere accanitamente contro gli italiani per altri vent’anni circa.

Inoltre, la vittoria delle truppe italiane su quelle turche, rivelò l’intrinseca debolezza dell’Impero ottomano alle popolazioni balcaniche, da quello assoggettate. E ciò indusse tali popoli a tradurre il loro nazionalismo in un vero e proprio attacco all’impero turco.

In breve, l’iniziativa bellica italiana contro l’Impero ottomano, lungi dall’essere irrilevante rispetto agli equilibri europei, contribuì a portare l’Europa e il resto del mondo verso quella spaventosa ecatombe che fu la Prima Guerra Mondiale.

Il discorso di Giolitti al Teatro Regio di Torino

Giolitti nel suo discorso al Teatro Regio di Torino, del 7 ottobre 1911, quando l’occupazione era ormai avviata, disse.

«Vi sono fatti che si impongono come una fatalità storica alla quale nessun popolo può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del Governo di assumere tutte le responsabilità, perché un’esitazione o un ritardo può segnare l’inizio di una decadenza politica, producendo talora conseguenze che il popolo deplorerà per lunghi anni, talora per secoli»

Se il Governo avesse esitato, possiamo osservare oggi, sarebbe stato di gran lunga meglio non solo per il popolo libico, ma anche per quello italiano. E, forse, non soltanto, per questi due popoli.

La sinistra spaccata

Tra i favorevoli alla guerra vi erano anche non pochi esponenti di sinistra, tra cui il socialista Arturo Labriola – anche se poi cambiò posizione -, che considerava la conquista della Libia ottomana un’occasione per il proletariato meridionale di emanciparsi, il figlio di Anita e Giuseppe Garibaldi, Ricciotti Garibaldi, Angelo Oliviero Olivetti e Paolo Orano. Perfino Giovanni Pascoli, persuaso dalla propaganda, credette alla menzogna della Libia come terra promessa e anch’egli si convinse che il suo possesso avrebbe evitato agli italiani poveri di emigrare all’estero per lavorare. Del resto anche Ernesto Teodoro Moneta, che aveva ottenuto il Premio Nobel per la pace nel 1907, era a favore della conquista.

La voce dei contrari alla guerra – la voce, cioè, di quelli che restavano con i piedi per terra e vedevano la realtà così com’era – non trovava che un ascolto distratto. E, va detto, quando essi la alzavano, la loro voce, sperando di ottenere maggiore attenzione, lo facevano a loro rischio e pericolo.

L’isolamento degli oppositori alla guerra

Luigi Einaudi, Gaetano Mosca, Edoardo Giretti Arcangelo Ghisleri (quest’ultimo geografo e storico) avevano smontato le ragioni della propaganda, inclusa la favola della Tripolitania come “colonia di insediamento”, evidenziando che i costi dell’impresa libica avrebbero posto termine al percorso di industrializzazione del Paese, facendola arretrare verso una società militarista e barbarica. Tra i socialisti, Gaetano Salvemini, alquanto assennatamente, avvertì che quella terra, «una enorme voragine di sabbia», altro che Eden, avrebbe ingoiato per anni soldati, mezzi e denaro [1]. Leone Caetani, duca di Sermoneta e principe di Teano, storico islamista e orientalista, deputato del Partito Democratico Costituzionale, per la sua opposizione alla guerra fu considerato un traditore della sua classe (più tardi fu anche perseguitato dal regime fascista, che lo espulse dall’Accademia dei Lincei e lo privò della cittadinanza italiana).

I sindacalisti rivoluzionari, tra cui Alceste de Ambris e Enrico Leone, i giovani socialisti e i repubblicani che si distinsero per l’intensità della loro opposizione ebbero guai e frustrazioni anche maggiori. Pietro Nenni, Amedeo Bordiga, Benito Mussolini – che aveva definito quest’impresa coloniale un atto di brigantaggio internazionale – e la CGIL tentarono di impedire la guerra con scioperi e manifestazioni, ma non ebbero grande seguito. Nenni e Mussolini scontarono anche alcuni mesi di carcere a Bologna.

5 ottobre 1911: l’inizio del lungo bagno di sangue

La voce della ragione non fu ascoltata. Neppure dal Governo, che il 26 settembre 1911 inviò un ultimatum alla Turchia. Era un guazzabuglio di arroganza nelle lagnanze e di vaghezza nelle richieste, ma non conteneva nulla che potesse realmente definirsi un casus belli, se non, dal punto di vista turco, proprio quel brutale e ingiustificato ultimatum in sé. Il governo turco, però, dopo un primo momento di comprensibile indignazione, assunse un atteggiamento accomodante: si impegnò perfino a garantire le prerogative dei commercianti italiani in Libia. L’offerta turca, comunicata ad ultimatum scaduto – il termine era appena di 24 ore -, fu considerata dal governo italiano niente più che un artificio per guadagnare tempo.

Il 3 ottobre venti navi italiane aprirono il fuoco contro i vecchi forti di Tripoli, ornati più che difesi da obsoleti cannoni turchi. Il 5 ottobre 1911, due giorni dopo avveniva lo sbarco. E in due settimane tutti i 34000 uomini del corpo di spedizione da contrapporre ai 4000 soldati turchi, erano a terra, intenti a occupare Tripoli e Homs in Tripolitania e Tobruch, Derna e Bengasi in Cirenaica.

La violenta rivolta libica e l’ancor più sanguinosa rappresaglia italiana

A Tripoli e Tobruch gli sbarchi avvennero quasi senza problemi, ma nelle altre località si combatté. E a Homs, la previsione del console Galli fu immediatamente smentita: i 500 soldati turchi della guarnigione ebbero l’appoggio di oltre 1.000 libici.

Ma anche a Tripoli l’occupazione fu presto contrastata. Il 23 ottobre la guarnigione italiana veniva attaccata dai turchi e dai libici, non soltanto quelli delle tribù del deserto ma anche quelli che abitavano nell’oasi di Tripoli e nella città stessa. Ad attaccare erano almeno in 8.000, ed erano molto motivati. Era un’insurrezione generale, alla quale partecipavano donne e uomini, vecchi e giovani, adolescenti inclusi. La rivolta, quindi, spazzava via 21 ufficiali e 482 soldati di truppa, uccisi nell’oasi, mentre altri venivano ammazzati entro le mura cittadine.

La rappresaglia italiana fu immediata e infinitamente più brutale della violenta ribellione libica. Per le strade di Tripoli iniziò la caccia all’arabo. E tra fucilate e impiccagioni di gruppo (vi è una foto che ritrae 14 ribelli impiccati alla stessa forca nella piazza del Pane di Tripoli) furono assassinate 4000 persone. E non fu che l’inizio, perché presto le forche e le esecuzioni sommarie si sparsero in tutta la Libia.

La descrizione dei difensori libici come traditori

I giornali italiani proponevano titoli gonfi di indignazione e di rabbia per l’ingratitudine libica, definendo la reazione di chi difende le proprie case, la propria terra e i propri cari dall’invasore come «un’insidia», «un tradimento», «un agguato», «un vile attacco» e «un assalto proditorio».

I soldati italiani, infatti, erano stati, sì, orribilmente massacrati, ma occorre considerare che nelle oltre due settimane trascorse dallo sbarco, non soltanto le truppe avevano occupato le case e stravolto la vita degli abitanti di Tripoli, ma non avevano fatto nulla per ingraziarsi la popolazione e proporsi come liberatori. Anzi, come annotò nel diario storico del proprio reparto il maggiore Braganze, i bersaglieri non meno dei fanti si diedero un gran daffare a molestare le donne.

Gli arabi, dunque, avevano reagito all’occupazione italiana in corso con una violenza impressionante. Nell’oasi dove si era svolto l’attacco, tra il Forte Messri e il villaggio di Sciara Sciat, non avevano preso prigionieri. Anzi, le truppe italiane trovarono poi i corpi dei bersaglieri spesso mutilati dei genitali.

Il massacro indiscriminato degli arabi: adulti e bambini, donne e uomini

La reazione italiana, però, fu ancora più brutale e priva di discernimento. Gli arabi, infatti, nel ribellarsi all’occupazione se l’erano presa con i militari e non con quei civili italiani che vivevano e lavoravano a Tripoli. Le nostre truppe, invece, non fecero distinzioni.  La caccia all’uomo si scatenò con una rapidità e una ferocia imprevedibili.

Paolo Valera scrisse:

«I corrispondenti inglesi e tedeschi hanno restituito le loro tessere al generale Carlo Caneva per protestare contro i massacri degli arabi. Tutti loro hanno assistito a scene orribili. Il corrispondente della Westminster Gazzette ha dichiarato che fra 400 cadaveri di donne e di fanciulle e ragazze e fra i 4000 uomini abbattuti dalla gragnuola di piombo non vi potevano essere neppure 100 colpevoli».

Una lunga e sanguinaria «missione di civiltà»

Un anno dopo la fine del conflitto con la Turchia – che, firmando l’armistizio il 18 ottobre 1912, lasciò all’Italia i Vilayet della Tripolitania e della Cirenaica, nonché le isole egee del Dodecaneso -, il Re affermò che quella italiana in Libia era una missione di civiltà. Compito dell’Italia era insegnare i benefici della civiltà alle popolazioni indigene e nel farlo, rispettare le loro proprietà, le loro famiglie, le loro tradizioni e la loro cultura.

I libici, però, continuavano a non apprezzare tali «benefici della civiltà», visto che implicavano una sottomissione a chi, lungi dall’agire come un liberatore, ogni giorno dispiegava una dominazione assai più spietata e oppressiva di quella turca.

Data l’indisponibilità della popolazione locale a sottomettersi, le violenze da parte italiana procedevano, infatti, secondo un’inarrestabile escalation: migliaia di libici vennero condannati a morte come traditori, con sentenze del tutto arbitrarie, e altre migliaia furono deportate nelle colonie penitenziarie italiane – di Ponza, Caserta, Gaeta, Ustica, Favignana e delle isole Tremiti – a morire di freddo, di fame, di abusi e di malattie.

Quando la gestione della questione libica passò nelle mani del governo presieduto da Benito Mussolini – che decise di procedere con ancor più spietata decisione, rispetto ai suoi predecessori, alla riconquista dell’intera Libia, visto che dal dicembre del 1914 era stata in gran parte liberata dall’invasore italiano, costretto dai “ribelli” ad abbandonare le zone interne e a ritirarsi sulla costa -, iniziò una nuova fase, lunga un decennio, di inedite e vergognose atrocità. Tra queste, non mancarono fucilazioni, deportazioni e marce forzate, di oltre 1.000 chilometri attraverso il deserto, verso campi di concentramento impostati e gestiti con il preciso scopo di far morire di fame, maltrattamenti e malattie le migliaia di deportati.

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

A. Del Boca, Gli italiani in Libia, Vol. I, Roma-Bari, Laterza, 1986.
A. Del Boca, Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2005
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D. Quirico, Lo squadrone bianco, Milano, Mondadori, settembre 2003,
S. Romano, La quarta sponda. La guerra di Libia, 1911/1912, Bompiani, 1977

 

 

[1] Riguardo a Salvemini, su questa rubrica, si è ricordato che fu tra i 12 professori universitari italiani, su 1200, che rifiutarono di giurare fedeltà al regime fascista nel 1931