Il 23 ottobre è il giorno d’inizio della Rivoluzione ungherese del ‘56

L’Ungheria aveva combattuto al fianco della Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale, nella speranza, tra le altre, di recuperare alcuni territori persi alla fine del precedente conflitto. In questa situazione, il nemico dichiarato fu l’Unione Sovietica, che non doveva riuscire, nei piani di Hitler, ad inglobare i Magiari, così come era stato per la vicina Romania. Come noto, il Fuhrer non ebbe successo, e i Sovietici estesero la propria area di influenza fino a queste terre. Così, dal 1947, il Partito dei lavoratori ungheresi, guidato da Mátyás Rákosi, instaurò la dittatura. Il Patto di Varsavia del 1955, in contrapposizione alla NATO, ne suggellò l’appartenenza all’URSS.

L’inaudita violenza dell’Államvédelmi Hatóság (ÁVH), ovvero la polizia segreta ungherese, costola del KGB sovietico; le precarie condizioni di vita che contraddistinguevano i lavoratori magiari, causate dal collasso economico del paese; le inefficaci politiche terriere promosse dal Partito; l’impossibilità, per i giornalisti, di controllare i propri sindacati; il malcontento degli studenti universitari verso la gestione della propria istituzione. Queste furono alcune delle motivazioni alla base della rivolta, o meglio, rivoluzione, al centro dell’articolo di oggi.

Iniziò tutto proprio da una protesta studentesca del 23 ottobre, che però non era motivata da una situazione interna: al centro della manifestazione c’era la violenta repressione che il governo polacco aveva imposto alla rivolta della città di Poznań. Nondimeno, il sentimento d’insurrezione dilagò tra i partecipanti, raggiunti nel frattempo da migliaia di altri ungheresi, che diedero il via alla rivoluzione contro il regime di Rákosi.

Nel giro di pochi giorni, forti di milioni di sostenitori, gli insorti presero il controllo di numerose istituzioni in gran parte del territorio nazionale, non tralasciando il piano politico: il 24, Imre Nagy, già Primo ministro ungherese durante una parentesi moderata di due anni (‘53-’55), imposta direttamente dal Politburo sovietico, riprese il titolo perso l’anno precedente, sempre ad opera dell’URSS.

Dopo una lunga serie di scontri e negoziati, il 2 novembre, Pál Maléter fu nominato Ministro della difesa, ma la sua parabola politica fu fulminea: appena il giorno successivo, fu arrestato dal KGB durante le trattative per il ritiro dell’esercito russo. Il messaggio sovietico non avrebbe potuto essere più chiaro. Il 4 novembre, infatti, Nagy si rifugiò nell’ambasciata iugoslava, rassicurato circa la possibilità di ricevere l’asilo politico. Le rassicurazioni valsero fino al 22 dello stesso mese, quando, nella convinzione di essere riportato a casa, fu deportato in Romania.

Il 4 novembre fu una data degna di nota anche perché coincise con l’arrivo della temuta Armata Rossa alle porte della capitale. L’ancora Primo Ministro rivolse queste parole ai propri cittadini:

Qui parla il Primo Ministro Imre Nagy. Oggi all’alba le truppe sovietiche hanno aggredito la nostra capitale con l’evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico di Ungheria. Le nostre truppe sono impegnate nel combattimento. Il governo è al suo posto. Comunico questo fatto al popolo del nostro Paese ed al mondo intero.

La rivoluzione era finita: János Kádár fu posto a capo del neo-governo filosovietico, che, nel giro di pochi mesi, riuscì a spegnere anche l’ultima fiamma d’insurrezione magiara. Tutto era tornato come prima. Forse peggio.

Alessio Gaggero

 

22 ottobre 1975, Leonard Matlovich viene congedato dalla U.S. Air Force in quanto omosessuale

Quando ero nell’esercito, mi hanno dato una medaglia per aver ammazzato due uomini e mi hanno cacciato per averne amato uno.
(L. Matlovich)

Il 22 ottobre 1975, il reduce del Vietnam e istruttore militare Leonard Matlovich viene posto forzatamente in congedo dall’U.S. Air Force (USAF): non ha commesso reati né atti censurabili secondo il codice militare, ma, poco prima, aveva accettato di comparire sulla copertina della rivista Time con la scritta “I am a Homosexual”, divenendo il primo soldato americano a compiere un esplicito coming out.

 

Matlovich nasce nel 1943 da una famiglia del sud degli Stati Uniti, che gli impartisce un’educazione rigida e molto religiosa; a 19 anni si arruola nell’USAF, seguendo le orme paterne, e in Vietnam compie diverse azioni eroiche, che gli valgono la Bronze Star Medal per aver ucciso due vietcong, la Air Force Commendation Medal e il Purple Heart per essere stato ferito da una mina. Rientrato in patria, inizia un periodo di stazionamento in Florida, dove diviene istruttore; è proprio qui che, già quasi trentenne, incomincia a prendere coscienza del proprio orientamento sessuale ma, coerentemente al codice di comportamento non scritto delle forze armate e all’educazione conservatrice ricevuta in famiglia, mantiene il massimo riserbo in proposito.

All’interno dell’aviazione militare, in quel periodo, è all’ordine del giorno la questione delle discriminazioni razziali: sensibile all’argomento, nel 1971 Matlovich si offre volontario come istruttore nelle Air Force Race Relations Classes, create dai vertici amministrativi dell’USAF, a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, proprio per risolvere il problema della conflittualità tra commilitoni di provenienza diversa. Per il proprio incarico Leonard attraversa gli Stati Uniti, rendendosi conto che le discriminazioni nei confronti degli omosessuali sono feroci quanto quelle verso gli afroamericani.

Nel marzo del 1974 incontra Frank Kameny, uno dei più grandi attivisti per i diritti civili gay in America, presidente della Mattachine Society, che sta cercando un “caso” per testare la forza della messa al bando dell’omosessualità nel contesto militare statunitense.

Il 6 marzo del 1975, Matlovich recapita, presso l’ufficio dell’Air Force Base di Langley, in Virginia, una lettera con la quale dichiara al Dipartimento delle forze armate degli Stati Uniti d’America la propria omosessualità; all’ufficiale che gli chiede spiegazioni, risponde: “Significa Brown contro l’Ufficio Scolastico”, facendo riferimento alla sentenza della Corte suprema che nel 1954 dichiarò incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche.

Non è che un inizio. Quando l’8 ottobre il Time pubblica quel numero con la copertina raffigurante Leonard Matlovich in divisa militare con la scritta: “Io sono un omosessuale”, diventa un simbolo del movimento gay, ma deve affrontare la dura reazione dell’alto comando dell’USAF e lo choc dei genitori; persino la chiesa mormone, a cui si è avvicinato negli ultimi anni, avvia una procedura di scomunica nei suoi confronti.

Successivamente alla pubblicazione della copertina del Time, l’alto comando pone Matlovich davanti a una scelta: l’Aviazione potrebbe chiudere un occhio, classificando il suo comportamento come “non gravemente sconveniente” e concedendogli di restare nelle forze armate, a condizione che egli giuri e sottoscriva di “non praticare mai più l’omosessualità”. Leonard rifiuta e, nonostante gli anni di servizio impeccabili, le medaglie al valore e le onorificenze, il 22 ottobre viene cacciato dall’USAF in quanto omosessuale.

Denuncia quanto accaduto presso il Tribunale militare, facendo causa per il reintegro nell’Air Force; il processo dura fino al settembre del 1980, quando il dipartimento dell’USAF, a fronte di un’espressa richiesta del giudice Gerhard Gesell, non riesce a presentare un valido motivo a fondamento dell’esclusione dell’istruttore. Il giudice riconosce che l’Aviazione ha agito in base a un insieme di pregiudizi personali dello Stato Maggiore e non applicando una precisa norma giuridica,  ordinando quindi che Matlovich sia riassunto, promosso di grado e riceva tutti gli stipendi arretrati; tuttavia, temendo future ritorsioni sul luogo di lavoro ed eventuali ulteriori ricorsi, egli decide di accettare una transazione economica di 160mila dollari per rinunciare a rientrare in servizio, ottenendo comunque un congedo definitivo “con onore”.

Intorno al suo caso vennero pubblicati articoli su giornali e riviste in tutto il paese, interviste televisive e un film televisivo sulla NBC. Immediatamente dopo l’USAF ribadì espressamente la legittimità della propria prassi di allontanare ogni militare omosessuale, uomo o donna, anche se nascosto; nel 1993 sarà varata in tutte le forze armate USA la politica del “Don’t ask, don’t tell” (“non chiedere, non dire”), che vieterà tanto le indagini sull’orientamento sessuale quanto il coming out dei militari gay.

A partire dagli anni Ottanta, Matlovich collabora in numerose iniziative mirate al riconoscimento dei diritti civili e contribuisce alla costituzione della “Never Forget Foundation”, allo scopo di erigere monumenti ai leader gay del passato.

All’inizio del 1987 annuncia al programma televisivo Good Morning America di essere ammalato di AIDS e nel giugno di quell’anno lo arrestano con altri attivisti, di fronte alla Casa Bianca, mentre protesta contro le insufficienti misure sanitarie prese dall’allora presidente Ronald Reagan per combattere il virus; partecipa alle manifestazioni del movimento fino a poche settimane prima di morire. Tiene il suo ultimo discorso pubblico il 7 maggio 1988, davanti al Campidoglio di Sacramento, dove ha sede il governo dello Stato della California, nel corso di una manifestazione per i diritti civili, pronunciandosi contro l’indifferenza, le prevaricazioni e l’odio nei confronti degli omosessuali.

Muore, a causa di complicazioni dovute all’HIV, il 22 giugno 1988. Per sua espressa volontà, sulla tomba non compare il suo nome, in quanto essa vuole rappresentare un monumento dedicato a tutti i soldati omosessuali o, più in generale, LGBT; nella lapide si legge la scritta, da lui redatta, riportata nell’apertura di questo articolo. Sceglie di essere seppellito nel cimitero del Congresso di Washington anziché in quello di Arlington, tradizionalmente destinato ai militari; le sue spoglie riposano nella stessa fila in cui è sepolto John Edgar Hoover, onnipotente direttore dell’FBI dal 1924 al 1972, persecutore zelante di attivisti di ogni genere, militanti per i diritti civili, “sovversivi, traditori e comunisti”.

Arriverà un giorno in cui sarà possibile servire il proprio paese e amare una persona del tuo stesso sesso, ne sono sicuro. Fino a quel giorno andrò avanti, a testa bassa, manifestando, sostenendo amici e sconosciuti nella loro battaglia per i diritti di uomini e donne, omosessuali e lesbiche, e anche per i diritti a cure mediche e farmaci che ci vengono preclusi. So che un giorno l’AIDS mi scaverà una fossa, ma fino all’ultimo combatterò. Dopotutto sono e sarò sempre un soldato.

Silvia Boverini

 

Fonti:
www.wikipedia.org;
A. Boccia, “Leonard Matlovich, il soldato che combatté per i diritti degli omosessuali”, www.flyorbitnews.com;
www.soultrotters.it;
M. Consoli, “Leonard Matlovich”, www.culturagay.it;
L. Rothman, “How a Closeted Air Force Sergeant Became the Face of Gay Rights”, www.time.com;
www.trevenezie.it;
www.leonardmatlovich.com

I Nuclei Armati Rivoluzionari assassinano Francesco Straullu 21 ottobre 1981

Mercoledì 21 ottobre alle 8.50 abbiamo giustiziato i mercenari torturatori della DIGOS Straullu e Di Roma. Ancora una volta la Giustizia Rivoluzionaria ha seguito il suo corso e ciò resti di monito per gli infami, gli aguzzini, i pennivendoli. Chi ancora avesse dei dubbi circa la determinazione e la capacità dei combattenti rivoluzionari ripercorra le tappe di questo ultimo anno e si accorgerà che il tempo delle chiacchiere è finito e la parola è alle armi […]. Non abbiamo né poteri da inseguire né masse da educare; per noi quello che conta è rispettare la nostra etica per la quale i Nemici si uccidono e i traditori si annientano. La volontà di lotta ci sostiene di giorno in giorno, il desiderio di vendetta ci nutre. Non ci fermeremo! Non temiamo né di morire né di finire i nostri giorni in carcere; l’unico timore è quello di non riuscire a far pulizia di tutto e di tutti, ma statene certi, finché avremo fiato, non ci fermeremo […]. Mercoledì, per ultimo, è toccato a Straullu. I suoi misfatti erano ben superiori al già grave fatto di appartenere alla cricca degli aguzzini di Stato […] ben sappiamo in che condizioni taluni camerati sono usciti dal suo ufficio, dopo ore di sevizie. Ben sappiamo le pratiche laide che adottava nei confronti delle donne dei camerati in galera. Ben sappiamo come osava vantarsi di tutto ciò. Finché la mano della giustizia l’ha raggiunto ed annientato, come non tarderà a raggiungere ed annientare chiunque lo meriti.

Con queste dure parole fu rivendicato l’omicidio del Capitano della DIGOS, durante il quale perse la vita anche Ciriaco Di Roma, Guardia scelta e autista di Straullu in quel momento. I proiettili ne martoriarono il corpo, mentre la macchina passava per Acilia alla volta della Questura, e il volantino cercò di infangarne il nome, tentando di uccidere non solo l’uomo, ma anche la sua memoria.

 

Tanta violenza voleva essere giustificata proprio da quei comportamenti che, secondo i suoi assalitori, Straullu avrebbe messo in atto all’interno della Questura. Più probabilmente, i successi collezionati dall’ufficiale, nell’ambito delle indagini contro l’eversione di estrema destra, si posero, suo malgrado, alla base dell’omicidio.

Fu così che due tacche si aggiunsero alla cintura dei NAR, quell’organizzazione terroristica d’ispirazione neofascista che martoriò il nostro paese a cavallo tra gli anni 70 e 80. La strage della stazione di Bologna fu probabilmente il colpo più duro messo a segno, nel ruolo di esecutori materiali, nonostante non arrivò mai un’ammissione di responsabilità: il gruppo era infatti nato all’insegna della rottura con i precedenti golpisti e stragisti, per cui disconobbe fino alla fine di aver organizzato l’attentato.

Straullu rappresentò uno degli ultimi atti di quel nucleo, la cui attività si concluse nel 1981, con l’arresto della maggior parte dei suoi membri. Il Capitano di Polizia, al contrario, fu insignito della Medaglia d’oro al merito civile.

Alessio Gaggero

 

20 ottobre 1944: ultimo giorno nella vita di 184 bambini milanesi della scuola elementare Francesco Crispi

La mattina del 20 ottobre di 75 anni fa fu l’ultima in cui si svegliarono e scesero dai loro letti per andare alla scuola elementare “Francesco Crispi”, nel quartiere di Gorla, a Milano 184 bambini. Quel mattino un bombardamento aereo alleato colpì per errore l’intera zona, e una bomba cadde sulla scuola, proprio mentre gli alunni e il personale stavano per uscire dall’edificio per andare nel rifugio antiaereo. Con i bambini morirono 14 insegnanti, la direttrice della scuola, 4 bidelli e un’assistente sanitaria.

In tutto per via di quel bombardamento, in città, si contarono 614 morti.

 

Perché venivano bombardate le nostre città?

L’Italia era entrata in guerra 4 anni prima al fianco della Germania di Hitler, e da subito la sua aviazione aveva preso parte al bombardamento dei Paesi nemici. Aveva anche partecipato, per esplicita volontà di Benito Mussolini, alla battaglia d’Inghilterra, con 170 aerei (tra caccia, bombardieri e ricognitori) del Corpo Aereo Italiano della Regia Marina.

Per gli inglesi, prima, e per gli americani, poi, dal momento della loro entrata nel secondo conflitto mondiale, al fianco della Gran Bretagna, quindi, il bombardamento delle città italiane non rappresentava un cruccio di tipo morale.

Neppure cessarono i bombardamenti sulle città italiane dopo l’armistizio tra il Regno d’Italia e le forze alleate antihitleriane, firmato a Cassibile il 3 settembre del 1943 – quindi, a distanza di poco più di un mese dal voto di sfiducia del Gran Consiglio del Fascismo al governo Mussolini, che sancì la caduta del fascismo e l’arresto dello stesso duce -, reso noto solo l‘8 settembre.

Infatti, le truppe tedesche, a seguito dell’8 settembre avevano disarmato quasi un milione di soldati italiani e preso possesso dell’intero territorio italiano e delle sue fabbriche, asservendole ai loro scopi bellici. Restavano escluse sole le parti della Penisola già interessate dagli sbarchi – in Sicilia (nella notte tra il 9 e il 10 luglio del 1943) e a Salerno (9 settembre ’43) – e dalla conseguente avanzata delle forze alleate.

Inoltre, il 18 settembre del 1943, Mussolini, già destituito e imprigionato sul Gran Sasso, dopo essere stato liberato dai tedeschi e portato al cospetto di Hitler, annunciava su Radio Monaco la costituzione della Repubblica Sociale Italiana (la cosiddetta Repubblica di Salò).

In quell’autunno del ’44, dunque, gli angloamericani fronteggiavano le truppe tedesche e fasciste lungo la “linea gotica”, e continuavano a colpire con i loro bombardieri le città a nord di tale linea.

Chi fu a bombardare Gorla

Il comando alleato, che aveva costituito la 15ª Air Force USAAF affinché distruggesse gli obiettivi sensibili in tutto il sud Europa occupato dalle truppe tedesche, mirava a neutralizzare anche la capacità bellica delle forze nazifasciste, dislocate nel nord Italia. Così, a metà ottobre, su segnalazione della RAF, venne affidato alla 15ª Air Force USAAF il compito di distruggere, in particolare, le strutture produttive meccanico-siderurgiche ancora attive nella periferia nord di Milano.

Gli inglesi (la Royal Air Force, RAF) bombardavano prevalentemente di notte, per ridurre l’efficacia oppositiva della contraerea di terra e degli aerei da caccia germanici. Ciò consentiva ai loro bombardieri di volare ad una quota inferiore, con un maggiore carico di bombe e con meno uomini a bordo, non essendo necessari mitraglieri. In tal modo, in caso di abbattimento, anche le perdite umane erano inferiori. L’oscurità, però, comportava alcune conseguenze di non poco conto: i bombardamenti notturni non erano bombardamenti di precisione, anzi, di fatto, erano un attacco generalizzato su tutto il centro abitato, con conseguente distruzione di tutti gli edifici presenti nell’area bersaglio, fossero essi di rilevanza bellica o meno. In breve, inevitabilmente veniva coinvolta anche la popolazione civile. Gli americani invece, prediligevano l’attacco diurno, anche se comportava assai maggiori rischi per l’equipaggio e obbligava a volare ad una quota più alta, proprio per evitare il fuoco antiaereo di terra, implicando, quindi, il trasporto di un minore quantitativo di bombe e di un equipaggio più numeroso, comprendente anche i mitraglieri deputati all’autodifesa del velivolo.

Furono questi bombardieri statunitensi a bombardare Milano quel 20 ottobre del 1944. E si trattò di un bombardamento diurno.

L’operazione

Il mattino del 20 ottobre 1944, dall’aeroporto di Castelluccio dei Sauri, nei pressi di Foggia, decollarono per raggiungere Milano:

– i 38 “B-24” del 461º Bomb Group, che avevano come obiettivo gli stabilimenti Isotta Fraschini

– i 29 “B-24” del “484º”, che dovevano colpire gli stabilimenti dell’Alfa Romeo.

– i 36 bombardieri “B-24” del 451º Bomb Group, il cui obiettivo era la distruzione degli stabilimenti della Breda di Sesto San Giovanni.

Mentre le prime due missioni, quella del “461º” e del “484º”, centrarono in pieno gli obiettivi assegnati, procurarono un numero limitato di vittime tra la popolazione civile, l’azione del “451º”, come sappiamo, fu un disastro.

Gli “errori” del 451º Bomb Group

Secondo il piano d’attacco, che prevedeva l’azione di due ondate successive di bombardieri, questi dovevano portarsi a 4 km ad ovest dal bersaglio, per effettuare una virata a sinistra di 22° e trovarsi sopra gli stabilimenti della Breda.

La prima ondata di bombardieri fallì per via di un cortocircuito che portò al lancio delle bombe prima di raggiungere l’obiettivo, senza provocare danni, poiché gli esplosivi caddero in mezzo alla campagna. La seconda ondata, raggiunto il punto iniziale sopra Milano, per errore, virò per 22° a destra invece che a sinistra. Quando si accorsero dell’errore, era ormai troppo tardi per cambiare direzione ed effettuare un secondo volo di allineamento. Le bombe erano ormai tutte innescate, sicché gli aerei non potevano atterrare alla base senza liberarsene prima. Il comandante, colonnello Knapp, valutò rischioso anche attendere di liberarsi del carico durante il viaggio di ritorno sulla campagna cremonese o nel Mar Adriatico. Così decise che gli i 36 36 bombardieri “B-24” dovessero disfarsene immediatamente, facendole cadere sul centro abitato sottostante.

Il bombardamento

Fu così che alle ore 11.29 sugli abitati dei quartieri di Gorla e Precotto caddero 80 tonnellate di esplosivo. Molti abitanti avevano già raggiunto i rifugi antiaerei, essendo stati avvertiti dal primo allarme delle ore 11.14 e dal successivo delle 11.24, ma tanti restarono ammazzati. E tra questi anche coloro che si trovavano nella scuola elementare “Francesco Crispi”: una bomba cadde proprio nel vano delle scale, che i bambini, condotti dal personale scolastico, stavano scendendo per andare nel rifugio antiaereo della scuola.

 

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

http://www.piccolimartiri.it/

https://it.wikipedia.org/

Il 19/10/2017 per la morte di Riccardo Magherini sono condannati 3 carabinieri per omicidio colposo

Figlio dell’ex calciatore Guido Magherini, Riccardo aveva talento, ma la sua carriera calcistica fu frenata da diversi infortuni. Aveva 39 anni, l’ex calciatore delle giovanili della Fiorentina, si era separato da poco dalla moglie Rosangela e viveva, in affitto, in una stanza a borgo San Frediano, un quartiere di Firenze.

Quell’orribile notte tra il 3 e il 4 marzo 2014 a San Frediano.

Le prime ricostruzioni

Secondo le prime ricostruzioni, Riccardo Magherini nella notte tra il 2 e il 3 marzo del 2014, dopo una cena con gli amici, li aveva accompagnati all’hotel dove costoro alloggiavano. Poi aveva preso un taxi per tornare a casa sua, nel quartiere fiorentino di borgo San Frediano. Salito a bordo avrebbe litigato con il conducente. Avrebbe gridato e chiesto aiuto, poi, in stato di agitazione, avrebbe rapinato un cellulare e infranto due vetrine. I carabinieri accorsi lo avrebbero ammanettato “non senza difficoltà”, per poi chiamare un’ambulanza. Sul mezzo della Croce Rossa, però, non c’era un medico, e i volontari, su “ordine” dei carabinieri, che giudicavano l’uomo “pericoloso”, si astennero dall’intervenire. All’arrivo dell’automedica, però, Magherini sarebbe stato rianimato a lungo in strada, per poi essere portato in ospedale dove fu ufficialmente dichiarato il decesso.

La famiglia venne informata del fatto che la morte sarebbe avvenuta per intossicazione da cocaina e per asfissia.

La Procura di Firenze apre un’inchiesta, ma l’unico indagato è proprio Magherini, per il furto del cellulare che ha strappato al cameriere per chiedere aiuto. Però, l’autopsia rivela che non è stata la cocaina assunta da Magherini a causare la sua morte – ne avrebbe assunta una quantità che non avrebbe potuto determinarne la morte – ma l’asfissia posturale

Le successive ricostruzioni di quella notte

Come spiegare, però, le ecchimosi sul volto e sul corpo di Magherini?

Spuntò fuori uno dei video che qualcuno tra i residenti aveva girato quella notte con il telefonino. E nel video si sentivano le grida e la disperazione di Riccardo che, ammanettato e immobilizzato, continuava a chiedere aiuto.

Un’altra ricostruzione propose, allora, alcuni importanti dettagli. Richy, mentre passeggiava per strada, sarebbe stato assalito da una paura incontrollabile, dal terrore che qualcuno volesse fargli del male. Salito a bordo del taxi, tale paura esplose quando il tassista non svoltò nella strada da lui indicata. A quel punto si sarebbe gettato fuori dall’auto, gridando, per finire in una pizzeria del quartiere, da cui, dopo avere preso un cellulare ad un cameriere, sarebbe nuovamente scappato.

Scappava e invocava disperatamente aiuto, quando si imbatté in due carabinieri. Costoro cercarono di trattenerlo mentre Riccardo si agitava sempre di più. I carabinieri, allora, chiamarono rinforzi, mentre dalle finestre delle case si affacciavano alcuni abitanti, e tra questi vi era chi cominciava a riprendere la scena con il cellulare.

“Aiuto, ho un figliolo”

I militari, dunque, lo ammanettarono e mentre era prono e gli sferrarono calci nell’addome. Uno di essi era a cavalcioni sopra di lui

Riccardo Magherini continuava a invocare aiuto e a chiedere che non gli si facesse del male: «Vi prego, ho un figlio!».

Poi, come già detto, vi fu l’arrivo della prima ambulanza, priva di medico, quindi della seconda, quando ormai era troppo tardi. L’asfissia posturale lo aveva ucciso, cioè il fatto che il suo torace fosse stato schiacciato sull’asfalto impedendogli di respirare.

Le foto e i video arrivarono in Senato, dove la vicenda fu oggetto di una denuncia da parte dal presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani.

 

Il giudizio di primo grado

Un anno dopo, nell’indagine giudiziaria per omicidio colposo, furono indicati gli indagati. Si trattava delle tre volontarie della Croce Rossa, che erano intervenute quella notte e dei carabinieri che avevano fermato Richy: Stefano Castellano, Davide Ascenzi, Agostino Della Porta e Vincenzo Corni.

Fabio Anselmo, lo stesso avvocato che assiste la famiglia di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi, assunse l’incarico di difensore della parte civile.

Il processo

Il 3 febbraio 2015, il gip rinviò a giudizio quattro carabinieri e tre volontari della Croce Rossa. Per il pubblico ministero, Bocciolini, la vittima sarebbe morta per “arresto cardiocircolatorio per intossicazione acuta da cocaina associata a un meccanismo asfittico”. I carabinieri, durante l’arresto, quindi, non avrebbero osservato il protocollo previsti per il fermo di soggetto in stato di alterazione psicofisica. Mentre l’accusa per i tre volontari (ma al processo parteciparono poi soltanto due, perché il terzo nel frattempo era deceduto in un incidente) era quello di non avere adottato «alcuna iniziativa tesa a facilitare la dinamica respiratoria».

L’accusa aveva chiesto condanne a nove e dieci mesi per tre dei quattro carabinieri (non per il quarto, dal momento che non aveva partecipato al “blocco” a terra, essendo stato ferito durante le fasi dell’arresto) e a nove mesi per una volontaria.

La sentenza

Il 13 luglio 2016, il giudice Barbara Bilosi, modificate le imputazioni (inclusa l’ipotesi dell’inosservanza della direttiva dell’Arma), condannò tre carabinieri a otto e sette mesi di reclusione e assolse i volontari.

Il giudice ritenne che le fasi dell’arresto si erano svolte in maniera legittima e che la responsabilità dei carabinieri sorgeva in quei minuti in cui Magherini, pur muto, era stato mantenuto prono a terra.

La sentenza fu oggetto di ricorso in appello dalla parte civile, che chiese una condanna più severa per i carabinieri, e dal procuratore Bocciolini, secondo il quale sussisteva la responsabilità anche del quarto carabiniere e di entrambe le volontarie.

La sentenza di appello del 19 ottobre 2017: Riccardo Magherini è morto per asfissia, non per colpa propria

La sentenza di appello del 19 ottobre 2017, in sostanza, confermò le condanne del giudice di primo grado: otto mesi a Vincenzo Corni, e sette mesi ciascuno a Stefano Castellano e Agostino della Porta.

Però, la Corte d’Appello stabilì anche a carico dei tre militari dell’Arma il pagamento di provvisionali risarcitorie non previste dalla decisione in primo grado: 50mila euro ciascuno ai genitori di Magherini e al fratello, mentre altri 100mila per il figlio.

Inoltre la Corte d’Appello decise di trasmettere una copia degli atti all’ufficio del Pubblico Ministero, al fine di valutare la conduzione di nuove indagini relativamente al reato di abuso dei mezzi di contenzione, rispetto alla fase finale della vicenda, cioè nei minuti che precedettero la morte, allorché Magherini, in progressiva asfissia, venne bloccato a terra dai carabinieri, che lo schiacciarono al suolo con il peso del loro corpo.

Un aspetto non trascurabile della decisione della Corte d’Appello, secondo l’avvocato Fabio Anselmo, fu l’esclusione del «contributo concausale di Riccardo nella sua morte: è morto per asfissia, non per colpa propria».

Sulla sentenza d’appello, tuttavia, è stato proposto ricorso alla Corte di Cassazione sia da parte della difesa dei militari sia da parte dell’avvocato Anselmo. Costui ha chiesto l’annullamento della sentenza e un nuovo processo per omicidio preterintenzionale a carico dei carabinieri intervenuti. Il suo convincimento è che i tre militari siano responsabili dell’evento morte «come conseguenza del reato di percosse». Ma la quarta sezione penale della Cassazione nel novembre del 2018 ha assolto i tre carabinieri accusati di omicidio colposo perché “il fatto non costituisce reato“. Il sostituto pg della Cassazione Felicetta Marinelli, aveva chiesto invece di confermare la condanna per omicidio colposo, ma secondo il collegio i carabinieri che immobilizzarono Riccardo Magherini non potevano prevedere la sua morte perché “non avevano le competenze specifiche in materia” di arresto di persone che si trovavano nel suo stato, cioè “in delirio eccitatorio” per “intossicazione da cocaina” e il “solo atto violento non giustificato” commesso sarebbe stato quello costituito dai due calci sferrati da Corni quando era Magherini già a terra e “contenuto” dai quattro carabinieri.

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

https://www.fanpage.it/aiuto-ho-un-figlio-la-storia-di-riccardo-magherini-morto-durante-e-per-un-fermo-dei-carabinieri/

https://ilmanifesto.it/omicidio-magherini-riccardo-non-aveva-colpe/

http://www.ilsitodifirenze.it/content/656-omicidio-magherini-novembre-udienza-cassazione

https://tg24.sky.it/cronaca/2017/10/19/morte-riccardo-magherini-firenze-sentenza-appello.html

18 ottobre 1912: l’armistizio e il macello “umanitario e sentimentale” in Libia

Era un 18 di ottobre quando l’Italia firmò a Losanna l’armistizio con la Turchia, chiudendo così la guerra italo-turca, iniziata l’ottobre precedente. Ma, in quel 18 ottobre 1912, per gli abitanti della Libia – cioè di quelle terre per il cui dominio si erano scontrate le truppe del Regno d’Italia e l’Impero ottomano -, gli spargimenti di sangue e le sofferenze erano appena gli inizi.

L’annessione italiana della Tripolitania, della Cirenaica e del Dodecaneso

Il 29 settembre 1911, previo invio di un ultimatum di appena 24 ore, il Regno d’Italia aveva dichiarato guerra all’Impero Ottomano per impossessarsi delle due province libiche della Tripolitania e della Cirenaica.

La guerra era stata non esattamente fulminea come previsto dal governo presieduto da Giolitti, perché, se le truppe turche di stanza in Libia erano incomparabilmente inferiori per numero e armamenti rispetto al contingente italiano, la condotta degli italiani (su cui ci si è soffermati in un altro post del 5 ottobre 2018), e il fatto che l’Italia, già il 5 novembre 1911, appena un mese dopo lo sbarco delle sue truppe sulle coste libiche, con il regio decreto n. 1247, pur controllando soltanto un’esigua fascia costiera, avesse dichiarato unilateralmente l’annessione delle due province ottomane, ebbero l’effetto di scatenare l’insurrezione della popolazione contro il nuovo invasore. Che tale era, in effetti.

 

L’insostenibilità della situazione turca

I turchi presenti in Libia, in effetti, avrebbero potuto essere efficacemente aiutati dalla madre patria soltanto via mare, ma ad impedirlo c’era la marina italiana[1]. Inoltre, proprio per forzare la mano al governo turco, l’Italia aveva occupato le isole del Dodecaneso, sottraendo, così, un’altra porzione di possedimenti alla dominazione ottomana[2]. In tal modo, le forze italiane si erano significativamente avvicinate allo stretto dei Dardanelli, arteria vitale per l’Impero ottomano.

Ad un anno di distanza dall’inizio dei combattimenti, la resistenza turca in Libia era, quindi, sostanzialmente debellata, mentre nei Balcani le truppe ottomane si trovavano a fronteggiare l’attacco della Lega Balcanica (l’alleanza fra i regni di Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria), che a partire dall’8 ottobre (lo abbiamo ricordato qui), con la dichiarazione di guerra da parte del Montenegro, diedero il via al primo conflitto balcanico.

I colloqui di pace e i contenuti del Trattato

Il 18 ottobre, a Losanna, i plenipotenziari italiani e ottomani firmarono il trattato, che prevedeva oltre, naturalmente, alla cessazione delle ostilità e allo scambio dei prigionieri, anche alcuni importanti aspetti che furono però in larga parte disattesi[3]. L’autonomia della Tripolitania e della Cirenaica dall’Impero ottomano era attenuata dal mantenimento della sua sovranità giuridica e religiosa, e dalla garanzia da parte dell’Italia della presenza di un rappresentante religioso del califfo nelle due province. All’Italia sarebbe spettata l’amministrazione civile e militare, ma doveva concedere l’amnistia alle popolazioni arabe che avevano partecipato alle ostilità.[4]

La mancata revoca dell’annessione di Tripolitania e Cirenaica

Il Regno d’Italia, però, non revocò mai il regio decreto con il quale aveva proclamato unilateralmente l’annessione delle Tripolitania e della Cirenaica. Così come non ritirò i propri contingenti dal Dodecaneso. Il mancato rispetto di tale clausola venne giustificata da parte italiana come ritorsione per la prosecuzione degli atti di ostilità delle popolazioni arabe contro la propria amministrazione: l’accusa alla Turchia era di avere fomentato e appoggiato la resistenza libica.

La repressione della resistenza anti-italiana in Libia: “Abbiamo sparso solo il sangue indispensabile”

Il fatto è che le truppe italiane in Libia controllavano appena il 10% dell’intero territorio e anche laddove si erano insediate si trovavano di fronte all’aperta ostilità della popolazione, comprensibilmente risentita per l’invasione, l’annessione e le rappresaglie cruentissime operate dagli italiani.

Questi ultimi, però, parevano incapaci di comprendere che l’inasprimento continuo della loro repressione della rivolta non faceva che alimentarla. Arrivavano perfino a rammaricarsi di eccessiva indulgenza.

Ezio Maria Gray, ad esempio, che la notte del 23 ottobre 1911 aveva partecipato per le vie di Tripoli alla caccia all’arabo di cui si dato conto nel precedente post, considerava la repressione troppo prudente, perfino gentile.

Un pugno fermo? Non diciamolo neppure per pudore! Il sentimentalismo, che è una malattia tipica e torpente della nostra razza, inquinò anche in quel giorno la nostra difesa

Quattromila trucidati in quella rappresaglia. Altri quattromila, poi, deportati nelle colonie penitenziarie italiane delle Tremiti, di Gaeta, Caserta, Ponza e Favignana.

A quelli come Gray non importava che i libici venissero impiccati in maniera totalmente arbitraria, che a cadere sotto i colpi della violenza coloniale fossero anche anziani, donne e bambini. Per Gray quella in atto era una lezione annacquata, blanda.

Una repressione sentimentale e bonaria, un colonialismo debole umanitario

Anche Filippo Tommaso Marinetti considerava la condotta degli italiani come una conquista all’acqua di rose. Affermava:

«Abbiamo subito la sanzione fatale del nostro umanitarismo coloniale».

In un passo del suo La bella guerra Gray, non gli era da meno e scriveva:

«Abbiamo sparso solo il sangue indispensabile, e neppure quello necessario. Mentre il tradimento rinnovabile avrebbe imposto il massimo rigore».

A costoro, evidentemente, parevano dettate da fatale umanitarismo coloniale e da italica assenza di rigore le deportazioni di migliaia di libici nelle colonie penitenziarie italiane (a Gaeta, Caserta, Ponza, Ustica, Favignana e sulle isole Tremiti), così come le incessanti fucilazioni e impiccagioni.

«Io mi domando se siamo in Italia, e se il Governo sappia che un tal Cesare Beccaria è nato in Italia»

A svelare inequivocabilmente il volto disumano di quella che il Re aveva chiamato «una missione di civiltà», fu l’Avanti, che il 5 dicembre del 1913, pubblicava sei fotografie che mostravano dei soldati italiani intenti a ad impiccare degli arabi.

Il 18 dicembre Filippo Turati in Parlamento denunciava l’infamia italiana:

«Ogni soldato che compie la nobile funzione del boia riceve, per mezzo dei carabinieri, una sportula di 5 franchi». E aggiungeva: «Io mi domando se siamo in Italia, e se il Governo sappia che un tal Cesare Beccaria è nato in Italia».

Quella era l’Italia, evidentemente, e quel Governo sapeva chi era Cesare Beccaria, ma non se ne curava granché. Ancora meno se ne sarebbe curato il governo Mussolini quando procedette alla riconquista della Libia, puntando su una brutalità ancor più sistematica di quanto non fosse accaduto sotto i governi liberali.

All’interno di questi governi, ad esempio, il non proprio sentimentalista ministro delle Colonie, Ferdinando Martini – come già il suo predecessore Pietro Bertolini – nel 1914, aveva più volte ripreso il governatore della Cirenaica, il generale Ameglio, per l’uso arbitrario e incessante della forca ai danni di libici ritenuti “traditori”.

Se Bertolini e Martini non contestavano esplicitamente il fatto che venissero fucilati e impiccati così tanti libici, limitandosi ufficialmente a deplorare che ciò avvenisse senza reali accertamenti di colpevolezza, senza alcuna procedura formale, sotto il regime fascista caddero anche questi scrupoli.

Alberto Quattrocolo

 

Del Boca, Gli italiani in Libia, Vol. I, Roma-Bari, Laterza, 1986.

Del Boca, Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2005

Del Fra, Sciara Sciat. Genocidio nell’oasi: l’esercito italiano a Tripoli, Roma, Daranews, 1995

Labanca, La guerra italiana per la Libia 1911-1931, Bologna, Il Mulino, 2011

Quirico, Lo squadrone bianco, Milano, Mondadori, settembre 2003,

Romano, La quarta sponda. La guerra di Libia, 1911/1912, Bompiani, 1977

[1] Inoltre, l’Impero ottomano aveva già il suo bel daffare sul fronte balcanico, dove le popolazioni ad esso assoggettate gli rendevano particolare faticoso e oneroso il mantenimento della dominazione.

[2] L’Impero ottomano era già seriamente in difficoltà anche per le tensioni politiche interne che vedevano l’affermazione del movimento dei “Giovani turchi”

[3] I colloqui di pace tra Italia e Turchia erano iniziati a Losanna, già a luglio del 1912, protraendosi fino a settembre senza alcun progresso, ma la mobilitazione della Lega Balcanica fece precipitare le cose. Ad ottobre, il governo turco dovette ammettere di non poter reggere ulteriormente il confronto con l’Italia.

[4] Inoltre, si impegnava a versare annualmente alla Turchia un importo pari alla media delle somme da quella introitate dalle due province nei tre anni precedenti al conflitto.

I pugni di Smith e Carlos si alzarono nel cielo di Città del Messico il 17 ottobre 1968

Il 17 ottobre 1968, alle Olimpiadi di Città del Messico, si svolge una premiazione che passerà alla storia, ma non principalmente per i risultati sportivi.

La XIX edizione dei Giochi olimpici estivi si annuncia come l’Olimpiade nera, per la vera e propria invasione di atleti africani, soprattutto in pista, forse una sorta di riconoscimento per l’esclusione del Sudafrica dell’apartheid dalle competizioni a cinque cerchi.

In quel 1968, il contesto sociale e politico è incandescente in tutto il pianeta: il 16 marzo il massacro di My Lai, il 4 aprile l’assassinio di Martin L. King, il 5 giugno tocca a Bob Kennedy; e poi il maggio francese, le contestazioni studentesche e operaie, le lotte per i diritti, il Biafra, i carri armati sovietici sulla primavera di Praga.

Dieci giorni prima dell’apertura dell’Olimpiade, nel quartiere di Tlatelolco polizia ed esercito sparano per 29 minuti sui manifestanti radunati nella Piazza delle tre Culture, uccidendo 250 persone secondo la CIA, 500 secondo i giornalisti presenti, fra cui Oriana Fallaci, a sua volta ferita nell’eccidio.  Il governo messicano rassicura il CIO e il dipartimento di Stato USA: durante i Giochi non si ripeterà nulla di simile, l’accaduto riguarda solo una piccola parte della popolazione, l’ordine è già stato restaurato, le Olimpiadi si apriranno regolarmente.

Gli Stati Uniti sono attraversati dalle mobilitazioni per i diritti civili, molte città sono una polveriera. Gli atleti coloured sentono di essere strumenti in mano al potere bianco e di tornare utili soltanto quando è il momento di correre o saltare davanti al mondo, per poi tornare a non potersi nemmeno sedere su un bus una volta spenti i riflettori.

Nel 1967 Harry Edwards, sociologo a Berkeley, ex discobolo, aveva fondato l’OPHR, Olympic program for human rights. Gli studenti neri costituivano l’elite dello sport americano, soprattutto in discipline come l’atletica, il football e il basket e attiravano investitori per le università che frequentavano, ma non avevano accesso a molti corsi universitari, non potevano sedere alla caffetteria insieme ai bianchi e avevano residenze e bagni separati. Le rivendicazioni e istanze dell’OPHR vengono puntualmente respinte, finché non viene deciso il boicottaggio della partita di apertura del campionato di football universitario del 1967 tra San José State e Texas El Paso: in un clima teso, tra le minacce degli Hell’s Angels, la mobilitazione delle Black Panthers e la chiamata della guardia nazionale da parte dell’allora Governatore della California Ronald Reagan, la partita non viene giocata e ne conseguono ripercussioni economiche, occupazioni del campus e sit-in sino a che le barriere segregazioniste non vengono rimosse.

In quel momento Harry Edwards comprende la portata rivoluzionaria dello sport applicata alla politica e ai diritti civili, e concepisce il Progetto olimpico per i Diritti Umani in vista delle Olimpiadi del Messico previste per il 1968: “Perché dovremmo correre in Messico solo per strisciare a casa?”, si legge sui manifesti dell’OPHR.

 

L’idea è che gli atleti neri boicottino i Giochi, ma è difficile da realizzare, nonostante il sostegno espresso da Martin Luther King:

[Il boicottaggio] avrebbe un potere enorme, e il potere sta proprio nell’assenza. Sarebbe come una guerra senza i soldati neri. Non diciamo: bruciamo tutto. Diciamo solo che non ci interessa partecipare, poi vediamo come vi sentite senza di noi a far parte dello show.

Ma il reverendo King viene ucciso a Memphis. Ottenuta l’esclusione del Sudafrica razzista dai Giochi, l’OPHR infine opta per la partecipazione, lasciando i propri atleti liberi di manifestare la protesta come meglio credono. Tra questi, John Carlos e Tommie “Jet” Smith, studenti e corridori della San José State University. Cresciuto ad Harlem il primo, seguace di Malcolm X, battagliero e coraggioso fin dai tempi della scuola; figlio del sud degli Stati Uniti il secondo, ottiene una borsa di studio sportiva all’università:

Non volevo tornare nei campi di cotone; in America se ti vedono con le scarpe pulite e un libro sotto al braccio vuol dire che sei uno che ce l’ha fatta.

A Città del Messico, nella finale dei 200 metri piani vince Tommie Smith, il velocista di punta della squadra, “grazia liquida”, il primo al mondo a scendere sotto i 20”, davanti all’australiano Peter Norman e al compagno John Carlos.

La premiazione si tiene il giorno seguente, 17 ottobre: nel sottopassaggio che va dagli spogliatoi al podio Norman assiste ai preparativi dei due americani. Tutto è fortemente simbolico, dalla mancanza di scarpe, che insieme ai calzini neri indica la povertà, alla collanina di piccole pietre che Carlos mette al collo, una pietrina per ogni nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato. Smith e Carlos spiegano, e Norman dice: “Datemi uno dei distintivi, sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti.”. Così anche Norman sistema la coccarda sulla sinistra della tuta.

Parte l’inno americano, Tommie solleva il braccio destro, Carlos il sinistro, le mani strette a pugno per gridare la protesta al mondo, racchiuse in un guanto nero (un guanto a testa, Carlos si era scordato i suoi): entrambi ascoltano l’inno a capo chino.

Non sono i soli a protestare; l’aveva già fatto prima, terzo sul podio dei 100, con il pugno alzato, anche il velocista Charlie Greene; lo ripetono, con i baschi neri in testa, i tre colored americani guidati da Lee Evans, sul podio dei 400; a Tommie e John la staffetta vincitrice della 4×100 guidata da Wyomia Tyus dedica la medaglia d’oro.

Ma quando i tre scendono dal podio scoppia il finimondo: per i due americani consegue l’espulsione dal Villaggio Olimpico, e poi minacce personali, proteste, una persecuzione decennale che causa a entrambi la perdita del lavoro e contribuirà al suicidio della moglie di Carlos. Uno camperà lavando auto, l’altro come scaricatore al porto di New York e buttafuori ad Harlem; solo molti anni dopo li riprenderanno a San José, come insegnanti di educazione fisica e allenatori sportivi. Carlos, che ha fondato un’associazione per togliere dalla strada i giovani neri, sarà ingaggiato per fornire volontari ai Giochi di Los Angeles ’84; Smith diventerà docente di sociologia. E nel 2005 Norman sarà con loro, per l’inaugurazione di un monumento che ricorda quel giorno in Messico.

Nell’Australia che fino al 1975 segrega neri e nativi, Norman viene cancellato: supera 13 volte il tempo di qualificazione per i 200 e 5 quello per i 100, ma a Monaco ‘72 non lo mandano. Insegna educazione fisica, svolge attività sindacale, arrotonda in una macelleria. Il più grande sprinter australiano non è coinvolto in Sydney 2000 né tantomeno invitato. Sofferente di cuore, muore il 3 ottobre 2006: Smith e Carlos vanno a reggere la bara, il 9 ottobre, e questa data diventerà, su iniziativa USA, la giornata mondiale dell’atletica.

La foto della premiazione di Smith, Norman e Carlos fece il giro del mondo. Ha scritto il giornalista sportivo Gianni Mura:

Non erano due neri e un bianco a chiedere rispetto e giustizia su quel podio, erano tre esseri umani. ‘Sono affari vostri’, poteva dire Norman, ma non lo disse e non si pentì mai, e gli altri due nemmeno. Tutte cose che la foto non dice.

Silvia Boverini

 

Fonti:
E. Trifari, “Carlos e Smith: e la storia fu presa a pugni. Neri”, www.gazzetta.it;
G. Mura, “Sono uguale a voi. Quel volto bianco accanto ai pugni neri”,  www.ricerca.repubblica.it;
C. Geymonat, “17 ottobre 1968 – Due pugni chiusi nel cielo di Città del Messico”, www.riforma.it;
“Smith e Carlos, la rivoluzione della libertà” (Speciale 1968 a cura di A. Mastroluca), www.incontropiede.it;
L. Iervolino, “Trentacinque secondi ancora”, ed. 66thand2nd, 2017

Il rastrellamento del ghetto di Roma avvenne il 16 ottobre 1943

Il rastrellamento coinvolse il ghetto, ma non solo. Tutta la città fu setacciata dalla Gestapo, perché nemmeno un ebreo avrebbe dovuto salvarsi. Il tenente colonnello Kappler, comandante della polizia tedesca a Roma, dopo aver ricevuto due inequivocabili messaggi da Himmler, aveva provato a sostituire quelle centinaia di persone con 50 chili d’oro, ma non ottenne successo.

 

Il ministro dell’interno tedesco, infatti, essendo uno dei teorici della soluzione finale della questione ebraica, richiese l’immediata deportazione di qualunque persona di razza ebraica presente sul territorio. In tutta risposta, Kappler chiese il pagamento in oro al posto della deportazione, inviandolo direttamente a Berlino, unitamente alla proposta di usare gli ebrei romani come manodopera. Era il 28 settembre. Berlino rispose negativamente, pretendendo il rastrellamento della città. L’ultimo atto, prima del 16 ottobre, fu l’avviso, inviato ad Auschwitz, che un grosso contingente sarebbe arrivato di lì a qualche giorno.

Il Sabato nero, così ribattezzato in seguito, iniziò all’alba: più di 350 soldati tedeschi si sparpagliarono per la città, alla ricerca del proprio obiettivo, molto ben definito. Le Leggi razziali del 1938 si rivelarono infatti utilissime in questo frangente: le liste create di conseguenza servirono a raggiungere ciascun individuo, sempre che non avesse la fortuna di ricevere ospitalità da qualche vicino. Il Manifesto della razza (di cui abbiamo parlato in questo articolo) aveva raggiunto il suo scopo ultimo: l’affermazione della superiorità della razza ariana, che aveva potere di vita e di morte sulle altre.

Dunque, la retata. Di porta in porta, i tedeschi strapparono 1.259 persone ai loro letti, non risparmiando nemmeno i neonati, e li condussero all’allora Collegio militare. Lì rimasero per più di ventiquattr’ore, per dar modo di verificare l’identità di ciascuno. In 237 riuscirono a tornare a casa, non rispondendo ai requisiti nazisti. I rimanenti partirono da Tiburtina il 18 ottobre, in direzione Auschwitz. Dopo quattro giorni di viaggio in 18 carri bestiame, 2 morti e un giovane miracolosamente fuggito, arrivarono al campo di sterminio, che diede immediatamente conferma del suo nome: 820, insoddisfacenti sotto il profilo fisico, furono condotti nelle ‘docce’ appena arrivati. Gli altri furono smistati in diversi campi tedeschi.

Quindici uomini e una donna sopravvissero alla deportazione e al successivo internamento. Di questi, solo Lello Di Segni è attualmente vivo per poterlo raccontare. La sua testimonianza, unitamente a quelle di alcuni suoi compagni di sventura, è stata raccolta ne Il libro della Shoah italiana.

Alessio Gaggero

 

Il 15 ottobre 1987 viene ucciso il presidente del Burkina Faso Thomas Sankara

Ci hanno prestato i soldi gli stessi che ci hanno colonizzato. E allora, cos’è il debito se non un neocolonialismo governato dai paesi che hanno ancora pruriti imperiali?
(T. Sankara)

Il 15 ottobre 1987 viene ucciso a Ouadagoudou Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, in circostanze a tutt’oggi misteriose: ucciso a revolverate, forse deliberate, forse accidentali, durante una discussione, oppure crivellato dai colpi di un AK-47 in un agguato. Il corpo è seppellito in fretta e furia nella notte, poche ore dopo l’omicidio, senza disporre autopsia né altri accertamenti. Di certo, da subito, c’è solo il coinvolgimento dell’amico e compagno di lotte e di governo Blaise Compaoré (che con quella morte ottiene la guida del paese), probabilmente col supporto di qualcuno tra i molti potenti stranieri che Sankara, nella sua breve presidenza, era riuscito a inimicarsi: la lista è lunga, tra la Francia, la Costa d’Avorio, gli ambienti economici che orientano le politiche del Fondo monetario e della Banca mondiale, gli USA, la Libia dell’ex alleato Gheddafi, il politico liberiano Charles Taylor, tanto per nominarne alcuni.

Thomas Sankara è stato presidente del Burkina Faso per quattro anni, stagione breve ma significativa, rivoluzionaria e, a suo modo, profetica. La sua uccisione, a nemmeno trentotto anni di età, ha fatto spesso parlare di sogno spezzato, speranza recisa, incidente chiuso. I genitori avrebbero voluto prete quel figlio assetato di sapere e che eccelleva negli studi, ma lui sceglie la carriera militare senza essere mai un militarista o un guerrafondaio: sostiene che “senza una formazione e una preparazione politica un soldato è solo un potenziale criminale” e diverrà presidente in seguito a un colpo di stato senza spargimento di sangue.

Nasce nel 1949, nella provincia dell’Alto Volta, colonia francese fino al 1960; all’accademia militare di Ouagadougou entra in contatto con gruppi di orientamento marxista; in quanto studente migliore del suo corso, viene inviato a completare gli studi militari in Madagascar, dove affina le sue conoscenze politiche e letterarie: il marxismo, il Vangelo e il Corano (testi sacri delle due principali religioni voltaiche), gli insegnamenti di Kwame N’Krumah, Lumumba, Touré, Fanon, Cabral e altri esponenti del terzomondismo.

Tornato in Alto Volta, dopo qualche breve incarico e la partecipazione alla guerra contro il Mali (dove incontra Blaise Compaoré), nel 1976 è assegnato al centro di addestramento della città di Pô, dove comincia l’ascesa propriamente politica; all’addestramento militare Sankara affianca l’educazione civica, con l’obiettivo di formare veri e propri “soldati-cittadini”, che al mestiere delle armi associno il servizio alla società.

Intanto l’Alto Volta affronta bruschi cambiamenti, con due colpi di stato nel 1980 e ‘82; entrambi i nuovi leader provano a sfruttare il fascino che Sankara suscita in larghi settori della popolazione: primo ministro per il golpista Ouédraogo, allarma i settori più conservatori del regime per le proprie posizioni radicali, ma quando si decide di farlo arrestare, nel maggio del 1983, sulle strade della capitale si riversano migliaia di manifestanti, mentre i militari a Pô si sollevano contro il regime e l’amico e sodale Compaoré guida l’insurrezione. Il 4 agosto Sankara è alla guida del paese, Compaoré suo vice e ministro della Giustizia.

Esattamente un anno dopo, l’Alto Volta prende il nome che porta ancora oggi, accostando due parole dalle due lingue più diffuse nel paese, col significato di “terra degli uomini onesti”. Sankara intende affrancare anche simbolicamente la nazione dall’ex colonizzatore, la Francia, con cui cerca di rinegoziare gli accordi di cooperazione, scontrandosi con l’allora presidente francese Mitterrand, e si oppone alle riforme e ai programmi economici proposti dall’Occidente, volendo rendere il Burkina Faso autonomo, sia dal punto di vista politico sia da quello economico.

Sankara eredita un paese in gravi difficoltà. Più pragmatiche che socialiste in senso stretto, le misure economiche adottate sono finalizzate a impiegare le scarsissime risorse verso obiettivi minimi. Alla base di tutto il suo programma c’è la convinzione profonda che bisogna coinvolgere le masse: nei quartieri e nei villaggi nascono i Comitati di Difesa della Rivoluzione (CDR), un originale strumento di responsabilizzazione, educazione e coinvolgimento della popolazione, con l’intento di allargare la partecipazione popolare al processo decisionale. Dopo la riforma agraria, i CDR assumono il compito di incanalare i contadini verso forme societarie più efficienti, superando le strutture feudali tradizionali e costituendo cooperative agricole, promuovendo l’ammodernamento di tecniche e mezzi e il rimboschimento, pianificando l’uso delle scarse risorse idriche: con lo sviluppo di un’economia eco-sostenibile, il paese raggiunge l’obiettivo di garantire due pasti e dieci litri di acqua al giorno per ogni abitante.

Lo scopo ultimo di Sankara è dimostrare che i paesi africani – perfino il Burkina Faso, privo di materie prime – potrebbero rendersi pienamente autonomi dagli aiuti internazionali ed emanciparsi dalla miseria. Bisogna però partire dall’inizio, ripercorrendo di fatto quelle tappe che altrove avevano richiesto secoli: l’affermazione di un’agricoltura che sfami tutti, di un’industria che parta dai bisogni elementari (il tessile, la trasformazione alimentare) e un ripensamento dei bisogni indotti che il paese non può permettersi se non producendo debito e corruzione; “produciamo e consumiamo burkinabé” è uno degli slogan ufficiali.

L’agricoltura dell’Africa sub-sahariana è tipicamente itinerante. Sankara capisce che per uscire dal sottosviluppo bisogna coniugare natura e storia, affrontare il deserto, il problema climatico, ma anche la cultura mediatrice di usanze ancestrali: “La lotta contro la fame e quella per la riforma della società burkinabè sono intimamente legate”. Ritenendo che il vero sviluppo può nascere dove muore l’ignoranza, avvia una campagna di alfabetizzazione che coinvolge 5 milioni e mezzo di burkinabé, battendosi per un’educazione universale, aperta anche alle donne.

Compagni, non può esserci una vera rivoluzione sociale fino a che la donna non sarà liberata”: Sankara dà impulso a una rottura con la società patriarcale che sfrutta la forza lavoro e la “funzione biologica” della donna. Introduce l’obbligo della monogamia e l’uguaglianza femminile in termini ereditari, rende possibile il diritto al divorzio per le donne; combatte prostituzione, vagabondaggio, matrimonio forzato e infibulazione; chiama le donne a ricoprire cariche ministeriali o ruoli di elevata responsabilità in diversi ambiti; istituisce la campagna “i mariti al mercato” per far comprendere agli uomini le difficoltà delle donne nella gestione della casa e nella cura della famiglia.

Primo governante africano a dichiarare che l’AIDS è la più grande minaccia per l’Africa, lancia un programma di educazione sessuale nelle scuole e facilita l’accesso ai contraccettivi. Dota ogni villaggio di un presidio sanitario e promuove una campagna massiva di vaccinazione per i bambini, definita dall’Unicef come la più grande registrata al mondo.

Sankara è molto esposto anche sul piano internazionale, raccoglie dati, solleva dibattiti, denuncia corruzione, manipolazione, sfruttamento e attua le sue proteste: memorabili i discorsi alla 39ª Assemblea dell’Onu nel 1984 a New York, e presso l’Organizzazione dell’Unità Africana ad Addis Abeba nel 1987. Dà voce non soltanto al proprio popolo, ma a tutti i paesi africani e del cosiddetto Terzo Mondo, i “non allineati”, già schiacciati dallo sfruttamento del colonialismo e successivamente dalle false promesse del neocolonialismo, mal celato nelle politiche degli aiuti umanitari.

Ad Addis Abeba afferma che il debito dei paesi africani non è altro che una “riconquista organizzata dell’Africa”, una manipolazione del futuro e della crescita dei popoli che diverranno finanziariamente schiavi:

Quelli che ci hanno portato all’indebitamento hanno giocato come al casinò: finché ci hanno guadagnato, andava tutto bene; adesso che perdono esigono il rimborso. […] Non possiamo pagare il debito perché sono gli altri che hanno nei nostri confronti un debito che le più grandi ricchezze non potrebbero mai pagare, cioè il debito di sangue. È il nostro sangue che è stato versato.

 

Chiede di costruire con i governi convenuti alla conferenza un fronte comune per cancellare il debito imposto dagli ex paesi colonizzatori, profeticamente dichiarando che se il Burkina Faso rimarrà solo in questa lotta, egli stesso non sarà presente alla successiva conferenza.

È stato detto che fu questo discorso a costargli la vita, unitamente all’aver voluto cambiare troppo in fretta la società burkinabè che, radicata nella struttura verticale del potere tradizionale, non era pronta a far propria l’utopia dell’uguaglianza di tutti, e riprodusse presto gli abusi tipici di una collettività ancora fortemente gerarchizzata, finendo col minare la pace sociale.

Di Thomas Sankara rimangono oggi i discorsi, il carisma, e un’esperienza che, pur con i suoi limiti, ha dimostrato in soli quattro anni che un mondo diverso è possibile.

La cosa più importante è aver condotto il popolo ad aver fiducia in se stesso, a capire che finalmente può sedersi e scrivere la propria storia; può sedersi e scrivere la sua felicità; può dire quello che vuole. E allo stesso tempo, sentire qual è il prezzo da pagare per questa felicità.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.wikipedia.org;
V. Bartolucci & C. C. Ouedraogo, “Il sogno di Sankara”, www.mosaicodipace.it;
A. Gazzera, “Thomas Sankara, 30 anni fa l’omicidio del ‘Che Guevara africano’”, www.lapresse.it;
C. D’Abrosca, “Africa. Sankara, trent’anni dopo”, www.nena-news.it;
M. Mastrangelo “15/10/1987, l’assassinio di Sankara”, www.ilmanifesto.it;
E. Palombo, “Thomas Sankara e la rivoluzione interrotta”, www.ricerchedistoriapolitica.it;
G. Cataldo, “Il sogno di un uomo integro: Thomas Sankara”, www.antennedipace.org;
www.thomassankara.net

Il 14.10.17 esplode l’11 settembre somalo a Mogadiscio

512 persone hanno perso la vita sabato 14 ottobre 2017 a Mogadiscio, la capitale della Somalia, in seguito all’esplosione di un camion bomba nel cuore della città. È stato un ufficiale a proporre il paragone con la tragedia statunitense, per dare la misura della devastazione: mai prima di allora il paese africano aveva subito una violenza tanto sconvolgente. 295 feriti e 70 dispersi si sommano al triste conteggio dei coinvolti.

Le autorità sono convinte che dietro l’attentato si celino i terroristi islamici somali di Al Shabaab, affiliato ad Al Qaeda. Nessuno ha, però, rivendicato l’attacco. Certo è che sono state numerose le attività di contrasto messe in atto dal Governo somalo, col sostegno USA, durante il 2017: gli stessi Americani hanno bombardato per trenta volte quel lembo di terra africana, con lo scopo di indebolire una fazione fedele all’ISIS, recentemente rafforzatasi.

Quanto alla copertura mediatica, si registra un’ulteriore nota dolente: i media europei e americani hanno dedicato uno spazio minimo alla vicenda, del resto poco commentata anche dai leader politici. Papa Francesco è stato tra i pochi a tentare di riportare l’attenzione sulla strage. Nell’udienza generale del 18 ottobre ha detto:

Desidero esprimere il mio dolore per la strage avvenuta qualche giorno fa a Mogadiscio, Somalia, che ha causato oltre trecento morti, tra cui alcuni bambini. Questo atto terroristico merita la più ferma deplorazione, anche perché si accanisce su una popolazione già tanto provata. Prego per i defunti e per i feriti, per i loro familiari e per tutto il popolo della Somalia. Imploro la conversione dei violenti e incoraggio quanti, con enormi difficoltà, lavorano per la pace in quella terra martoriata.

Anche sul piano della solidarietà internazionale non sono comparsi gli auspicabili segnali di vicinanza. Solo la Tour Eiffel, il ponte di Istanbul, una scritta a Toronto e il pensiero di Kuala Lampur hanno ricordato la tragedia somala.

Le parole di Khaled Beydoun, accademico americano esperto di islamofobia, riassumono bene la situazione del 2017:

Odio fare paragoni tra le tragedie umane, ma i mezzi d’informazione ci obbligano a farlo.
Vedete, il numero di persone uccise ieri in Somalia supera di più di dieci volte (230+) quello dei morti nell’attacco terroristico di Manchester a maggio (22). 230 a 22.
Tuttavia, non c’è traccia di slogan che proclamino “Noi siamo Mogadiscio” o di immagini commoventi sui social network in segno di solidarietà.

Alessio Gaggero