Il 31 ottobre 1922 si insediò il primo governo Mussolini

Questa Camera ha il governo che si merita. Essa non ha saputo darsi, in varie crisi, un governo, e il governo se lo è dato il Paese da sé.
(G. Giolitti)

Il 31 ottobre 1922 l’Italia liberale terminò la sua parabola storica, non tanto a causa dell’avanzare del fascismo quanto della propria inadeguatezza ai tempi, manifestata nell’incapacità di superare la crisi politica e istituzionale che interessava il paese. Quel giorno, su incarico del re Vittorio Emanuele III, Benito Mussolini presentò la lista dei ministri del suo governo, un esecutivo di unità nazionale che lasciava fuori socialisti, repubblicani e comunisti; la sera stessa avvenne il giuramento e la formalizzazione del nuovo governo, che avrebbe ottenuto un’ampia fiducia in Parlamento sedici giorni più tardi.

L’abilità demagogica e l’opportunismo di Mussolini, il massiccio appoggio finanziario del grande capitale industriale e degli agrari, la disorganizzazione degli avversari, la debolezza dei governi e la passività degli organi dello Stato di fronte alle violenze squadristiche, il filofascismo più o meno larvato di una larga parte della classe dirigente e dell’esercito avevano permesso al movimento, trasformato in Partito Nazionale Fascista nel novembre 1921, di intensificare progressivamente la sua azione volta alla presa diretta del potere, che culminò tra il 28 e il 31 ottobre 1922 nella “marcia su Roma” delle Camicie Nere.

La marcia era stata minuziosamente preparata nei mesi precedenti: informazioni volutamente distorte furono fatte circolare negli ambienti politici romani con finalità di depistaggio, indebolendo con attacchi sistematici il Presidente del Consiglio Luigi Facta, mentre si avviavano incontri e abboccamenti con esponenti politici e imprenditoriali. Il 2 agosto si organizzò una vera e propria “prova generale”, con l’occupazione di Ancona, allo scopo di saggiare la reazione dell’opinione pubblica, dell’esercito e della monarchia: il re e il governo tacquero, e i preparativi accelerarono. Il 24 ottobre, a Napoli, si tenne un grande raduno di Camicie Nere, con la famosa dichiarazione di Mussolini: “O ci daranno il Governo o ce lo prenderemo calando su Roma”.

Il piano prevedeva in primo luogo l’occupazione con la forza di quei territori che non fossero già controllati o simpatizzanti dei fascisti, costringendo alle dimissioni i sindaci e i consigli comunali, anche a costo di confliggere con le forze dell’ordine, e attaccando stazioni e uffici postali, per controllare le comunicazioni tra centro e periferia. Il Presidente del Consiglio, già dimissionario e in carica solo per l’ordinaria amministrazione, sottovalutò la minaccia fino a quando non fu troppo tardi. La notte del 27 ottobre venne informato che i fascisti, stimati in numero di 20-30.000, dopo un’ultima adunata generale a Perugia, erano in movimento verso la capitale, per lo più su treni requisiti.

Nella notte si riunì il Consiglio dei Ministri per stilare il proclama di stato d’assedio, mentre il re consultava i generali dello Stato Maggiore in merito alla fedeltà alla monarchia del Regio Esercito: poco tranquillizzante la risposta del generale Diaz, secondo cui “l’esercito farà certamente il suo dovere, ma sarebbe bene non metterlo alla prova”. Quando Facta gli chiese di ratificare il provvedimento già avallato dai ministri, il sovrano rifiutò: “Dopo lo stato d’assedio c’è solo la guerra civile”. Facta rassegnò definitivamente le dimissioni e i fascisti in marcia verso Roma alzarono la posta in gioco, talvolta cercando di occupare le caserme o di allargare i loro spazi d’azione.

Varie sono le interpretazioni in merito alla decisione del monarca: non volle assumersi la responsabilità di un bagno di sangue, temeva uno stravolgimento che gli costasse l’abdicazione, non era certo di una tenuta assoluta dell’esercito, diffidava delle forze antifasciste. In ogni caso, Vittorio Emanuele III ritenne che associare il fascismo al governo per vie legali fosse la soluzione migliore, con l’intento di far rientrare il partito fascista nell’alveo costituzional-parlamentare e di favorire la pacificazione sociale.

Il 29 ottobre a mezzogiorno Mussolini, che a Milano attendeva l’evolversi degli eventi, fu convocato a Roma per la designazione a presidente del consiglio, a patto che costituisse un governo moderato e di coalizione; giunse a Roma la mattina del 30 ottobre, accettò l’incarico e il giorno seguente presentò il nuovo governo.

Quella mattina stessa, le Camicie Nere bloccate nei pressi della capitale furono fatte passare: i cortei di festa sciamarono per le vie di Roma e per il saluto al sovrano fino al primo pomeriggio, quando, dopo cinque ore di sfilate e giubilo, ma anche di scontri letali (13 morti nel quartiere di San Lorenzo, altri 7 nelle devastazioni delle sedi di giornali e organizzazioni democratiche), i sostenitori di Mussolini si ritrovarono alla stazione Termini, dove erano stati predisposti quarantacinque treni speciali per ogni parte d’Italia. Era il rompete le righe. La Marcia fu elevata dai fascisti come mito fondante dell’avvento della nuova Italia e del fascismo alla guida di essa.

All’atto dell’insediamento, il governo Mussolini era composto da tre ministri fascisti, due popolari, due democratico-sociali, due liberali, due militari, un nazionalista e un indipendente (questi ultimi e un democratico-sociale in seguito aderirono al PNF). L’esecutivo nacque nell’apparente rispetto della normativa in vigore, e lo Statuto Albertino rimase formalmente la legge fondamentale dello Stato. Tuttavia, la sua formazione recò innegabilmente l’impronta e tutto il peso politico della marcia su Roma, un’azione eversiva che, legittimando la minaccia e l’uso della forza, rese immediata ed evidente la forza extralegale di quel governo.

Mussolini seppe muoversi subito in modo da consolidare il potere appena conquistato, aiutato in questo dagli alleati cattolici e liberali, i cosiddetti “fiancheggiatori”, che non vollero scorgere gli evidenti segnali di pericolo e, in nome dell’antisocialismo, tollerarono i toni ricattatori del più che esplicito discorso pronunciato alla Camera, durante il dibattito sulla fiducia al nuovo governo:

Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto. (16 novembre).

Il 24 novembre Mussolini chiese e ottenne dal Parlamento i pieni poteri per un anno. I suoi primi decreti legge furono accolti come un ringraziamento da quanti lo avevano sostenuto nella sua scalata al potere: industriali e ricchi possidenti terrieri. Imprimendo alla politica un orientamento contrastante con quello liberale, il nuovo governo lasciò libero corso alle forze imprenditoriali dell’industria, della finanza e dell’agricoltura, annullando i provvedimenti fiscali precedenti; sciolse le amministrazioni comunali e provinciali che erano nelle mani di socialisti o di popolari; liquidò le cooperative, ossatura del socialismo, colpì le leghe nelle campagne, annullò le organizzazioni sindacali e dell’opposizione di sinistra permettendo così la diminuzione dei salari, adottò misure economiche per rivalutare la lira. Contadini e mezzadri si ritrovarono gravati di nuove imposte, mentre i ferrovieri, che con la loro lotta erano stati un esempio per tutte le altre categorie di lavoratori, subirono le peggiori ritorsioni contrattuali.

Nel gennaio 1923 fu istituito il Gran Consiglio del fascismo, inizialmente organo supremo del partito con funzioni di raccordo tra questo ed il governo, ma in seguito destinato a divenire un organo dello Stato con il quale si tentava di incidere sull’aspetto costituzionale, anche per condizionare il sovrano e ottenerne l’appoggio (il Gran Consiglio esprimeva un parere vincolante a proposito della successione reale).

Ci furono pressioni sugli alleati di governo perché definissero la propria posizione rispetto ai fascisti, il che portò il partito popolare a uscire dalla maggioranza nel marzo del 1923, e aumentarono le violenze ai danni di esponenti, organi di stampa, sezioni sindacali e di partito degli ambienti di opposizione. Alla compattazione del quadro politico mirò la riforma elettorale Acerbo, presentata dal governo e approvata dalla Camera nel novembre del 1923, con la quale una lista di maggioranza con almeno il 25% dei voti avrebbe conseguito i due terzi dei seggi parlamentari.

L’opposizione chiese lo scioglimento delle squadre fasciste, che furono allora inquadrate nella “Milizia volontaria per la sicurezza nazionale”, organo militare ufficiale con compiti di polizia territoriale e lo scopo dichiarato di proteggere gli sviluppi della rivoluzione fascista, unico corpo armato dello Stato che prestava giuramento non di fronte alla corona ma direttamente a Mussolini. Alle violenze illegali contro la classe operaia e i suoi rappresentanti ora si sommava la repressione istituzionalizzata di Milizia, organi di polizia e magistratura: furono chiusi o sequestrati numerosi giornali, i comunisti furono costretti alla semiclandestinità; il sindacato perse potere contrattuale e i salari, come era stato promesso agli industriali, subirono drastici ridimensionamenti.

La Chiesa assunse subito un atteggiamento favorevole al nuovo governo, che aveva sventato la “minaccia rossa”; Mussolini, da parte sua, la “corteggiò” realizzando una riforma scolastica che equiparava la scuola pubblica e quella privata, e attuando con denaro pubblico il salvataggio del Banco di Roma; in cambio la gerarchia ecclesiastica esercitò pressioni su don Sturzo, che lasciò la guida del Partito Popolare, rifugiandosi in seguito all’estero.

Indebolito così il suo più forte avversario, con lo scudo della nuova legge elettorale e la maggior parte dei liberali candidati per il PNF, nel 1924 Mussolini indisse e vinse le nuove elezioni, sebbene in sospetto di brogli; il delitto Matteotti, l’impennata della repressione e le c.d. “leggi fascistissime” del 1925-26 segnarono il passaggio alla fase esplicitamente dittatoriale del governo Mussolini, che si protrarrà fino alla destituzione del 25 luglio 1943.

Silvia Boverini

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Fonti:
www.wikipedia.org;
“I primi passi del regime”, www.edurete.org;
“Benito Mussolini”, www.interno.gov.it;
www.anpi.it;
www.tuttostoria.net;
www.dirdidatticamelia.it;
“La Marcia su Roma novant’anni dopo, ignorata dai media”, www.dailystorm.it;
G. Albanese, “I giorni della minaccia e della violenza”, www.patriaindipendente.it;
M. Innocenti, “28 ottobre 1922: quella «marcia su Roma»”, www.ilsole24ore.com;
L. Cerimele, “La Marcia su Roma, i dettagli che non tutti conoscono”, www.europinione.it

Il 30 ottobre 2008 la Croce Rossa Italiana viene commissariata

La Croce Rossa nacque nel 1859: un giovane svizzero, che affrontò l’orrore della seconda guerra d’indipendenza italiana, si rese conto della necessità di istituire una squadra di infermieri volontari, che attraversasse i campi di battaglia per portare sollievo ai feriti. Quattro anni più tardi, la città svizzera di Ginevra testimoniò la nascita della più grande organizzazione umanitaria al mondo.

La società italiana fu la quinta a formarsi, con capofila il Comitato milanese, formalizzato nel 1864. Da allora, tante modifiche si sono susseguite. Nata come ente morale, oggi è un ente privato d’interesse pubblico, posto sotto l’alto Patronato del Presidente della Repubblica, ausiliario dei poteri pubblici nel settore umanitario, e prende il nome di Associazione Italiana della Croce Rossa.

L’insieme dei soci volontari, dei dipendenti e dei militari che ne fanno parte supera ampiamente le 150.000 persone. È facile immaginare l’elevato numero di contraddizioni e difficoltà che si possono incontrare nel confronto con dei numeri tanto ampi. A partire dal 1980, infatti, diversi Governi sono stati costretti a commissariare l’Associazione. L’ultima situazione di questo tipo ha avuto luogo il 30 ottobre di dieci anni fa, quando l’ex Presidente Massimo Barra ha dovuto cedere il posto a Francesco Rocca. Queste le parole dell’avvocato:

Nei confronti di Massimo nutro davvero tanta stima. A livello internazionale la sua presidenza ha dato un grandissimo lustro al nostro ente. Detto questo, se è stato commissariato qualche errore l’avrà commesso. E se devo dire la mia, lui e il suo consiglio non sono stati sufficientemente risoluti nell’intervenire su alcuni aspetti strutturali che in questi anni hanno danneggiato la Croce Rossa.

 

Con lo slogan: «Meno Stato, più volontariato», Rocca ha dovuto affrontare numerose crisi, tra cui il terremoto a Haiti nel 2010, la carestia nel Corno d’Africa nel 2011, le crisi in Medio Oriente e altri grandi emergenze umanitarie che hanno visto la Cri e la Mezzaluna Rossa in prima linea, senza dimenticare i terremoti in Italia e la crisi dei migranti nel Mediterraneo.

Difficile valutare tanti anni di lavoro, ma una cosa è certa: oggi, Rocca è anche alla guida della Federazione internazionale delle società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa, primo italiano nella storia a ricoprire tale carica. Non male per un ex “venditore di morte”: a 19 anni, infatti, fu condannato per spaccio di droga, ma, a qualcuno potrà sembrare incredibile, un uomo ha anche la possibilità di ravvedersi e aggiustare il tiro. Rocca sembra essere uno splendido esempio di giustizia riparativa: il numero di persone che ha contribuito ha salvare è incalcolabile. Per usare le sue parole:

L’umanità è fragile, ogni individuo è fragile e può sbagliare, ma si deve rispondere alle fragilità, generali e individuali.

Alessio Gaggero

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La mediazione familiare e la violenza

Mentre prosegue e si estende il dibattito sul DL Pillon, che, fra gli altri aspetti controversi, contempla anche il tema della mediazione familiare, configurandola come obbligatoria, proponiamo qualche accenno di riflessione sulla assai problematica questione di tale strumento di gestione del conflitto nei casi di violenza.

La Convenzione di Istanbul vieta la mediazione familiare nei casi di violenza

Si deve ricordare, a tal riguardo, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, altrimenti nota come Convenzione di Istanbul. L’art. 48, punto 1, della Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata dall’Italia nel 2013, prevede l’adozione delle necessarie misure legislative, o di altro tipo, per

«vietare il ricorso obbligatorio a procedimenti di soluzione alternativa delle controversie, incluse la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione».

Perché nella Convenzione di Istanbul si vieta la mediazione familiare nei casi di violenza?

In buona parte la spiegazione è fornita dal testo della Convenzione stessa: «la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione […] La violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini».

Se questo è lo sfondo indiscutibile sul quale si collocano le norme della Convenzione, si può ulteriormente osservare, che la preoccupazione, più che fondata, degli estensori della Convenzione stessa è che quando un coniuge sottoposto ad una condizione di violenza da parte dell’altro arriva a maturare la decisione di separarsi, la mediazione possa essere interpretata dal partner violento come un’arma per mantenere il controllo e il dominio sull’altro, perpetuandone la vittimizzazione. Di fatto, in tale contesto violento, la mediazione familiare finirebbe con l’essere adoperata dal partner violento per impedire che si compia realmente la separazione, cercata dal partner vittima di quella violenza, così da evitare l’interruzione della sopraffazione violenta e della dominazione poste quotidianamente in essere.

La violenza e il modello di mediazione familiare

Patrizia Romito in Un silenzio assordante. La violenza occultata su donne e minori (2005), osservava che:

“La mediazione familiare si ispira al modello sistemico di responsabilità diffusa e di neutralità del terapeuta. Da un punto di vista ideologico, il modello di riferimento è quello della buona separazione, in cui i coniugi mettono in secondo piano i loro conflitti per il bene del bambino, bene che viene identificato a priori col mantenere rapporti costanti con entrambi i genitori, spesso nella forma dell’affido congiunto. Secondo il modello della separazione amichevole, i conflitti dei coniugi in questa fase sono una conseguenza della tensione legata all’evento in sé, semmai acuiti dalle procedure giudiziarie, e non il prolungarsi o l’inasprirsi di conflitti precedenti, che li hanno portati alla separazione. Con questa assunzione di base (peraltro non provata e bizzarra: perché si separano se andavano così d’accordo?) si apre già la strada alla negazione della violenza domestica. La pratica della mediazione richiede infatti che gli ex coniugi si concentrino sul presente e sul futuro senza rinvangare il passato e i relativi conflitti. Inoltre, e anche questo è un aspetto decisivo, eventuali denunce o procedure giudiziarie devono essere sospese. Se la donna cerca di discuterne – per esempio, facendo presente che incontrare l’ex marito per consegnare i bambini la mette in una situazione pericolosa, o esprimendo il timore che lui li trascuri o li maltratti – verrà ripresa perché non sta alle regole e trattata da donna vendicativa e rancorosa, la stessa accusa già descritta nella sindrome di alienazione parentale e nelle false denunce di abuso in fase di separazione. Eppure questo succede e può rappresentare una strategia deliberata degli uomini violenti. Dato che la separazione limita la possibilità di dominare e controllare l’ex partner, alcuni di loro cercano di ottenere che il tribunale imponga la mediazione familiare, proprio perché dà un’opportunità di incontrare l’ex moglie e di continuare a perseguitarla.

La descrizione prospettata da Patrizia Romito riguarda un approccio mediativo che, oggettivamente, finisce con l’essere di rinforzo ad una situazione di drammatica ingiustizia e prevaricazione, di radicale negazione non soltanto dei diritti fondamentali della vittima, ma persino della sua umanità.

Non vi è motivo per mettere in discussione le sue considerazioni, dunque, se non accostando ad esse un’integrazione.

Questa riguarda l’assunto di base e gli obiettivi della mediazione familiare cui la Romito si riferisce. Non si vuole qui pretendere di dare una visione omnicomprensiva di tutte le pratiche e le teorie della mediazione familiare, per ribattere alle osservazioni di Patrizia Romito, ma più limitatamente far osservare che le premesse, il metodo e gli obiettivi dell’intervento di mediazione familiare da lei presentato sono quanto di più distante dal modello pensato e praticato dall’Associazione Me.Dia.Re.[1] Su tale modello sono già stati proposti diversi brevi post nella rubrica Riflessioni del nostro sito.

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Il modello di Me.Dia.Re. e la violenza

Il nostro modello (per una disamina più approfondita del quale si rinvia alle pubblicazioni di cui sono autori alcuni membri dell’Associazione), da oltre tre lustri, non casualmente si definisce di Ascolto e Mediazione e, di nuovo, non casualmente, sul piano operativo, si sviluppa attraverso una serie di colloqui individuali – separati – con i singoli protagonisti del conflitto portato. Tali colloqui possono essere preliminari agli incontri di mediazione, eventualmente richiesti dagli attori del conflitto (che sono richiesti da loro, dunque, non sono mai proposti dal mediatore). L’opportunità di realizzare tali incontri, se richiesti da entrambe le parti, è valutata dal mediatore, tenendo conto di molteplici aspetti che riguardano in primo luogo la possibilità che sia presente la dimensione della violenza nelle sue diverse forme.

Nel corso dei colloqui individuali, dunque, le possibilità che emerga da parte della persona vittima di violenza tale realtà di vittimizzazione sono significativamente alte, proprio perché si tratta di situazioni nelle quali l’autore della violenza non è fisicamente presente e non ha alcuna possibilità di controllare, né alcuna possibilità di influenzare direttamente i contenuti che il partner può comunicare in quella sede.

La “risorsa” dei colloqui individuali nel modello di “Ascolto e Mediazione”

Soprattutto, nell’ambito dei colloqui individuali, non meno che negli eventuali incontri di mediazione, la premessa di questa impostazione mediativa, se non antitetica, è radicalmente eterogenea rispetto a quella descritta dalla Romito, ed è proprio in questa diversità di approccio e di finalità che risiede la prevenzione del rischio di una strumentalizzazione del percorso da parte del partner violento.

Infatti, diversamente da quanto esposto dalla Romito, il passato e il presente – come insistentemente spieghiamo anche nei nostri percorsi formativi –  non sono espulsi dai temi di cui le parti possono parlare con il mediatore. Anzi, il passato e il presente del loro rapporto sono al centro dell’attenzione del mediatore, il cui compito è quello di ascoltare le persone e di farle sentire ascoltate anche, anzi principalmente, proprio sul piano dei bisogni, delle emozioni, dei sentimenti, delle ferite, delle paure di cui sono portatrici. Né, dal nostro punto di vista è pensabile che, come ha scritto Patrizia Romito, se la donna cerca di discutere – per esempio, facendo presente che incontrare l’ex marito per consegnare i bambini la mette in una situazione pericolosa, o esprimendo il timore che lui li trascuri o li maltratti – possa essere ripresa.

Questo approccio dispiegato da un mediatore costituirebbe una gravissima condotta, una negazione radicale della ragion d’essere del suo lavoro, della mediazione stessa, oltre che una clamorosa violenza sulla donna stessa.

Sarebbe quanto di più perverso da parte del mediatore il richiamarla, come afferma la Romito, perché non sta alle regole e il trattarla da donna vendicativa e rancorosa, cioè il rinfacciarle la stessa accusa già descritta nella sindrome di alienazione parentale e nelle false denunce di abuso in fase di separazione. Si tratterebbe, infatti, di una presa di posizione da parte del mediatore rivelativa di qualcosa di assai più grave della già criticissima perdita della neutralità.

Senza dilungare ulteriormente il discorso su piani tecnici, che pure meriterebbero di essere approfonditi ed esaminati, vale la pena osservare che non raramente in questi molti anni di attività è accaduto che proprio nei colloqui individuali, eventualmente preliminari al primo incontro di mediazione, emergesse la presenza di vissuti di vittimizzazione connessi a condotte violente (anche sotto forma di violenza psicologica).

Anche i colloqui individuali preliminari all’eventuale incontro di mediazione non costituiscono una garanzia assoluta

Si è detto più sopra che sono alte le probabilità che la persona vittima di violenza da parte del partner nell’ambito dei colloqui individuali, previsti nel modello Ascolto e Mediazione, comunichi al mediatore la vittimizzazione di cui è oggetto. Non vi è, però, una reale certezza che ciò accada.

La comunicazione della propria esperienza di vittimizzazione, infatti, è di una complessità notevole ed è particolarmente impegnativa sul piano emotivo. Molte ansie e preoccupazioni circa quel che può pensare l’interlocutore, l’angoscia, il dolore, la rabbia, la paura, il senso di colpa possono rendere particolarmente faticosa l’esposizione.

Del resto accade anche che la vittima, quasi desensibilizzata dalla violenza subita, presenti i fatti in maniera completa e razionale, ma tale fredda e distante narrazione potrebbe pregiudicare la sua credibilità. Ciò accadrebbe, in particolare, se il mediatore, nella propria rappresentazione mentale associasse a quel tipo di esperienza il manifestarsi palese di un certo grado di turbamento emotivo nel narratore.

Il mediatore familiare dovrebbe avere una preparazione che lo faciliti nell’individuazione e nell’accoglienza delle situazioni di violenza

In tali situazioni la scarsa preparazione nel fornire un ascolto adeguato pregiudica spesso la possibilità per la vittima di ricevere il supporto necessario, mentre una formazione che procuri una tale competenza presso i mediatori familiari può realmente costituire un aiuto per le donne che vivono queste situazioni, facilitandole nella tutela di sé e nella ricerca di aiuto presso centri ad hoc. Del resto, va rimarcato, per i mediatori esiste anche la risorsa della supervisione, oggi obbligatoria, la quale può ben costituire una risorsa importante su tale registro[2].

Tra le diverse difficoltà cui il mediatore familiare, in tali casi, dovrebbe riuscire a far fronte, infatti, vi è anche, accanto a quella sopra accennata e ad altre ancora, quella costituita dal carattere tortuoso della narrazione proposta dalla vittima. La tormentata condizione emotiva vissuta può far sì che l’esposizione dei fatti non sia fluida e coerente né facilmente intelligibile, e ciò può rendere problematica la recezione del “messaggio” da parte del mediatore familiare che, magari non adeguatamente preparato, rischia di essere poco attento su tale piano.

Quando la violenza emerge, la mediazione familiare va sospesa

Talora va aggiunto, nella pratica della mediazione familiare, ci è accaduto che tale aspetto emergesse soltanto durante il primo incontro di mediazione: in tali casi, il comportamento violento comunicato era costituito da un singolo episodio di violenza fisica (percosse o minacce). Mentre altre rare, ma non rarissime, volte, la violenza è stata comunicata dalla donna, successivamente al primo incontro di mediazione, grazie alla facilitazione svolta dai mediatori, nell’ambito dei colloqui individuali successivi a quel primo incontro di mediazione (dopo ogni incontro di mediazione, il modus operandi di Me.Dia.Re. prevede la realizzazione di colloqui individuali con entrambi gli attori del conflitto).

In ogni caso, ogniqualvolta è emerso il fenomeno della violenza – nelle sue più diverse forme -, il percorso di mediazione familiare è stato sostituito da altre forme di presa in carico o di accompagnamento ad altri servizi.

Alberto Quattrocolo

Rielaborazione da

– lezioni di A. Quattrocolo nella XII Edizione del Corso in Mediazione Familiare e nella XII Edizione del Corso in Mediazione Penale, Sanitaria e Lavorativa

– formazioni di Silvia Boverini e A. Quattrocolo nel progetto “Eyes Wide Open. Cicli di incontri gratuiti sulla violenza psicologica sulle donne”, realizzato nel 2016 con il contributo e il patrocinio della Circoscrizione I della Città di Torino

 

[1] Appare plausibile che anche coloro che praticano un modello di mediazione familiare d’ispirazione sistemica si ritrovino poco nella descrizione proposta dalla Romito, ma sembra sensato invadere il loro campo e lasciare che siano costoro a sviluppare le considerazioni che ritengono più opportune.

[2] L’A.I.Me.F. non solo ha stabilito per i mediatori familiari l’obbligo di effettuare 10 ore di supervisione annue (in base agli articoli 7 e 8 del Regolamento Interno dell’A.I.Me.F.: http://www.aimef.it/statuto/regolamento-interno e alla Norma Tecnica UNI-11644-2016), ma si è anche curata di formare dei Supervisori Professionali, avendoli prima individuati tra coloro che sono in possesso di almeno 5 anni di esperienza nel campo della mediazione e che hanno erogato almeno 100 ore di formazione sulla mediazione familiare.

Il 29 ottobre 1929 è il Martedì nero della finanza

Dopo il Giovedì nero (24.10.1929), durante il quale i titoli più significativi della Borsa di New York crollarono del 50%, il tonfo definitivo della finanza americana si ebbe martedì 29 ottobre: in una settimana, il mercato bruciò 30 miliardi di dollari. Gli Stati Uniti non riuscirono ad eguagliare tale cifra nemmeno con gli investimenti di tre anni di guerra mondiale. E, in proporzione, nemmeno con la crisi del 2007-08, seconda in gravità a parere degli esperti.

Ci vollero venticinque anni perché il Dow Jones riacquistasse un valore precedente al crollo. Il periodo storico circostante quella tetra settimana finanziaria, invece, prese il nome di Grande depressione. Ancora oggi non è chiaro che tipo di legame insista tra i due elementi: fu la depressione a causare il crollo o viceversa? Con ogni probabilità, a persone come Florence Leona Christie Thompson (nella foto in cima alla pagina), operaia e madre di sette figli, la questione non toccava minimamente. La Madre Migrante fu il simbolo di quel terribile periodo in cui il sogno americano iniziava a sgretolarsi.

 

Alessio Gaggero

 

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Il 28 ottobre 1998 sono pubblicati i risultati della Commissione Verità e Riconciliazione del Sudafrica

Per voltare pagina, bisogna averla letta.
(Arcivescovo Desmond Tutu)

Il 28 ottobre 1998 furono resi pubblici i risultati delle attività della Commissione sudafricana per la Verità e Riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission, TRC); istituita con la legge “Promotion of National Unity and Reconciliation Act” nel dicembre 1995, la Commissione ebbe l’incarico di investigare sulle gravi e prolungate violazioni dei diritti umani perpetrate nel paese dal regime segregazionista.

Negli ultimi decenni sono state create nel mondo circa una trentina di commissioni per la verità, in differenti contesti storico-politici, ma con un obiettivo di fondo condiviso: confrontare, registrare  e riconoscere quanto realmente accaduto nel passato, dopo un periodo di silenzio, omertà, paura, rassegnazione e profonda disperazione. Paesi quali Argentina, Cile, Ruanda, Ciad, Honduras, Sri Lanka, El Salvador – solo per citarne alcuni – hanno potuto così portare alla luce e riconoscere collettivamente fatti atroci, prima disconosciuti e negati, nell’idea che l’emersione della verità possa restituire a un popolo oppresso un patrimonio comune sottratto e possa avere una funzione di ricostruzione morale, riparazione e prevenzione per il futuro.

A proposito della TRC sudafricana, così si espresse un suo membro, Russell Ally:

Ciò che volevamo costruire era un meccanismo che ci permettesse di capire ciò che era successo, ma senza innescare azioni di vendetta.”.

Col venir meno del regime razzista nei primi anni Novanta, si rese necessario perseguire un difficile compromesso tra due posizioni antitetiche: quella del governo e del National party (NP) che volevano l’amnistia incondizionata per i crimini dell’apartheid, considerati un “errore” da superare, e quella dei movimenti di liberazione nazionale, che chiedevano l’istituzione di tribunali speciali sul modello di Norimberga. La TRC rappresenta ad oggi la più celebre applicazione del concetto di Restorative Justice (giustizia riparativa) nell’ambito della violazione dei Diritti dell’Uomo, in antitesi al paradigma della “giustizia dei vincitori” o della corte penale internazionale, spesso orientata alla sola punizione dei colpevoli.

I 17 membri della commissione furono selezionati in modo tale da rappresentare un campione di nomi illustri quanto più eterogeneo per sesso, professione, etnia, gruppo linguistico e religione, e l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu fu chiamato a presiedere la corte:

Noi sosteniamo che esiste un altro tipo di giustizia, la giustizia restitutiva, a cui era improntata la giurisprudenza africana tradizionale. Il nucleo di quella concezione non è la punizione o il castigo. Nello spirito dell’ubuntu [v. oltre], fare giustizia significa innanzitutto risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare tanto le vittime quanto i criminali, ai quali va data l’opportunità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso.

Il Sudafrica stava tentando con fatica di chiudere, politicamente e simbolicamente, il mezzo secolo in cui l’apartheid era divenuto politica di stato, dopo oltre due secoli di dominazione coloniale boera; dal 1948 il regime di Pretoria aveva promulgato centinaia di leggi volte allo sfruttamento e al progressivo annientamento della comunità nera, privata di ogni diritto e “cancellata” per legge. È ancora Desmond Tutu a ricordare:

La nostra situazione era simile a quella dei neri degli Stati Uniti quando negli anni ‘60 manifestavano per ottenere i diritti civili. Con una differenza: che noi non potevamo combattere per i nostri diritti civili perché, da un punto di vista legale e civile, i neri in Sud Africa non esistevano, non erano nemmeno previsti dalla Costituzione. Noi lottavamo per essere riconosciuti come esseri umani, per il semplice diritto di esistere.

L’intento del percorso di riconciliazione fu proprio quello di sostenere e accompagnare la nascita e il rafforzamento del nuovo Sudafrica democratico, attraverso la ricostruzione di una memoria condivisa: tra il 1995 e il 1998, i membri della TRC ascoltarono deposizioni, racconti, ricordi, testimonianze e confessioni di oltre 20.000 persone che, in massima parte volontariamente, decisero di fornire il proprio contributo.

Si è trattato di un percorso originale e unico, saldamente connesso all’esperienza storica e culturale del paese. Si può individuare nel concetto filosofico africano di ubuntu (o botho per le lingue sotho) un elemento costitutivo della prassi e degli orientamenti seguiti dalla commissione. Ubuntu è come dire “la mia umanità è inestricabilmente collegata, esiste di pari passo con la tua”, oppure “una persona è tale attraverso altre persone”, “io sono perché noi siamo”: è un concetto etico, una regola di vita fondata sul rispetto dell’altro, una spinta ideale verso l’umanità intera.

La tradizione africana del racconto pubblico e della narrazione orale ebbe modo di articolarsi nelle forme più diverse e libere durante le sedute, giacché l’imposizione di un modello assimilabile alle consuete procedure giuridiche avrebbe potuto apparire estranea e inadatta. Fu stabilito che quando le vittime e i sopravvissuti si fossero presentati alle udienze per rendere testimonianza, sarebbero stati accolti in un’atmosfera solenne con preghiere, canti e candele rituali per commemorare coloro che erano caduti nella lotta.

I membri incaricati dalla TRC hanno raggiunto gli angoli più remoti del paese istruendo commissioni in scuole, chiese, palestre, per facilitare la raccolta delle testimonianze di persone cui era sempre stato negato l’accesso a qualsiasi forma di tribunale e di giustizia. Con l’eccezione di alcune sedute speciali – in particolare quelle dedicate alla violenza sulle donne – radio, televisioni e giornali hanno quotidianamente raccontato i lavori della TRC, contribuendo all’apertura di un dibattito pubblico lacerante e dirompente che ha costretto i sudafricani di ogni colore a prendere posizione e fare i conti con un passato che a lungo si era voluto nascondere.

La TRC ha indagato le gravi violazioni dei diritti umani compiute individualmente oppure ascrivibili a interi settori sociali e istituzionali come gli organi dello stato, il mondo degli affari e dell’economia, il settore legale, i media, le chiese. Il mandato della TRC interessava un arco di tempo compreso tra il 1° marzo 1960 (massacro di Sharpeville) e il 10 maggio 1994 (prime elezioni democratiche) e aveva l’obiettivo di fornire un quadro il più completo possibile su cause, natura ed estensione delle violazioni compiute. Per raggiungere questo risultato, la TRC si è declinata in tre comitati chiamati a occuparsi di diritti umani (Human Rights Violations Committee), amnistia (Amnesty Committee) e riabilitazione e restituzione (Reparation and Rehabilitation Committee).

Gravi violazioni dei diritti umani” furono definiti l’assassinio, l’omicidio preterintenzionale, il rapimento, lo stupro e i maltrattamenti gravi che lasciano cicatrici permanenti, mentali o fisiche; si tennero non meno di 140 udienze pubbliche in cui 21.400 vittime resero le loro dichiarazioni, e furono ufficialmente registrati i nomi di 27.000 vittime.

Davanti all’Amnesty Committee si presentarono a richiedere l’amnistia tanto esponenti del regime quanto i suoi avversari. Al comitato spettava il compito di verificare che sussistessero le condizioni per la concessione del provvedimento di clemenza, cioè che i crimini confessati rientrassero tra quelli previsti, che fossero stati effettivamente commessi con finalità politiche tra il 1960 e il 1994 e che la rivelazione di fatti e responsabilità fosse completa. La TRC ha ricevuto più di settemila domande di amnistia, concedendone più di ottocento e respingendone circa cinquemila per la mancanza di una delle suddette condizioni.

Tra la Commissione e il richiedente l’amnistia s’instaurava una sorta di patto: la libertà in cambio della verità. Ha spiegato Desmond Tutu:

Chi fa richiesta d’amnistia deve ammettere la propria responsabilità riguardo ai fatti che l’hanno spinto a richiederla: questo supera il problema dell’immunità. Inoltre chi richiede l’amnistia deve affrontare un’udienza pubblica, tranne casi assolutamente eccezionali: ciò significa che deve fare le proprie ammissioni di fronte a tutti. Proviamo ad immaginare che cosa significa tale circostanza: spesso, per la prima volta una comunità, o una famiglia, venivano a conoscenza del fatto che un loro concittadino, o congiunto, che aveva fatto richiesta di amnistia, non era così rispettabile come a tutti era sembrato, bensì un torturatore incallito piuttosto che un membro di uno squadrone della morte. C’è, quindi, un prezzo da pagare: la pubblica confessione si traduceva in pubblica vergogna ed umiliazione e comportava, a volte, la fine di rapporti, di legami, di matrimoni. […] Noi ci riferiamo ad una giustizia che abbia a che fare con il ristabilimento di un’equità, con la ricomposizione di un’armonia e con l’importanza di una riconciliazione. Ci riferiamo ad una giustizia che sia focalizzata sull’esperienza della vittima e sulla conseguente necessità di un suo risarcimento, una giustizia che noi chiamiamo riparativa.

Per quanto concerne la “riparazione” del danno ingiusto accertato, l’apposito comitato registrò le necessità più impellenti delle vittime, individuando cinque aree di bisogno: medica, psicologica, educativa, materiale e simbolica (per esempio, la sistemazione delle tombe, l’erezione di monumenti e lapidi commemorative, la cancellazione dalla fedina penale delle condanne ingiuste, l’organizzazione di speciali cerimonie di riconciliazione, ecc.). In base a ciò, si stabilirono cinque categorie di risarcimento: il risarcimento urgente provvisorio per le vittime anziane, malate o in stato di grave necessità; il contributo individuale di risarcimento; il miglioramento dei servizi comunitari; il risarcimento simbolico; il risarcimento istituzionale.

I diciotto mesi previsti per i lavori della TRC divennero trenta; il 28 ottobre 1998 fu presentato il Rapporto finale, anche se il Rapporto aggiuntivo sull’amnistia fu concluso solo nel 2003, il Governo approvò il Rapporto finale e a ciò seguì un lungo dibattito parlamentare. Ma sul fronte dei risarcimenti l’attuazione di quanto stabilito fu solo parziale, una parte dei familiari delle vittime contestò i provvedimenti di amnistia e, secondo alcuni commentatori, l’oggettivo ruolo politico ricoperto dalla TRC avrebbe consentito la gestione di un processo di trasformazione democratica formale che non ha intaccato la reale distribuzione del potere economico, vanificando le attese di giustizia sociale.

Un’inchiesta condotta a livello nazionale alla fine del 2000 ha indicato che, mentre il 90% dei sudafricani di colore erano soddisfatti del lavoro della TRC, tra i connazionali bianchi solo un terzo lo giudicava positivo senza riserve, un terzo aveva un atteggiamento negativo e un terzo era indeciso.

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Pur con aspetti di criticità, l’esperienza della TRC sudafricana rimane fondamentale per il coraggioso tentativo di rifondare una nazione su basi democratiche trovando parole condivise per definire e chiudere un passato indicibile, che sarebbe stato forse più agevole lasciare nell’oblio: come ha ricordato il filosofo José Zalaquett, protagonista di un’analoga commissione in Cile:

La verità non riporta alla vita i morti ma li libera dal silenzio.

Silvia Boverini

Fonti:
www.archiviodisarmo.it;
www.wikipedia.org;
D. Franchi , “Sud Africa, il prezzo della riconciliazione”, www.peacelink.it;
“La Truth and Reconciliation Commission (TRC) sudafricana: un’eredità preziosa”, www.ispionline.it;
A. Zamburlini, “Sudafrica nello spirito dell’ubuntu”, www.rivistamissioniconsolata.it;
P. Meiring, “Verità e riconciliazione nel Sudafrica del dopo-apartheid”, www.aggiornamentisociali.it;
“Truth and Reconciliation Commission of South Africa Report”, https://web.archive.org/web/20130925051325/http://www.info.gov.za/otherdocs/2003/trc/

27 ottobre ’35: l’Italia va a tutto gas… in Etiopia

Il Duce in persona conduceva la regia della guerra all’Impero etiope, il solo lembo di terra in Africa che, insieme alla Liberia, era fino a quel momento sfuggito alla colonizzazione da parte delle potenze europee. Anzi, l’Etiopia, non soltanto aveva efficacemente respinto i tentativi arabi e turchi di dominarla, ma aveva anche buone relazioni con diversi stati europei, aveva una popolazione per lo più di religione cristiana (copta) ed era, dal 1923, membro della Società delle Nazioni. Ma tutto ciò non aveva fermato Mussolini.

L’Italia aveva già alcune colonie in Africa: la Libia – cui era piombata addosso nel 1911, sottraendola alla Turchia, e dove ancora attuava una repressione feroce verso quei libici indisponibili ad essere sottomessi all’occupante italiano – e, nel Corno d’Africa, la Somalia e l’Eritrea. Ma a Mussolini tali domini non bastavano. Voleva l’Etiopia, voleva passare alla storia come l’edificatore di un impero che si riconnettesse ai fasti di quello romano, recuperandone la leggendaria aura di gloria e potenza.

Così l’Italia, dopo una lunga preparazione, dotatasi di una formidabile macchina da guerra, aveva attaccato l’Etiopia, senza inviare una dichiarazione di guerra, il 3 ottobre 1935.

A tutto gas, nonostante il divieto posto dalla Convenzione di Ginevra

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I combattenti etiopi, male armati e peggio equipaggiati, però, si rivelarono subito un osso troppo duro per le truppe italiane. Conoscevano il terreno e sapevano sfruttarlo. Evitavano di farsi sorprendere e sapevano, invece, cogliere alla sprovvista il nemico. Ad esempio, nonostante gli italiani utilizzassero senza risparmio l’artiglieria e bombardassero e mitragliassero con l’aviazione i soldati e i civili abissini, nel nord, non soltanto gli etiopi non indietreggiarono, ma addirittura riuscirono a penetrare in Eritrea, cioè nella colonia italiana dalla quale aveva mosso una parte delle truppe impegnate nell’invasione dell’Etiopia.

Mussolini aveva già inviato i gas tossici dieci mesi prima dell’inizio della guerra

I gas tossici, usati in maniera devastante sulle trincee della Prima Guerra Mondiale, erano stati banditi dalla Convenzione di Ginevra del 1925. Mussolini, però, ne aveva autorizzato lo sbarco segreto in Eritrea. Del resto, dieci mesi prima di ordinare l’invasione, con le direttive del 31 dicembre 1934 (quindi 10 mesi prima di aggredire l’Impero etiope), indirizzate al Capo di Stato Maggiore Pietro Badoglio, aveva esplicitamente previsto l’uso dei gas in Etiopia, anzi intendeva che si raggiungesse

la superiorità assoluta di artiglierie di gas.

27 ottobre 1935, Mussolini: «Autorizzato impiego gas»

Così, il 27 ottobre in un telegramma al generale Rodolfo Graziani, che ancora non era riuscito a concludere granché rispetto all’avanzata da sud, cioè muovendo dalla Somalia italiana, Mussolini scrisse:

Autorizzato impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico o in caso di contrattacco.

Un mese e mezzo dopo, Graziani chiese al duce di essere nuovamente autorizzato all’uso di gas asfissianti. La risposta del capo del Governo, fu:

Sta bene impiego gas nel caso Vostra Eccellenza lo ritenga necessario per supreme ragioni di difesa.

Graziani lanciava allora fino alla notte di capodanno 125 bombe. E il 10 gennaio 1936 otteneva di nuovo il consenso di Mussolini[1].

Anche contro gli etiopi che combattevano sul fronte nord Mussolini autorizzava l’uso dei gas tossici, fin dal 22 dicembre del 1935. Qui per la prima volta venivano scaricate dagli aerei sugli etiopi le bombe C.500 T, al cui interno vi erano 250 kg di iprite. Queste bombe esplodevano, aprendosi, a 250 metri dal suolo, creando così una pioggia letale di iprite.

Gli effetti sulle truppe e sulla popolazione civile etiope erano orribili. Le persone urlavano di dolore e morivano. Ma non subito. L’iprite, la sostanza chimica utilizzata, è un potente vescicante, con effetto letale, sì, ma non necessariamente immediato.

In totale gli italiani hanno utilizzato dal 1935 al 1939 più di 2100 bombe a gas. L’iprite veniva anche lanciato dagli aerei come insetticida. Oltre agli accampamenti dei soldati, vennero colpite città e perfino ospedali. Questi bombardamenti furono negati dai comandanti in carica durante la campagna e, inoltre, il Dottor Belau e il suo assistente vennero torturati perché inviarono una dichiarazione alla Società delle Nazioni in cui denunciarono il bombardamento indiscriminato con gas tossici.

I morti etiopi arrivarono fino a 275.000. Quando la guerra si concluse, con la vittoria italiana, il generale Pietro Badoglio lasciò l’Etiopia nelle mani del generale Graziani. Costui, diventato viceré, soffocò i focolai di resistenza ancora vivi nel Paese, utilizzando ancora gas tossici.

Nelle prime fasi della guerra, però, visto che il nemico continuava a difendere la sua terra, Mussolini pensò anche di ricorrere alle armi batteriologiche, sebbene non fossero mai state sperimentate. Fu Badoglio a farlo desistere, facendogli presente che l’uso di quelle armi avrebbe indotto anche i somali, gli eritrei e tutti gli abitanti del Corno d’Africa a schierarsi, insieme alla comunità internazionale, contro l’Italia[2].

Il fatto è che a Mussolini non bastava vincere la guerra e sottomettere l’Etiopia: voleva sterminare i suoi avversari e aveva predisposto da tempo i mezzi per portare a compimento tale opera.

La rimozione e la negazione degli orrori commessi e l’intramontabile falso mito dell’italiano buono

Per decenni è stato negato l’uso delle armi chimiche contro gli etiopi, prima che venisse ufficialmente riconosciuto dal governo italiano [3]. Per decenni (e ancora adesso) si è detto che nel Corno d’Africa, Etiopia inclusa, gli italiani portarono le strade, la corrente elettrica…

Costruirono strade, eressero edifici, ecc., è vero. Ma, ovviamente, non lo fecero per la popolazione etiope, dal momento che erano impegnati a sterminarla con ogni mezzo: lo fecero per sé stessi [4].

Altro che strade, palazzi…!

Molti altri popoli hanno saputo guardare con occhio critico al loro passato coloniale. La guerra scatenata dall’Italia contro l’Etiopia 85 anni fa è stata di un’intensità inferiore solo a quelle combattute dalla Francia in Algeria e dagli Stati Uniti in Vietnam. Francia e Stati Uniti, in modi diversi, hanno saputo mettere in discussione le ragioni di quelle guerre e i modi in cui vennero condotte. Addirittura i loro popoli lo fecero mentre quei conflitti erano in corso. Certo oggi, nel 2020, è poco utile rinfacciare al popolo italiano dell’epoca, allora sotto il regime fascista, di non essere sceso in piazza contro le nefandezze commesse in Etiopia dai suoi soldati. Ma, settantacinque anni dopo la Liberazione dal nazifascismo, cosa ancora ci impedisce di ammettere di aver seminato l’orrore presso altri popoli in diverse occasioni della nostra storia patria, inclusa quella costituita dal vergognoso tentativo di sottomettere l’Etiopia?

Sarà, forse, una forma distorta di patriottismo? Se lo è, probabilmente è supportata dal fatto che noi italiani stentiamo davvero a non rappresentarci sempre, inconfutabilmente e a priori, come i buoni.

Alberto Quattrocolo

Fonti

Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Editori Riuniti, Roma 1996

Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005

www.criminidiguerra.it/campagnaetiopia.shtml

www.lavocechestecca.com/2016/12/30/ita-abi/

www.resistenze.org – osservatorio – della guerra – 16-07-12 – n. 418

Trasmissione “La Grande Storia”, puntata del 2007: “La guerra di conquista dell’Etiopia, crimini sulle popolazioni e l’uso dei gas”

[1] Il 5 gennaio ’36, data l’imminente riunione a Ginevra, Mussolini ordinava a Badoglio di sospendere l’uso dei gas – ma Badoglio continuò a impiegarli -, per poi autorizzarne di nuovo il ricorso due settimane dopo, dall’alto come da terra, con la «massima decisione».

[2] Il 20 febbraio 1936 Mussolini accoglieva la riflessione di Badoglio: «Concordo con quanto osserva Vostra Eccellenza circa l’impiego della guerra batteriologica».

[3] Nel 1965, quando Angelo Del Boca pubblica La guerra d’Abissinia 1935-1941 e affronta senza reticenze l’argomento, si solleva una reazione violentissima nei suoi confronti. Non soltanto Il reduce d’Africa, un giornale dichiaratamente nostalgico del Ventennio fascista, pubblica un articolo intitolato Folle vento antipatria, che definisce Del Boca uno dei «campioni del disfattismo nostrano, sciocco e servile», ma è anche Indro Montanelli a scagliarsi contro di lui. Montanelli era certo che Abissinia non fossero stati usati i gas, grazie al fatto di non aver assistito ai bombardamenti a gas, quando aveva preso parte alla campagna etiope come volontario, e per aver intervistato Badoglio, il quale aveva ammesso l’uso delle armi chimiche, ma solo una volta, per sbaglio e senza alcuna conseguenza. In realtà, il primo bombardamento all’iprite avvenne il 22 dicembre 1935, quando cioè Montanelli non era più in prima linea. Inoltre il maresciallo Badoglio nel suo rapporto al ministero delle Colonie dopo la battaglia dell’Endertà aveva scritto: «In complesso 196 aerei sono stati impiegati per il lancio di 60 tonnellate di iprite sui passaggi obbligati e sugli itinerari percorsi dalle colonne». Sarà solo nel 1996 che il generale Domenico Corcione, ministro della Difesa, del governo Dini, rispondendo ad alcune interrogazioni parlamentari proposte dai progressisti Valdo Spini e Vittorio Emiliani, ammetterà apertamente che nella guerra italo-etiopica erano state «impiegate bombe d’aereo e proiettili d’artiglieria caricati ad iprite ed arsine».

[4] Anche spagnoli e portoghesi costruirono ponti e strade, case e chiese in America Latina. E allora? Ciò rende meno mostruoso il genocidio che commisero? Inoltre, che razza di attenuante o, peggio, di giustificazione è l’avere costruito un po’ di infrastrutture? Molto semplicisticamente si potrebbe obiettare alla retorica inossidabile del “gli abbiamo costruito le strade” che, se un tizio sfondasse la porta di casa nostra, ci bastonasse ferocemente, stuprasse e massacrasse la nostra famiglia, quindi ci mostrasse come mettere a posto il rubinetto difettoso della cucina, come riparare la lavastoviglie e ci costringesse a fare questi altri e lavori per lui, mentre se ne sta sdraiato a guardare la TV, noi, probabilmente, stenteremmo a lasciarci pervadere da un sentimento di gratitudine nei suoi confronti. Verosimilmente proveremmo un po’ di disappunto e presumibilmente saremmo inclini a definire la sua condotta come un crimine particolarmente efferato, considerandolo insuscettibile non solo di scusanti ma anche di attenuanti ammissibili.

Il 26 ottobre 1954 Trieste torna definitivamente in Italia

Trieste è una città con una lunga storia di cambiamenti d’influenza che affonda le proprie radici molto indietro nel tempo. In questa sede, daremo un rapido sguardo agli avvenimenti degli ultimi due secoli.

Durante il 1800, il dominio della città era appannaggio degli Asburgo, casata nobiliare a capo dell’allora Impero Austro-Ungarico. Sotto tale egida, Trieste conobbe una ricchezza che difficilmente avrebbe pareggiato in seguito: fu la quarta realtà urbana di tutto l’Impero. Nonostante questo momento di agiatezza, il movimento irredentista, che chiedeva la riannessione all’Italia, fece sentire la propria voce, soprattutto tra le classi borghesi, e raggiunse l’apice allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, quando la penisola dichiarò guerra all’Austria-Ungheria.

La città sopravvisse ai bombardamenti italiani e, il 4 novembre 1918, tornò a mostrare il tricolore. Il passaggio al nuovo stato non fu però fecondo per l’economia della città: venne notevolmente ridimensionata, anche in considerazione del fatto che non rappresentava più il porto sul Mediterraneo dell’Impero, definitivamente dissoltosi. È in questo momento che iniziano le politiche di sostegno economico nei confronti di tutta la provincia: Giolitti diede loro il via, Mussolini le intensificò e furono riprese anche da alcuni governi democristiani, con l’attuazione, ad esempio, della Regione a statuto speciale.

A conclusione del Ventennio, con l’armistizio di Cassibile del ‘43, Trieste fu occupata dalle forze tedesche, che permisero la presenza di esponenti politici e militari della Repubblica Sociale Italiana. Nota particolarmente triste, la Risiera di San Sabba presente in città: fu riciclata come campo di sterminio, unico in Italia a disporre di un forno crematorio. Anche in questo caso, la città fu oggetto di bombardamenti, stavolta da parte degli Alleati. Dopo due anni, Trieste, così come gran parte della nazione, fu liberata: era il 30 aprile 1945.

Liberazione che, però, non durò a lungo: neanche una settimana dopo, infatti, arrivarono in città le truppe Jugoslave, le quali, agli ordini di Tito, presero il comando della città, tanto che diversi esponenti del CLN dovettero dileguarsi: era stato imposto loro di deporre le armi, invece di sfruttarne la collaborazione per cacciare i Tedeschi. Le bandiere jugoslave sventolavano al fianco di quelle italiane, dando speranza alla minoranza slava presente in città.

I Triestini dovettero pazientare sino al 9 giugno, quando, con gli accordi di Belgrado, l’intero territorio fu diviso in due zone d’influenza: la prima, di cui faceva parte Trieste, rispondeva agli Alleati; la seconda, agli Jugoslavi. Si costituì, in tal modo, il Territorio libero di Trieste, cui l’ONU avrebbe voluto assegnare un seggio presso la propria Assemblea. Durante questi anni non mancarono momenti di tensione, con gli eserciti schierati sui confini della linea Morgan, che divideva le due zone, per il timore di perdere anche solo un metro di quel terreno così faticosamente guadagnato.

La situazione si risolse il 5 ottobre del 1954: il protocollo d’intesa firmato a Londra (per questo ricordato come Memorandum di Londra) da Italia, Jugoslavia, Regno Unito e Stati Uniti riconosceva l’amministrazione civile italiana e jugoslava sulle rispettive zone d’influenza. Il 26 ottobre fu indicata come data simbolo del ritorno di Trieste all’Italia, poiché testimoniò dell’ingresso delle forze italiane in città.

Alessio Gaggero

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25 ottobre 1911: gli italiani iniziano a deportare i libici in Italia

Antefatti: l’invasione e l’annessione della Tripolitania e della Cirenaica

Le navi italiane aveva aperto il fuoco contro le forze turche di stanza in Libia il 3 ottobre 1911, pochi giorni dopo la scadenza dell’ultimatum inviato dal governo Giolitti al governo turco. E così era iniziata la guerra italo-turca, motivata dal fatto che il Regno d’Italia voleva delle colonie in Nord Africa e aveva deciso che quelle che facevano al caso suo erano le due province del vacillante impero ottomano costituite dalla Tripolitania e dalla Cirenaica[1].

L’Impero ottomano, sulla carta, era un nemico facile da battere, ma la sconfitta delle forze turche fu un po’ meno rapida e un po’ più impegnativa rispetto a come era stata immaginata[2]. Inoltre, la popolazione libica considerò gli italiani come dei conquistatori e non dei liberatori dalla dominazione turca, anche se questa era stata l’aspettativa del governo italiano[3].

Soprattutto non potevano essere considerati gesti di liberazione il massacro indiscriminato perpetrato, il 23 ottobre, per le strade di Tripoli, come rappresaglia per gli attacchi alle truppe italiane da parte della popolazione locale, al fianco dei soldati turchi, nelle vie della città e nel vicino villaggio di Sciara Sciat.

25 ottobre 1911, Giolitti ordina la deportazione dei ribelli

Alle 16,45 del 25 ottobre – quindi, due giorni dopo l’attacco arabo ai soldati italiani appostati a Sciara Sciat e la successiva caccia italiana all’arabo per le vie di Tripoli, esitata in 4000 morti, bambini, ragazzi e donne inclusi, – il presidente del Consiglio dei Ministri italiano, Giovanni Giolitti, inviava al generale Carlo Caneva, a capo del corpo di spedizione italiano, un telegramma:

Quanto a rivoltosi arrestati, che non siano fucilati costà, li manderà alle isole Tremiti, nel mare Adriatico, coi domiciliati coatti, dove ella può direttamente dirigerli avvisandomi partenza. Le isole Tremiti possono accogliere oltre 400 detenuti.

Tra il 25 e il 30 ottobre Caneva imbarcò assai più di 400 detenuti: il numero esatto non è noto, ma non si è lontani dalla realtà affermando che furono più di 4.000. Infatti, non furono inviati solo alle Tremiti, ma anche a Ustica, Favignana, Caserta, Gaeta e Ponza, cioè nelle colonie penitenziarie.

Ma chi erano coloro che venivano deportati?

Le vittime casuali della deportazione

Raccontava un testimone oculare, il giornalista Giuseppe Bevione, che ad essere imbarcati erano «uomini di tutte le età: vecchi canuti e giovani imberbi» [4]. Alle Tremiti giunsero soprattutto le persone catturate nell’area di Tripoli. Secondo la relazione della Commissione dei prigionieri di guerra dell’epoca, oltre a «tutti coloro che erano accusati di attività politica o militare o di collaborazione con i ribelli e che esercitavano, in virtù del loro rango sociale, una certa influenza sulle rispettive tribù», venivano deportati anche

un miscuglio di mendicanti, di ricchi proprietari, di lavoratori, di fruttivendoli, di mercanti, di contadini e di anziani, e di donne e di bambini e ragazzi.

In pratica veniva deportato chiunque capitasse a tiro, «in modo frettoloso».

Chi moriva in viaggio veniva gettato in mare, per gli altri iniziava l’agonia

Il viaggio, di 4 giorni circa, per le Tremiti e le altre destinazioni non era una crociera turistica né erano dei villaggi turistici i luoghi di destinazione.

Le navi erano gelide e inadatte a trasportare dei reclusi, molti dei quali perivano proprio per le condizioni di questa navigazione e venivano semplicemente gettati fuori bordo.

Nelle colonie penali italiane le possibilità di sopravvivere alla detenzione erano minime. Alle Tremiti, dove c’era posto per meno 400 persone (360), ne arrivarono più di 1.300. Ne morì uno su tre. Secondo la «Direzione delle carceri» la capienza dei sette cameroni destinati ai deportati era al massimo di 360 posti. Così tutti gli altri furono ammassati in maniera promiscua, malati e sani, maschi e femmine, bambini e adulti, un po’ nelle stalle e un po’ nelle grotte. Cavità «scavate sul pendio nel monte sovrastante l’Isola di San Nicola», come scrissero due delegati di Pubblica sicurezza il 2 novembre 1911, che «mancano di porte ed il vento vi penetra da tutti i lati», «buie, umide e senza scolo», «poco adatte persino per gli animali».

Le cifre

La scarsità di cibo e acqua, l’abbondanza di malattie (soprattutto, il tifo e il colera), l’ostilità di una parte cospicua della popolazione locale, che spesso rubava i viveri destinati ai prigionieri, spiegano perché già il 9 gennaio 1912 risultarono deceduti 198 deportati: inclusi due bimbi di 10 anni, mentre a giugno i morti erano diventati 437, un terzo di quelli che erano arrivati. Del resto, i tremitesi che, vedendo in quei deportati degli esseri umani, mostrarono loro della solidarietà, furono accusati di «sovversione» e di «simpatie socialiste».

Non diverso era il destino dei libici che venivano inviati nelle altre colonie penali. Come i 920 uomini che, il 29 ottobre 1911, laceri e malandati venivano sbarcati ad Ustica. Di questi 69 perirono entro due mesi dall’arrivo, inclusi giovani di 16 anni.

Al 31 gennaio 1912 i morti in viaggio non erano meno di 600-700, mentre i deportati giunti vivi nelle strutture detentive italiane erano stati così distribuiti: 1.080 alle Tremiti, 834 ad Ustica, 654 a Gaeta, 349 a Favignana, 136 a Ponza. Di questi entro il 1912, ne vennero rimpatriati 917. Ma le deportazioni continuarono negli anni seguenti per impennarsi durante la grande rivolta del 1915, tanto che nel marzo del 1916 (nel pieno quindi della Prima Guerra Mondiale, cui l’Italia prese parte per “liberare” alcuni territori dalla dominazione austro-ungarica), nella sola Ustica vi erano 1.300 libici detenuti[5].

Una dominazione vergognosa, oltre che inutile e fallimentare.

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Mentre sul Carso i soldati italiani si avviavano a morire come le mosche – e la popolazione civile subiva pesantissimi effetti collaterali[6]  -, il conflitto contro i libici continuava, sopravanzando continuamente le punte di spietatezza già raggiunte.

Anche la ritirata delle truppe italiane dalle regioni più interne verso la costa fu punteggiata di abusi, massacri, razzie e altre forme di sadismo: persone ferite gravemente che venivano inondate di benzina e bruciate vive dagli ufficiali e dai soldati italiani, altre buttate dentro i pozzi, molte fucilate per capriccio, per non citare i paesi non ribelli che venivano depredati con sistematicità.

Noi vendichiamo sugli arabi gli errori nostri, le nostre ritirate, le sconfitte subite ovunque, non per la loro abilità, ma per la nostra inettitudine.

Nel suo rapporto per il generale Santangelo, il tenente colonnello Gherardo Pànatano aveva scritto:

Non è raro purtroppo sentire ufficiali distinti e di animo generoso proclamare le teorie più reazionarie e più feroci, come ad esempio, l’utilità della soppressione di tutti gli arabi della Tripolitania. […] Vi sono ufficiali che si incaricano personalmente delle esecuzioni e se ne vantano […] Donde venga ai nostri ufficiali tanta cieca ferocia, tanta sete di sangue, tanta raffinatezza di crudeltà, io non so comprendere. […] Noi vendichiamo sugli arabi gli errori nostri, le nostre ritirate, le sconfitte subite ovunque, non per la loro abilità, ma per la nostra inettitudine. Anzi, non potendo vendicarci sui nemici che ottennero, con così scarsi mezzi, risultati tanto vistosi, sfoghiamo l’umiliazione sui deboli, sugli inermi.

 

Complessivamente il tentativo di occupare la Libia durò 4 anni dall’autunno del 1911 alla fine del mese di luglio 1915. Per raggiungere l’occupazione globale sarebbero occorsi altri 17 anni. Più di tre lustri, quindi, segnata anche questi da morte e terrore ai danni della popolazione libica. Un ottavo di essa venne annientato dagli italiani, nei campi di sterminio, con esecuzioni arbitrarie e in combattimento.

Alberto Quattrocolo

Fonti:
Bernini S., Documenti sulla repressione italiana in Libia agli inizi della colonizzazione, 1911-1918, in N. Lablanca (a cura di), Un nodo, Immagini e documenti sulla repressione coloniale italiana in Libia, Lacaita, Manduria, 2002
Del Boca, Gli italiani in Libia, vol. I, Tripoli bel suol d’amore, 1860-1922, Laterza, Roma-Bari, 1986
Del Boca, Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2005

 

[1] Il Regno d’Italia ambiva anche alla regione libica del Fezzan, ma su questa gli ottomani non avevano alcun controllo.

[2] L’impero turco era in piena decadenza, le sue truppe dislocate in Tripolitania e Cirenaica erano incomparabilmente inadeguate a reggere la forza del corpo di spedizione italiano ed era difficile dar loro manforte dalla madrepatria, visto che l’unica via era il Mediterraneo, controllato dalla marina italiana.

[3] Del resto il regio decreto n. 1247 del 5 novembre 1911, che dichiarava l’annessione all’Italia della Tripolitania e della Cirenaica, difficilmente avrebbe potuto essere considerato un atto di liberazione

[4] G. Bevione, Come siamo andati a Tripoli, Bocca, Torino, 1912.

[5] Il 28 novembre 1914, infatti, con l’attacco alla Gahra di Sebha e la distruzione della guarnigione che la presidiava, iniziava la rivolta araba che avrebbe respinto i soldati italiani fino alla costa. Nel gennaio 1915, iniziava infatti una precipitosa ritirata dalla regione del Fezzan. E a fine luglio questa ritirata era costata 5.400 morti uomini del contingente italiano. Ma, complessivamente, come scrisse il Ministro delle Colonie, il numero va portato a 10.000.

[6] L’Italia, dopo un anno di neutralità, entrò nella Prima Guerra Mondiale il 24 maggio 1915. 10 milioni furono i soldati da una parte e dall’altra uccisi nella Prima Guerra Mondiale, 8 milioni di militari vennero feriti e 5 milioni di civili persero la vita per l’occupazione nemica o i bombardamenti.

La “squadraccia fascista” di Novara il 24 ottobre 1944 assassinò 11 persone

La Squadraccia

La “Squadraccia” era una banda fascista, un reparto speciale della polizia novarese, alle dipendenze del Capo della Provincia, Vezzalini, comandata dal questore Emilio Pasqualy e diretta dal tenente di P. S. Vincenzo Martino.

Le uniche attività di questo reparto di polizia repubblichina erano i rastrellamenti finalizzati alla cattura dei renitenti, che, non volendo servire Mussolini e Hitler, si erano rifugiati nei cascinali del Basso Novarese. Ma la Squadraccia “eccelleva” anche negli interrogatori di terzo grado, nelle bastonature, nelle torture e sevizie sui prigionieri, negli incendi di case e cascine, nonché nell’assassinio.

Alle dipendenze della Questura la cosiddetta squadraccia era stata istituita nel giugno del 1944 per combattere i partigiani della zona. Infatti, dopo l’8 settembre 1943, anche a Novara erano arrivati i primi reparti tedeschi, sicché grazie alla loro presenza nel territorio si era formato il nuovo partito fascista repubblicano -, essendo stato sciolto il Partito Nazionale Fascista che aveva governato l’Italia per vent’anni, fino al 25 luglio del ’43 -, e venivano ricostituite le organizzazioni fasciste. Queste, dopo la nascita della Repubblica sociale italiana, svolgeranno un ruolo amministrativo e politico con i nazisti.

Le torture su Mario Soldà

Tra i tanti finiti nelle spietate mani di questa banda fascista vi era anche Mario Soldà. Costui era un partigiano che operava sul territorio per raccogliere informazioni a favore del Comitato di liberazione Nazionale (CLN).

Soldà venne arrestato al Ristorante “La Cupola”, il 23 ottobre, e subito fu portato all’Albergo Unione (in piazza della Prefettura) dove, nella stessa notte, fu sottoposto a torture crudelissime:

«gli cavano prima l’occhio destro e poi quello sinistro, da vivo, con la punta del pugnale».

La mattina del 24 ottobre la Squadraccia “le prende” dai partigiani

La mattina del 24 ottobre la “Squadraccia”, dopo essersi dedicata a Soldà, raggiungeva la zona di Castelletto di Momo per realizzare una delle sue tipiche scorribande, che normalmente consistevano nel rubare a man bassa, incendiare, picchiare e, se gli riusciva, ammazzare. Quella volta, però, si imbatté nei partigiani. E, nello scontro, la “Squadraccia” ebbe la peggio: prima di riuscire a ritirarsi i fascisti persero, infatti, sei militi, e il loro comandante, il tenente Martino, riportò una leggera ferita al capo.

Curato all’Ospedale Maggiore di Novara, Martino, assetato di vendetta, prelevò Mario Soldà e il partigiano Giovanni Erbetta, quindi con la “Squadraccia” tornò a Castelletto di Momo.

La prima vendetta della Squadraccia a Castelletto di Momo: 4 morti

Qui il ten. Martino e il questore Pasqualy fecero impiccare Soldà assieme a Giovanni Erbetta e al georgiano Sicor Tateladze, dopo averli pesantemente brutalizzati. Poi, minacciarono il parroco e bruciarono le case del paese, perché, dissero, la popolazione proteggeva i partigiani.

Inoltre, non ancora appagati, infierirono su Pietro Protasoni, che, trovato in possesso di un lasciapassare dei partigiani – come raccontò a guerra finita nel processo contro Vezzini, il parroco, don Bacchetta -, venne «buttato a terra, preso a pugni e a calci e mitragliato».

La seconda vendetta a Novara: 7 morti

Dopo avere assassinato quattro partigiani e saccheggiato e dato alle fiamme alcune case a Castelletto di Momo, Pasqualy e Martino andavano ad ordinare al Direttore delle Carceri l’immediata consegna di alcuni partigiani o detenuti “politici” (cioè antifascisti).

Le prime tre vittime: Lodovico Bertona, Aldo Fizzotti, e Giovanni Bella

Dato il rifiuto del Direttore, seguito da quello del Procuratore, Pasqualy e Martino rinchiudevano il direttore nel suo ufficio e, armi in pugno, prelevavano dalle celle Lodovico Bertona, Aldo Fizzotti, e Giovanni Bellandi. I primi due facevano parte della divisione partigiana Rabellotti, di orientamento cattolico. Bellandi, invece, era un partigiano garibaldino, e aveva 18 anni (Fizzotti ne aveva 24).

Bertona e Fizzotti, arrestati nel settembre perché sospetti partigiani, erano stati assolti in istruttoria dal Tribunale Militare di Torino. Ciononostante, quel martedì 24 ottobre, venivano trascinati in Piazza Crispi (ora p.za Martiri della Libertà), bastonati a sangue, quindi fucilati.

Le altre quattro vittime: Vittorio Aina, Mario Campagnoli, Emilio Lavizzari e Giuseppe Piccini

Ma la “Squadraccia” aveva ancora sete di sangue. Così tornati in Carcere, i fascisti avevano prelevato Vittorio Aina, Mario Campagnoli, Emilio Lavizzari e Giuseppe Piccini, affermando che intendevano concedergli la libertà.

Lavizzari, era un partigiano cattolico, mentre gli altri tre erano nella brigata partigiana socialista Matteotti. Piccini e Lavizzari, erano infiltrati, come militi, nella polizia ferroviaria della Polizia Repubblicana (della Repubblica Sociale Italiana, la R.S.I., nota anche come Repubblica di Salò), e il loro ruolo di partigiani consisteva appunto nel raccogliere informazioni e passarle al CLN e alle loro formazioni partigiane

Non gli venne concesse la libertà, se non quella che si ottiene, forse, dopo morti. Messi contro il muro di cinta di un caffè di piazza Cavour, infatti, venivano crivellati da raffiche di mitra, per essere poi finiti con un colpo alla nuca. Aina aveva 27 anni, Campagnoli 19, Lavizzari 27 e Piccini 18.

Il massacro del giorno prima, a Biandrate, da parte di un’altra banda fascista: la “Cristina”

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Un’altra banda fascista, che, predando ed assassinando, scorrazzava nel Basso e Medio Novarese, era la brigata nera “Cristina”.

Il giorno prima della strage di Novara, il lunedì 23 ottobre, lo stesso giorno in cui a Novara Mario Soldà veniva catturato dalla Squadraccia, un reparto della “Cristina“, era alla ricerca, tra le case di Biandrate, di due ventunenni del posto, Sereno Risotti e Giovanni Besati.

Besati, che era stato operaio apprendista presso un’officina ortopedica di Novara, aveva prestato servizio militare presso un reparto di Torino, ma era stato inviato a Trento per sottoporsi ad un intervento chirurgico e, rimandato in convalescenza a Biandrate, era stato richiamato in servizio per essere inviato in Germania, ma non si era presentato, rimanendo nascosto in paese.

Risotti era uno studente in legge presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, che aveva disertato dal servizio militare (era al Comando Presidio Germanico di Novara).

A mezzogiorno di quel 23 ottobre, quando i militi della “Cristina” si aggiravano per Biandrate, il giovane operaio, avendoli scorti, si era rifugiato nel portone di casa del suo amico Sereno Risotti. I due, allora, attraversato il cortile sul retro della casa, si erano nascosti nella cella frigorifera della fabbrica del ghiaccio di Ambrogio e Giacomina Invernizzi. I militi della “Cristina”, dopo avere inutilmente cercato i due giovani nella casa di Risotti, si erano rivolti proprio ai coniugi Invernizzi. E, Giacomina, sottoposta a tortura, aveva rivelato dove i due si erano nascosti.

Besati e Risotti, così, spinti a calci e a pugni sulla strada provinciale per Novara, venivano qui crudelmente bastonati. Ad entrambi i militi della “Cristina” spaccavano le gambe in più punti. Poi gli puntavano addosso i mitra.

Giovanni Besati morì all’istante. Sereno Risotti ebbe ancora un po’ di fiato per chiamare la mamma prima di morire.

Alberto Quattrocolo

Fonti

http://novara.anpi.it/i
https://it.wikipedia.org/
Piero Fornara, L’efferata violenza della “squadraccia” per il colpo subito a Castelletto di Momo, in Resistenza Unita, Novara, ottobre 1982
Enrico Massara, Antologia dell’antifascismo e della resistenza novarese, Novara, 1984