13 settembre 1982: la legge Rognoni-La Torre introduce il reato di associazione di tipo mafioso

Il 13 settembre 1982, con l’approvazione della legge n. 646 (detta “”Rognoni-La Torre”” dal nome dei promotori), venne introdotto come fattispecie autonoma il reato di associazione di tipo mafioso, inserendo un apposito articolo (416-bis)  nel V titolo del Codice Penale, nella parte disciplinante i delitti contro l’ordine pubblico.

Il preesistente art. 416 c.p. (associazione per delinquere) si era rivelato inefficace di fronte alle dimensioni del fenomeno mafioso e alle sue manifestazioni tipiche: tra le finalità perseguite dai soggetti uniti dal vincolo associativo ve n’erano anche di lecite, e ciò limitava enormemente le possibilità di applicare quella norma.

La legge 646 definì invece i tratti specifici dell’associazione di tipo mafioso, evidenziando in particolare l’uso dell’intimidazione e la condizione di soggezione che ne deriva:

L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.”.

La menzione dell’interferenza nelle attività di voto fu inserita nel 1992, con la cosiddetta legge Falcone – Borsellino, a seguito delle stragi di Capaci e Via D’Amelio. L’art. 416-bis dispose inoltre la confisca dei beni, per tutte le associazioni riconducibili a quelle di tipo mafioso, comunque localmente denominate, e la legge 109/1996 introdusse poi la previsione del riutilizzo dei beni sequestrati per finalità sociali assegnandoli a enti locali, associazioni o cooperative.

Pio la Torre fu tra i primi a riflettere sull’importanza strategica del patrimonio per i mafiosi, avendo osservato in prima persona l’evoluzione della mafia di un tempo, quella agraria dei “gabellotti”
e dei “campieri” che legava il proprio potere al controllo del latifondo.

Nato nel 1927, attivista del PCI, ancora giovanissimo alla Camera del Lavoro di Corleone raccolse l’eredità politica e morale del sindacalista Placido Rizzotto, ucciso nel 1948 da Luciano
Liggio; avviò il movimento di occupazione delle terre incolte da parte dei contadini, lanciando lo slogan “la terra a tutti” e, nei duri scontri che seguirono, fu incarcerato per un anno e mezzo. Tornato in libertà, lanciò una massiccia campagna di raccolta firme per la messa al bando delle armi atomiche. Consigliere comunale a Palermo, Segretario Regionale della CGIL e del PCI
siciliano, eletto nel 1968 all’Assemblea Regionale Siciliana e dal 1969 dirigente nazionale del PCI a Roma, nel 1972 fece il suo ingresso alla Camera dei deputati, dove restò per tre legislature partecipando ai lavori delle commissioni Bilancio e Agricoltura e della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia.

Le posizioni via via ricoperte gli consentirono di vedere i Corleonesi conquistare Palermo e la leadership di Cosa Nostra, e gli fecero comprendere le dinamiche della trasformazione di una
mafia non più ancorata ai vecchi meccanismi di accumulazione del capitale attraverso le rendite fondiarie, bensì proiettata in una dimensione transnazionale e globalizzata. Il sistema di potere stava evolvendo, dal latifondo delle origini all’edilizia urbana, grazie alle connivenze con la politica locale, fino all’imprenditoria legale e illegale con agganci nell’alta finanza internazionale.

Il politico siciliano capì che per dare una svolta alla lotta contro le organizzazioni criminali si rendeva fondamentale colpirle nelle ricchezze e nei patrimoni accumulati, indebolirle
diminuendo il loro prestigio e potere. Era infatti grazie alle floride entrate garantite dai nuovi business — su tutti il traffico di droga — che le cosche rafforzavano la loro posizione all’interno della società siciliana, pronte ormai a sedersi al tavolo degli affari con rappresentanti della politica,
dell’imprenditoria, delle stesse istituzioni.

La Torre non ebbe paura di fare i nomi dei conniventi politici, memorabili i suoi giudizi su Vito Ciancimino, assessore ai lavori pubblici e poi sindaco ai tempi del c.d. “Sacco di Palermo”; dalla sua analisi del rapporto tra il sistema di potere mafioso e pezzi dello Stato emerge la sua convinzione che:

[la] compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico). La mafia è quindi un
fenomeno di classi dirigenti.

Per gli uomini dello stato impegnati nella lotta alla mafia, la situazione era drammatica, anche per gli insuccessi registrati in ambito giudiziario, con la raffica di assoluzioni per insufficienza di prove che, sul finire degli anni  Sessanta,  chiuse i processi alle cosche  palermitane. La legge che
prese il nome da lui e dall’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni costituì una “rivoluzione copernicana” per le sue ricadute operative immediate.

La legge ha reso possibili indagini sul tenore di vita, sul patrimonio e sulle disponibilità finanziarie
di tutte le persone indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, ma anche nei confronti dei familiari e conviventi e di quelle persone fisiche o giuridiche, associazioni o enti, dei cui patrimoni costoro risultassero poter disporre. La confisca scatta quando il soggetto non riesce a dimostrare la legittima provenienza delle ricchezze sotto sequestro, e i beni confiscati finiscono nella disponibilità dello Stato.

Cosa più brutta della confisca dei beni non c’è. Quindi la cosa migliore è quella di andarsene”, dichiarò il mafioso Francesco Inzerillo, sintetizzando il pensiero di Cosa Nostra circa la confisca dei beni: il carcere o l’uccisione sembrano meno dannosi del sequestro dei beni, che permette di colpire l’organizzazione dove è più vulnerabile.

Rientrato a Palermo nel 1981 come segretario regionale del PCI,  promotore della battaglia politica contro la militarizzazione del territorio a Comiso, Pio la Torre non vide diventare legge dello stato la proposta da lui presentata in Commissione: il 30 aprile 1982 fu assassinato a Palermo insieme al compagno di partito Rosario Di Salvo. Il quadro delle sentenze intervenute sul caso ha permesso di individuare nell’impegno antimafia la causa determinante della condanna a morte inflittagli; un collaboratore di giustizia ha identificato i mandanti dell’omicidio nelle persone di Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Antonino Geraci.

Le nuove possibilità investigative e giudiziarie rese possibili dall’introduzione nel Codice penale
dell’art. 416 bis trovarono una prima conferma pochi anni dopo, con l’istruzione del cosiddetto maxiprocesso alle cosche palermitane. Ma fu il vasto movimento innescato nell’opinione pubblica dalle stragi del 1992-93 a dare nuova linfa alle intuizioni di Pio la Torre, avviando ulteriori riflessioni sulla centralità della dimensione economica nel contrasto alle mafie. Cittadini, associazioni e soggetti collettivi di vario orientamento politico, religioso, ideale presero coscienza del fatto che non era più possibile delegare a magistrati e forze dell’ordine la lotta alla mafia:
si doveva agire in ambito educativo, nell’animazione democratica del territorio, per coinvolgere i cittadini nell’affermazione della legalità quotidiana, nella realizzazione di quei principi costituzionali che sono l’unico vero antidoto alla cultura mafiosa e all’impresa illegale.

“Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, il neonato network associativo per l’affermazione della legalità e il contrasto al crimine organizzato, raccolse oltre un milione di firme per un disegno di legge che introducesse il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alle cosche. Con la legge n. 109/1996 i beni immobili confiscati potevano rimanere nel patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile oppure, tramite l’Agenzia del Demanio, essere trasferiti ai Comuni per finalità istituzionali o sociali, con la successiva  assegnazione in
comodato a enti, associazioni del volontariato e della società civile.

Oltre ai danni materiali, la legge ha avuto un altro innegabile effetto simbolico, etico ma anche molto concreto, offuscando l’immagine di prestigio e preminenza che gli “uomini d’onore” tendono ad accreditarsi nei territori che controllano. Pur con innegabili criticità e un supporto governativo altalenante, grazie alla legge sono nate in Sicilia, Calabria e Puglia esperienze imprenditoriali e
cooperativistiche, dimostrando nei fatti che lavoro e dignità sono compatibili e che è praticabile una seria alternativa al controllo mafioso dell’economia e del territorio.

Silvia Boverini

Fonti:
www.archiviopiolatorre.camera.it;
www.piolatorre.it;
www.wikimafia.it;
www.wikipedia.org;
L. Frigerio, “La confisca dei beni alle mafie”, www.legalite.net

 

Perché “Ascolto e Mediazione” e non soltanto “Mediazione”?

I servizi di Me.Dia.Re. sono definiti e declinati non soltanto come di “mediazione”, ma come servizi di “Ascolto e Mediazione”, il che vale anche per quelli di mediazione familiare, di mediazione penale, di mediazione sanitaria, ecc. Perché?

Spesso la parola mediazione tiene lontani coloro che, pur soffrendo non sono disposti a mediare il loro conflitto, ritenendo che mediazione significhi compromesso, che equivalga ad una resa, ad una sconfitta, che sia sinonimo di rinuncia alle proprie ragioni, o che implichi la disponibilità non solo al sacrificio dei propri diritti e interessi, ma anche al tradimento dei propri valori, incluso un basilare senso di giustizia.

Per tale ragione i nostri Servizi sono anche e in primo luogo Servizi di Ascolto, oltre che di mediazione: non per fare arrivare alla mediazione chi non vuole sentire neppure pronunciare tale parola, ma per dare un luogo e un tempo di accoglienza anche a chi ha quel genere di sentimento, di pensiero e di atteggiamento.

Si intende offrire, cioè, la possibilità di essere ascoltati anche a coloro che non sono disponibili a mediare i loro conflitti. E l’esperienza dice che non sono (siamo) pochi, anzi che sono (siamo) tanti. Verosimilmente, la maggioranza.

 

Tratto dall’intervento di A. Quattrocolo nell’Open Day della XVI edizione dei Corsi di Mediazione Familiare e di Mediazione Penale, Sanitaria e Lavorativa

12 settembre 1977, muore in carcere Steve Biko

L’arma più potente nelle mani dell’oppressore è la mente dell’oppresso.
(Steve Biko, discorso alla Conference on Inter-Racial Studies, Città del Capo, 1971)

Il 12 settembre 1977, per le conseguenze delle torture inflitte durante la detenzione, muore nel carcere di Pretoria Stephen Bantu Biko, trentenne sudafricano, attivista contro l’apartheid.

Sin dal dopoguerra il Sudafrica è governato dai discendenti bianchi dei primi colonizzatori olandesi, i boeri del Partito Nazionale, organizzati in una comunità autonoma con una propria lingua, (afrikaans), che ritengono di poter disporre dell’intero paese in virtù di un asserito ruolo da protagonisti esercitato nella sua storia passata. Il governo attua una politica di segregazione dei diversi gruppi etnici autoctoni, isolandoli in piccoli territori separati (bantustan) con l’alibi di tutelarne le differenze culturali, mentre ai neri che continuano a vivere nelle aree “bianche” (circa il 50 per cento) sono gradualmente annullati i diritti civili (sulla rubrica Corsi e Ricorsi, abbiamo ricordato a questo proposito il massacro di Sharpeville).

L’imposizione di politiche sempre più scopertamente razziste causa gravi contrasti interni e compromette le relazioni con la comunità internazionale: negli anni Sessanta – nel 1961 il Sudafrica aveva ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito – inizia una campagna di sanzioni economiche e nel 1973 le Nazioni Unite dichiarano l’apartheid un crimine contro l’umanità. Il più importante movimento di opposizione al governo, l’African National Congress, è stato da tempo dichiarato illegale e il suo leader, Nelson Mandela, si trova in prigione (abbiamo ricordato il Mandela Day, in questo post, di Corsi e Ricorsi).

In tale contesto matura la coscienza politica di Biko. Nella seconda metà degli anni Sessanta, all’università fonda la South African Students Organisation (SASO), un’associazione esclusivamente per studenti neri nata per appoggiare la protesta contro la segregazione razziale, che nel 1970 evolve nel Black Consciousness Movement, articolato in tre organizzazioni: un’associazione politica (Black Peoples’ Convention), una centrale sindacale (Black Allied Workers’ Union) e una lega studentesca (South African Students’ Organisation).

Il movimento di Biko parte dal presupposto che l’emancipazione dei neri possa arrivare solo da un cambiamento di mentalità da parte della comunità nera:

Il primo passo da fare per l’uomo nero è rendersi conto di chi è; riportare la sua vita dentro il guscio rimasto vuoto; infondergli orgoglio e dignità; ricordargli che è un complice in quel crimine che è l’aver permesso di essere abusato e lasciato che il male regnasse nel suo luogo di nascita. Questa è la definizione di coscienza nera”.

Ispirata dai movimenti della Negritudine in Africa (Frantz Fanon, Kwame Nhrumah, Amilcar Cabral) e negli Stati Uniti (Malcom X, Black Power), la Consapevolezza Nera promuove la “rinascita politica e culturale di un popolo oppresso”; l’African National Congress di Nelson Mandela non è invece un riferimento politico né culturale per Biko.

Il Black Consciousness Movement si focalizza sulle idee, prima che sulla mobilitazione di massa, argomentando che l’oppressione è un fatto psicologico, oltre che politico, per cui i sudafricani neri possono spezzare il modello ricorsivo dell’asservimento sviluppando fiducia nel proprio valore e recuperando autonomia economica e culturale. Nei testi prodotti dal SASO si legge che la Black Consciousness è un atteggiamento mentale, uno stile di vita: i neri devono respingere ogni sistema di valori che cerchi di renderli stranieri nel proprio paese o annullarli come esseri umani; si accentuano i valori della coesione, della solidarietà, della partecipazione attiva, della forza del gruppo, dell’autodeterminazione.

Biko rifiuta la suddivisione, operata dal governo razzista, del popolo di Azania (il nome del Sudafrica in lingua nativa) in gruppi etnici o tribali, individuando piuttosto due sole categorie, i bianchi e i neri: la negritudine è un atteggiamento mentale, più che una questione di pigmentazione, e “neri” sono coloro che, per legge o tradizione, vengono discriminati politicamente, economicamente e socialmente in quanto gruppo nella società sudafricana, e si identificano come un tutt’uno nella lotta volta a realizzare le proprie aspirazioni. In questo senso, il termine comprende non solo gli africani di lingua Bantu, ma anche i meticci discendenti dagli schiavi e gli indiani, che, negli anni Settanta, uniti costituiscono circa il 90% della popolazione sudafricana.

Biko non è marxista ed è convinto che sarà la lotta all’oppressione di razza, non di classe, a fondare il cambiamento politico in Sudafrica. Ciononostante, proprio sulla base del Suppression of Communism Act, che dal 1950 aveva reso fuorilegge il partito comunista e i gruppi politici ritenuti assimilabili ad esso, nel 1973 Biko e altri sette leader del movimento vengono confinati presso i rispettivi domicili e banditi dalla politica ufficiale.

Questo non impedì loro di proseguire le attività. Il 16 giugno del 1976 a Soweto, un quartiere abitato quasi esclusivamente da neri all’estrema periferia di Johannesburg, vengono massacrate dalla polizia centinaia di persone, perlopiù studenti e studentesse, nel corso una protesta contro il governo segregazionista; ancora oggi non si conosce il numero esatto dei morti di quel giorno e delle sommosse dei giorni successivi. Il Black Consciousness Movement ha un ruolo fondamentale nell’organizzazione delle proteste, e la polizia inizia a tenerne sotto più stretto controllo il leader.

Nell’agosto 1977, Biko viola il provvedimento restrittivo per partecipare a una riunione a Cape Town; fermato dalla polizia sulla via del ritorno, viene arrestato con l’accusa di aver distribuito materiale sovversivo e condotto alla centrale di Port Elizabeth, dove, in base alla legge antiterrorismo, può essere trattenuto per un tempo indefinito senza alcun processo.

Dopo un interrogatorio particolarmente violento, il 6 settembre Biko viene lasciato ferito e incatenato alla porta della cella per un giorno intero; i medici che lo esaminano il giorno seguente riscontrano che il detenuto è debole, ha un eloquio confuso e presenta ferite al volto e alla testa con tracce ematiche nel fluido cerebrospinale: nonostante sia evidente un danno neurologico, acconsentono a che sia riportato in cella. Solo quando Biko entra in uno stato di semi-incoscienza si decide di ricoverarlo nel centro clinico del carcere di Pretoria, trasportandolo nudo, privo di conoscenza, sul fondo di un furgoncino, di notte, per millecento chilometri. Stephen Biko muore poco dopo l’arrivo.

Jimmy Kruger, all’epoca ministro della Giustizia e della Polizia, dichiarò:

Non sono né soddisfatto né dispiaciuto. La morte di Biko mi lascia indifferente”.

A distanza di quasi vent’anni, dopo la fine dell’apartheid, un’inchiesta della Commissione per la Verità e Riconciliazione (l’abbiamo ricordata nel post Il Sudafrica decide di chiudere la pagina dell’apartheid) accerterà la violazione deontologica da parte dei medici, che non applicarono le linee guida poste a tutela dei diritti umani, e la brutalità e inumanità del trattamento riservato dalla polizia a un detenuto politico.

Ai funerali di Biko, il 25 settembre 1977, con migliaia di persone bloccate tutt’attorno da poliziotti in assetto antisommossa, mentre la bara sfila su un carro trainato da un bue, condotto dal figlio seienne del leader ucciso, ventimila uomini e donne cantano l’inno nazionale stringendo i pugni alzati.

Quando dici a qualcuno ‘Nero è bello’, in realtà gli stai dicendo ‘Amico, vai bene così come sei, inizia a considerarti un essere umano.”.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.wikipedia.org;
“Chi era Stephen Biko”, www.ilpost.it;
“12 settembre 1977, la morte di Steve Biko”, www.sancara.org;
www.sbf.org.za (Steve Biko Foundation);
www.overcomingapartheid.msu.edu;
www.apartheidmuseum.org;
www.africanexponent.com

1943, Nola: primo eccidio di militari italiani da parte dei nazisti dopo l’8 settembre

Nella data di oggi, il mondo commemora eventi luttuosi che, in epoche diverse, hanno cambiato il corso della storia; tuttavia, la storia attraversa altresì i piccoli centri, e anche la cittadina campana di Nola ha avuto il suo 11 settembre, nel 1943, a pochi giorni dall’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e le forze alleate (si veda il post 8 settembre 1943, giorno dell’armistizio di Cassibile, su questa rubrica, Corsi e Ricorsi). Si tratta di un avvenimento poco noto, a lungo rimosso dalla memoria collettiva, forse perché frutto e testimonianza imbarazzante della confusione seguita al mutato assetto delle alleanze nel conflitto mondiale in corso: nel colpevole ritardo con cui furono diramate dall’alto le nuove regole d’ingaggio, non furono poche le situazioni in cui l’incertezza determinò perdite umane, tra i militari e nella popolazione, e, in buona misura, l’eccidio di Nola è attribuibile a questo.

Ciò che accadde settantasei anni fa è considerato il primo atto di rappresaglia nazista in Italia contro l’esercito italiano dopo l’8 settembre; una strage per anni dimenticata, “rispolverata” grazie ai membri di un’associazione culturale locale, che, nell’aprile del 1997, ricevettero una missiva da un testimone oculare presente a Nola come soldato, Ugo Tebaldini:

Ho ancora impressi negli occhi i loro volti e la loro disperazione anche se sono passati quasi cinquantaquattro anni; mai nessuno ha parlato di questo crimine di guerra. Non credo di essere il solo testimone oculare, che ancora oggi si sveglia di soprassalto nella notte rivivendo il terrore di quel giorno. Qualcuno mi può aiutare a ricordare quei poveri ufficiali?”.

In quei giorni di settembre, in Italia non si combatte solo sulle montagne partigiane: a Napoli e provincia ci sono scontri fra italiani e tedeschi, in cui anche i civili combattono contro gli ex alleati. L’eccidio di Nola va in­quadrato in uno scenario più ampio in cui entra in campo anche la popolazione e presenta tre elementi tipici della violenza nazista: la rappresaglia contro i mi­litari, l’uccisione di civili, la pratica dell’esposi­zione dei cadaveri.

Al momento della comunicazione dell’avvenuto armistizio, la Campania è presidiata dal XIX Corpo d’Armata, al comando del Generale Pentimalli, le cui forze in campo sono sparpagliate, male attrezzate, povere di mezzi di trasporto e spesso costituite da reparti ai depositi e territoriali, mentre le forze del Reich a contatto sono quasi esclusivamente costituite da unità combattenti del XIV Corpo d’Armata tedesco, tra cui la Divisione “Hermann Göring”.

Le truppe tedesche, preparate all’ipotesi di fuoriuscita italiana dall’Asse Roma-Berlino, si muovono immediatamente in base al piano Achse per neutralizzare il Regio Esercito e occupare il territorio: dove sono più forti, s’impossessano dei nodi ferroviari e stradali, delle centrali di collegamento e dei comandi, degli stabilimenti militari, degli aeroporti e dei porti, catturano gli ufficiali, disarmano i reparti e ne avviano a casa gli effettivi; dove si sentono inferiori in forza, usano l’astuzia e tattiche più concilianti, si concentrano in massa per calare successivamente sui vari obiettivi. Nella sola notte tra l’8 e il 9 settembre, occupano il posto di avvistamento dei Camaldoli, l’aeroporto di Montecorvino Rovella, la batteria di Vietri sul Mare.

Sul fronte italiano, i presidii, stremati da mesi di bombardamenti anglo-americani, non più sorretti e guidati dai capi, nell’attesa di ordini dal Centro, cadono l’uno dopo l’altro, storditi, stanchi, sfiduciati.

Nel pomeriggio del 10, l’ufficiale di collegamento presso la Divisione “Göring” presenta al comandante del XIX Corpo d’Armata, in Napoli, la richiesta tedesca della consegna delle armi; il Generale Pentimalli non aderisce, ma cerca di salvare l’onore delle armi:

Se i tedeschi si impegnano a non commettere atti di violenza contro la popolazione civile, io farò tenere le truppe nelle caserme”.

In tale situazione, con i militari italiani di fatto confinati nelle caserme, si inquadrano i fatti di Nola, dove erano di stanza il 12° e 48° Deposito di Reggimento di Artiglieria divisione fanteria. Inaspettatamente, forse su iniziativa personale, gli uomini dell’equipaggio di un autoblindo tedesco in transito nella piazza antistante la caserma Principe Amedeo bloccano tre ufficiali italiani, pretendendo la consegna delle armi: i militari italiani affacciati alle finestre della caserma e alcuni civili notano la discussione animata in atto, coinvolgendo altri due soldati e un carabiniere di passaggio. I tedeschi aprono il fuoco e, nello scontro che segue, accorrono ulteriori militari e civili italiani; sul campo rimangono due morti tedeschi, per cui il Colonnello de Pasqua, resosi conto di quelli che potevano essere gli ulteriori sviluppi, decide di inviare a parlamentare il Tenente Odoardo Carrelli, ma mentre questi si muove verso i tedeschi issando bandiera bianca, una raffica di mitragliatrice lo uccide; il bilancio finale per gli italiani è di due militari e un civile caduti, oltre a diversi feriti.

Il giorno seguente, 11 settembre, un reparto tedesco armato di tutto punto, con autoblindo, carri armati, artiglieria e autocarri carichi di soldati, si presenta alla caserma Principe Amedeo e viene fatto entrare senza incontrare resistenza: infatti, il Sottocapo di Stato Maggiore del 19° Corpo d’Armata, dal quale dipendeva la truppa di Nola, aveva poco prima comunicato che i tedeschi andavano in giro per le caserme in cerca di carburante e che occorreva accoglierli senza ostilità, anche nel caso in cui avessero fatto ricorso a uno spiegamento di forze a scopo intimidatorio.

A causa di quest’errata interpretazione delle reali intenzioni dei tedeschi, mentre all’esterno la caserma viene accerchiata dai carri armati, all’interno gli ufficiali disarmati sono facilmente catturati e uomini, armi e mezzi cadono in mano nemica. Tutti i presenti nella caserma sono fatti uscire sul piazzale esterno, dove si procede alla fucilazione sommaria di dieci ufficiali presi a caso.

Dopo l’eccidio, i militari di truppa e i sottufficiali sono lasciati in libertà, mentre i sessanta ufficiali superstiti sono deportati in ostaggio fino al 13 settembre, e poi liberati con l’ingiunzione di non ripresentarsi alla Principe Amedeo, cosa che non sarebbe stata comunque possibile poiché l’11 stesso tutte le caserme erano state militarmente occupate, saccheggiate e distrutte dai tedeschi.

Con tragica ironia, quella stessa mattina del giorno 11 era finalmente giunto agli alti comandi l’ordine del Generale Roatta di applicare la “Memoria 44”, stabilendo che da quel momento, in qualsiasi località o circostanza, qualsiasi truppa italiana doveva comportarsi in confronto dei tedeschi come contro un nemico dichiarato. Ma per i militari di Nola era troppo tardi.

Le vittime dell’eccidio hanno ottenuto riconoscimenti postumi: al tenente Enrico Forzati è stata conferita la medaglia d’oro al valor militare per essersi offerto al plotone d’esecuzione al posto di un commilitone; gli altri nove ufficiali hanno ricevuto la medaglia di bronzo al valor militare alla Memoria; il civile Giuseppe de Luca, ucciso nello scontro del 10 settembre, è stato riconosciuto Partigiano Combattente Caduto.

La memoria pubblica dell’eccidio è presente solo dal 1997 ed è frutto degli sforzi dell’associazione “Amici del Marciapiede” e di alcuni parenti dei caduti.

Silvia Boverini

Fonti:
Testimonianza del Maggiore Nicoletti, www.storiedimenticate.wordpress.com;
Gen. P. Manzi, “L’eccidio di Nola”, www.ancrsoave.it;
www.straginazifasciste.it;
G. Chianese, “I massacri nazisti nel Mezzogiorno d’Italia”, www.italia-resistenza.it;
“La strage rimossa”, www.centroimpastato.com; U. Santino, “La strage rimossa. Nola, 11 settembre 1943”, Di Girolamo Editore, 2016;
A. Liguoro, “Nola, cronaca dall’eccidio”, Infinito edizioni, 2013.

 

Sorge la Repubblica partigiana della Val d’Ossola il 10 settembre del ’44

L’esperienza delle cosiddette “zone libere”, chiamate anche, a posteriori, repubbliche partigiane, espresse la capacità del movimento italiano di Liberazione di creare un’organizzazione politica di stampo democratico, fondata su precisi valori umani e civili.

Nell’estate del 1944, mentre le truppe tedesche incalzate dalle armate anglo-americane si ritiravano verso il Nord, in luoghi come Montefiorino, Alba, la Carnia, la Resistenza italiana inaugurò questa nuova tattica, che andò ad affiancare agitazioni di fabbrica, scioperi, sabotaggio e guerriglia nel complesso delle operazioni finalizzate alla liberazione della pianura Padana.

La vicenda della Val d’Ossola ebbe forse la maggiore risonanza per la vastità del territorio interessato (un’area di 1600 km², sei vallate, 32 Comuni e più di 80.000 abitanti), l’elevato indice demografico, il notevole livello di industrializzazione, e la collocazione geografica, che consentiva tanto di controllare il valico ferroviario e stradale del Sempione quanto di costituire per i tedeschi una potenziale minaccia sulla pianura padana tra Torino e Milano.

Secondo alcuni rapporti inviati al Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia, già in luglio gli Alleati avevano elaborato il progetto di far occupare stabilmente la Val D’Ossola e la Valle d’Aosta da parte di formazioni partigiane, per assicurare “l’occupazione permanente” e attuare quindi “il piano di lotta schierata” contro i tedeschi. Il Comando alleato in seguito desistette per il progressivo consolidarsi delle truppe tedesche sulla linea Gotica e per ragioni politiche: nell’ambito della suddivisione dell’Europa nelle zone d’influenza anglo-americana e sovietica, da parte degli Alleati non si voleva un esercito partigiano italiano, ma semplici squadre di sabotatori e di disturbo alle spalle dei tedeschi.

Ma proprio nello stesso periodo, indipendentemente dalle intese fra gli Alleati e il CLNAI, nell’Ossola le formazioni partigiane delle divisioni “Valdossola”, “Valtoce”, e “Piave” riuscirono a liberare tutta la vallata dalla presenza nazi-fascista, entrando a Domodossola la mattina del 10 settembre 1944. I tedeschi opposero poca resistenza e gli scontri a fuoco in campo aperto con i fascisti durarono poche ore, mentre per riprendere il capoluogo venne stipulato un trattato di resa, che concedeva agli sconfitti l’onore delle armi e un ritiro in sicurezza; la trattativa, condotta dal solo nucleo partigiano dei c.d. Autonomi, produsse frizioni tra le diverse componenti politiche della Resistenza locale e comportò il mancato riconoscimento ufficiale da parte del CLNAI.

La popolazione esplose in festa e non si registrarono episodi di violenza o rappresaglia contro i fascisti locali, come annotato da A. Levi:

Questo rarissimo caso d’una guerra paesana che non degenera in una sciagurata sequela di violenze da ambo le parti, va segnalato, a mio avviso, come l’esempio della più difficile vittoria, di quella cioè, sopra i propri più istintivi sentimenti e risentimenti.”.

Gli storici hanno rilevato che, se è indubbio che le diverse formazioni partigiane locali siano state le artefici della nascita della Repubblica dell’Ossola, tale vicenda non può essere confinata ad un mero fatto d’armi. Immediatamente insediatasi, la Giunta provvisoria si dimostrò capace di organizzare, nel pur breve tempo della sua attività di governo, i rifornimenti essenziali per la popolazione, l’assistenza, la difesa militare, la polizia, l’ordinamento degli impieghi, le finanze, la scuola, la giustizia, con un’ampiezza di prospettive che permise di sperimentare un nuovo tipo di comunità nazionale. In quei giorni, in Val d’Ossola si trovarono riunite personalità politiche e culturali di grande rilievo come Umberto Terracini, Giancarlo Pajetta, Concetto Marchesi, Gianfranco Contini, Mario Bonfantini, Carlo Calcaterra, Franco Fortini, Aldo Aniasi, Andrea Cascella, che contribuirono ad apportare a quell’esperienza un respiro più vasto rispetto alle mere necessità contingenti.

Tra le prime iniziative vi fu l’apertura della frontiera con la vicina Svizzera, da cui giunsero numerosi giornalisti internazionali per testimoniare e raccogliere informazioni su quello che stava accadendo.

Furono anzitutto destituiti i podestà e i commissari prefettizi di nomina fascista e per la pubblica sicurezza fu creata una Guardia nazionale, reclutata fra i cittadini, costituendo inoltre delle commissioni di epurazione per allontanare i fascisti dai servizi pubblici. L’amministrazione della giustizia si ispirò a ideali di equità, legalità, imparzialità e libertà dell’individuo e ai circa 150 prigionieri politici fu garantito un trattamento corretto e umano.

Si organizzarono in tutta la valle il Fronte della Gioventù e i Gruppi di difesa della donna, cui aderirono tante donne anche senza partito; l’esponente comunista Gisella Floreanini fu per la Repubblica ossolana la prima donna ministro d’Italia, in un’epoca in cui i diritti politici attivi e passivi, compreso il voto, erano riservati agli uomini: “A me sembrò naturale, ma fu il giorno dopo, quando il segretario della giunta Umberto Terracini (poi padre dell’Assemblea Costituente) salutò ‘la compagna diventata ministro’ che colsi del tutto il fatto nuovo.”. La stampa, la vita sociale e culturale e la partecipazione attiva dei cittadini furono straordinariamente vivaci, e fu stilato un programma scolastico innovativo e all’avanguardia.

In materia di lavoro furono subito sciolti i sindacati fascisti e organizzati i nuovi sindacati, su base tripartitica comunista, socialista e cattolica, introducendo i principi della giusta retribuzione e del rispetto della dignità di ogni lavoratore. Sul piano economico la Giunta regolamentò il mercato dei generi di prima necessità, i prezzi e la distribuzione dei beni di largo consumo, avviò trattative commerciali con la Svizzera per scambiare prodotti minerari e industriali della valle con generi alimentari, oltre alle patate e alla farina che la Croce Rossa svizzera aveva inviato in dono. Particolare cura fu dedicata al servizio sanitario e all’assistenza agli indigenti, sia per la popolazione civile che per le unità partigiane, anche attraverso specifici accordi con la Svizzera che permisero in seguito, al momento della resa, di mettere in salvo centinaia di bambini ossolani.

Non mancarono le difficoltà, quali i difficili rapporti tra i comandi partigiani “autonomi” e i garibaldini o l’isolamento sostanziale da parte del CLNAI, che accusava il governo ossolano di eccessivo autonomismo e lamentava la preponderanza nella Giunta di elementi esterni al territorio.

Ma ciò che compromise maggiormente la difesa del territorio fu la mancanza di supporti economici, armi e munizioni, promessi ripetutamente dagli Alleati e mai pervenuti. Già dalla fine di settembre le forze nazi-fasciste iniziarono a riorganizzarsi, ammassando nella zona circa 13.000 uomini dotati di artiglierie e mezzi blindati, che il 10 ottobre scatenarono l’offensiva sul versante meridionale della Repubblica: la resistenza fu accanita, ma il 21 ottobre dovette cedere.

I bambini erano già stati evacuati in Svizzera, dove cercarono scampo anche migliaia di ossolani, molti partigiani e la Giunta; la II Divisione Garibaldi e la Beltrami riuscirono ad arretrare e mettersi in salvo per organizzare la ripresa partigiana già a partire dal mese successivo, ma l’esperienza della libera repubblica dell’Ossola era ormai conclusa.

Silvia Boverini

Fonti:
“La repubblica dell’utopia”, www.lastoriasiamonoi.rai.it;
www.wikipedia.org;
F. Frassati (a cura di), La Repubblica dell’Ossola, Comune di Domodossola;
www.1944-repubblichepartigiane.info;
www.anpi.it;
F. Rossi, “L’Italia della Resistenza: la repubblica dell’Ossola”, www.sconfinare.net;
G. Bocca, “Una repubblica partigiana. La Resistenza in Val d’Ossola”, il Saggiatore.

Gli alleati sbarcano a Salerno il 9 settembre 1943

L’8 settembre 1943 a Salerno era stata una bella giornata calda e piena di sole, senza preallarmi o allarmi aerei; da giugno, la città era sottoposta a frequenti bombardamenti da parte dell’aviazione delle forze alleate e gli abitanti avevano loro malgrado familiarizzato col rombo di “Ciccio o’ ferroviere”, il piccolo aereo da ricognizione inglese la cui puntuale e quotidiana comparsa nei cieli sopra la ferrovia aveva preceduto di qualche mese l’arrivo dei devastanti bombardieri statunitensi e inglesi.

Nel giro di poco più di due mesi, Salerno aveva subito ferite tali da sconvolgerne la fisionomia: 600 vittime civili, gravi danni ai 2/3 delle abitazioni, quasi del tutto dissolta ogni forma di vita sociale e culturale, il fragore delle esplosioni, i risvegli notturni causati dalle sirene di allarme, la corsa ai soffocanti e maleodoranti rifugi, gli sfollati che con ogni mezzo tentavano di raggiungere le località dei dintorni, la perdita collettiva del senso di sicurezza.

Quel giorno, invece, il cielo era sgombro e sereno e nel tardo pomeriggio si era diffusa la notizia che l’Italia aveva firmato l’armistizio con le Forze Alleate (si veda il post 8 settembre 1943, giorno dell’armistizio di Cassibile, pubblicato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi): il proclama di Badoglio scatenò tanta gioia nella popolazione, con cortei di giubilo e festa in tutti gli ambienti, compresi quelli militari, dove, però, ciascuno restò al suo posto in attesa di disposizioni (che non arrivarono).

Quel che i salernitani e gli stessi militari ignoravano era che le coste prospicienti la città nel giro di poche ore sarebbero divenute teatro di uno scontro bellico cruciale, e che la precipitosa accelerazione imposta dal generale Eisenhower circa la comunicazione dell’avvenuto armistizio era intesa a eliminare dai combattimenti le forze del Regio Esercito e generare sgomento nelle fila germaniche.

L’annuncio dell’8 settembre fu inteso dalla popolazione come la fine di tutto e costituì, invece, l’inizio della tragedia, sia per chi rimase in città sia per chi fuggì nei presunti centri sicuri della Valle dell’Irno e si trovò, di lì a poco, al centro degli scontri tra gli alleati incalzanti e i tedeschi in lenta ritirata. Infatti, la flotta che portava le truppe che dovevano sbarcare a Salerno quella stessa notte era partita da Orano, Biserta e Tripoli tra il 3 e il 7 settembre e si era ricongiunta con le navi partite da Palermo e da Termini Imerese il giorno 8: al momento dell’annuncio di Badoglio l’armata navale era al largo di Capri.

Lo sbarco a Salerno (nome in codice Operation Avalanche) fu un’operazione militare di sbarco anfibio messa in atto dagli Alleati lungo le coste del golfo di Salerno per costituire una testa di ponte per la prevista susseguente conquista di Napoli e del suo porto, fondamentale per rifornire le truppe alleate impegnate sul fronte italiano. Le forze della 5ª Armata statunitense del generale Mark Clark sbarcate nel salernitano sarebbero state successivamente raggiunte dagli uomini dell’8ª Armata di Bernard Montgomery provenienti da sud (operazione Baytown), assieme ai quali avrebbero poi attaccato le postazioni difensive tedesche del Volturno e della Gustav nell’Italia centrale.

A posteriori, diversi storici valutarono criticamente sia la scelta del luogo per lo sbarco, sia la strategia del giovane generale Clark, che avrebbe sottovalutato la morfologia della piana del fiume Sele, utile alla difesa tedesca, e la portata della reazione nemica.

La scelta di Salerno era stata motivo di forte discordia tra inglesi e americani: questi ultimi, che non  percepirono mai realmente gli italiani come popolazione nemica, volevano sbarcare più a nord, per costringere le truppe tedesche a una rapida ritirata. Tale posizione non era condivisa dagli inglesi, che vedevano nell’Italia un’antagonista nel Mediterraneo e nello sbarco un proficuo mezzo per stroncarne le velleità, lasciando maggior tempo e spazio alle truppe tedesche in ritirata per attuare il piano di distruzione del Regio Esercito e rappresaglia per la fuoriuscita separata dell’Italia dall’Asse, piano di cui i servizi segreti britannici erano a conoscenza. I tedeschi erano presenti in forze, pronti a colpire gli italiani, e il comandante in capo Kesselring era un deciso sostenitore della difesa di ogni palmo di terreno, così le cose non andarono come previsto dagli strateghi militari anglo-americani.

Alle 3,30 a.m. del 9 settembre il generale Mark Clark diede il via all’operazione Avalanche. Mentre i paracadutisti si impadronivano di Taranto e altre forze di terra risalivano da Reggio Calabria, 100.000 soldati inglesi e 70.000 statunitensi sbarcavano sulla costa fra Paestum e il fiume Sele senza incontrare resistenza: inizialmente non ci fu nessuna consistente reazione, l’artiglieria tedesca taceva, la Luftwaffe sembrava scomparsa e gli alleati costituirono una testa di ponte lunga 100 km e profonda 10, mentre il colonnello Lane dell’esercito USA assumeva formalmente il comando militare di Salerno. Ma la mattina del 12 i tedeschi scatenarono il contrattacco.

La battaglia divenne uno scontro durissimo per circa dieci giorni. Alla fine gli alleati, sostenuti dal fuoco delle artiglierie navali e da una superiorità aerea schiacciante, riuscirono ad avere la meglio; i tedeschi, minacciati anche dalla non velocissima ma costante avanzata dell’8ª Armata inglese dalla  Calabria, dovettero iniziare il ripiegamento che effettuarono lasciandosi dietro una cospicua serie di demolizioni.

Spostando la prospettiva dal punto di vista militare a quello della popolazione civile, le prime avvisaglie sull’avvio delle operazioni di sbarco si ebbero già poco dopo l’imbrunire dell’8 settembre: grosse formazioni di aerei cominciarono a sorvolare Salerno, si udirono deflagrazioni di bombe e cannonate, provenienti dalla pianura di Paestum, che anche a Salerno provocarono tremolii di infissi e muri. Da notare che solo in quel momento pervenne la comunicazione ufficiale dello sbarco imminente al Comando Marina cittadino.

La prima reazione tedesca è segnalata dall’esplosione dei depositi di munizioni e dei magazzini generali sulle banchine del porto, che procura l’affondamento di alcuni natanti e i primi morti civili.

Dapprima nessuno ci fece caso. I colpi erano lontani, poi via via sempre più vicini e più possenti e reiterati. Mio padre si rizzò a sedere allarmato. Ma non era finita la guerra? Non era stato firmato l’armistizio? Che cosa significavano quelle esplosioni? Anche gli altri si erano destati e ci ritrovammo come qualche ora prima, ma con animo diverso, tutti fuori nello spiazzo. Al di là delle colline, in direzione di Salerno, era tutto un fiammeggiare, un alternarsi di bagliori e scoppi forti, laceranti, senza soste e mentre avanzava il solito massiccio ossessivo rombo degli aeroplani, il cielo si dipingeva di cento e cento colori. Io credo che mai più si vedrà, nel nitore tiepido di una notte di settembre, uno spettacolo più affascinante, una più travolgente fantasmagoria di luci e di colori, un incrociarsi di bengala luminosi bianchi gialli rossi azzurrognoli, un indagare di cento fotoelettriche, un tambureggiare di calibri diversi da terra, dal mare e dalle colline.”.

Alla conclusione della battaglia la situazione del salernitano era assai grave: tutta l’area portava i segni di intensi combattimenti, i bombardamenti aero-navali avevano fatto strage di civili, Battipaglia, Sarno e Scafati rase al suolo, Salerno duramente colpita nella parte sud, dove si trovavano la stazione ferroviaria, due caserme e una fabbrica di siluri. La viabilità sia stradale che ferroviaria fu gravemente compromessa.

Con ottobre i combattimenti si spostarono più a nord, lasciando alle spalle lutti, macerie e una popolazione stremata da malattie e fame, con la penuria di alimenti e lo strangolamento della borsa nera; non furono inoltre sempre scorrevoli i rapporti con i vincitori, che ostentavano l’evidente forza militare, un’enorme differenza culturale e larga disponibilità di beni e di denaro, fossero anche le AM-lire, il cui corso poco controllato finì per dare un’ulteriore spallata alla già traballante economia italiana.

Silvia Boverini

Fonti:
“Schegge di storia. Salerno e l’Operazione Avalanche”, www.archiviodistatosalerno.beniculturali..it;
G. d’Angelo, “Parte la ‘Valanga’: durante lo Sbarco il mare è nascosto da migliaia di navi”, www.corrieredelmezzogiorno.corriere.it;
F. Dentoni Litta, “Guerra  a  Salerno”,  (a  cura  di  P.  De  Rosa),  Edizioni  Grafica  Mediterranea;
M. Mazzetti, N. Oddati (a cura di) “1944 Salerno Capitale”, Cassa di Risparmio Salernitana;
www.wikipedia.org

 

8 settembre 1943, giorno dell’armistizio di Cassibile

L’otto settembre 1943 è ricordato come il giorno in cui fu reso noto l’armistizio di Cassibile, con il quale l’Italia, sfilandosi dall’Asse Roma-Berlino-Tokio, si arrese senza condizioni alle forze alleate antihitleriane. L’Italia, infatti, per volere del capo del governo Benito Mussolini, era entrata nella Seconda guerra Mondiale, accanto alla Germania di Hitler, il 10 giugno del 1940 (lo abbiamo ricordato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nel post Solo alcune migliaia di morti), ma nell’estate del 1943, l’ultraventennale regime fascista (abbiamo ricordato la presa del potere da parte di Mussolini in diversi post, tra i quali: Il 31 ottobre 1922 si insediò il primo governo Mussolini3 dicembre: la violenza fascista ottiene i pieni poteriDall’Aventino alla dittaturaViene ritrovato il cadavere di Matteotti il 16 agosto del 1924Quell’irrealizzabile attentato a Mussolini che favorì l’affermazione della dittatura) era entrato in una rapida agonia, a causa dell’incredibile cumulo di pesantissime sconfitte subite dalle forze armate italiane (non ultima quella sul fronte russo, che abbiamo ricordato nel post 1942, inizia la seconda battaglia sul fiume Don) e dello sbarco anglo-americano in Sicilia (si veda il post Con lo sbarco in Sicilia, dopo 21 anni di regime, subisce un’accelerazione la fine del Fascismo), per spegnersi con il voto di sfiducia a Mussolini da parte del Gran Consiglio del Fascismo, il 25 luglio di quell’anno (se n’è parlato nel post Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo sfiducia il Capo del governo, Benito Mussolini), a seguito del quale, il re, Vittorio Emanuele III, fatto arrestare Mussolini, aveva affidato il governo nelle mani del maresciallo Pietro Badoglio.

In realtà, la firma dell’armistizio era stata preceduta da mesi di trattative via via più convulse attraverso canali diplomatici, ecclesiastici e militari, fra tentennamenti, procedure contraddittorie e diffidenza reciproca tra le parti; i tentativi italiani di temporeggiare, nella speranza di strappare concessioni territoriali e garanzie per i Savoia a guerra finita, si arenarono contro l’evidenza dell’andamento disastroso del conflitto in corso e contro l’atteggiamento intransigente degli alleati anglo-americani, che sin dal 1940 consideravano l’Italia “l’anello più debole dell’Asse”, da eliminare prioritariamente dalle forze in campo.

La non belligeranza del Regio Esercito avrebbe dovuto favorire le massicce operazioni militari prossime a partire sul territorio italiano, i cui dettagli non furono però condivisi dagli alleati con gli ex nemici italiani, nella cui affidabilità non veniva riposta eccessiva fiducia: l’armistizio fu concluso in fretta e furia già il 3 settembre, e tenuto segreto, al punto che nemmeno ai più alti livelli gerarchici militari italiani se ne era a conoscenza. La segretezza avrebbe dovuto scongiurare la reazione dei tedeschi (cui, ancora in quegli stessi giorni, l’Italia garantiva fedeltà “nella vita e nella morte”), in vista del progettato aviosbarco di truppe anglo-americane a Roma, peraltro annullato perché troppo rischioso.

La data dell’8 settembre fu imposta dal generale Eisenhower, per rendere pubblico l’armistizio a ridosso dello sbarco alleato a Salerno del giorno successivo; a fronte dei tentennamenti del capo del Governo italiano Badoglio, il comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo forzò la mano, comunicando egli stesso la notizia dai microfoni di Radio Algeri già nel pomeriggio, costringendo di fatto Badoglio a ribadire l’annuncio dagli studi dell’EIAR alle 19.45.

La conclusione dell’armistizio tra l’Italia e le potenze alleate ha segnato un momento di rottura, rappresentando sul fronte interno la disgregazione della vecchia classe dirigente fascista e, sul piano internazionale, il primo segnale dell’imminente crollo dell’Asse; nello stesso tempo l’8 settembre è divenuto nella memoria collettiva uno dei momenti più tragici nella storia dell’Italia unita. La storiografia ufficiale e non, tra ambiguità e prese di posizione politicamente orientate, non ha ancor oggi messo un punto definitivo sull’interpretazione di quel momento storico.

Nell’immaginario nazionale, dal punto di vista simbolico, l’area dei significati attribuiti a quell’evento si divide tra l’idea di tradimento (della patria, degli italiani, dell’onor militare, degli ideali fascisti) e quella di catastrofe necessaria per rifondare su nuove basi l’idea stessa di unità del paese, conducendo infine al nuovo assetto politico e istituzionale repubblicano.

L’annuncio radiofonico fu seguito dalla fuga del re, del governo e del Comando supremo da Roma e dalla dissoluzione dell’esercito; la breve illusione di potersi schierare tempestivamente dalla parte degli angloamericani, togliendosi di dosso il marchio di nemico sconfitto, espose l’intero paese alla violenta reazione tedesca, con l’occupazione di gran parte del paese e brutali repressioni sulla popolazione.

Fra tutte le tragiche conseguenze dell’8 settembre, c’è una pagina meno esplorata che riguarda la sorte degli uomini appartenenti alle forze armate del Regio Esercito.

La notizia dell’armistizio era piovuta inaspettata e non accompagnata da istruzioni: le nuove regole d’ingaggio potevano a stento desumersi tra le righe dei due comunicati ufficiali di quel giorno.

Da un lato quello degli alleati:

Qui è il generale Eisenhower. Il governo italiano si è arreso incondizionatamente a queste forze armate. Le ostilità tra le forze armate delle Nazioni Unite [alleate] e quelle dell’Italia cessano all’istante. Tutti gli italiani che ci aiuteranno a cacciare il tedesco aggressore dal suolo italiano avranno l’assistenza e l’appoggio delle nazioni alleate.”.

Dall’altro quello del maresciallo Badoglio:

Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.”.

L’unica direttiva alle forze armate furono le ambigue parole lette da Badoglio alla radio: in parole povere, come disse un ufficiale,

Cercate di tergiversare, non irritate i tedeschi e trattate bene gli inglesi che stanno per arrivare”.

Soltanto alle 0:50, sommerso di richieste di istruzioni, il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Roatta fece trasmettere il fonogramma

Ad atti di forza reagire con atti di forza”.

All’alba, Badoglio passò i poteri di primo ministro al ministro degli Interni e salì sul convoglio di automobili con cui il re, la famiglia reale, numerosi generali e altri dignitari lasciarono Roma diretti a Pescara e da qui, in nave, a Brindisi, dove fu insediato un nuovo governo. La “fuga di Pescara”, come passò alla storia l’episodio, divenne una delle più gravi accuse alla monarchia e al capo del governo, accusati di non aver fatto abbastanza per rimpatriare le centinaia di migliaia di soldati italiani sparsi per l’Europa e di averli lasciati senza ordini e disposizioni dopo l’annuncio dell’armistizio.

All’8 Settembre 1943 il Regio Esercito aveva schierate 12 Divisioni nell’Italia settentrionale, 8 nella zona di Roma e altre 2 in affluenza nella medesima zona, 3 Divisioni e 1 in affluenza nell’Italia meridionale, 6 Divisioni tra Sardegna e Sicilia, aliquote di forze nella Francia meridionale e 22 Divisioni tra i Balcani e le isole dell’Egeo, per un totale di 1.090.000 uomini dislocati in Italia e 900.000 nei Paesi occupati.

Un esercito numericamente notevole ma male equipaggiato, la cui dissoluzione si consumò nel breve volgere di tre giorni (9-11 settembre): sintomi di sbandamento, abbandono delle uniformi, allontanamenti dai reparti, generale disorientamento, caos nelle comunicazioni, il tutto dominato da un confuso senso di attesa dell’arrivo degli Alleati o di ordini del Governo. I soldati reagirono alla mancanza di ordini con il “tutti a casa”, illudendosi insieme ad altri milioni di italiani che la guerra fosse finita.

In realtà, l’ipotesi di trasformazioni nell’assetto delle alleanze tra i belligeranti era da tempo considerata dalla Germania, soprattutto dopo la destituzione di Mussolini; perciò, sin dalla fine di agosto Rommel e Kesserling avevano schierato le truppe in modo strategico a nord e a sud, accerchiando l’esercito italiano, e a tutti i comandi tedeschi era stato comunicato un piano da rendere operativo non appena avessero udito per radio la parola “Achse” [Asse]. Anche sul fronte italiano esisteva una “Memoria 44”, un piano che i comandanti d’Armata avevano letto per sommi capi ai comandanti di Corpo d’Armata, e che sarebbe dovuto entrare in funzione all’arrivo di un fonogramma di conferma, diramato però solo l’11 settembre da Brindisi, quando l’esercito italiano non esisteva più. La parola “Achse”, invece, attraversò l’etere la sera dell’8 settembre, appena si seppe dell’armistizio: i tedeschi, dai minimi gradi ai più alti, sapevano quel che dovevano fare, e a notte fonda si misero in moto, a sud e intorno a Roma per occupare la capitale.

Il disarmo delle Grandi Unità da parte dei tedeschi fu immediato: 1.265.660 fucili, 38.383 mitragliatrici, 9.988 pezzi d’artiglieria, 970 carri armati, 15.500 automezzi, 4.553 aerei, 10 torpediniere e cacciatorpediniere, 51 unità del naviglio minore, 500.000 capi di vestiario, 67.600 cavalli e muli, 123.114 m³ di carburante; inoltre, tutti i materiali in seguito recuperati nei magazzini: tonnellate di munizioni, esplosivi, materiali del genio, apparati vari, lubrificanti per motori, prodotti chimici, metalli, materiali sanitari, vestiari, viveri, pellami, che vennero inviati al nord dal Comando germanico.

A parte le perdite materiali, i costi umani del cambiamento di alleanze furono pesantissimi.

Nei momenti immediatamente successivi al proclama radiofonico di Badoglio, nell’assenza di direttive precise, si segnalarono alcuni casi tragicamente grotteschi di militari caduti in battaglia contro le truppe alleate che da cinque giorni non erano più in guerra con l’Italia, come i 400 paracadutisti morti sull’Aspromonte combattendo contro 5000 soldati canadesi, o come i piloti del 51° Stormo, inviati ad attaccare le navi americane in rotta verso Salerno e tutti abbattuti, nonostante il tentativo del loro comandante:

Ricevuta notizia armistizio. Possiamo sospendere previsto attacco Salerno?“; “Continuare secondo disposizioni ricevute“, fu risposto da Roma.

Le Forze Armate italiane riuscirono a mettere in fuga il nemico tedesco solo a Bari, in Sardegna e in Corsica; la Regia Marina, ancorata nei porti da circa un anno per penuria di carburante, dovette consegnarsi nelle mani degli Alleati a Malta come prescritto nelle condizioni di armistizio, mentre gli aviatori rimasti fedeli al governo Badoglio entrarono a far parte dell’Aeronautica Cobelligerante Italiana di supporto all’aviazione alleata.

I tedeschi disarmarono circa un milione di uomini, di cui 196.000 fuggirono o furono liberati. Gli 810mila militari italiani catturati sui vari fronti di guerra vennero considerati disertori oppure franchi tiratori e quindi giustiziabili se resistenti (come a Cefalonia e Corfù); tra essi, 94.000 optarono per la RSI o le SS italiane, come combattenti o ausiliari.

I circa 716.000 soldati che rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò furono quindi deportati in Germania (13.000 morirono durante il trasferimento), classificati prima come prigionieri di guerra, fino al 20 settembre 1943, poi come “internati militari italiani” (IMI), categoria ignorata dalla Convenzione di Ginevra sui Prigionieri.

Gli internati – rinchiusi nei lager con scarsa assistenza e senza controlli igienici e sanitari – a differenza dei prigionieri di guerra erano privi di tutele internazionali e obbligati arbitrariamente e unilateralmente al lavoro forzato (servizi ai lager, manovalanza, edili, sgombero macerie, ferrovieri, genieri, o al servizio diretto della Wehrmacht e della Luftwaffe, o presso imprenditori e contadini); dal luglio 1944, furono smilitarizzati e gestiti come lavoratori civili liberi, un’etichetta ipocrita che nascondeva la realtà del lavoro obbligato. Nei lager patirono fame, soprusi e umiliazioni, accompagnati dalla martellante reiterazione dell’offerta di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, RSI (la cui creazione da parte di Mussolini, per volere di Hitler abbiamo ricordato nel post Il 18 settembre del ’43 Mussolini annuncia da Radio Monaco la costituzione della RSI) per garantirsi un trattamento migliore: durante l’internamento, 43.000 prigionieri accettarono di combattere per Salò e altri 60.000 di arruolarsi come ausiliari.

Oltre 600mila IMI, nonostante le sofferenze, il trattamento disumano e i vissuti di tradimento e abbandono da parte della madrepatria, rimasero invece fedeli al giuramento, scelsero di resistere e dire no alla RSI, per motivi etici, politici o di pura e semplice coerenza e dignità umana. Una ribellione silenziosa e disarmata che non ottenne mai riconoscimento.

Alla fine della guerra gli internati militari sopravvissuti trovarono infatti una patria a dir poco distratta, desiderosa di dimenticare la ferita aperta dalla catastrofe istituzionale dell’8 settembre, e una cortina di silenzio e ambiguità fu calata sull’intera vicenda.

La rivendicazione della Resistenza antifascista –scrive oggi lo storico Giorgio Rochat – si è ridotta per decenni al dibattito politico sulla guerra partigiana. Negli ultimi anni registriamo il recupero di una dimensione più ampia. Contiamo la resistenza contro i tedeschi delle forze armate all’8 settembre. Poi la guerra partigiana e la deportazione politica e razziale nei lager di morte. La partecipazione delle forze armate nazionali alla campagna anglo-americana in Italia. E infine la resistenza degli IMI (internati militari italiani) nei lager tedeschi: le centinaia di migliaia di militari che invece della guerra nazifascista scelsero e pagarono la fedeltà alle stellette della patria. Tutti avevano ragione di sentirsi traditi dal re e da Badoglio, che li avevano abbandonati senza ordini agli attacchi tedeschi. Ciò nonostante, una grande maggioranza di questa massa di sbandati preferì la fedeltà alle stellette e la prigionia nei lager”.

Silvia Boverini

Fonti:
www.sergiolepri.it;
www.storiaxxisecolo.it;
www.archivi.beniculturali.it;
M. Avagliano e M. Palmieri, “Gli Internati Militari Italiani. Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945”, Einaudi;
E. Aga Rossi, “Una nazione allo sbando”, il Mulino;
“8 settembre 1943”, www.ilpost.it;
D.M. De Luca, “8 settembre 1943. Cronaca della giornata in cui l’Italia si arrese agli Alleati e si illuse che la guerra fosse finita”;
F. Marcoaldi, “Prigionieri dell’8 settembre”, 06/09/2009, La Repubblica

 

Il 7 settembre 2004 sono rapite Simona Pari e Simona Torretta

Le due ragazze furono sequestrate esattamente sedici anni fa. Insieme a due colleghi iracheni, si trovavano nella sede di Baghdad di Un ponte per…, l’ong presso cui svolgevano le loro attività, quando il commando armato fece irruzione nell’edificio.

Iniziarono ore e giorni di terrore per loro e di apprensione per le famiglie. Il giorno successivo, il sito Islamic-minbar.com pubblicò la rivendicazione: era il gruppo Ansar El Zawahri ad aver agito. La richiesta: liberare le prigioniere musulmane nelle carceri irachene. Tempo concesso: 24 ore.

Dopo interminabili momenti costellati da informazioni errate, aumento delle richieste, appelli per la liberazione e false dichiarazioni di uccisione delle ragazze, la notizia tanto attesa, il 25.09: tutti gli ostaggi sono vivi!

Si susseguiranno altri tre giorni di tensione, prima che le ragazze possano riassaggiare la libertà. Il 28 settembre furono consegnate nelle mani della Croce Rossa italiana a Baghdad e, di lì a poco, poterono riabbracciare le proprie famiglie.

Alessio Gaggero

Eccidio di Rizziconi. 06/09/1943

L’estate del 1943 sta volgendo al termine, così come l’occupazione nazifascista della penisola italiana: gli anglo-americani erano già sbarcati in Sicilia tra il 9 e il 10 luglio di quell’anno e 15 giorni dopo, a causa dell’andamento disastroso della guerra, per l’Italia, il Gran Consiglio del Fascismo aveva sfiduciato il capo del Governo, Benito Mussolini, il re, Vittorio Emanuele III, lo aveva fatto arrestare e aveva affidato il ruolo di presidente del Consiglio dei Ministri al maresciallo Pietro Badoglio (abbiamo ricordato entrambi questi fatti, sulla rubrica Corsi e Ricorsi, nei post Con lo sbarco in Sicilia, dopo 21 anni di regime, subisce un’accelerazione la fine del Fascismo e Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo sfiducia il Capo del governo, Benito Mussolini). Nominalmente l’Italia e la Germania di Hitler erano ancora alleate. I Tedeschi hanno l’ordine di ritirarsi senza ingaggiare il nemico, cioè le forze anglo-americane, che avanza, se non tramite azioni di rallentamento. All’inizio di settembre, la zona interessata da questi movimenti di uomini e mezzi è quella calabrese. La Piana di Gioia Tauro, nello specifico.

Quando risulta chiaro che lo sbarco a Reggio Calabria e la successiva avanzata inglese sono inarrestabili, il generale tedesco Fries ordina la ritirata verso nord, anche per le truppe accampate intorno a Rizziconi, un piccolo paese dell’entroterra. Alle 13.00 del 6 settembre, questo contingente nazista, però, si macchia di un crimine sanguinario: per quasi 24 ore spara colpi di artiglieria pesante contro il paese, in cui erano presenti i soli civili.

Perderanno la vita 17 persone, di cui tre bambini e cinque ragazzi, che si sommano ai 56 feriti del bilancio finale della strage, unica di questo tipo in Calabria. Non è mai stata chiarita la motivazione alla base di tale crimine. Un’ipotesi pone al centro il lenzuolo bianco issato sul campanile della chiesa di San Teodoro in segno di resa: i Tedeschi potrebbero aver pensato che gli Inglesi fossero già entrati in paese. Una seconda ipotesi indica, invece, l’intervento della popolazione civile, che avrebbe tagliato i fili di comunicazione con il reggimento, sabotando le truppe naziste, indotte, dunque, alla rappresaglia.

Sono stati necessari 73 anni perché l’eccidio fosse ufficialmente riconosciuto. Si legge sul sito dell’ANPI:

Un accordo bilaterale tra Governo della Repubblica Federale Tedesca e Governo Italiano ha consentito di censire gli episodi di violenza contro i civili commessi dai Nazisti durante la Seconda guerra mondiale. La ricerca portata avanti dall’Anpi e dall’Insmli, con la collaborazione di studiosi provenienti dalle Università di Bologna, Napoli, Pisa, e Siena, segnala la strage di Rizziconi (6 settembre 1943) come unica strage nazista della Calabria.

La speranza è che la memoria pubblica, locale e non, si rafforzi nei tempi a venire grazie a questo riconoscimento, andando a compensare i lunghi anni di amnesia istituzionale e popolare emersi dalle ricerche.

Alessio Gaggero

Il mediatore sullo sfondo

Il mediatore non è un protagonista, semmai è un co-protagonista – cioè deuteragonista o tritagonista, a seconda dei casi. Infatti, come mediatore incontra altri esseri umani e condivide con questi la scena dell’incontro, ma deve tendere a mettersi da parte, a restare il più possibile sullo sfondo. Quello sfondo sul quale emergono le figure dei soggetti il cui conflitto è chiamato a mediare: i medianti.

La sua posizione è quella di chi segue la narrazione altrui, e in un certo senso la vive, ma senza potere intervenire su di essa. Assiste al prodursi, o riprodursi, concreto e drammatico del conflitto, anche nelle sue valenze emotive e affettive, però, ne resta spettatore neutrale. Uno spettatore sui generis, poiché, in realtà, egli c’è e comunica la sua presenza, ma non le sue opinioni ed emozioni. Queste, in effetti, devono restare silenziose dentro di lui.

 

Rielaborazione da A. Quattrocolo (2005) La mediazione trasformativa. Un modo d’intendere e di praticare la mediazione dei conflitti. Quaderni di Mediazione, n1. settembre 2005, Punto di Fuga Editore, pp29-37.