30/09/1966 Indipendenza del Botswana

Il Botswana perse la propria indipendenza nel 1885, quando divenne, col nome Bechuanaland, protettorato britannico. Mentre il primo termine deriva direttamente dalle popolazioni del luogo, tswana, il secondo dipende dalla trascrizione che usarono i colonizzatori, chuana. A differenza di paesi simili, i rapporti tra autoctoni e immigrati furono sostanzialmente pacifici (come testimonia l’attuale bandiera, con bianco e nero accostati e circondati dall’azzurro dell’acqua).

A partire dal 1920 furono compiuti progressivi passi avanti verso l’indipendenza, come la creazione di organi consultivi, la richiesta al Regno Unito di un autogoverno democratico, il trasferimento della sede del governo da Makifeng, Sudafrica, a Gaborone, e la promulgazione della Costituzione. Dunque, il Botswana è uno stato indipendente dal 30 settembre 1966 e, contestualmente, entra a far parte del Commonwealth.

Le prime elezioni libere incaricarono, come facilmente prevedibile, il leader del movimento per l’indipendenza, Seretse Khama, primo Presidente della Repubblica. Ricordato come padre della patria, fu prima re di una tribù tswana e capo del Partito Democratico del Botswana. Suo figlio, Ian Khama, ha seguito le orme del genitore, rivestendo le medesime cariche dal 2003, sempre a fronte di libere elezioni. Cinque mesi fa si è dimesso, cedendo l’incarico al suo vice, Masisi.

Questi lunghi anni di democrazia si sono distinti per un’elevata crescita economica, dovuta in larga parte ai giacimenti di prodotti minerari, che ha permesso di stabilizzare il paese. Considerato il punto di partenza, al momento della dichiarazione d’indipendenza, (due scuole, quaranta laureati e quindici chilometri di strade asfaltate, per non parlare dell’assenza di trasporto pubblico, elettricità e linee telefoniche) che lo costringeva al terzo posto al mondo nella classifica delle nazioni più povere, si può vedere un piccolo miracolo: il tasso di crescita è stato soddisfacente, il PIL si attestava tra i primi dell’Africa sub-sahariana ed è stato definito il terzo paese meglio governato del continente. Tutto questo, senza dimenticare che la popolazione si attesta intorno ai due milioni di abitanti, non è presente uno sbocco sul mare e le risorse naturali sono inferiori a quelle dei vicini.

Tutto ciò si basava sul commercio dei diamanti: lì si trovava l’80% dei proventi da esportazioni, più del 30% del PIL e circa un terzo delle entrate statali. L’imperfetto delle ultime frasi si giustifica nel calo globale della domanda del suddetto minerale: concentrando buona parte delle finanze su di esso, si è esposto il paese a un grosso rischio, concretizzatosi nel 2014. Il Governo deve ora trovare delle valide alternative per onorare i predecessori che si batterono per l’indipendenza del proprio paese.

Alessio Gaggero

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La strage di Marzabotto ebbe inizio il 29 settembre 1944

Le solite voci incontrollate, prodotto tipico di galoppanti fantasie in tempo di guerra, assicuravano fino a ieri che nel corso di una operazione di polizia contro una banda di fuorilegge, ben centocinquanta fra donne, vecchi e bambini erano stati fucilati da truppe germaniche di rastrellamento nel comune di Marzabotto […] Siamo dunque di fronte a una nuova manovra dei soliti incoscienti destinata a cadere nel ridicolo perché chiunque avesse voluto interpellare un qualsiasi onesto abitante di Marzabotto o, quanto meno, qualche persona reduce da quei luoghi, avrebbe appreso l’autentica versione dei fatti.
Il Resto del Carlino, 11 ottobre 1944

Con queste parole, pochi giorni dopo i fatti, su richiesta del gerarca locale il quotidiano bolognese tentò di minimizzare quello che passò alla storia come uno dei più gravi crimini di guerra compiuti contro la popolazione civile perpetrati dalle SS in Europa occidentale durante la seconda guerra mondiale, ovvero l’eccidio di Montesole (o di Marzabotto, dal nome del più grande tra i comuni coinvolti).

Non era certo mancata l’occasione per apprendere “l’autentica versione dei fatti”: mentre il massacro era ancora in corso, il segretario comunale di Marzabotto inviò un rapporto al Prefetto della Provincia, Fantozzi, parlando di “spettacolo terrificante”, e qualche giorno dopo si recò a Bologna, a colloquio con lo stesso Prefetto e il suo vice, che non gli credettero e lo minacciarono d’arresto.

Ma le voci iniziarono a circolare, tra la popolazione e dalle frequenze di Radio Londra, perciò i vertici militari e diplomatici tedeschi presenti a Bologna annunciarono la costituzione di una commissione d’inchiesta; pochi giorni dopo, l’ambasciatore tedesco Sachs, non prima di aver suggerito severi provvedimenti contro quei funzionari italiani colpevoli di eccessivo allarmismo, riferì che nuclei di truppe paracadutate dell’esercito nazista erano venuti a contatto di fuoco con bande partigiane nella zona di Marzabotto, e “involontariamente” era stata causata la morte di qualche donna e bambino, asserragliati nei nidi dei “banditi”. Di tale spiegazione la Prefettura e i gerarchi fascisti si dichiararono pienamente soddisfatti, anche se si narra che lo stesso Mussolini, reso edotto dei reali termini della vicenda, se ne fosse lamentato – senza esito – presso Hitler.

Sei giorni di violenze, tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944; l’intera area alle pendici del Monte Sole, nel territorio dei comuni di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno, messa a ferro e fuoco, con la distruzione di 800 appartamenti, una cartiera, un risificio, quindici strade, sette ponti, cinque scuole, undici cimiteri, nove chiese e cinque oratori; un conteggio delle vittime protrattosi per decenni, assestatosi infine a 770 morti accertati, di cui 216 bambini, 316 donne, 142 anziani, 138 partigiani, 5 sacerdoti. Infine, la morte nascosta: prima di andarsene i nazisti disseminarono il territorio di mine, che continuarono a uccidere fino al 1966 altre 55 persone.

Lo scenario dell’eccidio si trova sulla dorsale dell’Appennino bolognese, tra le valli dei fiumi Setta e Reno, principali assi di collegamento tra nord e centro Italia, con le linee ferroviarie Bologna-Firenze e Bologna-Pistoia; nell’autunno 1944 qui correva la linea Gotica, sulla quale si fronteggiavano forze tedesche e alleate. In piccoli villaggi, borghi e case sparse, risiedevano famiglie contadine e numerosi sfollati che, dai fondovalle e da Bologna, avevano cercato rifugio su queste pendici ritenendole più al riparo dai bombardamenti e dai rastrellamenti tedeschi e fascisti.

Il massacro di Montesole fu la tappa finale della c.d. “marcia della morte” delle truppe tedesche lungo la Gotenstellung, iniziata il 12 agosto in Versilia e proseguita dalla Lunigiana all’appennino bolognese, in un susseguirsi di stragi motivate esclusivamente dalla tattica del “fare terra bruciata” attorno ai combattenti partigiani; se l’ideatore della strategia fu il maresciallo Kesserling, l’esecutore fu il maggiore delle SS Walter Reder, “il Monco”, al comando del 16° Panzergrenadier “Reichsfuhrer”, col supporto di elementi delle Brigate nere di Carrara.

A fine settembre il “Monco” si spinse in Emilia ai piedi del monte Sole, dove si trovava la brigata partigiana “Stella Rossa”, guidata da un giovane del luogo, Mario Musolesi detto Lupo, ucciso nelle prime ore dell’azione militare. I partigiani si dispersero convergendo per lo più verso Monte Sole e Monte Caprara, senza essere inseguiti dai tedeschi, il cui obiettivo non era combattere ma annientare: uccidere gli abitanti, distruggere le case, razziare il bestiame.

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La strage riguardò tutti i centri principali disseminati sulla collina e diverse decine di luoghi sparsi. Come sottolineano Baldissarra e Pezzino, “il piano prevedeva un attacco concentrico [che ebbe] il profilo di un massacro pianificato nel quadro delle operazioni militari della Gotica, […] senza riguardo alcuno a donne e bambini”, assimilati tutti a banditi, secondo la tipologia bellica della guerra ai civili, per la quale il massacro diventa strumento militare.

La prova di un effettivo rapporto con i partigiani non fu un elemento discriminante per le uccisioni: sebbene sia stata accertata la presenza di una spia che guidò i tedeschi nelle singole case e segnalò i collaboratori dei partigiani, causandone l’immediata esecuzione, moltissimi casi dimostrarono che tale identificazione non era necessaria per essere trucidati.

Il carattere rituale dell’omicidio di massa si tradusse nell’uccisione di gruppi di bambini sterminati con un colpo alla testa davanti agli occhi delle madri, costrette ad assistere prima di essere a loro volta uccise; gli stupri, le torture, il feto strappato dal ventre della madre, i corpi dilaniati e bruciati in cumuli, l’anziano troppo lento gettato vivo in un pagliaio in fiamme, l’anziana mitragliata sulla sedia a rotelle, gli omicidi dentro le chiese, i nuclei familiari sterminati (uno dei superstiti perse quattordici congiunti), il cadavere oltraggiato di un neonato di 14 giorni, i corpi insepolti che hanno continuato a emergere dalle macerie per mesi, e tutto quanto testimoniato da sopravvissuti e soccorritori non fu evidentemente abbastanza per il maggiore Reder, che anni dopo ebbe a dichiarare:

Quello che temo è che la storia mi possa rimproverare di non aver saputo utilizzare pienamente, per eccesso di spirito umanitario, possibili tattiche che sarebbero state vantaggiose per l’esercito tedesco.

Al termine della guerra, Walter Reder fu processato e nel 1951 condannato all’ergastolo; nel 1985, ottenne la liberazione anticipata per decisione del governo italiano, su intercessione dei governi austriaco e tedesco.

Il 13 gennaio 2007 il Tribunale Militare di La Spezia ha condannato all’ergastolo dieci imputati (tutti in contumacia) per l’eccidio di Monte Sole, ritenuti colpevoli di violenza pluriaggravata e continuata con omicidio, con sentenza confermata nel 2008 dalla Corte Militare d’Appello di Roma. L’istruzione dei procedimenti ha avuto luogo grazie alla scoperta, avvenuta nel 1994, di 695 fascicoli di inchiesta presso la sede della Corte Militare d’Appello di Roma, segnati con il timbro della “archiviazione provvisoria” datata 1960 e conservati in un armadio rivolto verso il muro, il cosiddetto “armadio della vergogna”.

Per quanto riguarda i collaborazionisti italiani, già nel 1946 la Corte d’Assise di Brescia condannò all’ergastolo i due repubblichini Lorenzo Mingardi (reggente del Fascio, detto “il ducetto di Marzabotto”) e Giovanni Quadri per collaborazione, omicidio, incendio e devastazione. Tutti e due furono successivamente liberati per amnistia. Così commenta lo storico Mimmo Franzinelli:

Voltare pagina. Questo fu il diktat imposto dall’allora governo repubblicano e dal clima politico presente in quel periodo in Italia. Uscita stremata dal secondo conflitto mondiale e incapace di guardarsi allo specchio, l’Italia ha preferito per la ragion di Stato mettere nel dimenticatoio della memoria tutte quelle vicende […] che videro coinvolti gli italiani, responsabili di atti disumani.

Nel 2009 i familiari delle vittime dell’eccidio, riuniti in associazione, hanno presentato quattro ricorsi chiedendo allo Stato italiano l’equa riparazione del danno da irragionevole durata del processo, sia per l’”archiviazione provvisoria” del fascicolo relativo a Montesole nel c.d. “armadio della vergogna”, sia per l’ulteriore inerzia seguita al suo ritrovamento, tra il 1994 e il 2002. Lo Stato è tenuto a rispondere di questo insabbiamento, sostengono gli autori del ricorso:

Quello che ci importa è far capire. Il dolore, la vita cancellata da una intera comunità, il senso di abbandono per una giustizia mai arrivata. Chiediamo che lo Stato si assuma la sua responsabilità, e spieghi davvero perché quelle indagini vennero insabbiate. Non vogliamo denaro, ma chiarezza e rispetto.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.wikipedia.org;
A. Petacco (a cura di), “Dossier: La strage di Marzabotto”, www.storiaxxisecolo.it/;
www.montesole.org;
M. Imarisio, “Class action su Marzabotto: «L’ Italia paghi 480 milioni»”, www.archivio.corriere.it;
www.eccidiomarzabotto.com;
www.storiaememoriadibologna.it;
www.resistenzamappe.it;
L. Baldissarra, P. Pezzino, “Il massacro. Guerra ai civili a Monte Sole”, Il Mulino;
A. Beccaria, “Monte Sole e altri crimini nazifascisti: le responsabilità italiane nel ‘dimenticatoio della memoria’”, www.ilfattoquotidiano.it;
A. Mandreoli, “Il fascismo della repubblica sociale a processo – Sentenze e amnistia (Bologna 1945-1950)“, ed. Il pozzo di Giacobbe, 2017

Termina la battaglia di Varsavia: è il 28/09/1939

Nell’ambito delle mire espansionistiche tedesche, giustificate dall’obiettivo di realizzare quello spazio vitale tanto caro al Fuhrer e ai suoi piani esposti nel Mein Kampf, la Germania nazista, dopo aver annesso l’allora Cecoslovacchia, si apprestò, all’inizio del settembre 1939, ad attaccare la Polonia.

Generalplan Ost e Lebensraum sono i due lemmi tedeschi a fondamento delle attività belliche naziste. Il primo, Piano generale per l’oriente, prevedeva il sovvertimento dell’ordine costituito nell’est Europa: i Tedeschi avrebbero dovuto colonizzare i territori interessati, sterminando e cacciando gli slavi. Il secondo, termine nato sul finire del XIX secolo in ambito geografico, fu rivitalizzato da Hitler con l’accezione di spazio vitale per il popolo tedesco, allora in forte crescita demografica, ma ristretto dalle conseguenze del Trattato di Versailles: i vincitori della Prima guerra mondiale avevano, infatti, limitato notevolmente il territorio sotto il controllo tedesco. Un concetto similare fu ripreso dal fascismo italiano per giustificare le campagne volte alla colonizzazione dei territori esteri.

L’abilità strategica dei Tedeschi li rese, tuttavia, cauti nei confronti dell’avversario russo, anch’esso rientrante nei piani espansionistici. È qui che fonda le sue radici il Patto Molotov-Ribbentrop (dai nomi dei rispettivi Ministri degli esteri dei due paesi): Germania e Russia non si sarebbero reciprocamente aggredite. I due politici misero sostanzialmente la firma sulla spartizione dell’ignara Polonia.

Il primo settembre, il primo sconfinamento diede il via alla guerra lampo. Mentre le unità terrestri avanzavano in più direzioni, e una corazzata della Grande Guerra distruggeva la fortezza polacca di Westerplatte, la Luftwaffe si occupò della capitale, ma non prima di aver reciso le arterie di trasporto dei militari. Tutto questo non fu sufficiente, ancora una volta, a smuovere gli Alleati, che si limitarono alle dichiarazioni di guerra da parte di Francia e Inghilterra.

Il 5 settembre iniziò la difesa antiaerea di Varsavia, che si batté strenuamente per i propri civili, massimamente esposti ai bombardamenti tedeschi: la cosiddetta Domenica di sangue fu flagellata da 17 attacchi consecutivi. Dieci giorni dopo, la città era circondata, ma non caduta. Soldati e civili combattevano fino all’ultimo uomo, nella speranza che l’aiuto alleato arrivasse prima della resa. Resa che fu concessa il giorno stesso, ma, essendo stata respinta, portò Hitler ad ordinare il dispiegamento di tutte le forze disponibili per la conquista della città, nonostante il parere contrario dei generali: il blocco a oltranza non fu considerato dal Fuhrer.

Ad aggravare la situazione contribuì il già citato patto tra Tedeschi e Russi: questi ultimi invasero il paese sul lato orientale, costringendo alla fuga il Presidente Mościcki. Dopo una rapida avanzata, incontrarono i Nazisti il 20 settembre a Brest-Litovsk: la spartizione della Polonia era quasi cosa fatta.

Furono necessari altri sette giorni per costringere la capitale alla resa incondizionata. I continui bombardamenti, le violente sparatorie terrestri, la mancanza di cibo, acqua e medicinali, la distruzione delle reti elettrica e telefonica, nonché l’elevatissimo numero di feriti, sia militari che civili, indussero il comandante polacco a chiedere una negoziazione. A quel punto, però, i Tedeschi non potevano accettare condizioni, e così fecero. Il giorno successivo, il 28 settembre 1939, il generale Kutrzeba firmò la conclusione della campagna di Polonia.

Alessio Gaggero

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Iniziano le 4 giornate di Napoli il 27 settembre 1943

Ci eravamo abituati a sentire le frottole della radio, dei giornali: la patria, l’eroica difesa dei confini, l’impero. Tenevamo l’impero, mancava il pane, il caffé ma tenevamo l’impero. […] Una domenica di fine settembre, sento in bocca a tutti la stessa parola, sputata dallo stesso pensiero: mo’ basta. Era un vento, non veniva dal mare ma da dentro la città: mo’ basta, mo’ basta.. La città cacciava la testa fuori dal sacco. Mo’ basta, mo’ basta, un tamburo chiamava e uscivano i guaglioni con le armi.
E. de Luca, “Il giorno prima della felicità”

Tra il 27 e il 30 settembre 1943, la città di Napoli si rese protagonista di un’insurrezione popolare contro l’occupazione tedesca, prima metropoli europea a sperimentare la resistenza in armi al nazismo e a liberarsi prima dell’arrivo degli Alleati anglo-americani.

La memoria delle Quattro Giornate, influenzata da giudizi ideologici e politici, ondeggia tuttora tra retorica e dubbio, tra negazionismo e celebrazione folcloristica: come scrisse il giornalista Pietro Gargano, “nacque il mito degli scugnizzi vittoriosi sui tedeschi, riconoscimento meritato, ma questa versione della storia fu usata con malizia e tolse peso all’importanza corale della ribellione”. La battaglia in realtà durò più di quattro giorni, i caduti furono centinaia, ma un certo stereotipo della napoletanità ha spesso ridotto la rivolta a un “parapiglia”, un’ “ammuina” armata contro un nemico che si stava già allontanando: invece il nemico era ben presente in forze e stava sistemando le mine per far saltare il Ponte della Sanità, l’Acquedotto e altre strutture che furono salvate con i combattimenti.

I diari di guerra della Wehrmacht confermano le dinamiche e la forza dell’insurrezione, così come il gran numero di vittime nei rioni popolari del centro e come l’eterogeneità degli insorti, civili e militari fedeli al neocostituito Regno del Sud, uomini, donne e un nutrito gruppo di “femminielli”, anziani e ragazzini, gente del popolo e antifranchisti reduci dalla Spagna, “sovversivi” già schedati, arrestati o spediti al confino dai Tribunali speciali, antifascisti da mesi all’opera in clandestinità, “sbandati” dell’8 settembre e persino fascisti delusi. Non fu la presunta disgregazione sociale della città a produrre la rivolta, ma la particolare coesione dei quartieri a fornire la struttura di relazioni su cui costruire l’organizzazione militare: un episodio di resistenza autonoma attuata attraverso le strutture informali della società e senza il supporto delle organizzazioni politiche o istituzionali, che in quel momento non erano ancora organizzate.

Il 1° settembre ’43 la città aveva subito l’ultimo grande bombardamento anglo-americano, il 105° in 43 mesi di guerra, per un totale di 22 mila morti, decine di migliaia di feriti, mutilati e dispersi tra la popolazione civile, oltre a centomila appartamenti distrutti. L’armistizio piombò su una Napoli in rovine, semiparalizzata, con l’acqua razionata, i viveri ridotti al minimo, insufficienti per tutta la popolazione, in parte affamata e disoccupata, che trascorreva il maggior tempo nelle grotte e nei rifugi.

Nelle stesse ore in cui veniva annunciato l’armistizio, la notizia dello sbarco alleato a Salerno contribuì a creare il clima propizio alla rivolta, ma le autorità militari rifiutarono di consegnare le armi ai rappresentanti dei partiti antifascisti per organizzare la difesa, né seppero dare direttive ai subalterni, e addirittura i generali Pentemalli e Del Tetto, responsabili militari della provincia, si diedero alla fuga.

L’occupazione tedesca della città non avvenne pacificamente, con numerosi episodi di resistenza in armi; il 12 settembre, dato il rallentamento dell’avanzata degli Alleati, i tedeschi sospesero i preparativi per la ritirata e instaurarono col terrore il loro pieno dominio sulla città. Un corriere da Berlino aveva infatti portato l’ordine di non lasciare la città e, in caso di avanzata degli Alleati, di non abbandonarla prima di averla ridotta “in cenere e fango”: proprio a Napoli il nazismo manifestò in anteprima la brutalità che avrebbe in seguito caratterizzato le fasi successive della lenta risalita tedesca verso nord.

Il colonnello Walter Scholl, assunto il comando delle forze occupanti, proclamò il coprifuoco, impose la consegna delle armi e dichiarò lo stato d’assedio, con l’ordine di giustiziare tutti coloro che si fossero resi responsabili di azioni ostili alle truppe tedesche, in ragione di cento napoletani per ogni tedesco eventualmente morto.

Furono uccise decine di militari italiani per le strade, spesso costringendo la popolazione rastrellata ad assistere, mentre circa 4.000 persone furono deportate in lunghe colonne dirette ad Aversa; i nazisti saccheggiarono e rasero al suolo, assaltarono le caserme, incendiarono l’Università (noto centro dell’antifascismo), operarono la sistematica distruzione delle zone industriali, del grande stabilimento ILVA di Bagnoli; tra il 23 e il 24 settembre, oltre 200000 persone restarono senza tetto, sgomberate per creare una “zona militare di sicurezza” fino a 300 metri dal mare, che sembrava preludere alla distruzione del porto. La città sconvolta era alla fame, il gas non c’era più, l’acqua mancava, per dissetarsi i cittadini dovevano ricorrere a pozzi sporchi e infetti o arrivare sino alla periferia; sotto le macerie e per le strade giacevano i cadaveri insepolti. Le malattie aumentavano, l’epidemia minacciava.

La goccia che fece traboccare il vaso fu l’ordine “per il servizio obbligatorio al lavoro nazionale” emanato dal prefetto Soprano, in esecuzione della decisione di Kesserling di deportare i lavoratori in Germania. I primi contingenti di giovani avrebbero dovuto presentarsi il 25, ma i posti di raccolta restarono deserti; il Comando tedesco fece affiggere sui muri della città e pubblicare sul giornale la minaccia d’immediata fucilazione per coloro che non si fossero immediatamente presentati.

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Il 27 settembre, dopo un’ampia retata dei tedeschi che catturarono in vari punti della città circa 8.000 uomini, 4-500 napoletani aprirono i combattimenti, con le armi accumulate in segreto nei giorni precedenti; una delle prime scintille della lotta scoppiò al quartiere Vomero, attecchendo subito in tutta la città, dapprima in focolai isolati, poi con carattere sempre più unitario; molte le vittime, molti gli episodi di eroismo. Per quattro giorni, i napoletani scelsero la lotta aperta, imbracciarono le armi, eressero barricate, lanciarono bombe, tesero agguati, costringendo le truppe tedesche alla resa, alla fuga. Artisti, poeti, scrittori, ufficiali dell’esercito italiano e antifascisti si unirono agli insorti. Anche l’episodio risolutivo ebbe luogo al Vomero, con la presa del presidio tedesco e il conseguente scambio di ostaggi, autentica umiliazione per il Comando superiore germanico di Scholl.

Il 30, pur essendo stata evacuata in massima parte la città dai tedeschi, continuarono i combattimenti e le ritorsioni degli ex occupanti: ancora il l° ottobre, questi aprirono un violento fuoco sulla città con un gruppo di bombarde piazzate nel bosco di Capodimonte, portando lo sterminio fra la popolazione sino quasi a mezzogiorno: un’ora prima dell’entrata dei primi carri armati anglo-americani nella città liberata. Costretti alla fuga, i nazisti sfogarono la rabbia a San Paolo Belsito, presso Nola, dando fuoco all’Archivio Storico di Napoli, cioè alla maggior fonte per la storia del Mezzogiorno dal Medioevo in poi.

Il bilancio dell’insurrezione napoletana: secondo la Commissione ministeriale per il riconoscimento partigiano, i combattenti furono 1589; 152 i caduti tra essi (168 secondo altre fonti), 140 vittime tra i civili, 162 feriti, 75 invalidi permanenti, 19 caduti non identificati; tuttavia, in base alla relazione del sacerdote patriota Antonio Bellucci, “gli uccisi dai tedeschi – come risulta dal registro del cimitero di Poggioreale – fra militari, civili, uomini e donne di ogni età furono 562”. L’elenco delle perdite continuò ad accrescersi anche dopo la liberazione della città: nel pomeriggio del 7 ottobre il palazzo delle Poste, appena riattivato, saltò in aria a causa delle mine lasciatevi dai tedeschi, provocando la morte di molti cittadini.

Nel dopoguerra, oltre alla medaglia d’oro al valor militare alla città di Napoli, furono conferite 4 medaglie d’oro alla memoria ad altrettanti “scugnizzi” caduti nei combattimenti, 10 d’argento, 7 di bronzo e altre onorificenze al valore.

Finiti i bombardamenti, le granate, i morti e il terrore, persino il Vesuvio, dopo una tremenda eruzione coincisa proprio con le quattro giornate, smise di fumare. “S’è levato ‘o cappiell”, dissero i napoletani, interpretandolo come segno di saluto alla rinascita da lungo attesa.

Silvia Boverini

Fonti:
www.anpi-lissone.over-blog.com;
E. De Luca, “Il giorno prima della felicità”, Feltrinelli;
www.storiaxxisecolo.it;
G. Gribaudi, “Napoli, la prima città insorta contro i nazisti”, 27/09/2011, Il Mattino;
E. Puntello, “Quattro Giornate di Napoli, non fu «ammuina» ma azione preparata”,  https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it;
G. Aragno, “Le Quattro Giornate – Storie di antifascisti”, Intramoenia

La mediazione e l’Alterità

Il filosofo francese Emmanuel Lévinas ha messo in luce, come l’intera storia del pensiero occidentale (della metafisica in particolare) abbia rappresentato, come egli afferma, una «riduzione dell’Altro al Medesimo»: si è sempre assistito, cioè, al tentativo di ricondurre l’alterità dell’Altro, del Diverso ad una Totalità unitaria, che, nel tentativo di racchiudere il molteplice, ne avrebbe provocato una neutralizzazione.

La “retorica del dialogo”, con il suo potere ricattatorio (“chi non dialoga non vuole mettersi in comunicazione-relazione”), avrebbe celato, in realtà, una “violenza metafisica”, in cui l’Alterità non trovava posto come concetto a sé stante e irriducibile.

Oggi, come allora, queste osservazioni di Lévinas non sono prive di implicazioni e risvolti afferenti registri e piani diversi. Possono essere interessanti anche rispetto alla dimensione dei rapporti e delle interazioni che sviluppiamo nella nostra quotidianità. Hanno un’attinenza non irrilevante, però, anche con il Conflict Management in generale e con la mediazione dei conflitti, in particolare.

Risguardo a quest’ultimo aspetto, annotiamo che quello della mediazione è un mondo assai vasto, in cui sono presenti prospettive, modelli, chiavi di lettura, modalità di intervento, metodologie e approccio diversi. A volte sommamente eterogenei.

Soffermandoci brevemente sulla mediazione applicata da Me.Dia.Re. in diversi ambiti (familiare, penale, sanitario, organizzativo-lavorativo…), puntualizziamo che il mediatore, in tale modello, chiamato di “Ascolto e Mediazione”, non soltanto si astiene dal giudicare e dal prendere posizione, com’è naturale che sia, ma adotta anche un approccio che, in qualche misura, rinvia alle riflessioni di Lévinas.

In particolare, in tale modello, il mediatore non interviene nel conflitto per contrastarlo o sedarlo, ma accetta rispettosamente le posizioni dei soggetti in esso coinvolti, sostenendo con i propri interventi l’uno e l’altro, aiutandoli ad esprimersi e permettendo, perciò, il confronto. Quindi, non li spinge al dialogo.

Ciò non significa che al mediatore sia personalmente indifferente se si produca o meno il dialogo tra gli attori del conflitto. Spesso accade, infatti, che egli se lo auspichi, per quello che suppone possa essere il loro benee per il bene di coloro che, pur non essendo protagonisti attivi di tale conflitto, ne subiscono gli effetti. Pertanto, deve esercitare un’auto-osservazione per evitare di “agire” tale suo augurio. Ed è quest la ragione per la quale in sede formativa così tanto spazio è dedicato alla riflessione su tali aspetti.

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Tuttavia, quale che sia il pensiero o il sentimento del mediatore, nel suo relazionarsi con loro, egli si astiene dal tentativo di contrastare l’eventuale indisponibilità al dialogo con delle esortazioni, dirette o indirette, esplicite o implicite, a stabilirlo.

La mediazione, in altri termini, in tale prospettiva, è proposta e gestita non come spazio in cui stimolare le persone dialogare, se tale non è la loro intenzione, ma come occasione di confronto. Cioè come possibilità di esprimere, in un confronto, posizioni, punti di vista, idee, bisogni, esigenze, aspettative, emozioni e sentimenti differenti, spesso in contrasto.

Il dialogo, del resto, ci sembra, ha più probabilità di affermarsi realmente e sinceramente, e non in termini retorici, allorché il mediatore, con la sua attività di ascolto, con la sua comunicazione, invece di negarla o neutralizzarla, riconosce l’Alterità.

Maurizio D’Alessandro

Rielaborazione da D’Alessandro M., Quattrocolo A. (2015), L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, in La Giustizia Sotenibile vol. VIII (pag. 273-286), Aracne, Roma.

Omicidio di Mauro Rostagno 26/09/1988

… agli uomini capita di mettere radici, e poi il tronco, i rami, le foglie… quando tira vento, i rami si possono spaccare, le foglie vengono strappate via: allora decidi di non rischiare, di non sfidare il vento. Ti poti, diventi un alberello tranquillo, pochi rami, poche foglie, appena l’indispensabile. Oppure te ne fotti. Cresci e ti allarghi. Vivi. Rischi. Sfidi la mafia, che è una forma di contenimento, di mortificazione. La mafia ti umilia: calati junco che passa la piena, dicono da queste parti. Ecco, la mafia è negazione d’una parola un po’ borghese: la dignità dell’uomo.

La sera del 26 settembre 1988, in un viottolo buio nei pressi di Valderice, muore crivellato dai proiettili Mauro Rostagno, all’epoca giornalista televisivo per l’emittente locale RTC.

Di sicuro c’è solo che ad ammazzarlo fu la mano di Cosa nostra: pochi mesi fa, nel febbraio 2018, la Corte d’Assise d’Appello ha confermato la condanna all’ergastolo, in qualità di mandante, del boss trapanese Vincenzo Virga, pur mandando assolto il presunto esecutore materiale Vito Mazzara. Più complessa l’analisi dei moventi, all’interno di un contesto difficilissimo da ricostruire tra depistaggi, interessi incrociati, relazioni pericolose e prove scomparse. Ventisette anni dopo il suo omicidio, nel 2015,  ai giudici del processo di primo grado erano occorse più di tremila pagine per spiegare chi e perché aveva ucciso Rostagno, sociologo e giornalista, seguace di Osho e leader di Lotta Continua, fondatore della comunità terapeutica Saman e testimone della svolta nera della mafia trapanese, tra logge massoniche e attività coperte dei servizi d’intelligence.

Scomparvero prove. Testimoni chiave furono ascoltati con ritardo. Le intercettazioni vennero attivate solo otto mesi dopo l’agguato. Nell’arringa che conclude il processo di primo grado, il pubblico ministero Gaetano Paci afferma: “In quest’aula abbiamo dovuto inevitabilmente processare certi atteggiamenti delle forze dell’ordine, ma anche di questo palazzo di giustizia, e in generale della città di Trapani. Perché troppe sono state le insufficienze investigative, le omissioni, le sottovalutazioni. Ma anche orientamenti di pensiero di taluni rappresentanti istituzionali dell’epoca naturalmente adesivi verso la presenza mafiosa”.

Alla ricerca di piste investigative, dopo l’omicidio le indagini scandagliano la vita di Rostagno, personaggio complesso, carismatico, poco inquadrabile.

A Trapani era giunto dopo un percorso travagliato. Nato nel 1942, alla fine degli anni Sessanta è leader con Renato Curcio del movimento studentesco a Trento, dove da Torino si era trasferito per frequentare la nuova facoltà di sociologia; partecipa alla fondazione di Lotta Continua, e dopo il suo scioglimento anima il centro culturale milanese Macondo, punto di ritrovo di molti delusi dalla politica. Poi la scoperta delle filosofie orientali, il viaggio in India con la compagna, la figlia e l’amico Francesco Cardella, e infine, sempre con loro, l’ultimo approdo nel 1986 a Lenzi, in provincia di Trapani, per dar vita a una comunità di arancioni, Saman, che trasforma in una struttura terapeutica per il recupero dei tossicodipendenti.

In Sicilia, assecondando un’antica passione, Rostagno si reinventa giornalista e in una rubrica quotidiana trasmessa dalla piccola televisione locale RTC (Rete Tele Cinema) inizia a denunciare la presenza di Cosa Nostra sul territorio, le sue infiltrazioni nella politica locale, nelle gare d’appalto.

Vestito di bianco, impugna la telecamera e va in giro per la città: intervista le persone al mercato del pesce, ogni giorno fa il “munnezza trekking”, incontra Sciascia, Falcone, Borsellino. Dà voce a chi non l’ha mai avuta, chiama le cose con il loro nome. Segue tutte le udienze del processo per l’omicidio del sindaco Vito Lipari, nel quale erano imputati i boss Nitto Santapaola e Mariano Agate, luogotenente della malavita trapanese degli anni Ottanta; parla degli incontri occulti tra quest’ultimo e Licio Gelli, dell’ufficio “parallelo e occulto” che gestirebbe il bilancio del comune di Trapani, dell’omicidio del giudice Ciaccio Montalto, della strage di Pizzolungo, del traffico di armi e rifiuti tossici con la Somalia “cogestito da Cosa Nostra e da settori deviati dei servizi segreti”. Invita gli onesti alla ribellione contro il luogo comune, sbandierato anche da rappresentanti dello stato, secondo cui “la mafia qui ha portato soldi, benessere, lavoro e tranquillità”. Il primo avvertimento non tarda ad arrivare: “Diteci a chiddu c’a varva e vistutu di bianco c’a finissi di riri minchiati”, sbotta Mariano Agate al termine di un’udienza.

Nelle immediatezze dell’omicidio, agli inquirenti la pista mafiosa appare la prima da vagliare, eppure questa si arena in un vicolo cieco, per l’impossibilità di produrre prove a sostegno. L’inchiesta passa nelle mani di diversi magistrati che indagano su piste alternative, seguendo storie private, contrasti interni alla comunità Saman, e faide tra ex militanti di Lotta Continua innescate dalla riapertura delle indagini per l’omicidio del commissario Calabresi. Linee investigative che per anni sviano le ricerche e portano a un nulla di fatto, disperdendo risorse, seminando sospetti e pettegolezzi su Rostagno e le persone a lui vicine.

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Più fondato, e non incompatibile con la pista mafiosa, appare invece il filone d’inchiesta che ruota attorno a un probabile traffico d’armi, scoperto da Rostagno a ridosso della pista di un aeroporto militare in disuso alle porte di Trapani, e verosimilmente da lui documentato in una videocassetta, scomparsa dagli studi di RTC subito dopo la sua morte.

Intanto, una catena di pentiti eccellenti inizia a confermare la matrice mafiosa dell’assassinio del giornalista, imputando la decisione ai capi Francesco Messina Denaro (padre del tuttora latitante Matteo) e Francesco Messina, e la Direzione Distrettuale Antimafia nel 1997 prende in mano le indagini. Nel 2008, una petizione al Presidente della Repubblica Napolitano raccoglie diecimila firme per evitare l’archiviazione e, grazie a ulteriori nuove prove, nel 2011 si apre il processo.

Mettendo insieme le evidenze faticosamente emerse nel corso del tormentato iter processuale con fatti accertati negli anni da altre inchieste, tra cui la presenza a Trapani di diverse logge massoniche e di un centro d’addestramento della struttura paramilitare Gladio, nel 2015 il presidente della Corte d’Assise Pellino scrive, nella motivazione della sentenza di primo grado:

Un’organizzazione criminale che detiene un controllo capillare del territorio può essere fonte della merce più preziosa per un apparato di intelligence, le informazioni; ma può servire anche per operazioni coperte, ovvero per offrire copertura a traffici indicibili da tenere al riparo da sguardi indiscreti. Traffici che coinvolgono pezzi di apparati militari e di sicurezza dello Stato, all’insaputa dei vertici militari e istituzionali o dei responsabili politici.

I giudici sottolineano come i “sordidi legami” tra pezzi della massoneria e agenti dei servizi “per quanto non direttamente afferenti al movente del delitto, abbiano avuto l’effetto di incoraggiare i vertici dell’organizzazione mafiosa ad agire, nella ragionevole convinzione di poter contare, una volta commesso il delitto, su una rete di protezioni e connivenze pronta a scattare in caso di necessità: come alcune sconcertanti emergenze di questo processo fanno paventare sia accaduto”. Come chiosa il giornalista Pipitone,

La mano che ha sparato a Rostagno è targata Cosa nostra, ma per proteggerla si sono mossi poteri differenti da quelli mafiosi. È per questo motivo che oggi rimangono ancora parecchi i buchi neri irrisolti.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.raistoria.rai.it;
www.wikimafia.it;
www.wikipedia.org;
“Omicidio Mauro Rostagno, confermato ergastolo al boss Virga ma assolto presunto killer”, 19/02/2018, www.ilfattoquotidiano.it;
A. Sofri, “Vi ricordate di Mauro Rostagno? Ve lo ricordate vivo? Vi ricordate che morì ammazzato?”, www.ilfoglio.it;
www.narcomafie.it;
R. Giacalone, “Ventotto anni fa l’omicidio di Mauro Rostagno. Un delitto che non è storia, ma attualità”, www.articolo21.org;
“Mio padre Rostagno”, www.famigliacristiana.it;
S. Palazzolo, “Depistaggi eccellenti per coprire i boss che uccisero Rostagno”, www.ricerca.repubblica.it;
G. Pipitone, “Mauro Rostagno, le motivazioni: Logge e 007, ma ad ammazzarlo fu Cosa Nostra”, www.ilfattoquotidiano.it

 

Cesare Terranova e Lenin Mancuso, Antonino e Stefano Saetta

Sono tanti i fili legano che uniscono il giudice Cesare Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso, sua unica scorta, uccisi il 25 settembre 1979, con il giudice Antonino Saetta e suo figlio Stefano, trucidati nella stessa data di 9 anni dopo, il 25 settembre del 1988. Il filo del loro sangue versato, ovviamente, è il primo che viene in mente. Altri due fili, facili da vedere, riguardano il fatto che erano tutti siciliani e che sono stati uccisi da Cosa Nostra, decisa ad eliminare chi la stava efficacemente contrastando. Condividevano, infatti, lo stesso impegno, lo stesso spirito di servizio. In comune avevano l’idea e il sentimento di servire la Repubblica italiana e i suoi cittadini, lo Stato di diritto e la democrazia, la libertà e la giustizia.

E poi vi sono altri fili che li avvicinavano tra loro e ad altri, uomini e donne, uccisi perché impegnati far sì che la legge sia davvero uguale per tutti. Altri che, come loro, sono stati ammazzati da killer mafiosi perché “la legge uguale per tutti” è l’antitesi della mafia.

Guardiamo un po’ più da vicino questi fili.

Cesare Terranova, dopo una lunga parentesi a Roma, alla Camera dei Deputati, ai primi di settembre tornò a Palermo, dove il 21 luglio era stato ucciso il capo della squadra mobile di Palermo, il vicequestore Boris Giuliano. Anche Terranova era un uomo ingombrante per la mafia, la quale proprio non voleva che quel magistrato («Giudice duro», era definito dai suoi avversari, quelli dentro e quelli fuori dal palazzo di giustizia) dirigesse l’Ufficio Istruzione del Tribunale. Nel’79, fu a Rocco Chinnici, dopo l’assassinio di Terranova e Mancuso, che venne assegnata la carica di dirigente proprio di quell’ufficio.

Chinnici, com’è noto, istituì una struttura collaborativa fra i magistrati dell’Ufficio (che fu poi denominata pool antimafia), avendo anche compreso che l’isolamento dei magistrati e degli altri servitori dello Stato li rendeva più vulnerabili, in quanto, uccidendo il singolo investigatore, la mafia contava di assicurarsi la fine, la sepoltura, anche delle sue indagini.

Tra i magistrati che entrarono nella squadra, vi furono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il risultato del lavoro istruttorio di Chinnici fu il primo grande processo a Cosa Nostra, il cosiddetto maxi processo di Palermo.

Il 29 luglio del 1983 Rocco Chinnici, cinquantottenne, venne spazzato via dall’esplosione di un’auto bomba davanti alla sua abitazione in via Pipitone.

A presiedere la Corte d’Appello sulla strage di Via Pipitone fu Antonino Saetta.

Chi era Cesare Terranova?

Cesare Terranova, palermitano, classe 1921, era nato il giorno di Ferragosto. Si laureò ed entrò in magistratura nel 1946, reduce dalla guerra e dalla prigionia.

Fu pretore prima a Messina e poi a Rometta, poi passò al Tribunale di Patti e, nel’ 58, a quello di Palermo. Come giudice istruttore, si occupò di mafia: della borgata di Tommaso Natale, della famiglia Rimi di Alcamo, dei fratelli La Barbera – che spiccavano nelle complesse vicende del sacco urbanistico di Palermo -, dell’assassinio dell’albergatore Candido Ciuni, avvenuto in ospedale e commesso da killer travestiti da medici.

Erano anni, quelli, in cui “la mafia non esiste”. Chi ne parlava, chi ne denunciava l’esistenza e il potere veniva tacciato di essere sovversivo o comunista. Così, ad esempio nel luglio del 1963, all’Assemblea Regionale Siciliana, l’onorevole Dino Canzoneri (DC) affermò che Luciano Liggio era un galantuomo, calunniato dai comunisti solo perché “era un coerente e deciso avversario politico.

Destò, quindi, più che scalpore, un forte allarme in certi ambienti il fatto che Terranova, nella sentenza istruttoria per la strage di viale Lazio (un cruentissimo “regolamento di conti”, avvenuto il 10 settembre del ’69, a Palermo, che costò la vita a 5 persone, di cui tre completamente estranei alle vicende malavitose), mettesse per iscritto (era il primo magistrato a farlo) che gli amministratori comunali rappresentavano il centro propulsore della nuova mafia.

Terranova, si era anche occupato, prendendola di petto, della famiglia dei Corleonesi di Luciano Liggio. Ne portò alla sbarra una sessantina, tra cui lo stesso Liggio, che in appello fu condannato all’ergastolo e gli giurò pubblicamente odio eterno.

Trasferito a Marsala, quale Procuratore della Repubblica, svolse diverse altre complesse indagini. Nel ’72 si candidò, e fu eletto, alla Camera dei Deputati, come indipendente di sinistra nella lista del PCI, nel collegio della Sicilia Occidentale e venne rieletto nel ’76.

Come deputato, divenne componente della Commissione parlamentare antimafia della VI legislatura: mise, così, l’esperienza fatta come magistrato a servizio della Commissione parlamentare, contribuendo, infine, con altri deputati del PCI (in primis Pio La Torre), ad elaborare la relazione di minoranza. Una relazione che dissentiva dalle conclusioni di quella della maggioranza, ritenendo che in quella redatta dal deputato della DC Luigi Carraro vi venissero oscurati i collegamenti fra mafia e politica, soprattutto il coinvolgimento della Democrazia Cristiana in numerose vicende di mafia. La relazione di minoranza redatta, infatti, da Terranova e dagli altri, sosteneva che politici democristiani come Giovanni Gioia, Vito Ciancimino e Salvo Lima avevano stabilito dei rapporti con la mafia.

«La mafia è un fenomeno di classi dirigenti. Non è costituita solo da soprastanti, campieri e gabelloti», si legge nella relazione conclusiva di minoranza a firma di Pio La Torre, Cesare Terranova e altri cinque componenti della Commissione.

Terminato nel 1979 il mandato parlamentare, Terranova decise di tornare “a Palermo per terminare il lavoro cominciato”. E Il 10 luglio, il CSM lo nominò Consigliere della Corte di Appello. Si dava, tuttavia, per scontato che gli sarebbe stata attribuita la direzione dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, in virtù del suo prestigio, dell’anzianità e della competenza sono dalla sua parte.

Ha scritto Saverio Lodato:

«La mafia sapeva che questo giudice non aveva nel suo cassetto carte scottanti su singoli casi ancora aperti (…) Ma nello stesso tempo capiva che Terranova, giudice dalla memoria ormai storica, Terranova per sette anni commissario dell’antimafia, Terranova con orientamenti politici di sinistra, era l’ultima persona che avrebbe dovuto sedersi su quella poltrona. Ne tirò le conseguenze, la mattina del 25 settembre 1979. Ancora una volta un agguato sotto casa».

Per Terranova, in effetti, non dovevano esistere “santuari inviolabili”:

«La mafia non è un concetto astratto, non è uno stato d’animo, ma è criminalità organizzata, efficiente e pericolosa, articolata in gruppi o famiglie e non c’è una mafia buona o cattiva perché la mafia è una sola ed è associazione per delinquere. E, tuttavia, è cosa diversa dalla comune delinquenza: è, per dirla come Leonardo Sciascia, un’associazione segreta che si pone come intermediazione parassitaria fra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato, con fini di arricchimento per i propri associati».

Il 1° marzo 1978 aveva scritto una lettera sua moglie Giovanna: «Ad onore dei miei genitori voglio ricordare che i principi che mi hanno guidato in tutta la vita sono frutto della educazione da loro ricevuta e che, se in qualche misura sono riuscito ad operare bene da uomo e da cittadino, ciò lo devo soprattutto agli insegnamenti e agli esempi costanti di mio padre e di mia madre, ai quali va la mia infinita gratitudine».

Lenin Mancuso

Il maresciallo Mancuso era l’unico componente della scorta del giudice Cesare Terranova. Ma era anche il suo uomo di fiducia. Era suo amico. Aveva circa un anno in meno del “giudice comunista”.

Si chiamava Lenin, di nome, il maresciallo Mancuso. Era nato il 5 novembre del 1922, una manciata di giorni dopo la marcia su Roma, e suo padre, socialista e poi iscritto al Partito Comunista, non lo aveva chiamato “Lenin” per caso.

Nel 1943 Lenin era entrato nella Squadra mobile di Palermo. E lì lavorò fino al 25 settembre del ‘79, raggiungendo il grado di maresciallo.

Lenin Mancuso conobbe Cesare Terranova durante la guerra di mafia di cui il giudice si stava occupando. Il che portò poi alle condanne a carico di Liggio, Buscetta e Gerlando Alberti.

Aveva lavorato con il magistrato anche sul caso del mostro di Marsala, nel 1971, durante il mandato di Terranova a procuratore di Marsala, partecipando alle indagini sul triplice rapimento e omicidio di tre bambine. Del caso si occuparono anche Carlo Alberto dalla Chiesa, allora colonnello dei carabinieri – comandante della Legione Carabinieri Palermo, e il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, anch’essi poi ammazzati da Cosa Nostra.

L’agguato e le indagini

Il 25 settembre del 1979, verso le 8,30 del mattino, a bordo di una Fiat 131 Lenin Mancuso arrivò sotto la casa del suo amico, il giudice, per condurlo in ufficio. Il magistrato sedette alla guida; accanto a lui stava il maresciallo.

L’auto imboccò una strada secondaria, tra via Rutelli e via De Amicis. Ma era sorprendentemente chiusa per “lavori in corso”. Alcuni killer affiancarono l’auto e fecero fuoco con una carabina Winchester e con delle P 38. Terranova ingranò la retromarcia e il maresciallo Mancuso tentò disperatamente di reagire sparando con la sua pistola di ordinanza, una Beretta 131, contro il fuoco di una trentina i colpi. Il giudice morì lì, Mancuso circa 8 ore, dopo in ospedale.

Alle 9:15 una telefonata anonima, fatta a un quotidiano romano, rivendicò il duplice omicidio, attribuendolo all’organizzazione neofascista Ordine nuovo. Gli inquirenti, tuttavia, restarono sulle tracce della matrice mafiosa.

Secondo Leonardo Sciascia, amico di Terranova, il giudice era stato eliminato perché «stava occupandosi di qualcosa per cui qualcuno ha sentito incombente o immediato il pericolo».

Un anno dopo l’agguato, il 25 settembre 1980, era prevista l’apposizione di una targa di ricordo sul davanti al quale erano stati uccisi Lenin Mancuso e Cesare Terranova. Ma i condomini non vollero quella targa.

Nel 1984 Tommaso Buscetta rivelò a Giovanni Falcone che Terranova era diventato un obiettivo fin dal ’75, perché aveva ottenuto la condanna all’ergastolo di Liggio e per l’impegno speso come membro della Commissione Antimafia. Secondo investigatori e giudici, quello di Terranova fu anche un “omicidio preventivo”.

Sul sito dell’Associazione Nazionale Magistrati si legge:

«fu ucciso per stroncare la sua carriera e impedirgli di divenire Capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo: Ufficio dal quale avrebbe “perseguito con forza la strategia di recidere le trame tra mafia e politica, obiettivo che contraddistinse sempre il suo operato, sia da magistrato che da politico».

Anche Francesco Di Carlo, uomo di fiducia di Bernardo Brusca, affermò che Liggio era stato il mandante dell’omicidio e indicò come esecutori materiali Giuseppe Giacomo Gambino, Vincenzo Puccio, Leoluca Bagarella e Giuseppe Madonia.

Nel 1997 il procedimento riguardò altri 7 esponenti della cupola palermitana, che avrebbero autorizzato l’omicidio di Terranova: Michele Greco, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Antonino Geraci, Francesco Madonia, Totò Riina e Bernardo Provenzano.

 

Antonino e Stefano Saetta

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«Erano inquirenti, ossia conducevano le indagini, Terranova, Costa, Chinnici, Ciaccio Montalto e anche il giudice Carlo Palermo, sfuggito per caso a una bomba. Era della giudicante Saetta, presidente della Corte d’appello che di recente aveva dato tre ergastoli ai killer del capitano dei carabinieri Basile. Il messaggio è chiarissimo: stiano attenti anche i magistrati estranei a qualsiasi pool, perché, se fanno il loro dovere, rischiano di finire straziati da 47 colpi di mitra. Un esempio perfetto di azione preventiva, anche questa già messa nel conto».

Così aveva scritto Giampaolo Pansa su Repubblica il 27 settembre del 1988. Erano trascorsi due giorni dal duplice omicidio di Antonino e Stefano Saetta e uno da quello di Mauro Rostagno (che verrà ricordato su questa rubrica domani).

Il primo magistrato giudicante ucciso e il primo figlio di magistrato ucciso con il padre

Parole amare, angoscianti, quelle di Pansa. Ma non troppo distanti da quelle di Roberto Saetta, figlio di Antonino e fratello minore di Stefano il quale fece notare anche che:

«per la prima e sinora unica volta, è stato ucciso un magistrato giudicante» e che «per la prima e unica volta, insieme con il magistrato da uccidere, è stato ucciso anche suo figlio».

Antonino Saetta, classe 1922.

Era coetaneo di Lenin Mancuso, Antonino (Nino) Saetta. Era nato a Canicattì il 25 ottobre del ’22. Anche lui a ridosso della marcia su Roma. Era il terzo di cinque figli. Suo padre, Stefano, era stato un maestro elementare e sua madre, Maddalena Lo Brutto, una casalinga. Dopo la maturità classica, si era iscritto nel 1940 alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Palermo. Poi era arrivata la chiamata alle armi, che lo aveva portato al corso per allievi ufficiali di complemento dell’esercito. L’8 settembre interruppe, per fortuna, la sua esperienza bellica. Laureatosi in Giurisprudenza nel ‘44, con 110 e lode, come poi molti anni dopo il suo conterraneo Rosario Livatino, vinse il concorso per Uditore Giudiziario e divenne magistrato nel 1948.

Fu mandato ad Acqui Terme, in provincia di Alessandria, dove, dal matrimonio con Luigia Pantano, farmacista, anch’essa di Canicattì, nacquero i figli Stefano e Gabriella. Trasferito a Caltanissetta nel ‘55, dove nacque il figlio Roberto, poi a Palermo nel 1960, si occupò soprattutto di procedimenti civili. Dopo essere stato Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Sciacca, consigliere presso la Corte d’Assise d’Appello di Genova, tra l’85 e l’86 fu Presidente della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta.

Magistrato giudicante nei processi di mafia

In quest’ultimo ruolo, per la prima volta, si occupò di un importante processo di mafia. Come abbiamo visto, si trattava quello della strage Chinnici. Tra gli imputati figuravano i vertici della mafia di quel momento. Incensurati. Il processo d’appello che egli presiedette si concluse, il 14 agosto dell’85, con una condanna che prevedeva un aggravamento delle pene e delle condanne rispetto a quanto stabilito dalla sentenza di primo grado.

Saetta tornò, quindi, a Palermo, e nel ruolo di Presidente della prima sezione della Corte d’Assise d’Appello seguì il processo contro Giuseppe Puccio, Armando Bonanno e Giuseppe Madonia, accusati dell’omicidio del capitano Basile. Costoro sorprendentemente erano stati assolti in primo grado, ma la corte presieduta da Saetta li condannò alla massima pena, a dispetto dei tentativi di condizionamento che vennero compiuti verso i giudici popolari, e, forse, anche su quelli togati.

Il duplice omicidio: padre e figlio

Saetta a quel punto rientrava nella ristretta rosa di coloro ai quali poteva spettare il ruolo di presidente per la corte d’appello del futuro maxi processo a Cosa Nostra. Nonostante ciò e nonostante i processi che aveva seguito, che certamente non lo avevano reso gradito alle cosche, però, Saetta non aveva la scorta.

Pochi giorni dopo il deposito della motivazione di quella sentenza di condanna, la sera di domenica 25 settembre 1988, dopo avere assistito, a Canicattì, al battesimo di un nipotino, tornava con suo figlio Stefano di 36 anni, a Palermo, e percorreva a bordo della sua Lancia Thema la strada Agrigento – Caltanissetta. Era quasi mezzanotte quando il giudice sessantaseienne e suo figlio furono attaccati dai killer. Che gli spararono addosso 47 colpi di mitra.

Qualcuno ascoltò la telefonata del giudice al figlio Roberto

Roberto Saetta dichiarò:

«Mio padre mi aveva chiamato domenica sera verso le nove. Mi aveva detto di essere indeciso. Forse voleva restare a Canicattì per quella notte. Un’ora dopo mi richiamò per annunciarmi il cambiamento di programma. Solo chi ascoltò quella telefonata era in condizione di mettere a segno un piano criminale tanto perfetto. Ormai sono quasi sicuro: avevamo il telefono sotto controllo».

L’inchiesta, pur essendo subito chiara agli inquirenti la matrice mafiosa, in un primo tempo, fu archiviata a carico di ignoti. Ma nel 1995, grazie alla legge sui collaboratori di giustizia, si acquisirono nuovi elementi, forniti proprio da alcuni “pentiti”, sicché Antonino Di Matteo e Gilberto Ganassi poterono riaprireil procedimento.

Le condanne di mandanti ed esecutori.

Sono stati condannati con sentenza definitiva Totò Riina e Francesco Madonia, capi della mafia palermitana, come mandanti, e Pietro Ribisi, di una famiglia di Palma Montechiaro, come esecutore. Quindi, l’esecuzione materiale dell’omicidio, fu acclarata, era stata affidata alla mafia dell’agrigentino per ragioni di “efficacia e sicurezza operative” e per consolidare la sua collaborazione con la mafia palermitana e quella agrigentina.

Inoltre, sottolinea Roberto Saetta, per «dare un segnale di compattezza, e di risolutezza, tanto più necessario per il significato dirompente di quell’evento: per la prima volta si uccideva un magistrato “giudicante”, un organo che, per definizione, non è antagonista rispetto al reo, come lo è invece un magistrato inquirente, ma si colloca in una posizione super partes, di terzietà e di garanzia, tra l’accusa e la difesa, e pronunzia il suo verdetto, in nome del Popolo Italiano, sulla base degli elementi processuali forniti dall’una e dall’altra. Con l’uccisione di Antonino Saetta si compiva un tragico salto di qualità: chiunque amministrava giustizia, ledendo interessi mafiosi adesso avrebbe potuto sentirsi in pericolo di vita»[1].

Le parole del figlio Roberto sulle conseguenze dell’omicidio e su suo fratello

Aggiunge ancora, Roberto Saetta, che «l’effetto intimidatorio che ne scaturì negli anni successivi – effetto assolutamente voluto – fu esteso e ben evidente, come espressamente è stato scritto nella relazione finale della commissione parlamentare antimafia, presieduta dal sen. Violante, e si concretizzò in una lunga sequela di ingiustificabili assoluzioni. La gravita di quell’omicidio fu per la verità, sin dall’inizio, chiara agli operatori giuridici e alle autorità istituzionali: ai funerali di Antonino e Stefano Saetta, a Canicattì, volle partecipare, accanto al Capo dello Stato, a Ministri, a Segretari di partito, anche l’intero Consiglio Superiore della Magistratura, fatto questo che mai si era verifìcato prima, in casi analoghi, né mai si verifìcò dopo, neppure dopo le stragi del 1992. 

Ancora più sconosciuta è la figura del figlio Stefano, morto con lui, all’età di 35 anni. Talmente sconosciuta che, in quel mediocre film intitolato “II Giudice Ragazzino”, film che non è piaciuto neanche ai genitori di Rosario Livatino, Stefano viene incomprensibilmente rappresentato come un disabile allo stato vegetativo sulla sedia a rotelle, quando invece era un giovane fisicamente sano, e addirittura sportivo: era un ottimo nuotatore, faceva spesso lunghe camminate, e talvolta giocava pure a calcio.

Aveva avuto dei disturbi psichici, dai quali però era sostanzialmente guarito già diversi anni prima della morte.

La conoscenza della vicenda di Antonino e Stefano Saetta è indispensabile per chiunque voglia realmente comprendere cosa sia stata la lotta alla mafia negli ultimi venti anni, e quale sia stato il livello dello scontro».

Un’amara constatazione

Sul Fatto quotidiano del 24 settembre 2018 si fa notare che nel teatro di Canicattì, dove, per ricordare Antonino Saetta e Rosario Livatino, il 22 settembre, è venuto il Procuratore Nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, c’erano al massimo una quarantina di persone.

“È preoccupante l’assenza dei cittadini a un incontro come quello di oggi pomeriggio in cui si parla di legalità, giustizia e lotta alla mafia in un territorio in cui sono stati uccisi due magistrati di Canicattì ed è forte la presenza della mafia e della criminalità. Per questo su Canicattì ci sarà un’attenzione particolare del mio ufficio”, sono le parole di De Raho riportate dal Fatto quotidiano.

 

Alberto Quattrocolo

 

Fonti

Giampaolo Pansa, Due delitti annunciati, 27 settembre 1988, la Repubblica (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1988/09/27/due-delitti-annunciati.html)

Saverio Lodato (2006), Trent’anni di mafia, RCS Libri, Milano

Relazione di minoranza della Commissione Parlamentare Antimafia VI LEGISLATURA (PDF): http://archiviopiolatorre.camera.it/img-repo/DOCUMENTAZIONE/Antimafia/03_rel.pdf

www.associazionemagistrati.it/doc/423/in-ricordo-di-cesare-terranova.htm

http://mafie.blogautore.repubblica.it/2018/05/15/la-storia-di-una-lunga-battaglia/

www.cadutipoliziadistato.it/caduti/mancuso-lenin/

www.cosavostra.it

www.memoria.san.beniculturali.it/

www.narcomafie.it

www.solfano.it/canicatti/antoninosaetta.html

https://it.wikipedia.org/

www.ilfattoquotidiano.it/2018/09/24/mafia-per-ricordare-i-giudici-livatino-e-saetta-arriva-il-procuratore-de-raho-ma-canicatti-diserta-lincontro/4644580/

[1] Antonino Saetta magistrato scomodo nemico dichiarato dei centri di potere http://www.solfano.it/canicatti/antoninosaetta.html

Il 24 settembre 1961 si svolge la prima Marcia per la pace Perugia-Assisi

L’idea di convocare una marcia per la pace illuminò per primo Aldo Capitini, soprannominato il Gandhi italiano. All’epoca rivestiva il ruolo di docente universitario di pedagogia tra Cagliari e Perugia, ma in passato era stato un convinto antifascista e, per questo, incarcerato più volte. Non aveva, tuttavia, partecipato al Comitato di Liberazione Nazionale, né all’Assemblea Costituente della Repubblica, poiché:

[…] il rinnovamento è più che politico, e la crisi odierna è anche crisi dell’assolutizzazione della politica e dell’economia.

Terminata la guerra, mantenne ed ampliò la sua attività extra politica, fondando i Centri di Orientamento Sociale, che intendevano esprimere la democrazia diretta e il decentramento del potere, e i Centri di Orientamento Religioso, volti a favorire la conoscenza delle diverse religioni per innescare uno spirito più critico nei fedeli. Parole chiave condivise dalle due neo-realtà erano accoglienza e nonviolenza.

Capitini, informato dell’impresa anglosassone di Bertrand Russell, che aveva guidato nel ’58 una marcia antinucleare, il 24 settembre 1961 riuscì a dar vita alla prima Marcia della Pace e della Fraternità. Tra le 20.000 e le 30.000 persone si ritrovarono presso i Giardini del Frontone di Perugia e mossero alla volta della città natale del “Santo italiano della nonviolenza”. Un numero di partecipanti inaspettato, che lo stesso Capitini ebbe il piacere di guidare insieme a Italo Calvino e Giovanni Arpino.

In quel particolare periodo storico chiamato Guerra Fredda, caratterizzato dalla corsa al riarmo e dalla costruzione del muro,  si sentì sempre più pressante, infatti, la necessità di dare un segnale chiaro:

La pace è troppo importante perché possa essere lasciata nelle mani dei soli governanti.

Il superamento dell’imperialismo, del razzismo e dello sfruttamento; rafforzamento delle Nazioni Unite, disarmo totale, cessazione degli esperimenti nucleari, conversione della politica estera, culturale ed economica, vita democratica dal basso, informazione periodica e popolare, alleanza di tutte le forze pacifiste per un’azione unitaria: questi gli alti obiettivi che ci si prefiggeva.

Fu anche il debutto della Bandiera della Pace, che per la prima volta venne esposta alla testa della Marcia, come simbolo dell’opposizione nonviolenta a tutte le guerre. Al termine, Capitini scrisse:

C’è stato chi ha detto che la Marcia Perugia-Assisi era così bella che è irripetibile. Ma come non correre il rischio di farne di meno belle se esse devono adempiere ad un compito così importante?

L’evento fu riorganizzato solo nel ’78; da lì in poi, però, diventò una ricorrenza non fissa, ma certa: ogni 2/3 anni Perugia e Assisi sono collegate da una fiumana di persone che sfilano sotto un’unica parola: Pace.

Aver mostrato che il pacifismo, che la nonviolenza, non sono inerte e passiva accettazione dei mali esistenti, ma sono attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle solidarietà che suscita e nelle non collaborazioni, nelle proteste, nelle denunce aperte, è un grande risultato della Marcia.
Aldo Capitini, Opposizione e liberazione.

Alessio Gaggero

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Il 23 settembre 1981 è istituita la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2

Forse, se Sindona non avesse inscenato il proprio rapimento, la celebre lista non sarebbe mai stata trovata. O forse sì. Fatto sta, che i giudici istruttori Colombo e Turone ordinarono la perquisizione delle proprietà di Gelli nell’aretino proprio nell’ambito dell’inchiesta sulla scomparsa del banchiere siciliano. La Guardia di Finanza rinvenne, negli archivi della fabbrica Gioele, l’elenco di quasi mille affiliati alla Loggia Propaganda 2 (P2) e, in un certo senso, anche lo stesso Sindona: il suo nome figurava in quello stesso elenco. Era il 17 marzo 1981, ma, considerata la delicatezza della situazione, che vedeva coinvolti nomi molto esposti, Forlani, allora Presidente del Consiglio, rese pubblica la lista solo il 21 maggio seguente.

44 parlamentari, 2 ministri dell’allora governo, un segretario di partito, 12 generali dei Carabinieri, 5 generali della Guardia di Finanza, 22 generali dell’esercito italiano, 4 dell’aeronautica militare, 8 ammiragli, magistrati e funzionari pubblici, direttori e funzionari dei servizi segreti, giornalisti e imprenditori. La P2 attraversava il paese per tutta la sua lunghezza.

La scoperta non può essere considerata alla stregua di uno dei tanti scandali che hanno punteggiato la vita politica italiana. Il caso è ben diverso.

Così scrissero i parlamentari proponenti la Commissione, il 2 giugno 1981. La proposta di legge di quel giorno fu approvata e trasformata in legge effettiva dopo quasi quattro mesi, il 23 settembre, appunto, identificando così gli obiettivi della Commissione stessa:

Accertare l’origine, la natura, l’organizzazione e la consistenza dell’associazione massonica denominata Loggia P2, le finalità perseguite, le attività svolte, i mezzi impiegati per lo svolgimento di dette attività e per la penetrazione negli apparati pubblici e in quelli di interesse pubblico, gli eventuali collegamenti interni ed internazionali, le influenze tentate o esercitate sullo svolgimento di funzioni pubbliche, di interesse pubblico e di attività comunque rilevanti per l’interesse della collettività, nonché le eventuali deviazioni dall’esercizio delle competenze istituzionali di organi dello Stato, di enti pubblici e di enti sottoposti al controllo dello Stato.

È qui che entra in gioco Tina Anselmi. Partigiana, insegnante, sindacalista, parlamentare della Democrazia Cristiana e prima donna a ricoprire l’incarico di ministro nella storia repubblicana, che dal quel 23 settembre fu anche presidente del gruppo di 40 parlamentari che, grazie all’opera di agenti e ufficiali di polizia giudiziaria a loro disposizione, doveva far emergere la verità sulla Loggia. Posizione a dir poco scomoda, considerato il livello di infiltrazione che l’organizzazione di Licio Gelli vantava in tutti gli ambienti del potere. Difatti, fu oggetto di numerosi veti, interdizioni politiche, delegittimazioni e financo minacce inquietanti: tre chili di tritolo fuori dall’uscio della propria dimora furono un segnale inequivocabile. Nondimeno, il “pubblico ministero del popolo” condusse la propria opera sino a conclusione e oltre, considerato che il 12 luglio 1984, giorno della comunicazione alle Presidenze delle Camere, si colloca ben al di là degli iniziali 6 mesi di lavori prospettati dalla legge istitutiva.

Diversi gli aspetti messi in luce da tanti mesi di lavoro, al termine dei quali la Commissione:

  • “Giudicò la lista attendibile ma presumibilmente incompleta.
  • Giudicò la Loggia «responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici, quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale» della strage dell’Italicus.
  • Giudicò la Loggia «un complotto permanente che si plasma in funzione dell’evoluzione della situazione politica ufficiale».
  • Sottolineò l’«uso privato della funzione pubblica da parte di alcuni apparati dello stato» legati alla Loggia.
  • Sottolineò la divisione funzionale della Loggia e quindi che, benché tutti gli affiliati fossero consapevoli del fine surrettizio della Loggia, fosse necessario individuare il settore di appartenenza dei singoli affiliati per risalire alle responsabilità personali.
  • Sottolineò che la presenza di alcuni imprenditori si poteva spiegare con i benefici economici che il legame con alti dirigenti di imprese pubbliche e banche poteva potenzialmente portare loro, per esempio sotto forma di credito concesso in misura superiore a quanto consentito dalle caratteristiche dell’impresa da finanziare.
  • Sottolineò come ci fossero «poche ma inequivocabili prove documentali» che provavano l’esistenza della Loggia di Montecarlo (ora Massonic Executive Committee) e della più elitaria P1, considerandole entrambe creazioni di Licio Gelli.”

Dalle ore 15:00 del 5 maggio 2014 furono resi pienamente e facilmente consultabili tutti gli atti emessi dalla Commissione: il sito fontitaliarepubblicana.it evitava la fatica di recarsi alla Camera per accedervi. L’imperfetto è d’obbligo, dal momento che, ad oggi, il portale non è accessibile.

Alessio Gaggero

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La mediazione familiare non fa il processo ai genitori in conflitto

Senza tanti giri di parole, è opportuno rammentare che la mediazione familiare nasce come forma di “supporto” ai genitori, anche, se non in primo luogo, per aiutarli a tutelare i loro figli dagli effetti del loro conflitto.

La conflittualità, specie quando è esasperata, può prendere la mano ai genitori e diventare una fonte di forte sofferenza per il figlio. Ad esempio, nelle situazioni in cui i genitori non riescono a fargli sentire che le incomprensioni e i conflitti che riguardano il loro rapporto di coppia sono “un problema loro”.

Il bambino nelle situazioni conflittuali più esacerbate arriva a sentirsi non soltanto smarrito e solo, ma, a volte, anche lacerato da, anche inconsapevoli, richieste di alleanza. Richieste che dentro di lui sono incompatibili con la sua rappresentazione di mamma e papà e del suo sentimento di lealtà verso ciascuno dei due. Coinvolto dentro un conflitto che non è il suo, spesso finisce per sentirsene responsabile. E, se uno dei due genitori se ne va di casa, può temere che anche l’altro genitore lo abbandoni. D’altra parte, la rottura stessa delle routine domestiche può costituire un fattore destabilizzante.

La mediazione familiare – che, è bene precisarlo, non può essere proposta nelle situazioni di violenza [1] – sorge per tentare di contenere e regolare queste situazioni, adottando una tipologia di intervento che, in alternativa al processo di delega delle decisioni sulle questioni controverse (affettive, economiche…) ad un soggetto terzo, in nome del principio di autodeterminazione, ne ri-attribuisce la competenza e la responsabilità ai diretti interessati. Sia chiaro, però che la mediazione familiare non dovrebbe mettere sul banco degli imputati i genitori per il dolore che il loro conflitto genera nel bambino: in fondo, la ragion d’essere della mediazione non è soltanto quella di ridurre il numero delle vittime di un conflitto e i danni da esse patiti, ma è anche quella di porsi accanto a degli adulti che vivono un’esperienza conflittuale – generalmente dolorosa, complessa e tormentata -, in termini di accompagnamento e aiuto, con approccio a-valutativo.

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La duplice premessa della mediazione (non soltanto di quella familiare), infatti, è che il conflitto è un fatto naturale, di per sé né positivo né negativo, e che il mediatore non è un giudice.

Pertanto, il mediatore non dovrebbe relazionarsi con i coniugi come un giudice del loro conflitto, né come un soggetto investito della funzione di combattere questo loro conflitto.

Del resto, se ciò accadesse, verosimilmente la mediazione produrrebbe un ulteriore conflitto: quello tra il mediatore e i suoi clienti/utenti.

Alberto Quattrocolo

Tratto dall’intervento di A. Quattrocolo nell’Open Day della XVI edizione dei Corsi di Mediazione Familiare e di Mediazione Penale, Sanitaria e Lavorativa

[1] Naturalmente ciò pone non pochi problemi in capo al mediatore. Infatti, certamente non sta a lui indagare formalmente né certificare la presenza della violenza, ma egli dovrebbe svolgere la sua attività in modo tale da ridurre al minimo il rischio che, ove tale situazione vi sia, egli ne resti del tutto ignaro e che, perciò, il suo operato si riveli accrescitivo delle dinamiche (anche, ma non solo, relazionali) che permettono l’esercizio della violenza, nelle sue varie forme, tra le mura domestiche. Qui ci si limita ad accennare che è anche in considerazione di tale aspetto che Me.Dia.Re. prevede che il percorso di mediazione inizi con dei colloqui separati con i membri della coppia, che vi sia, nell’ambito di tali colloqui, una riflessione attenta con le singole parti sulla loro volontà di incontrarsi successivamente al tavolo della mediazione e che vi siano ulteriori colloqui individuali tra un incontro di mediazione e l’altro.