Quando il contingente italiano partecipò al corpo di spedizione in Cina e si diede a violenze e razzie

Un evento da piè di pagina dei libri di storia ma che la dice lunga sul colonialismo di ieri e di oggi.

Il 14 agosto del 1900 il “corpo di liberazione” giapponese, americano, tedesco, francese, russo, inglese e italiano, con un attacco preceduto dal fuoco dei cannoni, liberò il quartiere delle legazioni di Pechino, da 55 giorni posto sotto assedio dai rivoltosi boxer (con l’appoggio di alcuni reparti dell’esercito imperiale e il tacito assenso dell’imperatrice Tsu-hsi).

I boxer (chiamati così dagli occidentali, poiché il loro nome in cinese, yiehetuan, significava “i pugni della giustizia e della concordia”) erano carrettieri, braccianti, artigiani, ex soldati, che guardavano con orrore agli insediamenti stranieri, che con le loro novità tecniche e industriali (navi a vapore sulle vie fluviali, fabbriche tessili, telegrafi e ferrovie) toglievano loro lavoro, gettandoli nella miseria, e ai missionari cattolici e protestanti (stranieri, anch’essi, ovviamente), che intendevano modificarne valori e costumi[1].

In Cina la dinastia manciù era in piena decadenza e molte potenze straniere tentavano di strappare, e per lo più ci riuscivano, concessioni territoriali, appalti, zone di influenza. In breve, la Cina stava per fare la stessa fine dell’Africa, visto che a fine ‘800 vi erano già 62 insediamenti stranieri.

La rivolta dei boxer del giugno del 1900 offrì un formidabile alibi ai governi europei, russi, americani e giapponesi per lanciarsi alla spartizione del bottino cinese.

Così alla fine di luglio del 1900, partivano dai rispettivi porti, contingenti militari russi, americani, giapponesi, tedeschi, austriaci, francesi e italiani: 20.000 in tutto. Costituivano un unico corpo di spedizione, diretto a Pechino dove dall’inizio di giugno 473 stranieri, protetti da 451 militari erano assediati da migliaia di boxer.

Si tratta di un evento da nota a piè di pagina nei libri di storia. Però, significativo ancora oggi. E illustrativo di come negli ultimi 119 anni assai poco siano cambiati i modi per mascherare il colonialismo e la rapacità e il razzismo latente che lo sottendono[2].

Anche allora il risvolto di dominazione e rapina colonialista era ben noto

Partirono, quindi, anche dei soldati italiani, per decisione del governo presieduto dal conservatore Giuseppe Saracco.

Che si trattasse di una scelta colonialista e che in Cina fosse in atto da tempo un tentativo di dominazione diretta e indiretta delle potenze straniere era un fatto noto a tutti, o almeno a tutti coloro che volevano vedere e sapere.

Il deputato repubblicano Napoleone Colayanni, ad esempio, si era rivolto al Governo con queste parole:

«Che direste voi se domani uno straniero esclamasse: “Mi piace il porto di Messina” e se lo prendesse? E poi facesse altrettanto con Napoli? Gli europei hanno operato così in Cina!»

 

Con la scusa di andare proteggere il sacro diritto delle genti e dell’umanità calpestata…

Proprio da Napoli si imbarca il contingente italiano il 19 luglio: Re Umberto I, dieci giorni prima di essere assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci, lo saluta affermando che quei 1882 soldati e 83 ufficiali italiani sono inviati a difendere «il sacro diritto delle genti e dell’umanità calpestata», tenendo «alto il prestigio dell’esercito italiano e l’onore del nostro Paese»[3].

L’inviato del Corriere della Sera Luigi Barzini raccontava subito come veniva tenuto alto l’onore degli eserciti e dei Paesi della spedizione: Tianjin, la più importante metropoli del Nord della Cina, era stata rasa al suolo dai cannoni e le acque del suo fiume, Pei-ho, rese putride dai cadaveri di boxer e civili. Vi sono poi rappresaglie ai danni di città di più piccole dimensioni, la cui popolazione vede le proprie case incendiate con sistematicità, dopo essere stata razziata di ogni avere dai militari del contingente internazionale, che hanno anche distribuito generose dosi di violenze gratuite e proceduto a liquidazioni sommarie.

Carneficine, violenze e saccheggi indiscriminati del contingente internazionale dietro la retorica e gli slogan sulla difesa della civiltà.

È subito dopo la liberazione degli assediati a Pechino, però, che il corpo di spedizione dà il peggio di sé. Vengono realizzati una carneficina e un saccheggio di tali proporzioni da far sbiadire il ricordo delle violenze commesse dai boxer. Migliaia di uomini sono trucidati, le donne stuprate, famiglie intere si suicidano per non sopravvivere al disonore[4].

Il generale Chafffee riferiva ai giornalisti che dopo la liberazione del quartiere delle legazioni, «per ogni boxer che è stato ucciso sono stati trucidati 15 innocenti portatori o braccianti, compresi non poche donne e bambini».

L’intramontabile, profondamente falso, mito autoassolutorio degli “italiani brava gente”

Come sempre i commentatori italiani, incluso l’inviato del Corriere tentavano di esaltare il carattere mite, pacifico, buono dell’italiano in divisa. In realtà, i soldati italiani si erano lasciati andare a rapine e decapitazioni sommarie esattamente come i soldati tedeschi, francesi, austriaci, ecc.

«La sola differenza con i soldati degli altri contingenti era che questi ultimi non avevano il problema di apparire “brava gente”», ha affermato lo storico Angelo Del Boca in “Italiani, brava gente?” (Neri Pozza Editore, 2005), testo cui si è ampiamente attinto per scrivere questo post e altri, sempre su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nei quali si ricordano le nefandezze e gli orrori commessi nelle imprese coloniali italiane.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Il tenente colonello Salsa del contingente italiano scriveva alla madre che la principale causa della rivolta era costituita dall’intolleranza e dagli intrighi dei missionari, intenti a perseguire fini politici e terreni anziché religiosi.

[2] Il fatto, invero, sarebbe finito presto nel dimenticatoio per la stragrande maggioranza delle persone – mescolato e soverchiato nel ricordo dagli eventi della Prima Guerra Mondiale, che quattordici anni dopo avrebbero cambiato per sempre la faccia del mondo e la vita di milioni di persone – se a ripescarlo dall’oblio non avesse provveduto un romanzo di buon successo e un kolossal cinematografico, da quello tratto, di ottima resa commerciale: 55 giorni a Pechino (1963, di Nicholas Ray). Il film, girato in Spagna e prodotto dal statunitense Samuel Bronston, era di quelli che gli spettatori torinesi dell’epoca chiamavano “filmoni”, vale a dire: sceneggiature tratte da best sellers o classici della letteratura, spettacolarità magniloquente, scene di battaglia con un’immensità di comparse, scenografie sontuose, intrecci complessi, superstar nei ruoli principali (qui Charlton Heston, Ava Gardner e David Niven) e attori eccellenti, veterani di Hollywood o del cinema inglese, nei ruoli di contorno (Flora Robson, Paul Lukas, e Leo Genn), insieme ad attori già saldamente piantati in ruoli importanti nel cinema americano a basso budget o nelle produzioni europee (John Ireland e Jacques Sernas, in questo caso, ad esempio) ed emergenti nelle cinematografie nazionali (tra gli italiani, oltre a Massimo Serato figura tra i volti noti anche un giovane Philippe Leroy, che i telespettatori italiani  degli anni ’70 ameranno nel ruolo dell’astuto e sornione Yanez, inseparabile sodale di Sandokan). A dirigere il tutto talora era posto un regista di solido mestiere altre volte un autore. 55 giorni a Pechino rientra nella seconda casistica: il regista era Nicholas Ray, autore di molte opere di “rottura”, divenute cult e, talora, assai redditizie sul mercato cinematografico, come Gioventù bruciata, Johnny Guitar, Il paradiso dei barbari, Dietro lo specchio, Neve rossa e diversi altri titoli dalla forte impronta personale, pur inseriti in generi precisi e consolidati: noir, western, bellico…

[3] Il suo successore, Vittorio Emanuele III, in una lettera del 9 settembre di quell’anno indirizzata al generale Osio, scriverà il suo disaccordo sulla spedizione cinese, concludendo che in Cina «non si deve creare una Seconda Africa».

[4] M. Bastide, M. C. Bergère e J. Chesneaux, La Cina, Vol. II, Einaudi, 1974, p. 118

Iniziano i lavori di costruzione del muro di Berlino. È il 13 agosto 1961

La cortina di ferro che si materializza. Potremmo descrivere così quel tristemente noto muro che costò la vita ad almeno 133 persone tra il 1961 e l’89. Una demarcazione netta tra due visioni, due politiche, due mondi. Occidente e oriente, se vogliamo essere approssimativi. Comunismo e capitalismo. USA e URSS. E non solo, ovviamente.

Finita la seconda guerra mondiale la città di Berlino si trovava nel cuore di quella parte della Germania che era stata occupata dalle forze armate dell’Unione Sovietica. Erano stati i russi, infatti, che, dopo aver ricacciato fuori dai confini sovietici le armate di Hitler e di Mussolini che l’avevano invasa, a partire dall’Operazione Barbarossa, avviata il 22 giugno 1941 (l’abbiamo ricordata su questa rubrica, nel post L’abominevole Operazione Barbarossa), avevano incalzato le truppe tedesche fino a Berlino, arrivandoci prima delle forze anglo-francesi. Queste, sbarcate sulle coste italiane nell’estate del 1943, tra il 9 e il 10 luglio in Sicilia (si veda questo post ) e due mesi dopo aSalerno (l’abbiamo rievocato in questo post), erano state fermate dai nazi-fascisti lungo la cosiddetta Linea Gotica. Ma un anno dopo, il 6 giugno del 1944, avevano compiuto il determinante sbarco in Normandia (vi abbiamo dedicato il post Gli amici del 6 giugno). Dalle spiagge della Francia settentrionale, gli angolo-americani avevano preceduto alla liberazione dell’Europa Occidentale, che da cinque anni le truppe naziste avevano occupato. Ma l’avanzata verso la Germania era stata ostacolata dal fallimento di alcune operazioni – a partire dal disastro sanguinoso dell’Operazione Market Garden (si veda il post Il 17 settembre 1944 scatta la fallimentare operazione Market Garden) – e dal contrattacco tedesco alla fine del ’44 nelle Ardenne. Americani ed inglesi quindi, giunsero a Berlinoquando le armate di Stalin avevano appena vinto la battaglia di Berlino.

Conclusa la Seconda Guerra MondialeBerlino era divisa in quattro settori, ciascuno dei quali amministrato da Stati UnitiGran Bretagna, Francia e Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Il progetto iniziale di un’amministrazione congiunta tra queste quattro potenze fu, però, sgretolato dal passaggio della comune guerra contro il nazifascismo alla guerra tra l’Ovest capitalista e l’Est comunista, la cosiddetta Guerra Fredda. Per la prima volta il 24 giugno del 1948 la possibilità che si arrivasse ad un confronto militare tra USA e URSS era parsa orribilmente concreta (l’abbiamo ricordato nel post Il blocco di Berlino). Poi, la situazione si era stabilizzata in una condizione di tensione costantemente elevata.

I confini servono, come tanti strumenti umani, a facilitarci l’esistenza. Se sappiamo dove finisce lo spazio dell’uno e inizia quello dell’altro, e rispettiamo le volontà reciproche, il rischio di farsi male è minimo e non vi è bisogno di elevare barriere protettive. I muri si innalzano quando si ha paura: paura di perdere qualcosa, ad esempio. La DDR, e l’URSS più in generale, temeva forse di perdere la battaglia ideologica col nemico americano, che appariva così sfavillante agli occhi di chi viveva nella povertà della Germania Est. Così pensò di tenere legati a sé uomini e donne, un tempo liberi, che forse avrebbero preferito fuggire.

Certo, avevano ancora la libertà di affrontare i fucili dei soldati posti a guardia della striscia della morte: il muro, infatti, non rimase per sempre un semplice muro, ma diventò una voragine pronta ad inghiottire i più temerari, o i più disperati. La notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 furono posati i primi metri di filo spinato, ma già dopo un paio di giorni arrivarono le forme di cemento, e Berlino Ovest diventò anche fisicamente un’enclave sovietica: tutt’intorno, il territorio apparteneva alla Repubblica Democratica Tedesca, così come la parte orientale di Berlino; il resto della città era formalmente diviso tra Americani, Inglesi e Francesi, i quali conservavano la possibilità di scambi di uomini, merci e informazioni con i rispettivi territori di influenza lontani dalla capitale.

Dunque, il muro divideva, o meglio, isolava: 155 km di cemento giravano intorno a quell’atollo di occidente, terra emersa nel mare orientale. La striscia della morte si costituì, però, un anno più tardi, quando fu eretto un ulteriore muro, per rendere la fuga pressoché impossibile. Naturalmente, numerose case furono rase al suolo per far posto a quell’opera di capitale importanza, e i rispettivi abitanti si dovettero trasferire. Il perfezionamento di quel carcere a cielo aperto proseguì per molti anni, come a scandire il progressivo allontanamento dei due blocchi. Parlando di generazioni, siamo dunque giunti alla terza, che vide la luce nel 1965 e si caratterizzò per quel tubo posto in cima alle lastre di cemento, su cui i Berlinesi riuscirono a sedersi solo nel 1989. La quarta generazione preso avvio dieci anni dopo la precedente, e a quel punto la striscia della morte giustificava in pieno il proprio nome: recinzioni, fossati anticarro, cecchini appostati sulle torri di guardia, bunker e un camminamento illuminato tutt’intorno. Era davvero fondamentale non permettere ulteriori defezioni dall’idea di mondo che motivava i Russi e i loro alleati.

Un evento, inizialmente politico e militare, che ebbe enormi ricadute sulla società, berlinese e globale, non può non essere stato affrontato da letteratura, filmografia e da tutti gli strumenti a disposizione della società civile. Di questa profusione di contributi, fa piacere ricordarne due, forse non particolarmente rappresentativi, ma che danno conto delle emozioni e dei sentimenti che il muro indusse allora nelle persone che l’hanno, a vario titolo, affrontato: Il ponte delle spie, film girato nel 2015 da Steven Spielberg e interpretato da Tom Hanks; I giorni dell’eternità, romanzo di chiusura della Trilogia del Secolo di Ken Follett.

Alessio Gaggero

 

12/08/1944: l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema

Non si trattò di una rappresaglia: l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, il secondo per numero di vittime nel corso della cruenta ritirata tedesca, fu pianificato al fine di terrorizzare la popolazione civile, coerentemente alla direttiva emanata nel giugno 1944 da Albert Kesselring, capo supremo dell’esercito germanico in Italia.

L’eccidio si compì in poche ore, dove non arrivarono i fucili mitragliatori provvide il fuoco. Non tutte le vittime poterono essere identificate, né fu possibile precisarne con sicurezza il numero: 560 quelle certe, tra cui 130 minori di quattordici anni, donne e anziani.

La motivazione ufficiale dell’azione tedesca fu che gli abitanti di Sant’Anna non avevano obbedito all’ordine di sgombero emanato dal Comando Germanico. Una direttiva emanata da Hitler il 2 giugno 1944 imponeva infatti che per una profondità di 10 chilometri, al di qua e al di là della linea gotica, il territorio fosse sgombro da ogni insediamento civile. I tedeschi, impegnati nella costruzione della linea difensiva che dal mar Tirreno, lungo l’Appennino, doveva arrivare all’Adriatico, rastrellavano gli uomini per impiegarli nelle opere di fortificazione.

Dalla fine del 1943 fino all’estate successiva, il piccolo paese di Sant’Anna, situato con le borgate limitrofe a mezza montagna e raggiungibile solo per mulattiera, aveva visto quadruplicare la propria popolazione per l’arrivo degli sfollati, in fuga dall’avanzamento del fronte bellico e dai bombardamenti anglo-americani che colpivano la costa e le città.

Nell’estate del ’44 la Wehrmacht aveva fermato lungo la linea dell’Arno l’avanzata alleata e le brigate partigiane operavano sabotaggi e attentati a danno dei tedeschi, i quali reagivano con pesantissime rappresaglie a danno della popolazione civile. Ne abbiamo parlato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, anche nel post 244 vittime nell’eccidio nazifascista di Civitella, Cornia e San Pancrazio.

Il 26 luglio il Comando Germanico affisse un manifesto sulla piazza della chiesa di Sant’Anna, ordinando a tutti gli abitanti di lasciare le abitazioni e trasferirsi altrove. Tuttavia da parte tedesca non ci fu un seguito di azioni coordinate di sgombero e le relative direttive caddero nel vuoto; per questo motivo, secondo la ricostruzione degli storici, il mancato ottemperamento, sebbene caldeggiato dalle brigate partigiane presenti in zona, non può essere considerato come uno dei motivi della strage.

All’alba del 12 agosto, tre reparti di SS, accompagnati da fascisti collaborazionisti in funzione di guide della zona, salirono a Sant’Anna, mentre un quarto reparto si attestò più a valle, per chiudere qualsiasi via di fuga.

Alle sette il paese era completamente circondato; la popolazione, pensando a un’operazione di rastrellamento, si divise: gli uomini scapparono nei boschi per evitare la deportazione, mentre vecchi, donne e bambini cercarono rifugio nelle proprie case.

Nel racconto dei pochi sopravvissuti, i nazisti inizialmente radunarono circa centocinquanta persone nel piazzale antistante la chiesa e aprirono il fuoco, per poi dare alle fiamme il cumulo dei corpi, tra cui vi erano ancora dei vivi. Altre SS rastrellarono i presenti casa per casa e attuarono meticolosamente l’eccidio, con armi da fuoco e bombe a mano, appiccando incendi, mitragliando chiunque tentasse di fuggire verso il bosco. A mezzogiorno tutte le piccole case di Sant’Anna bruciavano.

Le indagini sul massacro di Sant’Anna di Stazzema furono avviate subito, inizialmente condotte da inglesi e americani, ma una verità giudiziaria definitiva si fece attendere per più di cinquant’anni. Nel 1960, infatti, fu disposta l’archiviazione di circa 695 fascicoli riguardanti gli eccidi nazifascisti che in Italia avevano provocato più di quindicimila vittime. Nel 1994, durante il processo a Eric Priebke, nascosti in uno scantinato della procura militare in quello che verrà chiamato “l’armadio della vergogna”, furono rinvenuti i documenti archiviati, tra cui quelli relativi a Sant’Anna di Stazzema.

Cominciò quindi, per iniziativa soprattutto dell’allora procuratore militare di La Spezia Marco De Paolis, un lavoro di ricerca che portò nel 2004 al processo contro i responsabili ancora viventi dell’eccidio: la sentenza del Tribunale Militare di La Spezia, confermata in Appello e Cassazione, condannò all’ergastolo dieci ufficiali e sottufficiali che avevano partecipato all’azione, ma non poté mai essere applicata. Nel 2012 la procura di Stoccarda archiviò infatti l’inchiesta, dopo aver rifiutato l’estradizione delle ex SS, in base alla motivazione che non potesse essere dimostrata la partecipazione materiale dei singoli agli omicidi e che non era chiaro se l’attacco contro i civili fosse stato deciso in risposta alle azioni partigiane nella zona.

Se non per via giudiziaria, la memoria dell’eccidio, delle vittime e della lotta per la liberazione è stata preservata con il conferimento al Comune di Sant’Anna della medaglia d’oro al valor militare (1970), la creazione di un Museo Storico della Resistenza in loco e l’istituzione del Parco Nazionale della Pace (l. 381/2000), finalizzato a promuovere la collaborazione fra i popoli attraverso iniziative culturali a carattere internazionale.

Silvia Boverini

Fonti:
“Così venne premeditato l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema”, Dino Messina, www.corriere.it ;
“12 agosto 1944: l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, www.infoaut.org ;
“Eccidio di Sant’Anna di Stazzema”, www.it.wikipedia.org ;
“Sant’Anna di Stazzema. Il Processo, La Storia, I Documenti”, Paolo Pezzino e Marco de Paolis, ed. Viella 2016.

L’11 agosto 1934 apre il carcere di Alcatraz

L’undici agosto del 1934 giunse sull’isola di Alcatraz il primo gruppo di detenuti civili destinati al nuovo penitenziario di massima sicurezza, appena inaugurato.

L’Isla de los Alcatraces, dal nome degli uccelli marini che a lungo ne furono i soli abitanti, scoperta nel XVIII secolo dagli spagnoli a circa 1,5 miglia dalla Baia di San Francisco e ceduta agli Stati Uniti nel 1849, aveva ospitato il primo faro della California e in seguito una guarnigione dell’esercito; dal 1861 vi furono rinchiusi prigionieri della Guerra Civile Americana e, nel 1868, da fortezza divenne carcere militare per soldati insubordinati o disertori, ma anche per nativi indiani ribelli o civili che avevano preso parte alla rivolta dei Boxer in Cina; con modalità via via più attenuate rispetto al rigore originario (numerosi gli scambi e i contatti con gli abitanti della terraferma, che tra l’altro contribuirono alla trasformazione del carcere in un giardino fiorito, curato dagli stessi detenuti), mantenne questa funzione fino agli anni Trenta del Novecento, quando fu trasformata in penitenziario di massima sicurezza per detenuti civili particolarmente pericolosi o segnalati per ripetuti tentativi di evasione.

Noto come “The Rock” o anche “The Bastion”, costituito prevalentemente di roccia e circondato da acque gelide e correnti impetuose, l’isolotto apparve il luogo ideale per ospitare un carcere all’avanguardia sotto il profilo securitario, destinato negli anni ad acquisire la fama, a seconda dei punti di vista, di fiore all’occhiello dell’amministrazione penitenziaria statunitense o di simbolo della brutalità della repressione.

Le caratteristiche naturali e le modalità di gestione alimentarono la leggenda secondo cui “nessuno è mai riuscito a scappare da Alcatraz e nessuno ci riuscirà mai”: di fatto, i quattordici tentativi di fuga documentati si risolsero perlopiù in tragedia (uno di essi diede luogo a una vera e propria battaglia durata tre giorni) o nella sparizione degli evasi, presunti annegati per le cronache ufficiali, salvi e latitanti secondo la vox populi (la più rocambolesca di queste vicende ispirò il noto film Fuga da Alcatraz).

L’unica cosa certa è che la storia di questo carcere sconfina in un mito di cui ancora si trova traccia nell’immaginario collettivo: film, saggi e romanzi, aspri dibattiti in politica e nella società civile, persino modi di dire popolari, hanno contribuito a creare attorno al nome di Alcatraz una valenza simbolica che, a oltre cinquant’anni dalla sua chiusura definitiva, tuttora perdura.

“The Rock” spogliò Al Capone del suo potere, addomesticò “Machine Gun” Kelly e ne fece un esempio di decoro, tolse i suoi uccellini a Robert Stroud, l’Uomo di Alcatraz del film omonimo. Era l’ultima frontiera: con il suo freddo umido, l’isolamento austero, la rigida disciplina e l’imposizione del silenzio, quel carcere rappresentava la versione statunitense della “soluzione finale” per delinquenti ritenuti irrecuperabili o ingestibili. Ma era anche molto di più: Alcatraz fu concepita per essere un monito ben visibile, icona della risposta muscolare del governo statunitense all’inedita, feroce impennata della criminalità organizzata seguita al Proibizionismo, tra gli anni Venti e i primi anni Trenta del secolo scorso.

Se Al Capone era il simbolo dei fuorilegge, Alcatraz sarebbe stata il simbolo del potere punitivo della legge. In quest’allegoria della lotta tra il Bene e il Male, le due figure più rappresentative non potevano che entrare in rotta di collisione, e la presenza di Capone, come di molte altre celebrità criminali – Doc Barker, (ultimo sopravvissuto della gang omonima), George “Machine Gun” Kelly, Robert “Birdman of Alcatraz” Stroud, Floyd Hamilton (autista di Bonnie & Clyde), Alvin “Creepy” Karpis, per citarne alcuni – diede lustro alla fama del nuovo penitenziario, che fu soprannominato “l’Isola del Diavolo dello Zio Sam”.

A dirigere il nuovo corso della prigione fu chiamato James A. Johnston, di comprovata esperienza nel settore e noto per il suo approccio riformatore, incentrato sulla disciplina e sul lavoro; scelse personalmente i membri dello staff e ottenne che i detenuti fossero inviati, anziché direttamente dai tribunali al momento della condanna, dai direttori delle carceri dopo un periodo di carcerazione che ne evidenziasse le caratteristiche di irredimibilità.

Niente visite per i primi tre anni, accesso limitato alla biblioteca ma niente radio né giornali, censura sulla corrispondenza, lavoro come privilegio da guadagnarsi attraverso la buona condotta, celle singole dotate del minimo indispensabile, una routine quotidiana rigorosa, una guardia ogni tre detenuti, la regola del silenzio che si diceva avesse fatto impazzire i più scafati delinquenti, e, tutt’attorno, la natura impervia dell’isola e delle sue acque burrascose: questo il regime a cui furono sottoposti, senza eccezione alcuna, gli ospiti di Alcatraz. L’isolamento era talmente impenetrabile che anche per la stampa risultava difficile conoscere le identità, spesso celebri, dei detenuti.

Ciononostante, qualcosa riuscì a trapelare, in occasione di alcuni sanguinosi episodi di repressione di tentativi di fuga o sommosse, che avviarono un complesso dibattito all’esterno circa i metodi della gestione della sicurezza in ambito penitenziario.

Ufficialmente, la chiusura del carcere, avvenuta il 21 marzo 1963, fu decretata dall’allora Ministro – Segretario secondo la definizione USA – della Giustizia, Robert F. Kennedy (fratello del Presidente degli Stati Uniti, John F. Kennedy) a causa degli elevati costi di gestione: cibo, acqua potabile e indumenti dovevano essere trasportati dalla terraferma e il salino deteriorava velocemente le strutture, al punto che si arrivò a sostenere che sarebbe stato più economico mantenere i detenuti nel migliore albergo di New York.

L’isola, ormai disabitata, fu occupata e rivendicata da un nutrito gruppo di attivisti nativi americani, che per un breve periodo godette del supporto di buona parte dell’opinione pubblica, fin quando un incendio dai tragici esiti e il diffondersi di voci incontrollate circa presunti comportamenti illegali tenuti dagli occupanti determinarono uno sgombero da parte delle forze dell’ordine.

Oggi Alcatraz è riserva naturale, inserita nel Golden Gate National Recreation Area e aperta al pubblico dal 1973; dopo i decenni di isolamento inaccessibile, l’attuale passaggio di migliaia di visitatori ogni anno è solo l’ultima delle contraddizioni nella lunga storia di “The Rock”, che non ne scalfisce minimamente l’alone leggendario.

Silvia Boverini

Fonti:
Michael Esslinger, “Alcatraz, rigid and unusual punishment”, www.crimemagazine.com;
www.AlcatrazHistory.com

Con la legge 442 del 10/08/1981 è abrogato il delitto d’onore

Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.

Così recitava l’articolo 587 del codice penale italiano. Non era dunque esclusa totalmente la pena per chi vendicava l’onore leso della propria famiglia, ma ridotta considerevolmente. Inoltre, l’attenuante era estesa anche alle donne della famiglia che scoprivano l’adulterio di una congiunta. Sembra importante sottolineare questi aspetti, in considerazione del fatto che le cose non sono sempre state così.

Nonostante l’avvento dell’Illuminismo, infatti, ancora nel 1810 il primo codice francese prevedeva l’impunità per l’omicidio motivato dalla difesa dell’onore. Prima ancora, durante il 1500, si arrivò a una radicalizzazione della situazione, con sentenze che attribuivano addirittura un dovere al marito che veniva a conoscenza del tradimento: il dovere di uccidere moglie e amante. Di più, si considerava leso l’onore del marito, la cui moglie era semplicemente sospettata di adulterio. Ciò derivava, presumibilmente, da una regola imposta nel VI secolo da Giustiniano: l’uomo, per non incappare in una condanna per omicidio, doveva aver inviato all’amante della consorte tre diffide scritte. Norma ovviamente tanto osteggiata quanto dileggiata, ma che poneva fortemente l’accento sull’immagine pubblica del marito: questi, infatti, era indotto più al delitto che alla denuncia, rischiando di essere deriso dagli stessi giudici.

L’origine normativa più risalente si trova, tuttavia, ben prima della nascita dell’imperatore bizantino: è necessario riavvolgere sino al 620 a.C. (circa mille anni prima!), quando Atene pose un freno alla cultura della vendetta. Non era più possibile farsi giustizia autonomamente, poiché erano stati istituiti appositi tribunali. Naturalmente, a noi interessa l’eccezione a tale regola: l’omicidio dell’amante, (indifferentemente, della madre, moglie, figlia, sorella o concubina) scoperto in flagrante e in casa propria, non era punito.

Questo sintetico excursus storico sembra utile a dar conto del perché l’espunzione dell’articolo 587 sia arrivata solo all’inizio degli anni Ottanta: un radicamento tanto profondo da giungere agli albori della cultura giuridica. La foto in cima alla pagina, tuttavia, ci ricorda che questa battaglia è lungi dall’essere conclusa, anche fuori dall’Italia. In Pakistan, ad esempio, nonostante nel 2016 sia stata introdotta una legge volta a reprimere il delitto d’onore, ad oggi si contano più di 1200 omicidi di tal fatta. I cambiamenti, si sa, sono lenti. E, forse, non è necessario percorre tutti quei chilometri per rendersi conto che diritto e società non vanno di pari passo così spesso.

Alessio Gaggero

Il 9/08/1991 veniva ucciso il giudice Antonino Scopelliti. Da Cosa Nostra, dalla ‘ndrangheta o da entrambe?

La presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, nel 2018, ha voluto onorare la memoria del magistrato Scopelliti con due giorni di anticipo. Il pubblico ministero della Cassazione morì, infatti, 29 anni fa oggi. Queste le parole della seconda carica dello Stato:

[…] Antonino Scopelliti, magistrato chiave nella lotta alla mafia, uno dei più apprezzati procuratori di Cassazione, che il 9 agosto del 1991 fu assassinato in un agguato di ‘ndrangheta e al quale chiedo a quest’Assemblea di tributare il doveroso omaggio. […] A 27 anni da quel tragico giorno, siamo ancora lontani dal vedere scritta una parola definitiva di verità sull’omicidio Scopelliti. […] Grazie alla Fondazione a lui intitolata, ogni anno la memoria di Antonino Scopelliti viene rinnovata attraverso il ricordo delle sue azioni, perché quella cultura della legalità per la quale si era sempre battuto possa definitivamente attecchire tra le nuove generazioni e soprattutto tra i giovani di una terra martoriata, dove il germe della criminalità organizzata è ancora vivo, come la Calabria.

Sono tanti i misteri che feriscono il nostro paese. Quello della morte procuratore calabrese è fra questi. Forse non è uno dei più noti e proprio per questo è bene ricordarlo, per non permettere che alla memoria collettiva sfugga l’importanza di far luce su queste zone d’ombra, che offuscano la nostra vista.

Non si sa chi sia stato, né perché. Certo, di ipotesi ne sono state prodotte tante, alcune più verosimili, altre meno credibili. Quella che rimbalza più di frequente nelle fonti d’informazione disponibili vede, alla base dell’omicidio, un accordo tra due gruppi di uomini estremamente pericolosi, oggi come allora: Cosa Nostra e ‘ndrangheta.

In Calabria, la seconda guerra tra le ‘ndrine impazzava dal ’95, arrivando a mietere fino a mille morti. Pare che, per giungere finalmente a una tregua, nonché a una riorganizzazione del crimine locale, entrarono in scena i ‘colleghi’ siciliani. Fu forse lo stesso Riina a interpretare il ruolo di mediatore, facendosi, tuttavia, pagare profumatamente: Scopelliti, pubblica accusa di terzo grado del venturo maxiprocesso a Cosa Nostra, era palesemente pericoloso. Fu freddato in macchina, sulla via di casa, quasi nella sua città d’origine: Campo Calabro.

Due procedimenti e due gradi di giudizio dopo, assolti Riina, Provenzano e altri tredici boss siciliani. Nel 2017, però, comparsi tre nuovi collaboratori di giustizia, che potrebbero condurre a una svolta nelle indagini: qualcuno ha già rappresentato un quadro di stretta connessione tra Cosa nostra, ‘ndrangheta, destra eversiva, logge massoniche e servizi deviati. Noi aspettiamo e, lecitamente, speriamo che la verità affiori.

Alessio Gaggero

La mediazione come gestione non giudicante del confronto

Il dialogo che si svolge nel processo mediativo messo in atto da Me.Dia.Re. (nei suoi servizi di mediazione familiare e  in quelli Ascolto e Mediazione dei Conflitti, tra cui sono inclusi quelli di mediazione penale) ha una funzione strumentale all’interno della prassi della mediazione e non è il fine di essa.

Rispetto alla “retorica del dialogo”, come tentativo di ripristinare un’intesa, si colloca questa visione e questa pratica della mediazione come spazio di confronto.

Uno spazio, cioè, in cui lo scambio può dare origine a una maggiore comprensione del punto di vista dell’altro, ma che può anche esitare in un arroccamento ostinato nella propria posizione.

Infatti, se uno dei presupposti della mediazione, in tutti i modelli teorico-operativi in cui questa è proposta, è quello dell’assenza di giudizio, nel modello di Me.Dia.Re., il mediatore, coerentemente con il carattere necessariamente a-valutativo del percorso, ha la funzione non di ripristinare il dialogo ma di permettere il confronto, rispettando l’esito che i due confliggenti vorranno dare a tale percorso.

Il rapporto tra carattere a-valatutativo della mediazione e la sua declinazione come pratica di confronto e non come stimolo al dialogo, naturalmente, si collega al fatto che il mediatore si astiene non solo dal giudicare le posizioni, gli interessi, i comportamenti, i pensieri e le emozioni e i sentimenti delle parti in conflitto, ma anche il loro essere in conflitto.

In altre parole, la mediazione non è – o sarebbe preferibile che non fosse – una guerra al conflitto. Neppure è una crociata contro il peccato o l’eresia-conflitto, né una cura della malattia-conflitto, così come non è una rieducazione rispetto alla devianza-conflitto, ecc.

Se la mediazione, quindi, si sforza di non cadere nell’inganno sofistico di mirare a ripristinare a tutti i costi un dialogo tra i due confliggenti, deve rendere possibile e favorire il confronto, astenendosi dall’utilizzare tecniche o strategie che spingano gli attori del conflitto verso il dialogo.

 

Rielaborazione da D’Alessandro M. (2016), Mediazione tra dialogo e confronto, in La Giustizia Sostenibile, vol. IX,  (pag. 27-31), Aracne, Roma.

8 agosto 1956, Marcinelle (Belgio), tragedia in miniera

Notte di attesa, notte di immenso dolore: gente del Nord e del Sud, gente di ogni regione d’Italia: tutto il dramma della nostra emigrazione è spietatamente sintetizzato sul ciglio di questa strada

Così scrisse Umberto Stefani, inviato del Corriere d’informazione a Marcinelle, in Belgio.

La mattina dell’8 agosto 1956, la miniera di carbone di Bois du Cazier, si riempì di fumo a causa di un incendio nel condotto che portava l’aria dentro i tunnel sotterranei.

I soccorsi furono da subito molto lenti e complessi: gli ultimi cadaveri, in condizioni pessime e difficili da riconoscere, furono portati fuori dalla miniera soltanto nel marzo del 1957. Morirono in tutto 262 persone, tra cui 136 operai italiani.

All’esito delle tre inchieste avviate per accertare dinamiche e responsabilità dell’incidente, dopo tre anni i tecnici e gli ingegneri imputati di omicidio plurimo vennero assolti; solo nel 1961 la Corte d’Appello di Bruxelles condannò a sei mesi di carcere il direttore dei lavori ma, a tutt’oggi, per i giovani “musi neri” di Marcinelle non c’è ancora nessuna verità… Nel 1957 intanto erano riprese le attività della miniera, che fu poi chiusa nel 1967.

Nel 1946, dieci anni prima dell’incendio, l’Italia aveva firmato con il Belgio un protocollo che prevedeva il trasferimento di 50mila lavoratori in cambio del carbone. Bruxelles chiedeva manodopera a basso costo disposta a scendere sotto terra, lavoro pesante e mal retribuito, a cui fino a quel momento erano destinati i prigionieri di guerra; l’Italia non disponeva di materie prime ma aveva manodopera in eccesso in cerca di un avvenire: era l’accordo “minatori-carbone”, uno scambio tra uomini e merce.

È Alcide De Gasperi a firmare il protocollo d’intesa, cui fa seguito un’emigrazione massiccia definita da alcuni storici come una deportazione vera e propria, che obbliga quelli che decidono di partire per sfuggire alla miseria e alla disoccupazione a scendere nel sottosuolo per almeno un anno, pena l’arresto.

L’accordo prevede l’invio di 2mila operai a settimana, cui si aggiungono anche le famiglie dei minatori, mogli, figli, genitori; in cambio il Belgio si impegna a fornire al nostro Paese il carbone a basso costo. Nelle città e nei paesi d’Italia i manifesti rosa di “reclutamento” promettono lavoro e salario: unici requisiti, una buona salute e un’età massima di 35 anni, nessuna preparazione richiesta, nessuna menzione circa i diritti degli operai e le condizioni di lavoro.

I lavoratori italiani che si mettevano in viaggio verso il Belgio venivano selezionati lungo il percorso, poi arrivavano in treno a Bruxelles, ma nello scalo merci, non nella stazione passeggeri; caricati sui camion del carbone, venivano trasportati negli ex campi di concentramento ereditati dal recente conflitto. Gli immigrati italiani e le loro famiglie erano ospitati nelle baracche dei prigionieri di guerra, sovraffollate, senza acqua ed elettricità, con bagni collettivi. La sicurezza sul lavoro era risibile, gli orari massacranti, gli straordinari obbligatori, i diritti sindacali inesistenti. Inoltre, gli immigrati italiani erano spesso mal tollerati. Molti belgi li chiamavano “macaronìs” e fuori dai locali del distretto minerario di Charleroi fiorivano i cartelli: “ni chiens, ni italiens”, “né i cani, né gli italiani”.

La memoria di quegli anni è oggi affidata alle narrazioni che rievocano la grande migrazione italiana verso il Nord Europa (cfr. di Stefano P., La catastròfa, Sellerio, 2011) e agli ex minatori e alle associazioni impegnate a preservarne e trasmetterne il ricordo; grazie alle proteste di questi ultimi, qualche anno fa si è evitata la trasformazione in centro commerciale di ciò che rimane della miniera di Bois du Cazier, da tempo divenuta un memoriale aperto al pubblico.

Silvia Boverini

Fonti:

Lidia Baratta, “Quando gli immigrati senza diritti eravamo noi”, www.linkiesta.it ;
Alessandra Solarino, “Martinelle 8 agosto 1956. La tragedia dei minatori tra rimozione e memoria”, www.rainews.it;
“Il disastro di Martinelle, 60 anni fa”, www.ilpost.it

7 agosto 1947: si conclude la spedizione dell’imbarcazione Kon-Tiki

Il nostro pianeta è più grande dei fasci di giunchi che ci hanno portato attraverso i mari, eppure abbastanza piccolo per correre gli stessi rischi, a meno che quelli di noi che sono ancora vivi aprano gli occhi al disperato bisogno di una collaborazione intelligente se vogliamo salvare noi stessi e la nostra comune civiltà da quella che stiamo trasformando in una nave che affonda.

Così scriveva nel 1978 Thor Heyerdahl, norvegese per nascita e cittadino del mondo (Larvik 1914 – Colla Micheri [Savona] 2002), studioso appassionato, esploratore, ambientalista,  divulgatore, artista e uomo di pace: costretto, a causa dei conflitti che infiammavano la regione, a interrompere la spedizione che avrebbe dovuto condurlo dall’Iraq a Gibuti a bordo dell’imbarcazione in giunco Tigris, indirizzò una lettera, firmata da tutto l’equipaggio, all’allora Segretario Generale dell’ONU Kurt Waldheim, protestando contro la guerra e la vendita di armi ai paesi in via di sviluppo da parte degli stati occidentali.

Il 7 agosto si ricorda la conclusione del viaggio della zattera a vela Kon-Tiki, l’impresa di Heyerdahl più famosa (1947), che, sebbene terminata in un naufragio, avvalorò – almeno in linea teorica – la sua ipotesi circa una prima colonizzazione della Polinesia, in epoca precolombiana, ad opera dei popoli sudamericani.

Soggiornando nelle Isole Marchesi, l’esploratore aveva posto in relazione una serie di elementi, tra i quali un graffito rappresentante un’imbarcazione a remi assai differente dalle tipiche piroghe locali, una leggenda riferita dai cantastorie circa un dio Sole – Tiki – venerato da uomini bianchi venuti da oriente, la presenza di correnti oceaniche da est, l’utilizzo – con lo stesso nome – della patata dolce in entrambi i continenti: Heyerdahl, isolato dal resto del mondo scientifico, decise di dimostrare in prima persona che un’ancestrale migrazione dal Sudamerica potesse essere giunta in Polinesia, con le sole risorse disponibili in quell’epoca lontana.

Prestigiose istituzioni culturali, compreso il National Geographic, negarono supporto e finanziamenti, nell’idea che l’impresa fosse “un suicidio collettivo”, ma la notorietà di Heyerdahl consentì comunque di organizzare la spedizione.

In Perù furono reperiti i materiali necessari e la costruzione del Kon-Tiki fu basata sulla tecnica indigena del luogo, impiegando il legno di balsa utilizzato in epoca precolombiana e facendo riferimento alle informazioni rinvenute nelle cronache dei colonizzatori spagnoli. Uniche concessioni alla modernità, le razioni alimentari fornite dall’esercito statunitense e un’emittente radio amatoriale per le comunicazioni.

Il viaggio iniziò il 28 aprile 1947 da Callao (Perù); la zattera fu trainata in mare aperto da un rimorchiatore della Marina Militare peruviana, per consentirle di sfruttare la Corrente di Humboldt per la navigazione. Heyerdahl e i cinque compagni di viaggio navigarono per 101 giorni attraverso l’Oceano Pacifico.

Il 7 agosto il Kon-Tiki fu scagliato dal mare sulle scogliere coralline di un isolotto disabitato dell’atollo di Raroia, nell’arcipelago delle Tuamotu, subendo notevoli danni; era stata percorsa una distanza di circa 3770 miglia nautiche (circa 4300 effettivamente navigate), con una velocità media di circa 1,8 nodi. Dopo diversi giorni in solitudine, l’equipaggio, sostanzialmente illeso, fu raggiunto e posto in salvo da abitanti delle isole vicine.

L’impresa è narrata dallo stesso Heyerdahl nel libro Kon-Tiki (1948), tradotto in oltre 70 lingue con decine di milioni di copie vendute, e in un film premiato con l’Academy Award come miglior documentario (1951). L’umanità immensa di Thor Heyerdahl non poté mai essere ristretta nei confini angusti di una definizione univoca: scopritore entusiasta, non volle mai divenire accademico universitario, nonostante le innumerevoli lauree ad honorem; amico personale di Gorbaciov e Fidel Castro, frequentò indistintamente capi di stato, marinai, pescatori e contadini; ecologista ante litteram, sollevò la questione dell’inquinamento degli oceani avanti alla prima Conferenza sull’ambiente dell’ONU (1972), che istituì il divieto di scarico di oli usati in mare; amava senza pregiudizio gli esseri umani e la natura, mantenendo una visione d’insieme sulle cose, tanto rara in un’epoca di ossessione per la specializzazione del sapere.

La vita, i libri e tutte le imprese di Heyerdahl costituiscono il manifesto delle sue convinzioni più salde: tutti gli esseri umani sono uguali, affrontiamo tutti le stesse sfide, possiamo lavorare e vivere insieme a prescindere dalle differenze etniche, politiche o religiose.

Membro attivo del World Federalist Movement, lavorò per la pace, la cooperazione oltre le frontiere, e la legalità; fu impegnato nell’organizzazione internazionale United World Colleges, fondata durante la Guerra Fredda per garantire opportunità di conoscenza e confronto a giovani studenti provenienti dai contesti più diversi. Con gli equipaggi cosmopoliti delle sue spedizioni cercò di dimostrare che si può lavorare bene insieme nonostante le differenze culturali, e che l’oceano, fin dalla preistoria, non può che essere aperto, luogo vivo e pulsante di passaggi, incontri e scambi tra popoli.

Silvia Boverini

 

Fonti:
Thor Heyerdahl, “Kon-Tiki. 4000 miglia su una zattera attraverso l’oceano”, ed. Giunti Martello 1975;
Gabriella De Fina, “L’uomo del Kon-Tiki. Una zattera nell’oceano Pacifico”, www.latitudeslife.com;
Gianluca Rocca, “Il Kon-Tiki”, www.nauticareport.it;
“Thor Heyerdahl”, www.kon-tiki.com.

6/08/1985. Vengono uccisi da Cosa Nostra Ninì Cassarà e Roberto Antiochia

Quella dell’85 è un’estate caldissima in Sicilia. Non tanto per i gradi, quanto per i proiettili.

Gli omicidi di mafia sono storie che affondano le radici in un terreno di solida ragione e preciso calcolo: non sono casuali. Spesso, la ragione è quella della vendetta. Vendetta, ad esempio, per chi è stato torturato fino alla morte. Il quale è spirato per dar sfogo all’ ”isteria collettiva” di chi, pochi giorni prima, aveva visto assassinare un collega. Collega che aveva avuto, riavvolgendo di 72 ore, la pessima idea di arrestare otto uomini del Papa, Michele Greco. È la vendetta a farla da padrone. Andiamo però con ordine.

Giuseppe Montana è commissario della squadra mobile di Palermo; in particolare, è a capo della recente sezione catturandi: è suo compito cercare e trovare i latitanti. Antonino “Ninni” Cassarà è vicedirigente della stessa mobile, oltre che vicequestore aggiunto alla questura di Palermo. Roberto Antiochia è un agente della mobile da un paio d’anni. Dall’altro lato della barricata si sono: Michele Greco detto Il Papa, originario di Ciaculli (una frazione rurale di Palermo), che si alleò coi Corleonesi durante la seconda guerra di mafia; e Salvatore Marino, calciatore palermitano di venticinque anni, cresciuto in una famiglia di pescatori.

Questi i protagonisti, che fanno il loro ingresso sulla nostra scena il 25 luglio 1985: la catturandi riesce a mettere dietro le sbarre otto uomini. Il Papa ha ricevuto un duro colpo. Pur non distinguendosi tra i ‘colleghi’ per la ferocia1, non può lasciar correre. Tre giorni dopo, uno prima di andare in ferie, Montana viene freddato da una scarica di proiettili, che lascia però in vita la fidanzata, con la quale avevano appena terminato un giro in motoscafo. Con una testimonianza oculare, si risale, per mezzo della macchina d’appoggio all’agguato, a Marino: dopo il fermo nei confronti dei suoi famigliari, il primo agosto il giovane si presenta spontaneamente in caserma. Non ne uscirà sulle proprie gambe. Al termine di lunghi interrogatori, scanditi dall’accumularsi degli indizi a suo sfavore, il calciatore è portato in pronto soccorso, dove appare subito evidente l’inutilità di qualsiasi intervento.

Compare, a questo punto, un personaggio che non ha bisogno di presentazioni: Oscar Luigi Scalfaro, all’epoca Ministro dell’interno. Il cinque agosto, in seguito ai funerali Marino, fa saltare, con altri esponenti delle forze dell’ordine, il capo della mobile di Palermo, presso i cui uffici si è svolta la tragedia. Eccoci arrivati alla resa dei conti. Cassarà sta tornando a casa, scortato da Antiochia (che è già stato trasferito a Roma, ma, essendo in ferie, può continuare ad aiutare la squadra che ha servito negli ultimi due anni) e altri due uomini della mobile. Il ragazzo, appena ventitré anni, scende ad aprire la portiera al suo superiore. L’Alfa blindata non lo protegge più: i kalashnikov scaricano tutta la potenza da fucili d’assalto. A nulla serve il tentativo di Antiochia di proteggere Cassarà: la moglie lo vede morire davanti alla loro casa, proprio sotto i suoi occhi. La vendetta è compiuta.

Dopo la vendetta, arriverà, con i suoi tempi, la giustizia: Riina, Provenzano, Greco, Brusca e Madonia sono condannati all’ergastolo. Uno dei tanti di cui si potevano fregiare. Cassarà, Antiochia e Montana sono invece degni della Medaglia d’oro al valor civile.

Alessio Gaggero

1 Il soprannome gli fu attribuito per la capacità di mediatore messa in campo a favore delle famiglie. Non ultimo l’incontro tra John Gambino, venuto apposta dagli Stati Uniti, e Totò Riina.