23 agosto 1927: esecuzione di Sacco e Vanzetti

Stati Uniti d’America. Dopo la Prima guerra mondiale, il paese è attraversato da accesi scontri sociali, dura repressione padronale e statale, attentati e provocazioni diffuse che fomentavano ansie e sospetti in un’opinione pubblica stremata da anni di emergenze; la crociata lanciata dal presidente Woodrow Wilson contro la “minaccia sovversiva” aveva preso di mira socialisti, anarchici, stranieri e chiunque non fosse in qualche modo assimilato alla cultura dominante. Nel gennaio 1920, in soli cinque giorni, numerosi raid in decine di città portarono all’arresto o al fermo di circa diecimila attivisti politici.

In quel clima di caccia alle streghe, Ferdinando (noto come Nicola) Sacco e Bartolomeo Vanzetti, italiani e attivisti anarchici, diventarono bersagli ideali: arrestati il 5 maggio 1920 per possesso di armi e materiale considerato sovversivo, furono poi accusati di rapina e duplice omicidio e sottoposti a un calvario giudiziario lungo sette anni.

Tuttavia, la palese ingiustizia di quel processo si tramutò in un boomerang per il sistema giuridico, politico e sociale che li aveva condannati già prima della sentenza: non solo perché oceaniche manifestazioni di protesta unirono nello sdegno militanti politici, popolo e intellettuali in America e in Europa, ma anche per la fermezza e dignità con cui i due imputati, nella corrispondenza (oggi interamente edita) con familiari, giornali e personaggi pubblici e nei loro interventi nel dibattimento processuale, seppero decodificare il preciso meccanismo di potere e propaganda che li avrebbe portati alla sedia elettrica.

L’unico delitto che ho commesso è stato quello di aiutare i poveri e le vittime dello sfruttamento.” (da una delle ultime lettere di Nicola Sacco al figlio Dante).

Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra, io non augurerei a nessuna di queste ciò che io ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui io sono colpevole. Io sto soffrendo perché sono un radicale, e davvero io sono un radicale; io ho sofferto perché ero un italiano, e davvero io sono un italiano.” (dal discorso di Vanzetti del 19 aprile 1927).

 

In questo senso, se molti hanno voluto vedere Sacco e Vanzetti come capri espiatori perfetti per un potere in cerca di nemici fittizi contro cui deviare il risentimento popolare – fondato invece su emergenze e criticità concrete -, il fronte anarchico propone una chiave di lettura differente, secondo cui i due non erano affatto “innocenti” vittime sacrificali, essendo stati perseguitati precisamente per ciò che erano, stranieri e ribelli: dal punto di vista del potere, non vi sarebbe stato alcun errore di giudizio.

Emigrati come tanti dall’Italia di inizio Novecento, Sacco da un piccolo paese nel foggiano e Vanzetti dal cuneese, per circa un decennio seguirono percorsi paralleli, fatti di spossanti esperienze lavorative (con occupazioni sempre più precarie per Vanzetti e l’approdo in un calzaturificio per Sacco, che si sposa e forma una famiglia) e di radicalizzazione politica.

S’incontrarono nel 1916, in Massachusetts, in una piccola formazione anarchica; dopo una breve parentesi in Messico per evitare la chiamata alle armi, incompatibile con gli ideali professati, al termine del conflitto fecero ritorno alle rispettive vite e alla militanza, ignorando di essere stati inclusi in una lista di sovversivi compilata dal ministero di Giustizia e di essere perciò pedinati.

Il 3 maggio 1920, un loro compagno di lotte, Andrea Salsedo, moriva durante un interrogatorio “precipitando” dal quattordicesimo piano di una sede dell’FBI. Nella concitazione di quei giorni, tra rabbia, paura e proteste da organizzare, i due cercano di liberarsi di materiale compromettente; fermati il 5 maggio, vengono trovati in possesso di una rivoltella, volantini e appunti per un comizio e, dopo tre giorni d’interrogatori, accusati anche per una rapina a South Braintree, un sobborgo di Boston, costata due morti; Vanzetti fu accusato inoltre per una rapina a un furgone addetto al trasporto paghe a Bridgewater.

Condannati perché “il rapinatore camminava come uno straniero”, perché “uno dei rapinatori portava i baffi”: giuridicamente, non c’era alcuna prova a loro carico, addirittura non si tenne conto della confessione del detenuto Celestino Madeiros, che ammise di aver preso parte alla rapina e di non aver mai visto Sacco e Vanzetti.

Alla base del verdetto vi furono i pregiudizi di polizia, procuratori distrettuali, giudice e giuria, uniti alla volontà di testare la nuova linea di condotta contro gli avversari del governo, la “politica del terrore” suggerita dal Ministro della Giustizia Palmer.

L’esecuzione avvenne per mezzo della sedia elettrica il 23 agosto 1927, nel carcere di Charlestown. A nulla valsero gli sforzi del Comitato di Difesa costituito subito dopo l’arresto dai compagni di militanza, in cui entrarono anche liberali, democratici, socialisti, intellettuali e artisti a favore della giustizia e della libertà d’espressione, tra cui Dorothy Parker, Edna St. Vincent Millay, Bertrand Russell, John Dos Passos, Upton Sinclair, George Bernard Shaw e H. G. Wells; si mobilitò la comunità italiana negli USA, poi, in tutto il mondo, i marxisti, il movimento anarchico internazionale, Soccorso Rosso internazionale e l’Internazionale comunista: addirittura l’ateo anarchico francese Louis Lecoin non esitò a chiedere al papa di intervenire, e lo stesso Mussolini avrebbe tentato d’intercedere per i due italiani.

Quando il verdetto di morte fu reso noto, per dieci giorni vi furono manifestazioni davanti al palazzo del governo, a Boston, fino alla data dell’esecuzione, quando il corteo attraversò il fiume e le strade sterrate fino alla prigione di Charlestown, dove polizia e guardia nazionale attendevano con le mitragliatrici puntate verso i manifestanti. L’esecuzione innescò rivolte popolari anche a Londra, Parigi e in diverse città della Germania. In Italia il Corriere della Sera, in prima pagina su sei colonne, titolò “Erano innocenti”.

Le 400.000 persone che parteciparono ai funerali portavano tutte un bracciale con la scritta “La giustizia è stata crocefissa”; campeggiava uno striscione con la celebre frase del giudice Thayer dopo la sentenza: “Hai visto cosa ho fatto a quei due bastardi anarchici?”.

Il 23 agosto 1977, a cinquant’anni dalla morte, l’allora governatore del Massachusetts Michael Dukakis riabilitò pubblicamente i due uomini:

Io dichiaro che ogni stigma ed ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti”.

 

Ai giorni nostri, la vicenda di Sacco e Vanzetti ancora riaffiora come monito ogni volta che qualcuno viene accusato e punito non per ciò che ha fatto ma per ciò che “si ritiene potrebbe fare”.

Tra i tanti intellettuali e artisti che ne hanno omaggiato la storia in quasi un secolo, lo scrittore americano John Dos Passos pubblicò nel 1926 un’opera dal titolo ironicamente amaro, “Davanti alla sedia elettrica. Come Sacco e Vanzetti furono americanizzati”, nella quale si legge:

Le circostanze a volte gettano gli uomini in situazioni così drammatiche, spingono le loro esili figure sotto gli abbaglianti riflettori della storia al punto che essi, o le loro ombre, assumono il significato di simboli di prima grandezza. Sacco e Vanzetti rappresentano tutti quegli immigrati che hanno costruito l’industria di questa nazione, con il loro sudore e con il loro sangue, e per questo non hanno ricevuto nient’altro che il salario più basso possibile, e la condizione di schiavi sotto il tallone dell’ordine sociale controllato da uomini in divisa. Essi sono tutti i wops, gli hunkies, i bohunks, tutta la carne da macello per la fabbrica che la fame porta in America attraverso quel triste setaccio che è Ellis Island. Sono i sogni di un ordine sociale più sano fatto da coloro che non accettano la legge della giungla. Questa minuscola aula di tribunale è il punto focale del tumulto, un’età di transizione, quel punto a cui guarda il mondo intero. Sulle pareti di quest’aula Sacco e Vanzetti proiettano le loro immense ombre.”.

 

Silvia Boverini

Fonti:
Riccardo Michelucci, “23 agosto 1927. Sacco e Vanzetti giustiziati perché anarchici e italiani.”, 23/08/2017, www.left.it;
Silvia Morosi e Paolo Rastelli, “Sacco e Vanzetti: la giustizia crocefissa”, 23/08/2016, www.pochestorie.corriere.it;
Ferdinando Fasce, “A novant’anni dalla morte: Sacco e Vanzetti eterna ingiustizia”, 22/08/2017, www.ilsecoloxix.it;
Gian Carlo Caselli, “Sacco e Vanzetti, 90 anni fa l’esecuzione in cui ‘la giustizia fu crocefissa’” e Beppe Giulietti, “Sacco e Vanzetti, le streghe da uccidere”, 23/08/2017, www.ilfattoquotidiano.it;
www.anarchopedia.org;
John Dos Passos, “Facing the chair. Story of the Americanization of Two Foreign Workmen”, trad. it. “Davanti alla sedia elettrica. Come Sacco e Vanzetti furono americanizzati.”, ed. Spartaco 2007.

22/08/1938: censimento speciale nazionale degli ebrei in Italia

Razza: questo è un sentimento, non una realtà; il 95% è sentimento. Io non crederò che si possa provare che biologicamente una razza sia più o meno pura […]. Una cosa simile da noi non succederà mai. L’orgoglio nazionale non ha bisogno di deliri di razza […]. L’antisemitismo non esiste in Italia.[…] Gli ebrei italiani si sono sempre comportati bene come cittadini, e come soldati si sono battuti coraggiosamente.” da “Colloqui con Mussolini”, ed. Hoepli Milano, 1932

Sei anni dopo aver proferito tali rassicuranti affermazioni, Benito Mussolini avviò in Italia la campagna razzista e antisemita che, tra le altre cose, produsse il censimento degli ebrei, di cui oggi ricorre l’ottantesimo anniversario.

Fino agli anni Trenta del Novecento, l’Italia appariva come uno degli stati europei più liberali nei confronti della popolazione di origine ebraica, e l’antisemitismo esplicito era limitato a ristretti settori del mondo cattolico; in generale, gli ebrei italiani non si opposero all’ascesa del fascismo, non percepito come una minaccia, al punto che trecentocinquanta di loro parteciparono alla marcia su Roma e, nel 1933, circa il 10% della popolazione ebraica risultava iscritto al PNF (Partito Nazionale Fascista). Il fascismo, movimento inizialmente eterogeneo e nel quale la componente socialista rivoluzionaria era ancora forte nel primo dopoguerra, era stato inteso da una parte del mondo ebraico come il vero epigono del Risorgimento, che nel secolo precedente aveva posto le condizioni per il riconoscimento dei diritti civili agli ebrei italiani.

 

Ci fu una spinta tedesca?

Nell’Europa degli anni Trenta la diffusione e legittimazione dell’antisemitismo erano invece in crescita: la Germania di Hitler, salito al potere alla fine di gennaio del 1933 (lo abbiamo ricordato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nel post Hitler non fece né un colpo Stato, né una rivoluzione) mostrò al continente che era tecnicamente, politicamente e moralmente possibile legiferare contro i propri cittadini ebrei (si pensi al boicottaggio del commercio ebraico del 1° aprile ’33 che abbiamo ricordato qui); tuttavia, gli storici non hanno riscontrato ingerenze tedesche dirette in tal senso su altri governi europei, nemmeno nei confronti dell’alleato italiano.

Nell’Italia del 1938, l’introduzione della legislazione antiebraica, sebbene connessa alle altre linee di azione del fascismo (processo di alleanza con la Germania nazista, sviluppo di una politica razzistica, costruzione di una “dignità imperiale” e di un “carattere fascista”), fu un atto di politica interna, con motivazioni riconducibili alla crescita dell’antisemitismo, all’ostilità del gruppo dirigente fascista per l’autonomia mostrata in più occasioni dagli ebrei, e probabilmente a interessi economici.

La campagna antisemita veniva portata avanti già da qualche tempo sui giornali controllati dal regime ed erano iniziate le intimidazioni nei confronti degli intellettuali di origine ebraica politicamente più esposti: si stava costruendo un clima.

La svolta decisiva

Il primo atto ufficiale in questa direzione si ebbe il 14 luglio 1938, con la pubblicazione del documento “Il fascismo e i problemi della razza”, noto anche come “Manifesto degli scienziati razzisti” (di cui abbiamo parlato nel post Il Manifesto della razza si presentò agli Italiani il 15 luglio 1938), che fornì le basi teoriche all’introduzione ufficiale del razzismo (pare che Mussolini si vantasse di esserne il vero autore). Il 17 luglio, l’Ufficio centrale demografico del Ministero dell’Interno cambiò nome e competenze diventando la “Direzione Generale per la demografia e la razza” (nota anche con l’acronimo di Demorazza), e circa un mese dopo fu creato l’Ufficio Studi del problema della razza, presso il gabinetto del Ministro della Cultura Popolare.

Il 22 agosto venne promosso il censimento speciale nazionale degli ebrei, come presupposto per la successiva emanazione delle leggi razziali, nell’idea di creare consenso popolare attorno ad esse, enfatizzando la pericolosità – mai percepita prima – della presenza ebraica sulla base dei numeri.

Furono richiamati in servizio dalle ferie estive prefetti, uffici comunali, carabinieri e responsabili del partito, per affidare loro il delicato compito, da svolgersi “fascisticamente, con celerità ed assoluta precisione”, richiedendo ai funzionari di mantenere massima segretezza sulla procedura (nei telegrammi la parola ebreo era cifrata).

Risultarono presenti in Italia 46.656 ebrei “effettivi” (aventi almeno un genitore ebreo), poco più dello 0,1% della popolazione (pari a circa 45 milioni), oltre a quasi 10.000 ebrei di nazionalità straniera.

La legislazione antiebraica dell’Italia fascista ebbe un’innegabile impostazione razzistica biologica: vennero perseguitate tutte le persone con ascendenti “di razza ebraica” e nessuna di quelle con ascendenti tutti “di razza ariana”, indipendentemente dalla religione professata.

Con le prime leggi razziali, furono stabiliti il divieto agli stranieri ebrei di fissare stabile dimora nel Regno, in Libia e nei Possedimenti dell’Egeo e l’espulsione di coloro vi risiedevano, inclusi quelli che avevano ottenuto la cittadinanza italiana dopo il 1º gennaio 1919; nel giugno 1940, circa metà di essi aveva lasciato la penisola, mentre gli altri vennero in maggioranza rinchiusi in campi di internamento, in attesa che la conclusione del conflitto rendesse possibile la loro espulsione.

In merito agli ebrei italiani, invece, il regime fascista non dispose la revoca generalizzata della cittadinanza; tuttavia, escludendoli dalle Forze Armate (tanto dal servizio permanente che dal servizio di leva), li escluse simbolicamente dalla nazione, dato che tale partecipazione costituiva uno dei cardini della cittadinanza.

La discriminazione fattuale

L’azione governativa fu inizialmente volta a epurare gli ebrei dalla vita nazionale e a separarli dai non ebrei (divieto di matrimoni misti); le misure persecutorie avevano anche la funzione di stimolare i perseguitati a emigrare: sino alla chiusura delle frontiere nel 1941, era espatriato circa l’8 per cento degli ebrei italiani. Nel giugno 1940 il governo internò alcune centinaia di cittadini ebrei, tra cui molti oppositori politici; nel maggio 1942 ne assoggettò alcune migliaia al lavoro obbligatorio (noto anche come “precettazione”).

Con il licenziamento dagli impieghi pubblici e assimilati, disposto nel 1938, persero il lavoro 96 professori universitari, 133 assistenti universitari, 279 presidi e professori di scuola media, circa 100 maestri elementari, 200 liberi docenti, 400 dipendenti pubblici e 150 militari, mentre 200 studenti universitari, 1000 delle scuole secondarie e 4.400 delle elementari furono costretti a lasciare lo studio.

Contemporaneamente, iniziò la progressiva espulsione dalle attività e dagli impieghi privati: tra il 1938 e il 1942 furono revocate le licenze con autorizzazione di polizia (tra le altre, quella per la diffusa attività del commercio ambulante); nel 1939, gli ebrei furono sostanzialmente esclusi o emarginati dalle libere professioni; nell’aprile 1942, fu loro vietato di lavorare nei cantieri navali e negli stabilimenti “ausiliari alla difesa della nazione”; nel febbraio 1942, il Ministero delle Corporazioni ordinò ad aziende e uffici di collocamento di favorire sempre l’occupazione dei “lavoratori di razza ariana”; ai cittadini ebrei fu vietato di possedere, anche in parte, aziende commerciali o industriali non azionarie “interessanti la difesa della nazione” o con oltre 99 dipendenti e di possedere beni immobili oltre determinati valori.

I ministri dell’Educazione nazionale e della Cultura popolare realizzarono interventi di stampo totalitario nei rispettivi ambiti: furono proibiti i testi di autori “di razza ebraica” (anche in collaborazione con autori “di razza ariana”) e quelli contenenti riferimenti al pensiero di ebrei morti dopo il 1850; autori, concertisti, cantanti, registi e attori furono progressivamente esclusi dalla radio, dai teatri, dai cinema, dai cataloghi discografici; pittori e scultori non poterono più allestire mostre; gli editori cessarono di pubblicare nuovi libri di autori ebrei, mentre quelli già editi vennero sequestrati o lentamente ritirati dal commercio e sottratti alla consultazione nelle biblioteche.

Per spiegare l’incredulità e il senso di tradimento vissuti dagli ebrei italiani di fronte alle leggi razziali, così scrive oggi Lia Levi:

I provvedimenti contro gli ebrei continuavano a cadere a scansione lenta, come quei goccioloni radi ma già carichi che preludono alla tempesta. Si ritrovarono fradici senza neanche essersene accorti.”.

 

Silvia Boverini

Fonti:
www.anpi.it;
www.patriaindipendente.it;
www.wikipedia.it;
“L’Olocausto in Italia”, www.governo.it;
Mario Avagliano, “Il censimento del 1938”, 26/08/2014, www.moked.it;
Michele Sarfatti, “La persecuzione degli ebrei in Italia”, www.archivio.pubblica.istruzione.it;
Lia Levi, “Questa sera è già domani”, e/o, 2018; Emil Ludwig, “Colloqui con Mussolini”, Hoepli 1932 – Mondadori 2001.

Siria, 21/08/2013, strage con armi chimiche

Dove, chi e quando.

Città di Damasco, Siria, mattina del 21 agosto 2013. Una guerra complessa infiamma il territorio siriano da circa due anni; agli opposti schieramenti iniziali (esercito governativo e armate ribelli) si è sovrapposto un intricato sistema di alleanze ad assetto variabile che in quella fase, semplificando molto la situazione sul campo, vede da un lato le truppe fedeli ad Assad unite agli Hezbollah libanesi e, dall’altro, forze distinte per obiettivi, idealità, strategie e sostegno del popolo quali l’Esercito Siriano Libero (ESL), diversi gruppi jihadisti e le Unità di Protezione Popolare (YPG) curde. Ogni fazione confliggente trova inoltre sostegno da parte di governi od organizzazioni straniere, che, in base ai propri interessi nell’area, forniscono supporto logistico, finanziamenti o armi, in modo più o meno clandestino.

Tra luglio e agosto 2013 l’esercito governativo guadagna terreno, riconquistando aree controllate dai ribelli, e muove su Damasco; il 21 agosto alcuni razzi centrano una zona residenziale di Jobar, che appartiene al governatorato di Damasco ma è attigua alle zone della Ghouta orientale in mano islamista. In quella stessa giornata, si inizia a parlare di attacco chimico: fonti vicine ai ribelli fanno riferimento a centinaia di persone decedute non per le conseguenze delle esplosioni, bensì per asfissia e avvelenamento da gas tossico. Le vittime, tra militari governativi, ribelli e popolazione civile, saranno in seguito stimate essere circa 1400.

 

La reazione internazionale

L’evento provoca una forte presa di posizione dell’ONU e di gran parte delle cancellerie internazionali, poiché l’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, nel 2012 aveva posto come “linea rossa” per un intervento militare internazionale proprio l’utilizzo di armi chimiche.

La crisi siriana diventa internazionale: Stati Uniti e Unione Europea attribuiscono la responsabilità dei bombardamenti al governo siriano di Assad, mentre Russia e Iran si schierano al fianco di quest’ultimo, accusando i ribelli. Gli USA, appoggiati da Francia, Regno Unito e Turchia, prospettano un attacco missilistico contro le postazioni militari siriane, suscitando l’opposizione di buona parte dell’opinione pubblica e del Congresso americano, nonché di Russia e Cina presso l’ONU, oltre alle minacce iraniane di bombardare Israele per rappresaglia; si assiste a una massiccia mobilitazione della Marina statunitense nel Mediterraneo e nel Mar Nero: la tensione a livello internazionale è altissima, inducendo il Vaticano a prendere posizione contro il conflitto che si profila.

La diplomazia prende però il sopravvento e, all’incontro del G20 di San Pietroburgo, su proposta russa, il 14 settembre viene raggiunto un accordo che evita l’intervento armato in cambio della distruzione dell’arsenale chimico siriano, del libero accesso ai depositi di armi chimiche da parte dei funzionari ONU e dell’adesione del governo siriano alla Convenzione sulle armi chimiche.

Il 27 settembre viene votata all’unanimità all’ONU la Risoluzione 2118 che prevede la distruzione dell’arsenale chimico siriano: il 16 settembre era pervenuto al Segretario Generale Ban Ki-Moon il rapporto redatto dal Team indipendente delle Nazioni Unite, che aveva confermato che “armi chimiche sono state usate relativamente su larga scala nel conflitto tra le due parti in Siria, anche contro i civili” (valutazione cui era giunta anche l’organizzazione Human Rights Watch); gli ispettori dell’ONU avevano rilevato l’impiego di missili terra-terra contenenti gas sarin ma, coerentemente al mandato conferito, non si erano sbilanciati sulla provenienza dell’attacco.

In base al piano di smaltimento delle armi chimiche siriane, accettato dal governo di Damasco solo dopo le pressioni russe, circa 1300 tonnellate di agenti chimici vengono consegnate e distrutte. Secondo l’intellettuale siriano Yassin Haj Saleh, “si è trovato un accordo per una soluzione al problema dell’uso di armi chimiche e non al massacro compiuto con le armi chimiche. Non è stata trovata una soluzione al ‘problema’ dei siriani uccisi che fino a quel momento avevano già raggiunto i 100mila. Si è trovato un accordo che ha avuto un significato per la Russia, gli Usa e Israele. Non per i siriani”.

Rimane infatti controversa la questione della responsabilità del bombardamento di Jobar. Nell’immediatezza del fatto, gli ambasciatori presso l’ONU di Stati Uniti e Francia concordarono con il Ministro degli Esteri britannico nel ritenere che solo l’esercito regolare siriano avesse la capacità di sferrare un attacco con quelle caratteristiche; tuttavia, già pochi mesi dopo, analisti del MIT di Boston, sulla base del missile rudimentale rinvenuto dagli ispettori dell’ONU – di gittata non superiore ai due chilometri – e della mappa delle forze in campo nel periodo in questione, obiettarono che l’attacco dovesse necessariamente essere partito dalle aree controllate dai ribelli jihadisti.

Taluni, memori del precedente iracheno, hanno interpretato questa discordanza come una precisa volontà di parte dell’amministrazione USA, volta a far circolare informazioni false tali da indurre una rappresaglia internazionale punitiva contro Assad; altri hanno ipotizzato un coinvolgimento diretto della Turchia, mirato a ottenere lo stesso risultato.

 

A che punto siamo oggi?

Mentre gli schieramenti, sul campo di battaglia e nell’opinione pubblica internazionale, si moltiplicano, il conflitto ha ormai provocato circa 511 mila vittime, secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, e più di 5 milioni e mezzo di profughi e oltre 6 milioni di rifugiati interni secondo l’Alto commissariato ONU per i rifugiati. Secondo la Commissione internazionale indipendente d’inchiesta ONU sulla Siria, dal 2013 al 2018 sono stati almeno 34 gli interventi con gas tossici (l’ultimo il 7 aprile 2018 sulla città di Douma, alla periferia est di Damasco), della maggior parte dei quali Assad è ritenuto il responsabile. Human Rights Watch ne ha invece contati 85, di cui 50 collegati al regime siriano. La guerra siriana va avanti e, come è stato osservato, “è innanzitutto una guerra contro la verità”.

Silvia Boverini

Fonti:
www.wikipedia.org;
“Quello del 21 agosto in Siria fu un attacco con armi chimiche”, 17/09/2013, www.ilpost.it ;
“Attacco chimico in Siria: il MIT di Boston smentisce Obama”, 24/01/2014, www.rainews.it;
Shady Hamadi, “Siria, tre anni fa l’attacco chimico su Damasco: 1400 morti e nessun colpevole”, 22/08/2016, www.ilfattoquotidiano.it;
Laura Filios, “Guerra in Siria, la vergogna delle armi chimiche non risparmia nessuno”, 17/04/2018, www.osservatoriodiritti.it

Il 20 agosto del 1968 i carri armati sovietici soffocano la Primavera di Praga

Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati sovietici entrano a Praga, mettendo sanguinosamente fine al recente periodo di liberalizzazione. Questo aveva preso avvio il 5 gennaio dello stesso anno, quando il riformista slovacco Alexander Dubček salì al potere e, con una serie di riforme, concesse un decentramento parziale dell’economia e un allentamento delle restrizioni alla libertà di stampa e di movimento, nonché la riattivazione dei partiti non comunisti e delle organizzazioni di massa. Sostenne inoltre la divisione della Cecoslovacchia in due nazioni distinte: la Repubblica Ceca e la Repubblica Slovacca. Il tutto, vantando un ampio sostegno popolare.

Il Cremlino non vide di buon occhio tanta liberalizzazione, che rischiava di indebolire l’intero blocco orientale, spaccandolo, e di aprire la porta a quel cambiamento socioculturale che avrebbe portato alla fine del sogno comunista. Furono aperti lunghi negoziati tra i leader delle due fazioni, che, però, non ottennero i risultati sperati, quantomeno per la parte russa.

Preso atto dell’inutilità della diplomazia, l’unica soluzione disponibile era la repressione violenta di quello sprazzo di libertà che osava squarciare la cortina di ferro. Un’imponente armata varcò i confini di Praga in quella triste notte di agosto, spegnendo le speranze di emancipazione di coloro che avevano guidato il periodo di riforme, Dubček in testa. L’occupazione sovietica durò fino al 1990, grazie a un radicale cambio dirigenza, molto più gradita a Mosca.

A nulla valsero le proteste e rivolte della popolazione, che anzi subì più di un centinaio di perdite civili, non difese dalle potenze occidentali, congelate, per canto loro, dalla Guerra fredda in pieno svolgimento (abbiamo ricordato questi fatti anche nel post Jan Palach e la coscienza del popolo, sempre sulla rubrica Corsi e Ricorsi). Un triste effetto di tale repressione si riscontrò nel fenomeno migratorio: nei mesi successivi all’invasione, fino a 300.000 cittadini abbandonarono il paese, cercando luoghi più liberi dover poter sfruttare le proprie elevate qualifiche professionali.

Le vicende descritte si sono poste alla base di numerose opere letterarie e musicali, tra cui spicca L’insostenibile leggerezza dell’essere, di Milan Kundera, il quale, tra l’altro, espresse posizioni pro-riforma prima dell’inizio della Primavera.

Alessio Gaggero e Alberto Quattrocolo

Tentato colpo di stato a Mosca il 19 agosto 1991

Una dolce musica di accompagnamento

Chi si fosse trovato a sintonizzare la televisione sui tre canali nazionali, nelle prime ore del 19 agosto 1991 a Mosca, avrebbe potuto ascoltare un’unica composizione musicale (il Lago dei cigni di Čajkovskij) ripetuta in loop, circostanza che, in ogni epoca e latitudine, è in grado di evocare presagi sinistri.

Di buon mattino giunse l’annuncio ufficiale: ”In rapporto all’inabilità di Mikhail Serghievich Gorbaciov per motivi di salute di svolgere le sue funzioni come Presidente dell’URSS, ho assunto le funzioni di Presidente dell’URSS a partire dal 19 agosto sulla base dell’art. 127 della Costituzione dell’URSS. Gennadij I. Janaev, Vice­Presidente dell’URSS”; un comunicato successivo esplicitò che in alcune parti dell’URSS era stato imposto lo stato di emergenza e, allo scopo di dirigere il paese, era stato costituito un comitato, di cui facevano parte, tra gli altri, il Presidente del KGB Krjučkov, il Primo Ministro Pavlov, il Ministro dell’Interno Pugo, il Ministro della Difesa Jazov, il ”facente funzioni di Presidente dell’URSS, Janaev.

Il Presidente Gorbaciov, in Crimea per qualche giorno di riposo, risultava isolato e irraggiungibile, di fatto sequestrato nella dacia presidenziale con la moglie Raissa.

Tale evento si inseriva in una fase estremamente critica della storia sovietica: una crisi economica feroce, strutturale e di lungo periodo, che non poteva più essere tenuta nascosta proprio a causa dei processi di glaznost e perestrojka – trasparenza e ristrutturazione – introdotti dal Presidente Gorbaciov, aveva indebolito il potere centrale sia sul fronte internazionale sia su quello interno, favorendo il rinvigorirsi di istanze nazionaliste nelle repubbliche sovietiche, che, una dopo l’altra, si proclamavano indipendenti.

Era necessaria una firma

Il giorno dopo l’inizio del putsch, in quell’agosto 1991, al termine di lunghe e laboriose trattative e con l’avallo del 70% della popolazione consultata mediante referendum, era previsto che Gorbaciov firmasse il “Nuovo Trattato dell’Unione”, che avrebbe dovuto trasformare l’URSS in una federazione di repubbliche sovrane, ed era stato preceduto, alla fine di giugno, dallo scioglimento del COMECON (Consiglio per il mutuo aiuto economico) e del Patto di Varsavia (il patto politico che si affiancava al COMECON e teneva legata l’URSS ai cosiddetti “paesi satelliti”, in contrapposizione alla NATO).

Quella firma, se mai fosse avvenuta il 20 agosto, avrebbe forse potuto siglare un’intesa, oltre che tra i vari stati ex sovietici, anche tra due distinte visioni storico-politiche, incarnate da un lato da Mikhail Gorbaciov, Presidente dell’URSS e Segretario del PCUS, che ancora sperava di conservare lo status quo attraverso le riforme progressiste, e dall’altro lato da Boris Eltsin, Presidente della Russia, inviso alla nomenclatura del PCUS in quanto deciso sostenitore della forma federativa, della fine del centralismo sovietico e della sovrapposizione fra partito e Stato. Nei mesi precedenti, il dualismo di potere fra governo locale russo e centrale sovietico aveva generato un vuoto istituzionale in cui fecero breccia le trame golpiste contrarie al rinnovamento.

Nelle parole di uno dei testimoni degli eventi del 19 agosto, Gennadij Burbulis, all’epoca braccio destro di Eltsin, “fu subito chiaro che si trattava di un tentativo disperato di impedire la firma del trattato, prevista per il giorno dopo. Ma questa era l’unica cosa chiara. Gli americani che seguivano gli eventi sulla CNN sapevano quel che succedeva in Russia più di quel che ne sapevano i russi; i conduttori dei notiziari a Mosca si limitavano a leggere la dichiarazione rilasciata dagli autori del colpo di stato”.

Questi ultimi, tuttavia, apparvero da subito deboli nella comunicazione dei propri intenti e privi di carisma, e il previsto supporto popolare al putsch non vi fu: per due giorni Mosca fu capitale di uno spettacolo surreale, con carri armati per le strade che non sparavano, né intervenivano, mostrando una tacita solidarietà con i resistenti. Le piazze e le vie delle città più importanti si riempirono di persone che protestavano, bloccavano le forze armate, inscenavano manifestazioni spontanee.ù

La risposta

Eltsin prese in mano la situazione dalla Bely Dom (Casa Bianca), l’edificio del parlamento russo, denunciando con forza il colpo di stato: l’immagine del Presidente russo che sale su un carro armato con il megafono e arringa i manifestanti, ritrasmessa dai media di tutto il mondo, divenne un simbolo di grande efficacia e rafforzò enormemente la posizione di Eltsin.

Un assalto alla Casa Bianca moscovita, programmato dalle forze speciali del KGB, fu annullato quando le truppe si rifiutarono unanimemente di eseguire l’ordine; un’unità di carri armati disertò e si pose in difesa del parlamento con le armi puntate verso l’esterno. Ci furono confronti armati nelle strade vicine, e tre dimostranti furono uccisi, ma comunque la violenza fu sorprendentemente limitata. Il 21 agosto la grande maggioranza delle truppe spedite a Mosca si schierò con la resistenza e tolse l’assedio al Parlamento.

Gorbaciov venne liberato, il 22 agosto tornò nella capitale, ma il centro del potere era adesso la Casa Bianca con Eltsin, non più il Cremlino; naufragata ogni possibilità di un nuovo trattato dell’Unione, il 24 egli si dimise dalla carica di Segretario del PCUS: aveva “perso i comandi” della stessa URSS, che, agli occhi del mondo intero, rappresentava, mentre stava crescendo la popolarità di Eltsin, peraltro con il plauso di tutto l’Occidente.

Pochi giorni dopo fu sciolto il PCUS. Il 25 dicembre Gorbaciov rassegnò le dimissioni anche da presidente dell’URSS, la bandiera rossa sul Cremlino venne sostituita da quella della Federazione Russa e il 26 dicembre l’Unione Sovietica smise formalmente di esistere.

C’è un altro punto di vista

Se questa è la ricostruzione dei fatti più accreditata, non sono mancati storici e analisti insospettiti dalle incongruità di un colpo di stato conclusosi in tre giorni senza bagni di sangue, che finì per accelerare il processo di dissoluzione dell’URSS che si proponeva d’impedire, decretando la fine politica di Gorbaciov e accreditando Eltsin come difensore della democrazia.

Una chiave di lettura alternativa, suffragata da evidenze documentali e testimonianze dei protagonisti di quegli anni (comprese le memorie dello stesso Eltsin), bolla il putsch del 1991 come falso, ritenendolo una macchinazione inserita in un più vasto piano segreto dall’evocativo nome in codice di “Project Hammer”, volto ad accelerare il crollo politico ed economico dell’Urss e a saccheggiare le sue ricchezze finanziarie ed energetiche; l’operazione sarebbe stata architettata dall’amministrazione USA facente capo a George Bush senior, di concerto con la CIA, l’alta finanza statunitense e alcuni dirigenti del KGB, coinvolgendo lo stesso Eltsin.

Secondo tale ricostruzione, nei mesi precedenti il golpe sarebbero stati trafugati all’estero 3mila tonnellate d’oro (equivalenti a 35 miliardi di dollari dell’epoca) e 435 milioni di rubli del PCUS (pari a 240 miliardi di dollari): finanziariamente dissanguata, e destabilizzata dagli eventi di agosto, l’URSS non sarebbe stata in grado di difendersi dal successivo attacco speculativo contro il rublo cui venne sottoposta tra il 1991 e il 1992, che portò al collasso definitivo l’economia sovietica e consentì il saccheggio delle sue risorse, in particolare con le privatizzazioni del settore energetico (petrolio e gas) facente capo al colosso statale Gazprom; l’acquisizione fu operata da un gruppo di oligarchi russi protetti da Eltsin e legati, attraverso una complessa rete di banche e società appositamente create, agli ambienti finanziari che avevano preso parte al Project Hammer.

Se la verità storica di quegli eventi attende ancora una ricostruzione univoca, un preciso monito circa le conseguenze di essi viene dall’amara chiosa di Gennadij Burbulis, intervistato nel 2011: “La struttura di un edificio può collassare e l’anima di un’ideologia può essere messa da parte, ma il suo spirito sopravvive. Nella Russia odierna questo persiste nella rinata convinzione che Stalin fosse un grande leader, nella nostalgia per la stabilità e la potenza del periodo sovietico che è stata inventata a posteriori, nella xenofobia e nell’intolleranza, nella mancanza di rispetto per i diritti civili, nella crescente corruzione, nella mentalità da potenza imperialistica di alcuni nostri leader e di alcuni nostri cittadini. È questa la pericolosa eredità di quei tre giorni di agosto di 20 anni fa”.

 

Silvia Boverini

Fonti:

“Agosto 1991: l’ultimo atto dell’URSS”, www.inventati.org;
“Il colpo di stato che fece crollare l’Unione Sovietica”, 23/06/2011, www.ilpost.it;
www.wikipedia.org;
L. Balzarotti e B. Miccolupi, “19 agosto 1991, golpe a Mosca. Venticinque anni fa il colpo finale all’Unione Sovietica”, 19/08/2016, www.corriere.it;
M. Vignolo Gargini, “19 agosto 1991, golpe in Unione Sovietica”, 19/08/2011, www.marteau7927.wordpress.com;
Enrico Piovesana, “L’altra verità sul golpe di Mosca”, www.it.peacereporter.net;
G. Chiesa, “Da Mosca. Cronaca di un colpo di stato annunciato”, Laterza, 1995

Medici senza Frontiere evacua sei ospedali nello Yemen il 18/08/2016 per i bombardamenti

È il 18 agosto 2016: Medici senza Frontiere, una delle organizzazioni umanitarie più note al mondo, a seguito dell’ennesimo bombardamento “fuori controllo” che tre giorni prima aveva causato 19 morti e 24 feriti, tra cui pazienti e operatori volontari di un ospedale gestito dall’ONG nel nord dello Yemen, assume la decisione di evacuare il proprio staff da sei ospedali in quell’area. Tra ottobre 2015 e agosto 2016, il totale delle vittime negli ospedali supportati da MSF nel paese ammontava a 26, nel corso di quattro diversi bombardamenti aerei che non avrebbero mai dovuto colpire presidi sanitari, essendone stata fornita la precisa posizione ai responsabili militari di tutte le fazioni in conflitto.

Durissimo il comunicato con cui l’organizzazione motiva la decisione:

Negli ultimi 8 mesi, MSF ha incontrato esponenti di alto livello della coalizione a guida saudita in due occasioni a Riyadh, per garantire l’assistenza umanitaria e medica per gli yemeniti e per chiedere garanzie che gli attacchi contro gli ospedali sarebbero cessati. Ma i bombardamenti aerei sono comunque continuati,  nonostante MSF abbia sistematicamente condiviso con tutte le parti in conflitto le coordinate GPS degli ospedali in cui lavora. I rappresentanti della coalizione dichiarano ripetutamente di onorare il Diritto Internazionale Umanitario, ma questo attacco mostra che hanno fallito nel controllare l’uso della forza e nell’evitare gli attacchi contro ospedali pieni di pazienti. MSF non è né soddisfatta né rassicurata dalla dichiarazione della coalizione secondo cui questo attacco è stato un errore.

Data l’intensità dell’attuale offensiva e avendo perso fiducia nella capacità della coalizione di evitare questi attacchi letali, MSF ritiene che gli ospedali nei governatorati di Saada e Hajjah non siano sicuri né per i pazienti né per lo staff. La decisione di evacuare lo staff da un progetto, che in questo caso include ostetrici, pediatri, chirurghi e specialisti di pronto soccorso, non è mai presa alla leggera, ma in mancanza di garanzie credibili che le parti di un conflitto rispetteranno lo status di protezione delle strutture sanitarie, degli operatori sanitari e dei pazienti, possono non esserci alternative.”.

Dal novembre dello stesso anno, nonostante tutto, le attività di MSF nelle strutture in questione sono riprese.  Da allora, il conflitto in territorio yemenita non ha perso violenza, portando il paese e i suoi 28 milioni di abitanti alla catastrofe umanitaria, economica e sanitaria, nella sostanziale indifferenza della politica internazionale. La risoluzione 2216 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (2015) e i falliti colloqui di pace promossi dall’ONU in Kuwait nel 2016 non hanno potuto dirimere le questioni strategiche di controllo del territorio, che dal 2015 oppongono la coalizione di nove stati arabi sunniti guidata dall’Arabia Saudita ai ribelli houthi sostenuti dall’Iran; le questioni politiche s’intrecciano a immani interessi economici legati anche al commercio delle armi, condotto perlopiù illegalmente dalle principali democrazie occidentali (Italia compresa, visto che in questa guerra vengono utilizzate anche bombe prodotte in Italia, in violazione di una legge nazionale, la n.185/1990, che vieta l’esportazione di armi verso i paesi in conflitto armato come lo Yemen) in spregio alla regolamentazione sancita dai trattati internazionali in materia.

Nel silenzio della diplomazia ufficiale, cinquantasette ONG operanti nello Yemen si sono unite per chiedere alle Nazioni Unite di aprire un’inchiesta internazionale indipendente sugli abusi compiuti dalle diverse fazioni in violazione delle elementari regole umanitarie di guerra, come il reclutamento di bambini soldato, le strutture sanitarie trasformate in veri e propri bersagli o il bombardamento dei quartieri residenziali.

L’operazione militare “Tempesta decisiva” avviata nel marzo 2015, secondo le intenzioni dell’Arabia Saudita, promotrice del conflitto, avrebbe dovuto costituire un mezzo rapido ed efficace per affermare definitivamente la propria egemonia nell’area in funzione anti-iraniana, dopo un primo tentativo di imporre al paese un governo fantoccio per contenere i disordini seguiti al periodo delle c.d. “Primavere Arabe” tra il 2011 e il 2012;  i ribelli houthi, sciiti, fedeli all’ex presidente yemenita Ali Abdallah Saleh, fomentati e probabilmente armati dall’Iran, hanno tuttavia opposto una reazione militare più solida del previsto, occupando le capitali Sanaa e Aden e vaste parti del territorio; nel caos generato dalla guerra, non sono inoltre escluse infiltrazioni nel paese di gruppi armati jihadisti.

Nei territori controllati dai ribelli houthi, sono documentati arresti arbitrari, sparizioni forzate, processi irregolari a carico di presunti dissidenti con condanne pesanti, anche alla pena di morte.

Sul fronte opposto, l’esercito della coalizione di stati guidata dall’Arabia Saudita, tra i meglio armati al mondo, non si è fatto scrupolo di avvalersi di bombardamenti aerei ripetuti, che hanno distrutto città, strade e infrastrutture, compresi ospedali e aeroporti: ciò, unito all’embargo imposto dall’Arabia quale rappresaglia, ha sostanzialmente isolato la popolazione civile e impedito la circolazione di merci e aiuti, aprendo la strada a carestia (il 60% della popolazione soffre la fame, con 8 milioni di persone a rischio di morte per inedia, anche perché il conflitto ha annichilito pesca e agricoltura, pilastri dell’economia locale) e malattie endemiche (la più grande epidemia di colera mai registrata sul pianeta, con un milione di persone colpite); si calcola inoltre che diecimila yemeniti siano morti per il mancato accesso a cure mediche all’estero, vittime nascoste di un conflitto in cui “la malattia viene trasformata in un’arma”.

Incalcolabile è infatti il numero delle vittime dall’inizio del conflitto a oggi: secondo dati forniti nei primi mesi del 2018 dall’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, dal marzo 2015 in Yemen erano stati uccisi almeno 5974 civili e ne sono stati feriti altri 9493, ma altre fonti parlavano di più di 8600 morti e quasi 50000 feriti. Ma nel 2019 il numero dei morti pare essere cresciuto ad oltre 10.000 e la situazione è ulteriormente peggiorata: tre civili ogni giorno vengono uccisi, in media una vittima ogni 8 ore. Inoltre la popolazione è costretta ad assistere ad ogni sorta di atrocità, tra stupri, anche a bambine di 8 anni, e altri insopportabili orrori.

L’Ufficio per il coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite (Ocha) ha dichiarato che oltre 20 milioni di persone, ossia l’80 per cento della popolazione yemenita, hanno bisogno di aiuti umanitari. In un rapporto pubblicato a gennaio, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha affermato che i profughi interni sono più di due milioni. Ma il paradosso nel 2019 è che mentre oltre 22 milioni di persone yemenite si trovano in una situazione di estremo bisogno di protezione e di aiuti umanitari, ogni mese almeno 7000 persone in fuga dal Corno d’Africa arrivano nello Yemen, anche solo per attraversare il Paese, con l’obiettivo di raggiungere i Paesi del Golfo, dove sperano di trovare lavoro e condizioni di vita dignitosa.

Silvia Boverini

Fonti:

www.medicisenzafrontiere.it;
Vijay Prashad, “Le vittime nascoste della guerra in Yemen”, 17/08/2017, www.internazionale.it; Pierre Haski, “Chi dirà basta alla guerra nello Yemen?”, 12/09/2017, www.internazionale.it;
Gwynne Dyer, “La guerra nello Yemen serve a punire l’Iran”, 30/03/2018, www.internazionale.it; Riccardo Noury, “Tre anni di guerra in Yemen grazie anche alle forniture di armi all’Arabia Saudita”, 26/03/2018, www.ilfattoquotidiano.it;
“La crisi in Yemen. 1000 giorni di disastri”, 20/12/2017, www.oxfamitalia.org

Terrore in Catalogna tra il 17 e il 18 agosto 2017

Sedici persone uccise, 140 ferite. Questo il bilancio della violenta corsa del Fiat Talento bianco che nella piena estate del 2017 percorse la celebre rambla della capitale catalana a tutta velocità. Nel conteggio rientrano anche il proprietario dell’auto usata da uno degli attentatori per darsi alla fuga dopo l’assalto e una donna aggredita durante la notte a Cambrils.

Sembra che, il giorno prima, un’esplosione avvenuta ad Alcanar, comune della Catalogna distante un paio d’ore di macchina da Barcellona, avesse costretto la cellula terroristica a cambiare il piano già elaborato: la Sagrada Familia sarebbe stato l’obiettivo dell’imam, a capo del gruppo, deceduto nella deflagrazione che rase al suolo il covo. I componenti rimasti optarono per la modalità poi messa in atto, a quanto pare molto differente dall’originale: il centinaio di bombole di vari gas ritrovati in quel che rimaneva della casa, indussero a pensare a un altro tipo di attacco, probabilmente più letale.

Un repentino cambio di rotta, dunque, che tuttavia non impedì ai jihadisti di spargere terrore nella capitale catalana, e non solo, pur privi della mente del piano. ISIS poi rivendicò, tramite Amaq News Agency, la vera matrice dell’attacco, perciò legato al sedicente stato islamico.

 

Tornando ai fatti, il guidatore, dopo essersi schiantato, scende dal veicolo e fugge nella Boqueria, il mercato coperto a pochi passi dalla rambla. Si mescola nella folla e svanisce. Se ne ritrova traccia quando commette il quattordicesimo omicidio, quello che gli servirà per fuggire dalla capitale: si macchia dell’orrendo crimine per appropriarsi di una Ford Focus Bianca in zona universitaria, dunque piuttosto lontano dal luogo dell’attentato. Accoltella il proprietario, lo spinge dentro la macchina e si mette al volante, per scomparire nel traffico. Ricompare all’altezza dell’Avinguda diagonal, dove sperona un posto di blocco delle forze dell’ordine, ferendo un agente. Appena uscito da Barcellona, poi, abbandona il veicolo a Sant Just Desvern e continua la fuga a piedi, facendo perdere le sue tracce. Ci vorranno quattro giorni per trovarlo, a cinquanta chilometri dalla strada che l’ha reso famigerato. Nel tentativo di catturarlo, i Mossos d’Esquadra saranno costretti ad ucciderlo.

Younes Abouyaaqoub, questo il nome, è solo uno degli attentatori: altri tre furono arrestati a Ripoll, paese di competenza dell’imam di cui sopra, e uno ad Alcanar, dopo essere sopravvissuto all’esplosione. In cinque persero invece la vita a Cambrils, nella notte tra il 17 e il 18 agosto: dopo aver comprato delle armi da taglio in un negozio della stessa città, tentarono di travolgere, a bordo di un’Audi A3, i passanti in una zona pedonale; bloccati dalla polizia, scesero dall’auto, assalendo chiunque capitasse a tiro, finché un agente non aprì il fuoco.

Alessio Gaggero

Viene ritrovato il cadavere di Matteotti il 16 agosto del 1924

Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me.”.

Così, consapevole dei rischi a cui si esponeva, mormorò il deputato Giacomo Matteotti detto “Tempesta” dai compagni del Partito Socialista Unitario, al termine del famoso discorso da lui tenuto alla Camera dei Deputati il 30 maggio 1924, con il quale aveva contestato la correttezza delle elezioni tenutesi in aprile: denunciando violenze e abusi da parte del Partito Nazionale Fascista, al governo dalla fine di ottobre del 1922, in seguito alla marcia su Roma (lo abbiamo ricordato, su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nel post Il 31 ottobre 1922 si insediò il primo governo Mussolini), Matteotti aveva messo in discussione la libera formazione del consenso del popolo e, conseguentemente, la stessa legittimità del Parlamento formalmente scaturito dalle urne.

Nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà. […] Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse”.

Voi che oggi avete in mano il potere e la forza, voi che vantate la vostra potenza, dovreste meglio di tutti gli altri essere in grado di far osservare la legge da parte di tutti. […] Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Molto danno avevano fatto le dominazioni straniere. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro. Noi difendiamo la libera sovranità del popolo italiano […] domandando il rinvio delle elezioni inficiate dalla violenza alla Giunta delle elezioni.”.

Rapito sotto casa il 10 giugno, il deputato sarà ritrovato cadavere, con segni di percosse e ferite da coltello, solo il 16 agosto, seppellito malamente nel bosco della Quartarella, una ventina di chilometri fuori Roma; mentre Mussolini in persona ordina che il funerale si tenga al paese natio di Matteotti (Fratta Polesine), lontano dallo sguardo dell’opinione pubblica, la vedova chiede pubblicamente che alle esequie non si presentino esponenti del PNF o della Milizia Fascista.

Nei due mesi intercorsi tra la scomparsa e il ritrovamento del corpo, infatti, l’accaduto era apparso da subito chiaro, se non dimostrabile nei dettagli, almeno nelle linee generali.

Le indagini condotte dai magistrati Tancredi e del Giudice si avviano pochi giorni dopo il rapimento e, grazie anche a testimoni, i cinque rapitori, membri della polizia politica facenti capo ad Amerigo Dumini, sono identificati e arrestati, ma l’accertamento della verità subisce rallentamenti e depistaggi.

I socialisti unitari vicini a Filippo Turati accusano il governo e il 26 giugno tutti i rappresentanti dell’opposizione decidono di abbandonare i lavori del Parlamento fino a quando non sia fatta chiarezza (abbiamo ricordato la secessione dell’Aventino nel post Dall’Aventino alla dittatura); l’atteso intervento dirimente da parte di casa Savoia non avviene, bensì l’8 luglio il governo fascista, approfittando dell’assenza dell’opposizione, vara nuovi regolamenti restrittivi della libertà di stampa.

I tre procedimenti giudiziari sull’accaduto (l’ultimo nell’immediato dopoguerra) non riescono a dimostrare una responsabilità penale personale e diretta di Benito Mussolini quale mandante dell’omicidio; questi, se inizialmente sembra subire un certo isolamento in conseguenza del diffondersi di una vox populi colpevolista nei suoi riguardi (che lo indurrà a recuperare consenso scaricando i personaggi di spicco direttamente o indirettamente implicati nelle indagini), pochi mesi dopo arriverà a rivendicarne con sprezzo la responsabilità politica, nel famoso discorso del 3 gennaio 1925, con cui convenzionalmente si fa iniziare la fase dittatoriale del fascismo, sancita, pochi giorni dopo, dall’approvazione pressoché senza dibattito del famoso pacchetto di provvedimenti autoritari e repressivi, noti come “leggi fascistissime” (le abbiamo ricordate nel post Le prime leggi fascistissime).

Se l’ascesa della dittatura fu terreno fertile per il delitto Matteotti, è opinione corrente in storiografia che il movente non possa essere ascritto unicamente al conflitto di idealità contrapposte, che pure i due principali protagonisti incarnavano.

Vi sarebbe infatti una ragione assai meno nobile per quell’omicidio, riconducibile al dossier che Matteotti avrebbe dovuto presentare alla Camera il giorno successivo alla sua scomparsa: il deputato, avvalendosi di fonti italiane e inglesi, aveva documentato il pagamento di cospicue tangenti da parte della compagnia petrolifera statunitense Sinclair Oil – sostenuta economicamente dai principali gruppi finanziari di New York – per ottenere a condizioni assai vantaggiose concessioni di esclusiva e sfruttamento dei giacimenti in Emilia e Sicilia e tutelare i propri interessi in Libia; tra i destinatari della corruzione, il fratello di Benito Mussolini, Arnaldo, membri della famiglia reale, ministri, imprenditori e diplomatici che, agendo in conflitto d’interessi, più che il bene della nazione – di cui al regime piaceva dirsi difensore – rappresentavano imprese commerciali e gruppi finanziari italiani e statunitensi.

Gli accordi con la Sinclair Oil furono cancellati nel novembre 1924, ma il collegamento tra il delitto Matteotti e la corruzione del regime fu sostenuto a gran voce dalla stampa del Regno Unito, soprattutto quella vicina agli ambienti laburisti: il dossier scomparve con la borsa del deputato, ma un suo scritto in proposito fu pubblicato postumo da una rivista inglese. Negli anni Ottanta, inoltre, fu rinvenuta nell’Archivio Nazionale di Washington una lettera-testamento, da pubblicarsi in caso di omicidio del suo autore, inviata a legali statunitensi dall’ex sicario di regime Amerigo Dumini: condannato per il delitto (amnistiato nel dopoguerra), caduto in disgrazia e temendo per la propria vita, questi ammetteva di aver ricevuto l’ordine di uccidere Matteotti per impedirgli di denunciare in Parlamento la vicenda della Sinclair Oil, ma riuscì a barattare il proprio silenzio con denaro e garanzie d’incolumità personale.

Silvia Boverini

Fonti:

Enzo Biagi, Storia del Fascismo, Sadea Della Volpe Editori, 1964;
Renzo De Felice, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere. 1921-1925, Einaudi, 1966;
Il Ponte, anno XLII, n.2, marzo-aprile 1986, pp. 76-93; www.pochestorie.corriere.it  Silvia Morosi e Paolo Rastelli, Giacomo Matteotti, morte di un antifascista;
www.rassegna.it  Ilaria Romeo, Delitto Matteotti, l’inizio del regime; www.wikipedia.org

Obiettivi della mediazione e speranze del mediatore

È necessario, per non cadere nei dubbi e negli equivoci di un “dialogo forzato”, che, nell’ambito della mediazione dei conflitti, si separino i concetti di “obiettivo” e di “speranza”.

L’obiettivo della mediazione, come sviluppata da Me.Dia.Re. (https://www.me-dia-re.it/ascolto-e-mediazione-dei-conflitti/) è che i due confliggenti si sentano innanzitutto riconosciuti dal mediatore.

La speranza di costui, invece, può essere che la mediazione porti a un eventuale reciproco riconoscimento e a un ripristino della comunicazione attraverso il confronto.

Nella mediazione, dunque, non si costruiscono spazi di dialogo ma si offre l’opportunità di avere spazi di confronto.

Rielaborazione da D’Alessandro M. (2016), Mediazione tra dialogo e confronto, in La Giustizia Sostenibile, vol. IX,  (pag. 27-31), Aracne, Roma

 

Il 15 agosto 2017 Trump cambia idea su Charlottesville. Ancora.

Questa storia inizia con una statua. A Charlottesville, Virginia, si erge un monumento in bronzo che ritrae un uomo a cavallo: si tratta del Generale Robert Edward Lee, una leggenda della Guerra di secessione americana, che guidò l’esercito confederato a vittorie impensabili.

Nel marzo 2016, inizia la disputa politico-sociale sull’opportunità di rimuovere la statua stessa: da un lato, chi sostiene che la presenza del Generale (confederato, quindi sudista, quindi schiavista, quindi razzista, per farla molto molto breve) sia poco rispettosa di una parte della comunità, dunque da eliminare; dall’altro, chi lo ritiene un importante pezzo di storia americana, dunque da conservare. La dialettica prosegue sino alla prima manifestazione anti-rimozione, organizzata da alcuni suprematismi bianchi nel maggio 2017, e alla silenziosa veglia di risposta del giorno successivo. Il mese seguente, il Ku Klux Klan (KKK) realizza un ulteriore raduno di protesta per la decisione del comune di Charlottesville, cui partecipano 50 membri, affrontati, però, da centinaia di contro manifestanti: si giunge allo scontro e a una ventina di arresti.

Arriviamo quindi ai fatti che porteranno alle controverse dichiarazioni del Presidente americano. Il 12 agosto scendono in piazza migliaia di persone in difesa del primo emendamento, che tutela la libertà di espressione, riunendo gruppi di estrema destra, suprematisti bianchi, neonazisti e KKK. Altri scontri con un contemporaneo corteo antirazzista costringono le forze dell’ordine a intervenire, disperdendo parte della folla. Nella relativa quiete che ne segue, irrompe un’auto lanciata contro un folto gruppo di persone ancora in strada, ferendone trenta e causando la morte di una donna.

Il giorno stesso, Trump ha condannato la violenza dell’atto via Twitter, non facendo tuttavia alcun riferimento al colore politico dei manifestanti, attirandosi così numerose critiche da chi gli chiedeva una posizione più netta.

We ALL must be united & condemn all that hate stands for. There is no place for this kind of violence in America. Lets come together as one!

Diverse ore più tardi, la Casa Bianca ha precisato che le parole del presidente erano rivolte anche a suprematisti bianchi, neonazisti, KKK e a tutti i gruppi estremisti. Ciò non ha evitato i riferimenti all’elettorato di Trump, che, notoriamente, conta molti sostenitori tra le fila del movimento per il potere bianco.

Il 14 agosto, un po’ a sorpresa e forse spinto dalle dure condanne arrivate anche dal proprio partito, il magnate newyorkese si è espresso apertamente anche nei confronti dei suddetti gruppi:

Il razzismo e l’odio non hanno spazio negli Stati Uniti […] il razzismo è il male. Coloro che hanno causato violenza nel nome del razzismo sono criminali e delinquenti, inclusi il K.K.K., i neonazisti, i suprematisti bianchi e gli altri gruppi dell’odio che sono ripugnanti per tutto quello in cui crediamo in quanto americani. Come ho già detto sabato, non c’è spazio in America per l’odio e l’intolleranza e come ho detto molte volte, non importa il colore della pelle, perché noi viviamo sotto la stessa legge, la stessa bandiera e siamo stati tutti creati dallo stesso dio onnipotente. Siamo uguali di fronte a Dio, alla legge e alla Costituzione.

Poi, il 15, la retromarcia:

A Charlottesville la colpa è di entrambi le parti. […] I gruppi di sinistra sono molto molto violenti. […] Questa settimana vogliono rimuovere le statue di Lee. Poi, Stonewall Jackson. Poi toccherà a George Washington? George Washington era un proprietario di schiavi. Dobbiamo abbattere le statue di George Washington?

Non gli si può certo contestare di essere una persona che non si mette in discussione. O forse no?

Alessio Gaggero