Il 31 agosto 2017 l’aggressione della donna rumena in provincia di Savona è di dominio pubblico

Giunge al grande pubblico con tre mesi di ritardo il racconto della signora vittima di percosse.

Una mattina di maggio, Florentina Grigore prende l’autobus che la porterà a lavoro. Non ha alcun biglietto da timbrare, non perché approfitti dei mezzi pubblici, ma perché in borsa ha l’abbonamento. Il suo non avvicinarsi all’obliteratrice, però, non passa inosservato, e le costerà caro.

Florentina ha 44 anni ed è di origini rumene, ma vive in Italia da 15 anni. Abita ad Andora, comune della provincia di Savona a circa mezz’oretta da Borghetto Santo Spirito, altra piccola città ligure, dove ha sede una struttura di assistenza per anziani. È qui che lavora Florentina: la mattina presto, alle 5:30 circa, prende il bus e si siede a cercare ancora un po’ di riposo.

Quel giorno, però, troverà ben altro. Riferisce infatti che un uomo, italiano, di circa settant’anni, le si avvicina e le intima di scendere dal mezzo alla prima fermata, perché non ha timbrato. Non timbrare corrisponde a non avere il biglietto, fatto che, probabilmente, agli occhi del signore si lega ai tratti somatici della donna: come tutti gli stranieri, non paga il servizio pubblico. I toni si alzano: si arriva alle urla, agli insulti, alle ingiurie razziali, alle minacce e, infine, a mani e piedi.

Un’aggressione con chiaro sfondo razzista, stando alla versione della signora, che costringe l’autista a fermare il mezzo e tentare di bloccare l’uomo. Florentina, però, ha già ricevuto parecchi colpi, per cui viene portata all’ospedale più vicino, ad Albenga. Dopo le medicazioni, i medici emettono il verdetto: dieci giorni di prognosi. Non abbastanza da far partire la denuncia d’ufficio, ma sufficienti per dare avvio alle indagini dei carabinieri, dopo che la signora ha raccontato loro lo svolgimento dei fatti.

È noto che le forze dell’ordine hanno trasmesso gli atti alla Procura della Repubblica, ipotizzando il reato di lesioni. Sarà compito del magistrato verificare la sussistenza di un elemento razzista, eventualmente codificabile come aggravante del reato stesso. Certo è che, in questo caso come in molti altri, si fa fatica a parlare di pietà.

Alessio Gaggero

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30 agosto 1918: attentato a Lenin e immediata risposta bolscevica

Prima di Lenin…

30 agosto 1918, Pietrogrado (oggi San Pietroburgo). Sono da poco trascorse le 10.00 della mattina, quando Moisej Solomonovič Urickij esce dal proprio ufficio. Non è ancora salito in macchina, e non ci salirà mai: “Un buco al posto dell’occhio sinistro”, causato dall’arma di un giovane cadetto militare, lo costringe per terra in un lago di sangue. Morirà poco dopo in ospedale.

Urickij era a capo della Čeka della propria città, il cui nome per esteso era Commissione Straordinaria: più precisamente, si trattava della polizia politica del tempo, antenata del più celebre KGB e dell’odierno FSB. Soprattutto, era da lungo tempo affezionato alla causa della Rivoluzione, legame che gli costò due volte l’esilio in epoca pre sovietica.

Lenin, venuto a conoscenza dell’omicidio a breve distanza di tempo, riconobbe la perdita che tale evento infliggeva alla Rivoluzione stessa, considerata anche la partecipazione del compagno bolscevico alla riunione in cui si decise di rovesciare il governo.

 

Lenin era invece a Mosca

Nonostante l’apprensione di chi lo circondava, l’allora Presidente del Consiglio dei commissari della Repubblica prestò fede ai propri impegni e tenne il comizio programmato presso una fabbrica di un quartiere popolare di Mosca. Al termine, si fermò a parlare con un gruppo di persone, mentre raggiungeva la macchina. Lenin, a differenza del compagno, riuscì a salire sul mezzo, ma solo dopo essere stato gravemente ferito alla testa con un’arma da fuoco. Fu portato al Cremlino, per poter godere della sicurezza che contraddistingueva il quartier generale sovietico, dove recuperò la salute solo parzialmente, non potendo usufruire della strumentazione medica di un ospedale. C’è chi sostiene che l’ictus che lo stroncò nel 1924 affondasse le sue radici in quei momenti.

Fanja Kaplan, questo il nome dell’attentatrice. Attivista anarchica fin dall’adolescenza, trascorse 11 anni di detenzione in vari luoghi, compresa una miniera siberiana, per un altro tentato omicidio contro l’allora impero zarista. Terminata la detenzione con la Rivoluzione di febbraio, si convertì alla causa socialista e combatté per essa. I duri conflitti tra bolscevichi e socialisti, che portarono anche allo scioglimento dell’Assemblea costituente, mostrarono a Kaplan la vera natura di Lenin: era un traditore della Rivoluzione. Questo il motivo alla base dell’attentato.

Il Terrore rosso

La rappresaglia dei bolscevichi per i due fatti fu violentissima. Cinquecento prigionieri di Pietrogrado furono giustiziati il giorno stesso; altri trecento morirono nel mese successivo; le piazze diventarono teatro di fucilazioni di ex ufficiali zaristi e socialisti rivoluzionari. In tutta la Russia scorreva il sangue dei nemici della rivoluzione, soprattutto di quelli senza armi: furono emesse 6185 condanne a morte. Chissà quanti morirono in realtà. Il Terrore Rosso era drammaticamente in atto.

Alessio Gaggero

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Il fine della mediazione non è prestabilito dal mediatore

Il fine della mediazione non è quello di ottenere un risultato predefinito, non solo perché ciò provocherebbe una ricaduta nell’ambito del “produrre”, ma anche perché un’anticipazione del risultato atteso eliminerebbe il presupposto della libertà dei due contendenti, i quali vedrebbero gestito ed indirizzato il loro conflitto verso un fine prestabilito dai mediatori. Il che contrasterebbe alquanto con il presupposto della mediazione quale spazio in cui il conflitto, anziché essere delegato a figure terze, è gestito dai suoi protagonisti con il supporto di terzi, che hanno un compito di facilitazione della comunicazione.

Non è peregrino svolgere tale considerazioni mentre si avvicina la discussione su di un disegno di legge volto ad introdurre tra le altre norme anche quella sull’obbligatorietà della mediazione familiare per le coppie con figli minori interessate da vicende separative.

 

Rielaborazione da D’Alessandro M., Quattrocolo A. (2007) La Mediazione Trasformativa come Prassi, Quaderni di Mediazione, Anno II, n. 5

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Libero Grassi muore la mattina del 29 agosto 1991

“Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere […]. Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui”.

Così scriveva Libero Grassi, imprenditore siciliano, nella lettera aperta che rese celebre la sua battaglia, pubblicata dal Giornale di Sicilia il 10 gennaio 1991.

Conosceva il valore del valore e aveva una solida coscienza politica antifascista

Conosceva il valore del lavoro e aveva maturato nella famiglia d’origine una solida coscienza politica antifascista; nei primi anni Novanta la Sigma, la sua azienda a conduzione familiare, produceva pigiami, calzini, biancheria, dava lavoro, esportava. Opponendo un deciso rifiuto alla richiesta di corrispondere denaro “in favore dei poveri amici carcerati all’Ucciardone”, e ancor più rendendo visibile quel rifiuto, Libero Grassi compie un gesto al tempo stesso materiale e simbolico, tentando di preservare la propria azienda e la propria dignità di uomo, prima ancora che di imprenditore.

Poco tempo dopo, accettò di ribadire e approfondire le sue motivazioni rilasciando un’intervista nel corso della trasmissione televisiva Samarcanda. Il maxiprocesso a Cosa Nostra era in corso e l’imprenditore confidava di trovare sostegno e solidarietà per la propria battaglia; non mancarono gli attestati di stima, ma si trovò a fronteggiare anche accuse gratuite di “protagonismo”, diffidenza, isolamento: come ha ricordato la figlia Alice nel 2016,

c’era un accordo, pagare tutti per pagare meno, non bisognava rompere gli equilibri e mio padre li ha rotti”.

Le conseguenze dell’assassinio di Libero Grassi

A distanza di pochi mesi, la mattina del 29 agosto 1991, Libero Grassi viene ucciso con quattro colpi di pistola mentre si reca a piedi al lavoro.

Qualche mese dopo la sua morte, il Governo emana il decreto-legge n. 419, convertito in legge n. 172/92, che istituisce il fondo di solidarietà in favore delle vittime di richieste estorsive e di usura. Nell’ottobre del 1993 viene arrestato il killer Salvatore Madonia, detto Salvino, figlio del boss di Resuttana, e il complice alla guida della macchina Marco Favaloro, che in seguito si pente e contribuisce alla ricostruzione dell’agguato. Madonia è stato condannato in via definitiva, anche al regime del 41-bis, e con lui l’intera Cupola di Cosa Nostra (sentenza del 18 aprile 2008).

In quel clima, maturano le condizioni per la nascita di alcune associazioni di supporto agli imprenditori che denunciano i tentativi di estorsione mafiosa, tra cui AddioPizzo, una rete di commercianti “pizzo free” e di consumatori critici. Ma non solo. Nel 1992, l’Eurispes segnala che nella società italiana si fa strada una nuova consapevolezza circa lo stretto rapporto tra mafia e disimpegno: il 29 agosto del 1991, secondo l’istituto di ricerca, nasce una figura imprevista, quella dell’eroe “normale”, il cui rigore morale individuale diviene, nella latitanza di personaggi pubblici carismatici, punto di riferimento sostanziale a cui affidare la difesa del bene comune, in ragione di una crisi istituzionale, politica e criminale, iniziata negli anni del cosiddetto riflusso e che, agli inizi degli anni Novanta, diventa emergente.

“…Come spesso accade a Palermo, le gratificazioni sono accompagnate da attacchi personali e durissimi da parte dei colleghi. I miei colleghi mi hanno messo sotto accusa, dicono che i panni sporchi si lavano in famiglia. E intanto continuano a subire: perché lo so che pagano tutti…Io, con le mie denunce, ho fatto arrestare da solo otto persone. Se duecento imprenditori parlassero, milleseicento mafiosi finirebbero in manette. Non avremmo vinto noi così?”.

Silvia Boverini

Fonti:
Biografia di Libero Grassi, www.interno.gov.it;
Libero Grassi: l’eroe normale, Marcello Ravveduto, www.premioliberograssi.com;
Libero Grassi, storia di un uomo libero, Elisa Chiari, www.famigliacristiana.it

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Solo 12 professori universitari, su oltre 1200, rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo

Il 28 agosto di 88 anni fa Mussolini imponeva ai professori universitari di giurare fedeltà al fascismo e di educare alla devozione al Regime

Venne introdotto con il regio decreto legge del 28 agosto 1931 l’obbligo di giurare fedeltà al fascismo.

Cosa chiedeva di giurare quel decreto del 28 agosto di 88 anni fa?

«Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante ed adempiere a tutti i miei doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti la cui attività non si concilii con i doveri del mio ufficio».

Non fu un fulmine a ciel sereno. Quel provvedimento, convertito in legge in ottobre – la n.1227 (pubblicata l’8 ottobre dello stesso anno sulla Gazzetta Ufficiale) -, rientrava in una precisa strategia di fascistizzazione dello Stato e della società italiana da parte di Mussolini (su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, l’abbiamo rievocata nel post Verso uno Stato etico, religioso e sociale, che, dalla marcia su Roma del 1922 (l’abbiamo ricordato qui) era a capo del Governo ed era arrivato a mettere fuori legge e perseguire (e perseguitare) tutti i partiti le associazioni e i movimenti politici e sindacali che non fossero fascisti [1].

L’obbligo del giuramento dei professori universitari faceva parte del programma di fascistizzazione dello Stato e degli italiani

Il 26 maggio 1927 alla Camera, Mussolini aveva pronunciato un discorso destinato a fare (“tristemente”) epoca (lo abbiamo ricordato nel post Quel discorso dell’Ascensione che andava preso sul serio):

«In Italia non c’è posto per gli antifascisti; c’è posto solo per i fascisti, e per gli a-fascisti quando siano cittadini probi ed esemplari».

Tra i vari provvedimenti volti a togliere la libertà agli italiani (molti rientranti nel pacchetto di norme che furono denominate “leggi fascistissime”, che abbiamo affrontato nel post Le prime leggi fascistissime) vi è un importante antecedente di quella sul giuramento di fedeltà al fascismo per i professori universitari: è il decreto legge del 24 dicembre del 1925 riguardante tutti i funzionari statali, insegnanti inclusi, applicando il quale vennero allontanati dall’insegnamento, perché non allineate con il fascismo, più di 500 persone, tra presidi, professori e maestri delle elementari[2].

È in questo contesto che si colloca il regio decreto legge del 28 agosto del ’31.

I dodici che dissero di no

Dodici professori ordinari su 1.250 rifiutarono di piegarsi al duce. Quei dodici perdettero la cattedra e la libertà personale, ma non quella del pensiero, della coscienza, non la coerenza con se stessi e i loro valori. E non la dignità.

Erano:

Ernesto Bonaiuti, professore di cristianesimo all’Università di Roma, già allontanato dall’insegnamento prima del Concordato, a causa della scomunica avvenuta nel 1926 per aver difeso il movimento Modernista, nel rifiutarsi di giurare fedeltà alla dittatura fascista si richiamò al rifiuto evangelico. Ciò lo ridusse quasi in miseria e lo sottopose al costante controllo della polizia segreta fascista. Era nato a Roma nel 1881 e vi morì un anno dopo la Liberazione[3].

Mario Carrara, medico legale e docente all’Università di Torino. Era nato a Guastalla nel 1867 ed era presto divenuto uno dei padri della medicina legale italiana, succedendo a Cesare Lombroso, di cui sposò la figlia, Paola[4]. Nell’autunno del 1931, avendo rifiutato di giurare fedeltà al duce, Carrara fu escluso da tutte le cariche pubbliche e nell’ottobre 1936 fu arrestato e imprigionato nelle carceri Nuove di Torino, per attività contro il regime fascista. In carcere continuò a scrivere un Manuale di medicina legale, finché morì nel giugno 1937.

Gaetano De Sanctis, docente di storia antica all’Università di Roma, dov’era nato il 15 ottobre del 1870, visse e insegnò a Torino dal 1900 al 1929, e nella prima capitale del Regno iniziò il suo impegno politico come cattolico, che lo portò a candidarsi nel 1919 e nel 1923 nelle fila del Partito Popolare, non venendo eletto[5]. Nel ’31, nonostante le pressioni della Chiesa, perfino di Pio XI, che mandò padre Agostino Gemelli a conferire con lui, De Sanctis, comunicò al ministro dell’Educazione Nazionale, Giuliano, la sua intenzione di non giurare: «Il mio atto non vuole avere alcuna portata e alcun significato politico. È semplicemente un atto di ossequio all’imperativo categorico del dovere».

Jacob Benedetto Giorgio Errera, professore di chimica a Pavia, autore di importantissime ricerche nel campo della chimica organica. Era nato nel 1860 a Venezia, si era laureato a Torino, ed era stato docente all’Università di Messina, dove il terremoto del 1908 lo rese vedovo (passò ore sotto le macerie accanto al cadavere della moglie). Divenuto professore a Palermo fu aggredito e gravemente ferito da uno studente che aveva bocciato ad un esame; nel ’23 Giovanni Gentile lo nominò rettore dell’Università di Pavia, ma rifiutò l’incarico non essendo d’accordo con il governo fascista, cioè né «con i principi che lo informano né con i metodi seguiti». Per le stesse ragioni, fu il solo professore della Facoltà di Scienze di Pavia a firmare, nel 1925, il Manifesto degli intellettuali anti-fascisti di Benedetto Croce. A seguito del rifiuto di prestare giuramento al fascismo fu messo anzitempo a riposo[6].

Giorgio Levi Della Vida, orientalista, storico delle religioni, semitista, ebraista, arabista e islamista italiano. Nato a Venezia nel 1886, anche lui, come Errera, Volterra e Luzzato, da famiglia ebrea, laureatosi a Roma, fece viaggi studio ad Atene, a Creta e al Cairo, fu titolare di cattedre al Regio Istituto Orientale, alle Università di Torino e di Roma. Entrò anche nel neo-costituito Istituto per l’Oriente, ma nel ’24 lasciò le sue cariche sociali per non collaborare con il regime fascista, scegliendo invece di collaborare con alcuni giornali per opporsi al regime: Il Paese, quotidiano di Roma (che fu devastato e chiuso dagli squadristi fascisti nel ’22) e La Stampa. Anch’egli come Errera firmò nel ’25 il Manifesto di Croce e nel ‘24 divenne presidente dell’Unione nazionale delle forze liberali e democratiche. Per il suo rifiuto di piegarsi al giuramento del’31 fu espulso dall’insegnamento universitario. A seguito delle leggi razziali del 1938 si rifugiò negli Stati Uniti, dove andò ad insegnare a Filadelfia all’Università della Pennsylvania[7].

Fabio Luzzato, nato a Udine nel 1870, avvocato e professore di diritto civile all’Università di Macerata e poi insegnante presso l’Istituto tecnico Cattaneo, divenne docente di diritto agrario alla Scuola superiore di agricoltura, a Milano[8]. Sarà anch’egli discriminato in quanto ebreo, a seguito delle leggi razziali fasciste, ma ancor prima per il suo impegno politico, come repubblicano e massone, che lo portò con l’affermarsi del fascismo, ancor prima della marcia su Roma, ad essere tra gli animatori dell’Associazione Italiana per il controllo democratico (con Carlo Rosselli, Filippo Turati, Carlo Sforza e Guglielmo Ferrero), e perciò ad essere sottoposto al controllo della polizia segreta fascista, che lo arresterà nel ’30 rilasciandolo per mancanza di prove[9]. Naturalmente Luzzatto rifiutò di sottostare al giuramento di fedeltà al fascismo. Con l’entrata in vigore delle leggi del ’38 gli fu vietato anche l’insegnamento privato[10].

Piero Martinetti, piemontese (Pont Canavese, 21 agosto 1872 – Cuorgnè, 23 marzo 1943), insegnante in vari licei, tra cui l’Alfieri di Torino, docente di filosofia teoretica e morale all’università di Milano, fu il solo filosofo universitario che rifiutò il giuramento[11]. Nella sua lettera di comunicazione del rifiuto al Ministro dell’Educazione scrisse:

«Così ho sempre insegnato che la sola luce, la sola direzione ed anche il solo conforto che l’uomo può avere nella vita è la propria coscienza; e che il subordinarla a qualsiasi altra considerazione, per quanto elevata essa sia, è un sacrilegio. Ora col giuramento che mi è richiesto io verrei a smentire queste mie convinzioni ed a smentire con esse tutta la mia vita; l’Eccellenza Vostra riconoscerà che questo non è possibile. Con questo non intendo affatto declinare qualunque eventuale conseguenza della mia decisione: soltanto sono lieto che l’E.V. mi abbia dato la possibilità di mettere in chiaro che essa procede non da una disposizione ribelle e proterva, ma dalla impossibilità morale di andare contro ai principî che hanno retto tutta la mia vita».

Bartolo Nigrisoli, medico e professore di chirurgia all’Università di Bologna, nacque nel 1858, quando la sua terra era sotto il Regno della Chiesa, e morì nel 1948. Non avendo adempiuto all’obbligo di giurare fedeltà al duce, venne estromesso dalla cattedra a 73 anni, ma continuò a lavorare nella sua Casa di cura fino ad 82 anni suonati. Amava la verità, amava dirla e pretendeva che anche gli altri facessero lo stesso. «Ma ditele le cose, ma ditele», ripeteva. E, del resto lui le diceva. Come quando, tra le trincee della Prima Guerra Mondiale, a Vittorio Emanuele III, venuto visitare il centro medico di primo soccorso in cui egli opera come tenente colonnello della Sanità, alla domanda del sovrano sul come vanno le cose, rispose con il suo tono bofonchiante:

«Un disastro, Maestà. Qui muoiono tutti…».

Firmò il manifesto antifascista di Croce, e oltre a rifiutare il giuramento di fedeltà al fascismo del ’31, nel 1938 si dimise da tutte le associazioni mediche che praticavano l’epurazione degli ebrei.

Francesco (1863 – 1934) e Edoardo Ruffini (1901-1983). Il primo docente di diritto ecclesiastico a Torino, si dedicò soprattutto allo studio delle libertà religiosa e di altre fondamentali libertà. Ebbe tra gli allievi Arturo Carlo Jemolo, Alessandro Galante Garrone, Piero Gobetti (che fu anche suo editore) e Mario Falco. Era stato nominato senatore del Regno d’Italia nel 1914, e al Senato nel 1925 per tre volte si era alzato a parlare contro l’approvazione delle leggi speciali con cui Mussolini eliminava le principali libertà degli italiani. Sempre nel ’25 aveva firmato il manifesto di Croce. Convinto liberale si era opposto al concordato del ’29 tra Stato e Chiesa. Nel 1928 i fascisti lo aggredirono nell’Università di Torino, ma accorsero a difenderlo alcuni suoi studenti, tra i quali Dante Livio Bianco e Alessandro Galante Garrone. Suo figlio Edoardo Ruffini Avondo divenne docente di Storia del diritto nel 1926 all’Università di Perugia. Come il padre Francesco anch’egli nel ’31 non si prestò al giuramento, ponendo così fine alla sua carriera universitaria. In una lettera con severa onestà e franchezza sosterrà che per lui e per il padre non fu difficile la scelta del rifiuto dato il privilegio di vivere in «una sia pur modesta agiatezza»[12].

Lionello Venturi, docente di storia dell’arte a Torino, era nato a Modena nel 1885, aveva fatto una brillante carriera e, in virtù di una posizione politica nazionalista, aveva partecipato come volontario alla Prima Guerra Mondiale, nel corso della quale fu ferito ad un occhio. Nonostante, l’anziano padre, Adolfo, titolare della cattedra di Storia dell’Arte a Roma, lo avesse sollecitato alla sottomissione in nome di uno scopo più alto, restare all’Università e proseguire l’opera paterna, succedendogli nella cattedra, Lionello Venturi non giurerà,  rinunciando così alla cattedra di cui era titolare dal 1919. Sottoposto ai controlli dell’Ovra, con la moglie Ada e il figlio Franco, si trasferì a Parigi[13]. Nel ’39 divenne professore alla John Hopkins University di Baltimora, dove attraverso la Mazzini Society condusse la sua battaglia contro ogni forma di nazionalismo[14].

Vito Volterra, docente di matematica a Roma, era tra i circa 100 docenti ordinari appartenenti alle comunità ebraiche. Nato nel 1860 ad Ancona in una famiglia di idee liberali e anticlericali, perse il padre a soli due anni. A ventitré anni fu uno dei più giovani professori ordinari del Regno d’Italia (meccanica razionale all’Università di Pisa). Matematico e fisico, fu tra i fondatori dell’analisi funzionale e della teoria delle equazioni integrali. Nel 1903 fece parte della Commissione regia per l’istituzione del Politecnico di Torino, di cui divenne Regio commissario l’anno dopo. Nel 1905 fu nominato senatore del Regno per i suoi meriti scientifici e nel 1907 divenne preside della facoltà di Scienze dell’Università di Roma[15]. Nel ’22 in Senato prese posizione contro il Governo di Mussolini. Poi firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce e nel dicembre 1931 oppose il suo rifiuto al giuramento di fedeltà al Fascismo. Lasciò, pertanto, la cattedra e tre anni dopo decadde anche dall’Accademia dei Lincei per un identico rifiuto[16].

Cosa ci hanno lasciato quei 12 uomini liberi?

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Dodici vite, dodici mondi personali e familiari, dodici persone che, citando proprio uno di loro, il De Sanctis,

ebbero “parimenti sdegno di essere oppressi e di farsi oppressori” (vedi nota 9).

Giurando, infatti, avrebbero avvallato l’oppressione e l’oppressore, divenendone collaboratori, complici, sia pur riluttanti. Preferirono dire no. E ad essi Giorgio Boatti ha dedicato il suo Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini (Einaudi, 2001), nel quale ha raccontato con delicatezza, rispetto e umanità le loro 12 diverse ma intrecciate complesse vicende.

Cosa resta di questa loro fermezza oggi? Cosa ci insegna il loro non sbandierato coraggio?

Se, nel 1931, invece di essere solo 12, fossero stati 1.250 a opporre un rifiuto? O, se almeno lo avessero fatto tutti i non-fascisti …[17]?

La Storia non si fa con i se, com’è noto. Però, questa storia, come altre analoghe vicende, ci ricorda che si può perdere la libertà – e con essa, presto o tardi, magari anche la vita (pensiamo a quanti milioni di esseri umani sono morti fino al ’45 per l’avvento dei fascismi in Europa) – un poco alla volta. Ci ricorda che la libertà può essere sbriciolata non soltanto, dunque, da un repentino, imprevedibile (?), colpo di stato, ma anche dal crescere sotterraneo di nazionalismo, intolleranza, fanatismo e autoritarismo. Dal crescere di una propaganda basata sull’odio, sulla sfiducia, sul sospetto e sul capro espiatorio. Ma veicolata (anche) in modo mascherato come se si trattasse di formulare propositi e misure di buon senso. Camuffati da pragmatismo, proposti come ovvietà da riaffermare, venduti come sacrosanta tutela dei più deboli, spacciati come animati da propositi di giustizia vera e rapida, smerciati come pervasi da amor di patria e amore per il popolo, si sviluppano i sistemi liberticidi. 

Incensandosi come unici e valorosi combattente contro il Sistema, demonizzando uno o più gruppi sociali,  delegittimando culturalmente e moralmente, ancor prima che politicamente, chi non ci sta, riescono ad imporsi con efficacia radicale. Accusando i dissenzienti di non amare il proprio Paese, anzi di essere traditori del popolo, giungono ad isolare socialmente e ad emarginare politicamente ogni opposizione e ogni voce critica verso la demagogia imperante.

L’indisponibilità a non essere contemporaneamente oppressi e complici dell’oppressore

Sicché alla fine c’è il rischio che ne restino soltanto 12 indisponibili ad essere contemporaneamente oppressi e sostenitori – magari silenziosi, svogliati, riluttanti o distratti – dell’oppressore.

Il libro di Giorgio Boatti ci aiuta anche rammentare che la resistenza di pochi, per quanto coraggiosa, sobria e ferma, non basta a tutelare tutti. Può salvare la dignità, il rispetto di sé, di quei pochi che opposero un fermo, non ostentato, rifiuto, ma non protegge e non riafferma la dignità di tutti gli altri. E ancor prima ci fa presente che non si può delegare a pochi l’onere di assumere la responsabilità di tenere gli occhi aperti.

Alberto Quattrocolo

Fonti:

Giorgio Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini (Einaudi, 2001)

www.wikipedia.org

[1] Nel 1924, meno di due anni dopo dalla marcia su Roma, il governo di Benito Mussolini e lo stesso fascismo avevano rischiato di essere travolti a seguito del rapimento e dell’assassinio del deputato socialista unitario Giacomo Matteotti (su questa rubrica è stato pubblicato un post su questo delitto in occasione della ricorrenza del ritrovamento del cadavere di Matteotti: il 16 agosto), ma, avevano retto e, anzi, da lì a poco, il Governo aveva dato luogo ad una forte accelerata nell’opera liberticida di instaurazione del regime (ne abbiamo parlato nel post Dall’Aventino alla dittatura ).

[2] Il decreto legge del 24 dicembre del 1925 dispose la rimozione dal servizio per tutti i funzionari statali (quindi anche gli insegnanti) i quali non diano «per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori di ufficio piena garanzia di un fedele adempimento dei propri doveri o si ponessero in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo». Poi per cercare di azzittire anche quei dissidenti che, per non finire in galera o al confino, erano espatriati, un’altra norma del periodo prevedeva la perdita della cittadinanza italiana per chi all’estero commetteva o concorreva a commettere fatti diretti a turbare l’ordine pubblico nel Regno o volti alla diminuzione del buon nome o del prestigio dell’Italia, anche se il fatto non costituiva reato.

[3] Autore di 3.800 opere, tra cui una Storia del Cristianesimo, composta di tre volumi. Alla fine del fascismo non fu reintegrato nel ruolo di professore ordinario, in virtù di un’interpretazione dei Patti Lateranensi che vietavano ai sacerdoti scomunicati di essere titolari di una cattedra di un’università statale. Nel 2012 ebbe il riconoscimento postumo di giusto tra le nazioni dall’istituto Yad Vashem di Gerusalemme, per avere salvato dalla deportazione (nascondendolo a casa sua) Giorgio Castelnuovo, un tredicenne ebreo, affidatogli dalla famiglia, durante la guerra.

[4] Lavorando come medico nelle carceri torinesi, negli anni Venti conobbe molti oppositori del fascismo e, quando suo cognato Guglielmo Ferrero fu costretto all’esilio, lui e la sua famiglia divennero un punto di contatto tra gli antifascisti torinesi e quelli rifugiati all’estero. Si avvicinò così al movimento di Giustizia e Libertà.

[5] Si era opposto all’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 l’abbiamo ricordata nel post Oh, che bella guerra), che considerò una inutile strage; nel ’23 iniziò il suo quarto volume della Storia dei Romani con una dedica: «A quei pochissimi che hanno parimenti sdegno di essere oppressi e di farsi oppressori». Poi, nel ’29, Giovanni Gentile, Ministro dell’Educazione, gli affidò la responsabilità della sezione di Antichità classica per l’Enciclopedia Italiana.

[6] Morì nel ’33, non arrivando così a patire sulla propria pelle le discriminazioni e le persecuzioni antisemite avviate con le vergognose leggi razziali del ’38.

[7] Rientrò in Italia a guerra finita, dove morì ottantunenne. Nelle sue memorie scrisse il suo disappunto per il fatto che molti in seguito credettero che egli avesse perso la cattedra non a causa del suo rifiuto di piegarsi al giuramento, ma perché ebreo, a seguito delle leggi antiebraiche dell’autunno del ’38 (le abbiamo ricordate nei post Il Manifesto della razza si presentò agli Italiani il 15 luglio 1938 e 22/08/1938: censimento speciale nazionale degli ebrei in Italia). Disappunto connesso al fatto che «tra coloro che persero la cattedra per motivi “razziali” ve n’era più di uno che fin dalla prima ora e fino all’ultima aveva militato con entusiasmo e devozione sotto l’insegna del littorio».

[8] Studioso di filosofia del diritto, si interessò alle grandi questioni sociali: l’occupazione femminile, le cause economiche e culturali di alcuni tipi di criminalità.

[9] Era stato arrestato in una retata che aveva coinvolto anche Ernesto Rossi, Ferruccio Parri, Umberto Ceva e buona parte degli aderenti milanesi a Giustizia e Libertà e che era stata sfruttata da Mussolini per diffondere il timore dell’Ovra – la polizia segreta fascista denominata in quel modo dal duce stesso. L’Ovra, per proteggere il suo vero informatore, infiltrato nel gruppo, Carlo del Re, fece trapelare la falsa notizia che a tradire gli aderenti a Giustizia e Libertà fosse stato Luzzatto, ormai sessantenne, che venne particolarmente colpito sia dal suicidio in carcere di Umberto Ceva che dalle dure condanne inflitte agli altri nel ’31.

[10] Nel ’43, quando a seguito della notizia dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, le truppe tedesche presero il controllo della penisola (ne abbiamo parlato nel post 8 settembre 1943, giorno dell’armistizio di Cassibile), Luzzatto con la sua famiglia si sottrasse alla deportazione, rifugiandosi in Svizzera. Morì nel ’54.

[11] Ma aveva sempre mantenuto una posizione di estraneità alle lotte politiche: non aderì né al Manifesto degli intellettuali fascisti di Gentile né al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Croce.

[12] Sceglierà di vivere appartato a Borgofranco d’Ivrea, dopo la morte del figlio ventenne, nel ’47. E, provato dalla malattia, deciderà di togliersi la vita nell’83, insieme alla moglie. Li troveranno abbracciati nel letto.

[13] A Parigi, Franco, studente alla Sorbona, entrò nel gruppo parigino di Giustizia e Libertà (i suoi amici del gruppo torinese di Giustizia e Libertà erano stati arrestati e lui stesso era stato fermato), per poi essere incarcerato in Spagna e successivamente riportato in Italia e inviato al confino. Partecipò, dopo l’estate del 1943, in Val Pellice, alla Resistenza nelle formazioni di Giustizia e Libertà. Ma anche Lionello nel ’38 finì nel bollettino dei ricercati diramato dalla Polizia Italiana, poiché dopo l’assassinio fascista dei fratelli Rosselli (li abbiamo rievocati nei post Non mollare e 1937, omicidio dei fratelli Rosselli) scrisse l’Invocation à l’homme, un appello sui diritti umani devastati dal regime fascista. Dopo l’approvazione delle leggi antiebraiche creò la sezione italiana della Lega internazionale contro il razzismo.

[14] Finita la guerra, rientrato in Italia, riottenne la possibilità di insegnare. Per dieci anni insegnerà all’Università di Roma, dove morirà il 18 agosto 1961.

[15] L’anno successivo concorse a fondare la Società italiana per il progresso delle scienze e la Società italiana di fisica.

[16] Nel 1936, grazie a padre Agostino Gemelli, fu nominato membro della Pontificia Accademia delle Scienze, l’unica che ne tenne una commemorazione funebre ufficiale nel 1940, quando morì.

[17] Quale sorte avrebbe avuto il fascismo, se, ancor prima, nel ’25, in reazione al regolamento generale delle regie università del 6 aprile 1924, che imponeva un giuramento di fedeltà al Re, violando la tradizionale indipendenza degli atenei e dei suoi docenti, tutti i professori avessero dato le dimissioni? Scelsero di agire in tal modo solo un numero ristretto di docenti e tra questi: Alberto Marghieri, Giuseppe Sanarelli, Alfredo Poggi, Gaetano Salvemini, Arturo Labriola, Enrico Presutti, Silvio Trentin e Francesco Saverio Nitti.

27 agosto 1916 Ungaretti scrive San Martino del Carso, mentre il Regno d’Italia dichiara guerra alla Germania

Il 27 agosto 1916 è una strana giornata: dal fronte italo-austriaco, dov’è arruolato come volontario, Giuseppe Ungaretti scrive la poesia “San Martino del Carso”, che in pochi scarni versi restituisce tutto l’orrore del conflitto in corso; in una beffarda coincidenza temporale, il Regno d’Italia inaugura un nuovo fronte bellico e, quindici mesi dopo il suo ingresso nella Prima Guerra Mondiale contro l’Impero Austro-ungarico (su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, l’abbiamo ricordato nel post Oh, che bella guerra), dichiara guerra anche alla Germania del Kaiser Guglielmo II. L’atto formale non fa che rendere ufficiale la rottura dei rapporti con l’ex partner della Triplice Alleanza, già destituita del suo significato – peraltro di mera natura difensiva – dal deflagrare del conflitto sul fronte italo-austriaco.

Il Regno d’Italia “si considera in stato di guerra con la Germania dal 28 corrente

Quel giorno, dopo un periodo di scaramucce diplomatiche, il Ministro degli Esteri Sidney Sonnino faceva rimettere al Governo Federale Svizzero, con preghiera di riferire al Governo Imperiale Germanico, la dichiarazione che l’Italia “si considera in stato di guerra con la Germania dal 28 corrente”.

Il comunicato adduce a fondamento i “non ulteriormente tollerabili” atti di “ostilità verso l’Italia”, quali le persistenti prestazioni di armi e strumenti bellici di terra e di mare fatte dalla Germania all’Austria-Ungheria, la partecipazione costante di ufficiali, soldati e marinai germanici nelle operazioni di guerra contro l’Italia, la riconsegna agli austriaci dei prigionieri italiani evasi dai campi di concentramento austro-germanici e rifugiatisi in territorio tedesco, l’invito diramato agli istituti di credito di considerare ogni cittadino italiano come uno straniero nemico sospendendo ogni pagamento dovutogli, la sospensione del pagamento agli operai italiani delle pensioni dovute.

Alla grave decisione sottenderebbero in realtà anche questioni strategiche, giacché sugli altri fronti l’esercito prussiano-germanico si sta rivelando meno invincibile di quanto la sua fama lasciasse supporre; la prospettiva di successo stuzzica le mire espansionistiche del governo italiano, focalizzate sull’ottenimento delle ricompense territoriali (Trentino, Sud Tirolo fino al Brennero, Venezia Giulia e Istria esclusa Fiume, parte della Dalmazia) promesse dal Patto di Londra stipulato nel 1915 con gli stati della Triplice Intesa, in base al quale era stata superata l’iniziale posizione neutrale dell’Italia, scavalcando la maggioranza parlamentare e buona parte dell’opinione pubblica.

Ogni palmo di terra ci ricordava un combattimento o la tomba di un compagno caduto. Non avevamo fatto altro che conquistare trincee, trincee e trincee. […] Ma la situazione era sempre la stessa. Presa una trincea, bisognava conquistarne un’altra.

Da quando l’Italia è entrata nel conflitto, il 24 maggio 1915, tutta la nazione è occupata dall’impegno bellico e gran parte della vita civile e industriale è stata riadattata alle esigenze economiche e sociali imposte dal fronte: il ruolo del parlamento passa in secondo piano rispetto a quello di governo ed esercito, compaiono la militarizzazione dell’industria e l’intervento sistematico dello stato nell’economia, la soppressione dei diritti sindacali a favore della produzione di guerra, i razionamenti per la popolazione e la requisizione dei mezzi di trasporto, l’entrata della donna nel mondo del lavoro per sostituire i coscritti; schiere di contadini sono chiamate alle armi (costituirono il 90% dei morti in combattimento), aggravando ulteriormente la scarsità di derrate alimentari; per finanziare i costi della guerra le tasse aumentano, provocando un calo dei consumi, con innalzamento dei prezzi e svalutazione.

Per mantenere alto il consenso della popolazione messo a così dura prova, nascono gli uffici di propaganda, la stampa viene controllata e censurata, si cerca di tenere alto il morale delle truppe attraverso spettacoli dietro le linee, mentre volantini e manifesti invadono le città; gli oppositori sono isolati e bollati come disfattisti.

Con buona pace dei sogni di gloria interventisti, nell’agosto 1916, al tempo della dichiarazione di guerra alla Germania, il conflitto presenta già caratteristiche molto diverse da quanto avevano ipotizzato strateghi, militari e politici: si pensava a una guerra di movimento, rapida, invece è una guerra di trincea, lunga e disastrosa. L’Italia si era illusa di poter sviluppare rapidamente un’azione offensiva tradizionale, il conflitto invece si impantana in una grande S, dal Tirolo all’Adriatico, con 700 km di territorio scavati per le trincee:

Ogni palmo di terra ci ricordava un combattimento o la tomba di un compagno caduto. Non avevamo fatto altro che conquistare trincee, trincee e trincee. […] Ma la situazione era sempre la stessa. Presa una trincea, bisognava conquistarne un’altra. (Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano).

Secondo Luigi Einaudi “è una guerra di materiali e di industria” visto il grande uso di artiglieri, gas tossici, aviazione (usata per lo più per la ricognizione): non era più la guerra dei grandi condottieri, degli strateghi, e nemmeno era la guerra dell’eroico scontro deciso dalle cariche di cavalleria.

Ciononostante, il Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito, Generale Cadorna, è ancora convinto che la guerra di logoramento sia una condizione temporanea, e che sia determinante la strategia di manovra delle truppe: pur riconoscendo il potere distruttivo delle nuove armi, il generale continua a insistere sul fatto che le posizioni nemiche debbano essere conquistate con ripetuti assalti frontali; fattore decisivo degli scontri era ritenuta la forza di volontà, lo slancio dei reparti e la determinazione a vincere dei soldati, capace di compensare qualunque svantaggio tecnologico o geografico.

Ma è proprio l’orografia dei luoghi del fronte a determinare condizioni di vita e tattiche di battaglia massacranti per i soldati. Il sostrato calcareo del Carso rende impossibile scavare trincee profonde senza mezzi meccanici, scheggiandosi pericolosamente a ogni esplosione di artiglieria, e l’altopiano è arido, privo d’acqua in estate e gelato dalla bora in inverno; sull’alto Isonzo e fino al confine con la Svizzera, a un’altitudine media sopra i 2.000 metri, le postazioni hanno difficoltà di rifornimento, con temperature inferiori ai -40° in inverno e valanghe che causano spesso più vittime del nemico.

Perciò i combattimenti impiegano di solito piccoli contingenti, per conquistare una cima o un picco dominante. Dapprima l’artiglieria colpisce le posizioni nemiche con bombardamenti che possono durare anche molti giorni, poi allunga il tiro sulle retrovie mentre i fanti escono dalle prime linee per l’attacco frontale; se il bombardamento non è stato efficace i soldati devono aprirsi un varco con cesoie o tubi di gelatina esplosiva, un compito pericolosissimo (i reparti incaricati erano ribattezzati “compagnie della morte“) che di solito produce solo modesti passaggi, dove gli uomini si ammassano divenendo facili bersagli per i nemici.

Il 27 agosto 1916 secondo il generale Cadorna e secondo il soldato Ungaretti

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Nella narrazione del conflitto, c’è una distanza incolmabile tra le dichiarazioni governative, militari, propagandistiche e la realtà del fronte: ecco la cronaca della giornata di cui ci occupiamo, secondo la prosa ufficiale di guerra o nelle parole del soldato Ungaretti.

Così il Generale Cadorna, bollettino del 27 agosto 1916:

Sulla fronte Tridentina il nemico eseguì in più tratti violenti tiri d’artiglieria, di bombarde e di fucileria senza farli seguire da attacchi di fanteria. Le nostre artiglierie ribatterono con efficacia e sconvolsero i lavori di approccio dell’avversario sulle pendici settentrionali del Monte Cimone (Valle d’Astico). Alla testata del torrente Digon (Alto Piave) i nostri ampliarono verso nord il possesso delle posizioni di Cima Vallone. Nella zona di Gorizia e sul Carso maggiore attività delle artiglierie nemiche verso i ponti dell’Isonzo e contro la linea del Vallone. Alcune granate caddero su Gorizia e su Romans.

Il punto di vista del poeta:
Valloncello dell’Albero Isolato, il 27 agosto 1916

Di queste case
non è rimasto
che qualche brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato

Ungaretti uscirà salvo dal conflitto, avendo mutato radicalmente l’opinione interventista che l’aveva indotto ad arruolarsi volontario (“È stata una delle guerre più stupide che si potessero immaginare, a parte che la guerra è sempre stupida; ma quella era particolarmente stupida”; “La guerra è e rimarrà l’atto più bestiale dell’uomo”).

L’albero isolato del valloncello di San Martino del Carso è oggi custodito nel museo di Szeged (Ungheria).
Il Generale Cadorna sarà destituito dopo la disfatta di Caporetto.
Nella Prima Guerra Mondiale sono morti circa 650.000 soldati italiani.

Silvia Boverini

Fonti: Giuseppe Ungaretti, “Il porto sepolto”, “L’allegria”, “Le lettere dal fronte a Mario Puccini”;
www.itinerarigrandeguerra.it;
Bernardo Valli, “Il fante Ungaretti contro d’Annunzio”, www.espresso.repubblica.it;
“Prima guerra mondiale”, www.treccani.it;
“Prima guerra mondiale”, www.scienzepolitiche.unipg.it;
“Prima guerra mondiale: cronologia, battaglie, protagonisti”, www.studenti.it;
www.wikipedia.org;
www.farnesina.ipzs.it;
www.scuoladicittadinanzaeuropea.it;
www.alpinigenovaquarto.wordpress.com;
Emilio Lussu, “Un anno sull’altipiano”;
Luigi Einaudi, “La condotta economica e gli effetti sociali della Grande Guerra”

26 agosto 2004: uccisione del reporter italiano Enzo Baldoni

Dal 1992, il Committee to Protect Journalists tiene aggiornato un doloroso conteggio delle uccisioni di giornalisti nelle zone di guerra in tutto il mondo: 1316 i caduti fino al 2018, di cui 186 in Iraq.

Tra questi ultimi, l’italiano Enzo G. Baldoni, di cui oggi ricorre l’anniversario della presunta data di morte, avvenuta nel 2004; in realtà, degli ultimi giorni di Baldoni, in Iraq come giornalista freelance e volontario per la Croce Rossa Internazionale, sono disponibili solo ricostruzioni sommarie, ammantate di un velo di polemiche.

I fatti conosciuti

Quello che si sa è che il 20 agosto 2004 il giornalista partecipa a una missione della Croce Rossa per portare aiuto e viveri a Najaf, una città a circa 160 km da Baghdad, sotto assedio a causa dei combattimenti tra le truppe statunitensi e l’Esercito del Mahdī iracheno: nel viaggio di ritorno, una mina esplode sotto la sua auto, presumibilmente in posizione avanzata rispetto al resto della colonna, che non si ferma; l’autista e interprete Ghareeb viene ucciso, Baldoni scompare.

Il primo allarme circa la perdita dei contatti con l’ambasciata italiana avviene già in serata, mentre il giorno dopo, con il rinvenimento del cadavere dell’autista, iniziano a circolare voci di un possibile sequestro. Martedì 24, Al Jazeera trasmette il video con cui l’organizzazione armata Esercito Islamico dell’Iraq rivendica il rapimento, mostra brevemente il giornalista e pone un ultimatum di 48 ore, affermando di “non poter garantire la sicurezza dell’ostaggio o la sua vita” se il governo italiano (guidato all’epoca da Berlusconi) non effettuerà una dichiarazione d’impegno a ritirare le proprie truppe dal territorio iracheno; poco dopo Palazzo Chigi diffonde una nota: il governo è impegnato per far tornare in libertà Enzo Baldoni, ma ribadisce che la presenza italiana “militare e civile” in Iraq continuerà.

Si susseguono gli appelli video ai rapitori: i figli, il direttore del settimanale “Diario” Enrico Deaglio e l’allora ministro degli Esteri Frattini evidenziano la figura di uomo di pace del giornalista, domandandone la liberazione.

Giovedì 26 è ancora Al Jazeera a trasmettere il comunicato dell’Esercito Islamico dell’Iraq in cui si dice che “l’esecuzione dell’italiano risponde al rifiuto del governo italiano di ritirare i suoi soldati dall’Iraq entro 48 ore”. Lo scarno messaggio, che non mostra l’uccisione, coglie tutti di sorpresa: in casi analoghi, mai i sequestratori avevano dato corso alle minacce alla scadenza del primo ultimatum.

I dubbi

Non c’è stato tempo”, dice una fonte investigativa contattata dall’agenzia Ansa, “i canali per mettersi in contatto con i sequestratori potenzialmente esistevano, ed erano buoni”.

Esponenti del Governo, fonti dei Servizi e Croce Rossa, ognuno nell’ambito di sua competenza, ribadiscono di aver attivato i canali diplomatici e tutti i contatti disponibili.

Commentatori meno istituzionali accusano invece le agenzie governative di aver sottovalutato segnali e informazioni delle intelligence internazionali, perdendo di vista la natura esplicitamente politica e militare di questo sequestro, per non dover ammettere di fronte all’opinione pubblica che il coinvolgimento italiano nelle operazioni militari in Iraq mette in pericolo tutti i cittadini che per qualsiasi motivo, solidarietà o lavoro, si rechino nell’area.

E mentre un paio di giornali filogovernativi avviano una campagna di denigrazione dell’uomo e del professionista Baldoni, dileggiandolo come un avventuriero radical chic allo sbaraglio, i familiari non hanno nemmeno un corpo da seppellire: i resti saranno riportati in Italia soltanto nel 2010, dopo una trattativa insolitamente complessa, cosa che non ha mancato di alimentare sospetti e illazioni.

Chi era Enzo Baldoni?

Cinquantaseienne, umbro di origine ma milanese di adozione, padre di famiglia, copy-writer di successo, pioniere dei blogger, traduttore italiano di fumetti di fama planetaria, collaboratore freelance per diverse testate, Enzo Baldoni aveva maturato relativamente tardi la passione per i reportage da luoghi difficili.

Una vocazione nata nel 1996 in Chiapas, Messico, dove conobbe il subcomandante Marcos, e proseguita tra i bambini delle fogne di Bucarest, poi in Birmania a testimoniare lo sterminio dei Karen, e ancora Timor Est, le sofferenze nel lebbrosario di Kalaupapa nelle Hawaii, la giungla tailandese, i guerriglieri delle Farc in Colombia; da Baghdad aveva promesso un reportage sulla resistenza irachena per il settimanale di approfondimento “Diario”.

“Qualcuno pensa che io sia un mezzo Rambo che ama provare emozioni forti, vedere la gente morire e respirare l’odore della guerra come Benjamin Willard l’odore del napalm la mattina in ‘Apocalypse now’, invece sono lontano mille miglia da questa mentalità, molto semplicemente sono curioso. Voglio capire cosa spinge persone normalissime a imbracciare un mitra per difendersi. Uno studio quasi da entomologo.”.

Visto con lo sguardo altrui

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L’Ordine dei Giornalisti lombardo ha inserito Enzo Baldoni fra i 14 martiri del giornalismo, ammazzati dallo squadrismo fascista, dal terrorismo rosso, dal terrorismo internazionale, dalla mafia e dalla camorra. Nel 2005 il suo nome è stato aggiunto al Journalist Memorial, il monumento situato nel giardino del Museo della Stampa ad Arlington (Virginia, USA), dedicato ai reporter caduti sul lavoro nel mondo a partire dal 1812.

Chi l’ha conosciuto lo descrive come un idealista, un sognatore, tanto ironico e irriverente quanto carico d’umanità. Inviato di guerra anomalo, non opinionista e neppure corrispondente, ma semplice reporter che coglie l’attimo e lo narra nella sua nudità, sceglie di mantenere sulle cose “lo sguardo di Candide”, libero da preconcetti.

Scrive Barbara Spinelli, poco dopo la notizia dell’omicidio:

Della guerra irachena lui ha descritto l’assurdo […] e nell’assurdo è capitato nell’ora della morte, poco importa l’esatto momento in cui è avvenuta. […] Ha incontrato un sequestratore che ce l’aveva a morte con l’Occidente, ma col quale era del tutto inutile comunicare, esercitarsi in dialettica. Quel che ha ottenuto è uno scontro tra due racconti eguali ma inconciliabili, giacché per ambedue – sequestrato e sequestratore – il discorso fatto dall’altro dev’essere apparso, come in Shakespeare, ‘un racconto narrato da un idiota, pieno di furia e di rumore, senza alcun significato’. […] Per gli strateghi della deterrenza nucleare, questo è stato, da sempre, l’anello debole della strategia militare dell’Occidente: l’eventuale apparizione di un avversario col quale non sarebbe stato possibile parlare razionalmente, e nei confronti del quale la logica della deterrenza (tu mi puoi uccidere, ma nello stesso tempo ucciderai te stesso) non avrebbe funzionato. L’irruzione sul palcoscenico politico e bellico dell’irrazionale, della follia, dell’odio che non sa dar ordine a se stesso e sfocia in caos. L’impotenza del logòs, della parola detta per argomentare, per convincere, infine per dissuadere […] s’instaurano in Iraq dopo l’intervento occidentale, e su questo vale la pena meditare, con lo stesso sguardo candido, non ideologico, che ebbe Baldoni: non necessariamente per ritirare le truppe dall’Iraq, ma per sapere almeno la guerra che si combatte, per cercare maniere meno inefficaci di parlare all’avversario.

 

Silvia Boverini

Fonti:
Mauro Valentini, “Gli occhiali rotti di Enzo Baldoni”, www.cronacaedossier.it;
Pietro del Re, “Io viaggio per la pace”, www.repubblica.it;
“Baldoni, il gelo degli 007. Pensavamo di salvarlo”, www.repubblica.it;
Giuseppe d’Avanzo, “Quei segnali non capiti”, www.repubblica.it;
Barbara Spinelli, “Il martire di Baghdad”, La Stampa 29/08/2004, in www.odg.mi.it;
www.cpj.org

25 agosto del 1944: Parigi è liberata!

Esattamente otto mesi prima della fase culminante della liberazione della nostra penisola, oltralpe le forze alleate espugnavano la capitale francese.

L’operazione Overlord era iniziata il 6 giugno precedente, con l’invasione da parte delle forze anglo-americane della Francia occupata dalle truppe naziste, muovendo dalle spiagge della Normandia, nel celeberrimo D-Day (su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, abbiamo ricordato lo sbarco in Normandia nel post Gli amici del 6 giugno): le richieste di Stalin furono esaudite e gli Alleati decisero finalmente di liberare l’Europa del nord-ovest. Lo sbarco e le successive operazioni alleate (denominate complessivamente battaglia di Normandia) comportarono il progressivo ritiro delle forze naziste, che, contemporaneamente, dovevano sostenere l’offensiva della Russia sul fronte orientale. La Sacca di Falaise (12-21 agosto) fu uno degli ultimi combattimenti prima dell’arrivo alla Ville Lumière, durante il quale i tedeschi furono circondati e sconfitti, riportando ingenti perdite.

La lentezza con cui gli Alleati misero in atto la manovra conclusiva diede, tuttavia, il tempo di fuggire a centinaia di migliaia di nemici, i quali, però, non rientrarono a Parigi. La capitale fu, infatti, lasciata con un piccolo contingente di 20.000 uomini, male armato e organizzato, di cui faceva parte anche la Milice française del Governo di Vichy, vale a dire quel governo francese che collaborava con l’invasore germanico. Analizzata la situazione, il Führer ordinò di distruggere le infrastrutture e i monumenti della città, di reprimere definitivamente ogni resistenza, di deportare in Germania tutti i prigionieri politici che era possibile trasportare, fucilando i rimanenti. In altre parole, ordinò di commettere dei crimini di guerra.

Il console e il generale

Il generale Von Choltitz, nominato da Hitler in persona comandante militare dell’intera Parigi il 7 agosto, non seguì le disposizioni del proprio superiore, grazie anche alla fine opera diplomatica svolta dall’allora console generale di Svezia Raoul Nordling. L’attività di negoziazione che costui mise in atto in quei giorni di tensione permise la relativa stabilità della tregua patteggiata: da un lato, i resti dell’esercito tedesco, dall’altro, la resistenza francese. Tregua che, tuttavia, ebbe uno sviluppo molto altalenante, con frequenti interruzioni, sanate poi dallo stesso Nordling.

Pur osteggiati da Gestapo ed SS, il console e il generale riuscirono a liberare numerosi dei prigionieri condannati a deportazione o morte, facendo circolare ordini di liberazione tra carceri e campi sotto il dominio nazista. Inoltre, la tregua, per quanto incostante, permise di salvare innumerevoli vite da una parte e dall’altra, che sarebbero state strappate dal conflitto, oltre a evitare la probabile distruzione della città.

 

La liberazione

Grazie alla pressione esercitata da De Gaulle sul comando alleato, guidato dal futuro presidente statunitense Eisenhower, le forze francesi furono le prime a varcare le soglie della propria capitale, dando un forte segnale simbolico di riappropriazione della terra sottratta dal nemico. La stessa marcia su Parigi fu oggetto di forti dispute tra i generali, poiché alcuni la ritenevano militarmente inutile, oltre che politicamente interessata. In effetti, tale era la valenza attribuita ad essa da Charles De Gaulle, che, sottrattosi ai nazisti riparando in Inghilterra, era presidente del Governo provvisorio della Repubblica francese.

Ad ogni modo, il 25 agosto Von Choltitz accettò le condizioni della resa alla presenza del generale Leclerc, comandante di una delle divisioni francesi, presso il municipio della città. Di conseguenza, i tedeschi rimasti deposero ufficialmente le armi. Parigi era di nuovo libera e nelle mani dei francesi.

Alessio Gaggero

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Eccidio nazifascista di Vinca 24 agosto 1944

Giovanni, si ammazza?
– Ammazzane quanti ne vedi.

Il suono carnascialesco di un organetto accompagna in sottofondo le scene di un massacro. La mattina del 24 agosto 1944, gli abitanti di Vinca, un piccolo borgo ai piedi delle Alpi Apuane, tra la musica, il fragore delle mitragliatrici, le urla dei feriti e gli ordini secchi in tedesco, percepiscono nettamente dialoghi in italiano, con l’inconfondibile inflessione dialettale della zona.

Non era la prima volta che le truppe naziste si avvalevano di collaborazionisti fascisti, ma l’eccidio di Vinca è forse il primo caso attestato in cui gli uomini delle Brigate Nere competono in efferatezza con i tedeschi, partecipando direttamente all’azione.

La strage, giudicata dagli storici come fra le più crudeli per le modalità delle singole uccisioni e per gli episodi di sadismo contro i civili, va inserita nel più ampio quadro della repressione antipartigiana  attuata  nel  triangolo  compreso  fra  Appennino, Apuane e mar Tirreno nell’estate 1944, a ridosso del tratto occidentale della Linea Gotica.

La storiografia ha evidenziato diverse modalità di azione, riconducibili alle strategie di dominio e occupazione attuate dai tedeschi sul territorio ed essenzialmente riassumibili nelle due categorie delle stragi per rappresaglia e della più generica strategia del terrore. Le prime erano perpetrate come risposta a una particolare azione partigiana, ponendosi l’obiettivo di creare un distacco tra la Resistenza armata e la popolazione civile (il caso emblematico è quello delle Fosse Ardeatine, 335 morti); le stragi determinate dalla strategia del terrore, prevalenti per quantità di casi e vittime, perseguivano invece l’obiettivo della cosiddetta terra bruciata, ossia del cercare di compromettere le condizioni di esistenza di una Resistenza organizzata, eliminando fisicamente la popolazione civile dalla quale le formazioni partigiane traevano sostentamento (come nel rastrellamento di Marzabotto, circa 800 vittime).

I protagonisti

In quella che fu definita “la marcia della morte”, tra gli abitanti della Lunigiana e del territorio apuano si conteranno 1092 morti, di cui gli uomini adulti costituiscono solo il 36% del totale: le operazioni si susseguono in un ciclo continuo pianificato di distruzione, dal maggio/giugno al  settembre 1944, ad opera sia della Wehrmacht che della 16ª Divisione SS “Reichsfhürer”, in quel periodo di stanza nel Castello Malaspina di Fosdinovo con il 16° Battaglione comandato da Walter Reder.

La 16ª SS Panzer Aufklärung Abteilung (gruppo corazzato esplorante, chiamato anche battaglione ricognizione, AA16) di Reder si appoggia spesso, per le operazioni nella zona, alla Brigata Nera “Mai Morti”, accasermata a Carrara e capeggiata dal Generale Biagioni e dal Colonnello Lodovici; equipaggiati per la guerra antipartigiana con mitragliatrici leggere e pesanti, i paramilitari della Repubblica Sociale compiono anche azioni di spionaggio, riferendo poi al controspionaggio nazista.

Il Corpo Ausiliario delle Squadre d’Azione delle Camicie Nere era stato istituito da meno di due mesi, in parte per ragioni ideologiche (riportare il Partito Fascista Repubblicano all’attivismo combattente delle origini) e in parte per la necessità di avere un serbatoio di risorse umane di supporto nel controllo del territorio. Secondo il decreto istitutivo, l’arruolamento era riservato ai soli iscritti al Partito e del tutto volontario: successive circolari applicative specificarono tuttavia che l’iscrizione al PFR per gli uomini tra i 18 e i 60 anni di età non già soggetti ad altri obblighi militari era subordinata alla contestuale domanda di arruolamento nelle Brigate Nere (le divisioni provinciali del Corpo), in quanto “non merita l’onore di militare nel partito chi non si senta di servirlo in armi”, sottolineando inoltre “l’obbligo morale” da parte dei fascisti già iscritti al PFR ad arruolarsi.

Gli alleati nazisti non ripongono eccessiva fiducia nelle capacità militari delle Brigate e tendono a relegarle in azioni di mero affiancamento, spesso come guide o ausiliari; tuttavia, “il Monco chiamò e i Mai Morti risposero” e il 23 agosto 1944 il Maggiore Reder dispone che due plotoni di fascisti appoggino la 4ª e 5ª compagnia della AA16 nell’imminente rastrellamento nella zona di Vinca.

I fatti

Il pretesto è l’uccisione di un ufficiale tedesco avvenuta pochi giorni prima nell’assalto a un automezzo in un’area controllata dai partigiani; un migliaio di soldati tedeschi, già distintisi nelle carneficine nell’Europa dell’Est ai danni di ebrei, slavi e zingari (lo stesso Reder vi aveva riportato la mutilazione di un braccio, da cui il soprannome), partono insieme a un centinaio di fascisti. Nelle parole di un testimone, undicenne all’epoca, “non erano ubriachi, né drogati, ma abituati a questo tipo di azioni. E non fu una rappresaglia come disse Reder al processo a Bologna. Sapevano che in paese c’erano solo donne e bambini, tanti vecchi e qualche maschio adulto. Che si salvò fuggendo ma per un motivo solo: che già sapeva cosa fosse successo a Sant’Anna settimane prima (ne abbiamo parlato qui). Eppure vennero su in mille, con quasi 100 mezzi. Portarono con sé anche un cannone, come se andassero veramente a combattere.”.

Secondo uno schema già visto, mentre alcune colonne accerchiano la zona, il grosso del plotone, guidato dai brigatisti neri lungo i sentieri che attraverso i boschi conducono al paese, per tutta la giornata uccide, saccheggia e brucia; ritiratisi per la notte, l’indomani i nazifascisti si ripresentano, cogliendo di sorpresa e finendo di sterminare i sopravvissuti intenti a seppellire i morti, estendendo poi il massacro alle località limitrofe, fino al 27 agosto. Le testimonianze sono agghiaccianti: cadaveri rinvenuti nudi, decapitati, impalati, un feto strappato dal ventre della madre, una neonata usata per il tiro al bersaglio in aria, il parroco fucilato a tradimento alle spalle mentre, muovendo da una zona sicura, tornava per proteggere i suoi compaesani; su tutto, aleggia il suono dell’organetto, dettaglio comune ad altre stragi nella zona, e le voci degli assassini che parlavano lo stesso dialetto delle loro vittime.

I morti accertati sono in totale 171, la maggior parte donne (95) e quasi metà bambini (di cui quattro fino a un anno e undici fino a dieci anni) e anziani, fra cui molti infermi e malati; di quelli che si sono trovati dentro il cerchio del rastrellamento, solo due si salvano. Nello straniante linguaggio del censimento post-bellico delle stragi nazifasciste, negli archivi della Resistenza l’eccidio di Vinca è classificato come rastrellamento o massacro eliminazionista.

L’accertamento delle responsabilità

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Viene compiuta una prima inchiesta statunitense, a cui segue una investigazione del SIB britannico: la strage di Vinca è tra i capi d’imputazione del processo a carico del generale della 16ª Divisione SS “Reichsfhürer” Max Simon (Padova, 1947), che viene condannato all’ergastolo.

Il 31 ottobre 1951 Walter Reder è condannato all’ergastolo dal Tribunale militare territoriale di Bologna per le stragi di Vinca e Marzabotto (Monte Sole), ma nel 1985 il Governo Craxi lo amnistia.

Sessantaquattro membri della Brigata Nera apuana guidata dal Generale Biagioni sono processati dal Tribunale di Perugia con l’accusa di “strage continuata” (che cumulava i reati commessi a Vinca e a Bergiola Foscalina): la sentenza emessa il 21 marzo 1950 esprime condanne severe (11 ergastoli), destinate tuttavia ad ammorbidirsi a causa dell’applicazione dell’amnistia; il Colonnello Lodovici è prosciolto per insufficienza di prove.

Nel 2009, il Tribunale Militare di Roma condanna all’ergastolo nove ex militari nazisti ancora in vita e riconosce la responsabilità civile della RFT, ma, come in altri casi analoghi, la Germania non concede l’estradizione né applica la pena, e nel 2012 la stessa Cassazione italiana sancisce l’inapplicabilità della richiesta di risarcimento.

Silvia Boverini

Fonti:
Corrado Benzio, “Le stragi del ’44 / Vinca: il Monco li chiamò. E i Mai Morti risposero”, 24/08/2014, http://iltirreno.gelocal.it;
www.wikipedia.org;
http://www.isrlaspezia.it;
www.straginazifasciste.it;
www.archividellaresistenza.it;
A. Domenici, “I cagnolini di Reder”, www.iet.unipi.it;
“Stragi naziste, da Marzabotto a Cefalonia: 8 ex militari sono ergastolani, ma la Germania non esegue le condanne”, 07/03/2017, www.ilfattoquotidiano.it

La libertà e la mediazione

Il fondamento della mediazione sviluppata da Me.Dia.Re. è la libertà dei soggetti protagonisti del conflitto. Da ciò deriva lo svincolarsi di tale pratica da dettami “tecnico-produttivi”.

Tale modello di mediazione dei conflitti (definito “Ascolto e Mediazione“), infatti, utilizza alcune tecniche senza però essere essa stessa una tecnica. Poiché la pratica della mediazione non è descrivibile in termini scientifico-procedurali, essa può essere considerata una forma di “prassi”, cioè di azione pura, e quindi non un fare produttivo.

In altri termini, il rispetto della libertà dei protagonisti del conflitto è alla base dell’astensione, da parte del mediatore, dal tentare di modificare i loro comportamenti, atteggiamenti, pensieri, sentimenti o emozioni. Cioè, in tale modello mediativo, il mediatore, nel relazionarsi con le parti, non impiega delle tecniche per “produrre qualcosa che prima non c’era”.

Tale approccio mediativo, dunque, aspira ad essere “un’azione pura”, proprio perché il fine del percorso non consiste nel dare luogo ad un risultato predefinito, cioè la risoluzione del conflitto.

Infatti, se il mediatore intraprendesse il perseguimento di tale obiettivo, nella sostanza, agirebbe e dispiegherebbe delle tecniche per produrre un cambiamento nella relazione tra i confliggenti e, quindi, per generare in essi stati emotivi e affettivi e di elementi cognitivi e comportamentali differenti da quelli iniziali.

Nell’approccio proposto da Me.Dia.Re., nei Servizi di Mediazione Familiare e nei Servizi di Mediazione in altri ambiti, e nei suoi percorsi di formazione, l’obiettivo del percorso è il percorso. Il senso dell’azione è l’azione stessa. In termini meno astratti: l’ascolto è svolto con l’obiettivo che le persone si sentano ascoltate e non che cambino emozioni, comportamenti o idee.

L’esperienza (non tantissima ma neanche pochissima: si tratta pur sempre di circa vent’anni anni di esperienza) dice, però, che proprio rispettando la libertà di essere e di agire dei confliggenti aumentano significativamente le possibilità che il percorso produca un risultato ulteriore: un’elaborazione e un superamento delle istanze conflittuali inizialmente proposte.

 

Rielaborazione da D’Alessandro M., Quattrocolo A. (2007) La Mediazione Trasformativa come Prassi, Quaderni di Mediazione, Anno II, n. 5.

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