A Pesaro, l’8 luglio 2017, si svolgeva la manifestazione dei free-vax.

Alle 17.30 dell’8 luglio 2017 iniziò a Pesaro la manifestazione nazionale per la libertà di decidere se fare vaccinare o meno i propri figli.

Il parco di Miralfiore venne occupato da circa 10mila free-vax, quasi tutti in maglietta arancione, per protestare contro il decreto Lorenzin.

Liberi di decidere se far vaccinare o meno i nostri figli” era, in sintesi, la ragione dichiarata della manifestazione.

I free-vax, infatti, non si dicevano “no-vax”, perché, dal loro punto di vista, non si tratta di essere favorevoli o contrari alle vaccinazioni, ma di avere la libertà e le informazioni sufficienti per poter decidere. La manifestazione, in particolare, intendeva esprimere il dissenso al Decreto legge 7 giugno 2017, n. 73, Disposizioni urgenti in materia di prevenzione vaccinale. Il Decreto sarà convertito con modifiche in legge il 28 luglio (Legge di conversione 31 luglio 2017, n. 119).

La norma portò il numero di vaccinazioni obbligatorie nell’infanzia e nell’adolescenza da quattro a dieci, con l’obiettivo, si legge, di contrastare quel progressivo calo delle vaccinazioni, sia obbligatorie che raccomandate, in corso dal 2013, che ha determinato una copertura vaccinale media nel nostro Paese al di sotto del 95%. Quest’ultima è, infatti, la soglia raccomandata dall’Organizzazione mondiale della sanità per garantire la cosiddetta “immunità di gregge”, ossia per proteggere indirettamente anche coloro che, per motivi di salute, non possono essere vaccinati.

Nel corso della manifestazione di Pesaro (organizzata da: Comitato Salute e Diritti di Pesaro, Colors Radio, Il Sentiero di Nicola, Auret, Comilva, Corvelva, Rav Hpv, Vaccinare Informati, Condav) salirono sul palco anche il filosofo Diego Fusaro (secondo il quale la questione dei vaccini è una questione di interessi economici, di multinazionali e pensiero unico), il giornalista Gianluigi Paragone (eletto poi senatore alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, nel listino proporzionale, tra le file del Movimento Cinque Stelle) e il cantante Povia. Ma, soprattutto, intervengono alcuni genitori, secondo i quali i loro figli avrebbero contratto delle malattie per colpa dei vaccini. Fra questi Thomas Ghidotti del Sentiero di Nicola, che, sommerso dagli applausi, grida «assassini, maledetti» rivolgendosi a coloro che promuovono o sono favorevoli all’introduzione dell’obbligo vaccinale previsto dal Decreto.

 

Alberto Quattrocolo

 

7 luglio 1901: nasceva Vittorio De Sica. Lo omaggiamo ricordando Umberto D.

Nacque il 7 luglio del 1901 Vittorio De Sica, a Sora, in una famiglia che, secondo le sue parole,

viveva in una condizione di «tragica e aristocratica povertà».

Dopo aver esordito a teatro negli anni Venti, era diventato una star nostrana delle commedie cinematografiche nel decennio successivo. Aveva esordito alla regia nel ’39 e dopo tre celebri commedie, il toccante I bambini ci guardano e La porta del cielo, tutti film diretti durante la guerra (l’ultimo per evitare di finire a Salò), era diventato, con Roberto Rossellini, uno dei fondatori del Neorealismo cinematografico e uno dei maestri del cinema mondiale.

Uno dopo l’altro, infatti, nell’immediato Dopoguerra, diresse quattro capolavori: Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948), Miracolo a Milano (1951) e Umberto D. (1952), tutte pietre miliari del neorealismo cinematografico italiano, interpretate da attori non professionisti (ad interpretare il protagonista di Umberto D. è Carlo Battistiprofessore di glottologia all’Università di Firenze, e autore, con Giovanni Alessio e altri, del Dizionario Etimologico Italiano). I primi due film ottennero l’Oscar come miglior film straniero e il Nastro d’argento per la migliore regia. Ma il quarto gli procurò non pochi guai. In particolare, venne accusato da un autorevole esponente del Governo di mettere in cattiva luce l’immagine dell’Italia.

Umberto D., sceneggiato da De Sica e Cesare Zavattini (alla sua quarta collaborazione con il regista), in effetti, è molto amaro e realistico. Amaro, cioè, come solo può esserlo la realtà. Racconta la solitudine e il disagio di un anziano funzionario ministeriale, che, pur campando con una misera pensione, conserva la sua umanità, cioè la capacità di ascoltare e capire il prossimo, e tenta di preservare il rispetto di se stesso. Partecipa, all’inizio del film, ad un corteo non autorizzato di pensionati – i cui cartelli recitano «Aumentate le pensioni. Abbiamo lavorato tutta una vita» -, che viene fatto sgomberare dalla polizia, poi vende l’orologio per pagare l’affitto, ma scopre che il suo appartamento è subaffittato e viene zittito dalla padrona di casa, che lo minaccia di cacciarlo se non paga gli arretrati, così si mette a fare le elemosina, ma desiste quando incrocia un conoscente… Dopo un ricovero in ospedale, per una tonsillite, tenta di buttarsi sotto un treno per non essere più di peso a nessuno, ma all’arrivo del treno il suo cagnolino gli scappa. Distolto dal pensiero del suicidio, Umberto D. gioca con il cane, allontanandosi lungo un vialetto.

De Sica aveva dedicato il film a suo padre, Umberto De Sica. E, come già aveva sperimentato con i tre film precedenti, anche in tal caso gli toccò rilevare come in patria Umberto D. incassasse pochissimo.

In realtà, anche SciusciàLadri di biciclette avevano reso assai poco al botteghino italiano. Il primo, anzi, aveva mandato quasi in rovina, per l’esiguità degli incassi sul mercato interno, il suo produttore, l’italo-americano William Tamburella. Però, aveva reso più di un milione di dollari al distributore della pellicola negli USA. Non trovando un produttore disposto a finanziare il nuovo soggetto suo e di Zavattini, visto l’insuccesso commerciale di Sciuscià, De Sica dovette prodursi da solo Ladri di biciclette.

Già con Sciuscià De Sica aveva avuto dei problemi “politici”:

«Si vergogni! Si vergogni di fare film come questi. Che diranno di noi all’estero? I panni sporchi si lavano in casa“, ad esempio, gli era stato gridato contro al termine della presentazione del film a Milano.

Ma l’attacco che ricevette Umberto D. fu  molto più pesante.

Infatti, fu Giulio Andreotti a lanciargli la sua invettiva sul principale quotidiano di PiacenzaLibertà:

«Se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti – erroneamente – a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale».

Giulio Andreotti non era uno spettatore qualunque. Era il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. E stava conducendo già da qualche anno una “crociata” contro il Neorealismo. Era del 7 ottobre 1946 una sua lettera indirizzata ad alcuni industriali del cinema che esplicitamente intendeva «invitare ad orientare le loro iniziative verso temi e motivi più nobili, evitando il più possibile ogni elemento di spettacolo negativo dal punto di vista morale». Si riferiva, in particolare, a quei film neorealistici che trattavano temi quali «il banditismo», «i fuorilegge», «la pratica delle case di tolleranza», ecc. [1].

Umberto D. sarà poi inserito nella lista dei 100 film italiani da salvare, cioè le “100 pellicole che hanno cambiato la memoria collettiva del Paese tra il 1942 e il 1978”, sarà candidato alla Palma d’Oro a Cannes, otterrà il New York Film Critics Circle Award come miglior film straniero e sarà candidato agli Oscar per la miglior sceneggiatura. Soprattutto, resterà uno dei vertici del Neorealismo, il movimento che non solo tirò il cinema italiano fuori dalle secche del ventennio fascista, ma lo rese esemplare nel mondo, influenzando in misura diversa tutte le altre cinematografie, non solo occidentali, inclusa, tra queste, quella hollywoodiana.

Del resto, lo stesso De Sica si troverà poi a lavorare con capitali e divi internazionali, anche di Hollywood, spesso sfondando su tutti i mercati o quasi [2].

L’ultimo suo film da regista, Il viaggio, tratto da Pirandello e interpretato da Richard Burton, Sofia Loren e Ian Bannen, è girato nel ’74, cioè nell’anno della sua morte a Neuilly-sur-Seine (il 13 novembre).

Parlando di se stesso, Vittorio De Sica ha detto:

«No, io nego di essere svagato. Sembro addormentato, sembro disattento. E invece vedo tutto, ricordo ogni cosa e non dimentico nulla, proprio nulla».

Chiudiamo con un aneddoto sul padre Umberto. Vittorio De Sica racconta che un giorno suo padre venne fermato da un sarto cui doveva del denaro per avergli confezionato l’abito che indossava. Costui, arrabbiato, lo aveva preso per la giacca. Umberto De Sica, senza scomporsi, disse allora al suo aggressore che, dato che fino a quel momento era stato in cima alla lista dei suoi creditori, faceva bene a togliergli le mani di dosso se non voleva finire al fondo di quella lista.

Alberto Quattrocolo

 

[1] Non tutti i film Neorealismo o da questo influenzati venivano trascurati dagli spettatori italiani. Vivere in pace (1947), di Luigi Zampa, sfonda al box office, Il sole sorge ancora (1946), I fuorilegge (1949), di Aldo Vergano, vanno piuttosto bene quanto ad incassi, mentre In nome della legge (1949), di Pietro Germi, e Riso amaro (1949), di Giuseppe De Santis, addirittura sbancano al botteghino. Ma ve ne sono anche altri, che coniugando spunti e approcci neorealistici con stilemi propri di altri generi, conseguono buoni e perfino ottimi risultati commerciali, oltre che premi e riconoscimenti, non solo all’estero ma anche nel nostro Paese.

[2] Negli anni Cinquanta Vittorio De Sica interpreta alcuni grandissimi successi commerciali sotto la direzione di altri registi, tra cui Pane amore e fantasia (1953), che avrà tre sequel, e Altri tempi (1952), nell’episodio Il processo di Frine. Inoltre, diretto da Roberto Rossellini, interpreta Il generale Della Rovere (1959, premiato  al Festival di Venezia con il Leone d’oro, ex aequo con La grande guerra di Mario Monicelli) e il kolossal Addio alle armi (1957, di Charles Vidor), che gli vale la candidatura all’Oscar come miglior attore non protagonista. Affianca, inoltre, Alberto Sordi in alcune pellicole di grosso successo (Il conte MaxIl moralista, Il vigile). Nello stesso decennio dirige L’oro di Napoli (1952), Stazione Termini (1953) – finanziato da David O’ Selznick (il produttore, tra gli altri, di Via col vento Duello al sole) e interpretato da due superstar dell’epoca: Jennifer Jones e Montgomery Clift –  e Il tetto (1956). Negli anni sessanta realizzerà costose produzioni cinematografiche, finanziate da Carlo Ponti e interpretate da attori di fama internazionale, molte delle quali rendono incassi impressionanti e vengono premiate nei diversi festival: La ciociara (con Sofia Loren, Eleonora Brown, Jean Paul Belmondo, Raf Vallone e Renato Salvatori), in primo luogo, – che frutta alla sua interprete la vittoria dell’Oscar e quella del Festival di Cannes, nonché Il Nastro d’Argento, il David di Donatello, il Golden Globe, il premio del New York Film Critics Circle Award e la vittoria ai BAFTA -; ma anche Ieri, oggi e domani (con Marcello Mastrianni e Sofia Loren) incassa benissimo – e procura a De Sica un altro Oscar (come miglior film straniero) -, così come Matrimonio all’Italiana (di nuovo con la Mastroianni e la Loren, premiata al Festival di Mosca e candidata come miglior attrice, insieme alla pellicola, agli Oscar). Meno riscontro, anche dalla critica, ebbero Il giudizio universale (interpretato da un cast notevolissimo in cui figuravano tra gli altri: Anouk Aimée, Vittorio Gassman, Jack Palance, Alberto Sordi, Ernest Borgnine, Silvana Mangano, Lino Ventura, Paolo Stoppa, Fernandel, Nino Manfredi), I sequestrati di Altona (un’altra opera con un cast internazionale: Sofia Loren, Frederich March e Maximillian Shell) e Il boom (con Alberto Sordi e Gianna Maria Canale). Invece ebbe incassi elevati (e qualche problema con la censura) il film Bocaccio 70, di cui diresse solo uno dei quattro episodi (gli altri furono diretti da Federico Fellini, Mario Monicelli e Luchino Visconti). Dopo altre opere, non particolarmente apprezzate, realizzate tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo – tra le quali: Caccia alla volpe (con Peter Sellers, Britt Ekland, Victor Mature, Akim Tamiroff, Paolo Stoppa e Martin Balsam), Sette volte donna (con Shirley Maclaine, Peter Sellers, Micheal Caine, Elsa Martinelli, Vittorio Gassman, Alan Arkin, Philippe Noiret e Anita Ekberg), I girasoli (ancora con Mastroianni e la Loren), Amanti (con Faye Dunaway e M. Mastroianni) e Lo chiameremo Andrea (con Mariangela Melato e Nino Manfredi) -, sarà Il giardino dei Finzi-Contini, dal romanzo di Giorgio Bassani, a riportarlo al successo commerciale e a procurargli un ulteriore Oscar.

 

 

 

Il 6 luglio del ’44 le bombe uccisero 278 persone a Dalmine-Bergamo

Il 6 luglio del 1944, quando l’avanzata delle truppe alleate è ancora lontana dal liberare l’intera penisola, si svolge l’Operazione 614, nome in codice dell’azione di bombardamento di otto diverse località dell’Italia settentrionale, ancora occupata dai tedeschi e sottoposta al regime fascista della Repubblica Sociale Italiana (la cosiddetta Repubblica di Salò, di cui abbiamo ricordato la formazione nel post Il 18 settembre del ’43 Mussolini annuncia da Radio Monaco la costituzione della RSI). Tra i bersagli dei bombardieri americani ci sono le acciaierie di Dalmine-Bergamo. Sono le Officine Mannesmann, che lavorano a commesse militari per la Germania hitleriana.

Due gruppi di bombardieri decollati dal Sud Italia, alle 11 di mattina del 6 luglio, scaricano sopra la fabbrica più di 77 tonnellate di bombe, distruggendo le acciaierie, gli aggiustaggi e le finiture e devastando uffici e laminatoi. Muoiono, però, anche 278 persone e più di 800 restano ferite.

La Commissione prefettizia dell’agosto 1945 concluderà l’inchiesta affermando che la strage dei civili

fu conseguenza del fatto che il «segnale d’allarme non fu dato perché l’ufficio germanico di Milano, il quale solo aveva la facoltà di ordinarlo, lo aveva dato con deplorevole ritardo».

Tra le vittime vi furono la mamma e 7 figli della famiglia Mariano, la cui casa sorgeva vicino alle Officine Mannesmann.

 

Alberto Quattrocolo

5 luglio 2016: è riconosciuta l’innocenza di Ilaria Capua

Il Tribunale di Verona, il 5 luglio 2016, prosciolse una delle più famose ricercatrici italiane, Ilaria Capua, dall’accusa di aver diffuso ceppi di influenza aviaria per guadagnare dalla vendita dei vaccini. Il Tribunale la prosciolse da tutti i capi di accusa nell’inchiesta della procura di Verona, con la motivazione «il fatto non sussiste» (quindi non solo non lo aveva commesso lei, ma non lo aveva commesso nessuno quel reato: non si era realizzato alcun illecito).

Una delle principali esperte di virologia in Italia – nel 2011 ricevette il “Penn Vet World Leadership in Animal Health Award”, il principale riconoscimento della medicina veterinaria -, che nel 2013 era stata eletta alla Camera dei Deputati con il partito Scelta Civica, fu oggetto di attacchi particolarmente forti, soprattutto, in ambito politico.

Ad esempio, l’On. Marialucia Lorefice (Movimento 5 Stelle), alla Camera dei Deputati, l’11 aprile del 2014, dichiarava:

«Ci sembra lecito in questa sede chiedere le dimissioni da vicepresidente dalla Commissione cultura, ma anche da parlamentare della Repubblica italiana, della deputata Ilaria Capua, convinti che in una situazione del genere sia alquanto difficile riuscire a espletare al meglio il ruolo di non poco conto che si trova a ricoprire». Nello stesso intervento l’On. Lorefice parlava «di persone che mettono la propria intelligenza ed il proprio sapere deliberatamente al servizio del male».

In seguito al “polverone” mediatico e politico scatenatosi contro di lei, Ilaria Capua si dimise da deputata per trasferirsi negli USA, dove venne assunta come direttrice di un centro di ricerca ad Orlando, in Florida.

Allorché fu prosciolta da ogni accusa, un comunicato del gruppo M5s alla Camera conteneva le seguenti affermazioni:

«Ci rallegra la notizia del proscioglimento della deputata e collega e in commissione Cultura Ilaria Capua dall’accusa di essere coinvolta in un presunto traffico illegale di virus. Umanamente non potevamo che sperare che la vicenda si concludesse con un esito positivo”. Nello stesso comunicato era scritto: “Al contempo non possiamo condividere alcuni giudizi espressi da Capua nei nostri confronti e rispedire al mittente le accuse che ci sono state rivolte da alcuni suoi colleghi di partito. Quando, nel 2014, la deputata di Scelta civica venne iscritta nel registro degli indagati dalla procura di Roma noi chiedemmo soltanto una cosa: che Capua lasciasse il ruolo di vice presidente della commissione Cultura».

In realtà, il 7 luglio 2016, Paolo Mieli sul Corriere della Sera scrisse che la deputata del Movimento 5 Stelle «Silvia Chimienti (quella che aveva chiesto le dimissioni immediate) ha telefonato oltreoceano alla Capua per esprimerle il proprio rammarico per la sua presa di posizione di oltre due anni fa».

Ilaria Capua era stata sotto indagine per quasi un decennio, ma la notizia dell’inchiesta era apparsa solo nel 2014, quando il giornalista Lirio Abbate aveva ottenuto parte delle carte dell’inchiesta della magistratura e il settimanale l’Espresso aveva dedicato al caso l’intera copertina.

Ilaria Capua denunciò per diffamazione il direttore dell’Espresso dell’epoca e il vicedirettore Abbate, ma il gip del Tribunale di Velletri archiviò, nell’aprile del 2018, il procedimento, ordinando, però, anche la restituzione degli atti al pubblico ministero per la prosecuzione delle azioni di sua competenza con riferimento al reato di «pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale». Rispetto alla denuncia della Capua, la valutazione del giudice delle indagini preliminari di Velletri circa la copertina dell’Espresso “incriminata” fu che «i termini, le frasi e le immagini utilizzate (…) siano artifizi e mere enfatizzazioni letterarie, impiegati per una personale ma fedele ricostruzione dei fatti, senza avere un carattere denigratorio e lesivo alla reputazione della querelante». Inoltre, il gip valuterà il testo dell’articolo come «una fedele ricostruzione delle risultanze investigative acquisite dalla procura della Repubblica di Roma», ritenendo, dunque, che non si tratti di «una semplice invettiva personale ai danni della Capua, dato il concreto interesse della collettività a conoscere tale vicenda ad alto impatto sociale».

Nel giugno del 2020, intervistandola per Open.online, Serena Danna le ha chiesto:

«Come mai è tornata a occuparsi di virus?»

Questa è stata la risposta di Ilaria Capua:

«Ho capito che c’era troppa confusione. Sentivo persone dire cose completamente sbagliate, e ho avuto paura. L’esperienza “trafficante di virus” mi ha fatto capire la portata della devastazione delle fake news che, per colpa dei social network, hanno un potere di penetrazione pazzesco. Possono influenzare l’andamento della malattia quanto le regole e i decreti».

Rispondendo ad altre domande ha ancora aggiunto:

«Gli attacchi fanno molto male, anche perché sono una persona ancora fragile. Tutte le volte che viene fuori la vicenda giudiziaria sento ancora dolore. Io sono una sopravvissuta (…) Quando ho realizzato che ero accusata di un reato punibile con l’ergastolo mi sono vista in carcere per trent’anni con le prostitute nigeriane. Le carceri italiane sono piene di povera gente, non ci sono le menti criminali…Oggi sono una convalescente»

Alberto Quattrocolo

conflitto

La prima vittima del conflitto è la verità

Si dice che la prima vittima del conflitto sia la verità.

Ciascuna delle parti è convinta di averne il monopolio e rigetta i contenuti e gli argomenti della controparte, in quanto falsi. Essere dalla parte della verità, del resto significa anche essere dalla parte giusta, cioè della giustizia. Quindi, anche se si dovesse mentire, inventando dei fatti o alterandone la dinamica o il significato, magari nel tentativo di persuadere altre persone della validità e giustezza delle proprie idee e comportamenti, ci si può sentire, comunque, dalla parte della verità: infatti, la menzogna proposta verrebbe considerata solo come uno strumento al servizio del superiore fine della vittoria sulla controparte, che costituirebbe l’affermazione della giustizia sull’ingiustizia, del verso sul falso…

Se ciò è vero, a ben vedere, è perché ad essere ucciso dal conflitto è anche il dialogo. Anzi, ancor di più: perfino il confronto risulta compromesso, quando non del tutto soppresso.
Se si vuole gestire un conflitto altrui, come accade nella mediazione (che sia un’attività di mediazione familiare o di mediazione penale, o di conflitti sorti in ambito organizzativo-lavorativo, sanitario, sociale, scolastico, ecc.), occorre far sì che le parti (le persone) coinvolte abbiano la possibilità di esprimersi, di raccontare e di raccontarsi, e di sentirsi comprese.

Cioè, di essere liberate dal fardello di dover dimostrare la natura obiettiva e indiscutibilmente vera della loro verità.

Se ciascuna parte ottiene da chi gestisce il conflitto soltanto di essere udita, ma non sentita, è assai improbabile che si ristabilisca un confronto. E ancor più arduo è che si giunga ad un dialogo e, a seguito di questo, a quell’autentico riconoscimento reciproco tra le persone, che l’escalation del conflitto aveva seppellito sotto strati di paure, ostilità, risentimenti, pregiudizi, angosce, perdite e tristezze.
Tuttavia, se ciascuna delle persone in conflitto si sente ascoltata e, quindi, riconosciuta dal terzo (mediatore), non essendo più impegnata nello sforzo di farsi capire, di argomentare e di persuadere, avrà maggiori possibilità di svolgere un confronto con la controparte. Un confronto, in realtà, che è suscettibile di assumere le forme del dialogo.

Tratto dalla relazione di A. Quattrocolo (“La Mediazione Sanitaria, Penale e Organizzativo-Lavorativo”) al convegno “LA MEDIAZIONE A 360°. Presso l’Arena Samsung di Piazza della Repubblica, Milano, 18 ottobre 2017

Avrebbe compiuto 62 anni don Peppe Diana se non fosse stato ucciso (2 volte)

Oggi, 4 luglio 2019, avrebbe compiuto sessant’anni Don Diana. Infatti, Giuseppe Diana era nato il 4 luglio del 1958 , a Casal di Principe.

Fu ammazzato, invece, non ancora trentaseienne, nella sua parrocchia, la Chiesa di San Nicola di Bari, a Casal di Principe, alle 7.20 del 19 marzo 1994, quindi, nel giorno del suo onomastico. Stava per celebrare la santa messa, quando due camorristi entrarono in chiesa e chiesero ad alta voce:

«Chi è don Peppino?». Il parroco rispose: «Sono io».

Gli furono sparati contro cinque proiettili: due lo colpirono alla testa, uno alla mano, uno lo raggiunse al viso e uno al collo. Morì all’istante.

Ma si cercò di ammazzarlo anche dopo l’agguato camorristico. Anche da morto, quando quei colpi di pistola calibro 7.65 lo avevano privato della possibilità di replicare. Vi furono, infatti, tentativi di depistare le indagini e di infangare la sua figura. Don Peppe Diana, infatti, da morto, venne accusato di essere stato un frequentatore di prostitute, un pedofilo e il custode delle armi destinate a uccidere il procuratore Cordova

La Corte di Cassazione il 4 marzo 2004 ribaltò la sentenza di primo grado ed escluse che egli avesse preso in custodia le armi dei clan, accusa, questa, che aveva scatenato la macchina del fango. Sul Corriere di Caserta, infatti, erano apparsi titoli come:

«Don Diana era un camorrista» e «Don Diana a letto con due donne».

La sentenza della Cassazione stabilì che senza ombra di dubbio don Diana era stato trucidato per la sua quotidiana attività di contrasto alla camorra.

Furono condannati all’ergastolo, come esecutori dell’omicidio, Mario Santoro e Francesco Piacenti e, come mandante, il boss Nunzio De Falco .

Alberto Quattrocolo

3 luglio 1969 scoppia la rivolta di corso Traiano

Fu in corso Traiano, a Torino, il 3 luglio del 1969 che si svolse l’antefatto di quello che sarà lo storico «autunno caldo».

I sindacati avevano organizzato uno sciopero generale per protestare contro gli aumenti degli affitti e contro il sistematico ricorso agli sfratti. Quello dell’abitazione, infatti, era un problema sociale importantissimo.

Gli immigrati del Sud e del Nord Est d’Italia (un Nord Est dal quale ancora si emigra) popolavano i quartieri dormitorio di Torino, in alcune zone erano il 70 per cento degli abitanti. E, del resto, anche in fabbrica la proporzione era più o meno quella: la metà dei dipendenti era composta da immigrati giunti nell’ultimo decennio. E i treni in arrivo dal Mezzogiorno continuavano a portare ogni giorno altri immigrati. Il che stressava ulteriormente la cronica mancanza di abitazioni. La costruzione di case popolari, infatti, non soddisfava la domanda di alloggi da affittare.

La mattina del 3 luglio i cancelli della Fiat di corso Tazzoli e di via Settembrini era presidiati dalle forze di polizia. Dopo una sassaiola e dure reazioni, il corteo, circa 4 mila persone, dapprima si orientò verso il centro, poi cambiò direzione spingendosi verso corso Traiano.

La polizia tentò di bloccare i manifestanti all’altezza di via Pio VII. Il questore Guida con il megafono disse al corteo di sciogliersi.

Si arrivò di nuovo agli scontri, dapprima davanti alla Standa di via Nizza, poi, verso le 14, in corso Traiano, dove un corteo di giovani, di operai e studenti si diresse verso i cancelli di Mirafiori.

Scattò la reazione della polizia: sassaiole, lacrimogeni, cariche, incendi, ambulanze. Alla fine, vengono ricoverati 70 feriti, fermati 160 e arrestati 28.

La rivolta di corso Traiano aprì un ciclo di lotte che si svilupparono negli anni Settanta, ma quel 3 luglio non era arrivato per caso. Prima vi erano stati cinquanta giorni di lotta in fabbrica (un numero enorme di operai vi aveva aderito, bloccando completamente il ciclo produttivo)

Inoltre vi era il disagio: chi riusciva ad affittare una casa vera pagava un affitto sproporzionato rispetto al salario e non aveva alcuna difesa rispetto all’aumento dell’affitto, potendo essere sfrattato da un momento all’altro; migliaia di emigrati, però, vivevano nelle soffitte e negli scantinati del centro storico; altri finivano tra le grinfie di proprietari-avvoltoi che davano loro solo dei letti in cui riposare a rotazione, secondo la ripartizione turni della fabbrica; altri ancora dormivano in vecchie aule vicino alla stazione o alla fabbrica.

Chi non aveva una casa, quando non era di turno, pranzava dove e come poteva, presso parenti già più o meno sistemati, se ne aveva e se erano disponibili, oppure perlopiù mangiava pastasciutta riscaldata in trattoria. Ma alcuni andavano un po’ anche nelle mense universitarie, dove il movimento studentesco aveva reso meno effettivi i controlli nell’accesso.

Tutti s’imbattevano nei cartelli razzisti in cui leggevano:

«Non si affitta ai meridionali».

Alberto Quattrocolo

2 luglio 1940 Hitler dà le direttive per invadere l’Inghilterra

Il 2 luglio del 1940 Adolf Hitler diede le prime direttive per l’Operazione Leone Marino, vale a dire l’invasione dell’Inghilterra.

Le truppe naziste  in quella fase parevano davvero invincibili: dilagavano in Europa, dall’oriente all’occidente, la Francia e il Belgio erano sconfitti, il contingente britannico si era ritirato, sfuggendo a malapena all’annientamento, grazie al “miracolo” di Dunkerque e a quello dell’operazione “Ariel“.

Il grosso del Corpo di spedizione britannico (BEF), infatti, circondato dai tedeschi nel passo di Calais, era stato recuperato, tra il 26 maggio e il 4 giugno, dalle spiagge di Dunkerque, grazie all’operazione “Dynamo“, mediante la quale furono salvati oltre 338 000 soldati, di cui 120 000 francesi (questi ultimi, però, appena giunti in Inghilterra, furono riorganizzati e frettolosamente rispediti oltremanica per continuare la lotta contro i tedeschi).

Con l’entrata delle truppe tedesche a Parigi, il 14 giugno 1940, anche le ultime truppe britanniche e francesi (e di altri Paesi alleati, tra cui quelli dei governi esuli in Gran Bretagna di Polonia e Cecoslovacchia) presenti in Francia, e cioè oltre 215 000 uomini, erano state ancora recuperate: tra il 14 ed il 25 giugno dai porti dell’Atlantico di Cherbourg, Saint Malo, Saint Nazaire, Brest e Nantes, mediante un ulteriore “miracolo”, l’operazione Ariel.

Come osservò, Winston Churchill, da poco nominato primo ministro (lo abbiamo ricordato su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, nel post Quando Churchill promise lacrime e sangue),

«La battaglia di Francia è ormai finita. Suppongo che quella d’Inghilterra stia per iniziare… ».

L’Alto comando tedesco era frustrato e incredulo per la vana attesa di una dichiarazione di resa da parte del Regno Unito, sostanzialmente rimasto solo a battersi militarmente contro la Germania (gli USA entreranno in guerra, accanto all’Inghilterra, solo dopo l’attacco giapponese del 7 dicembre del ’41 alle loro basi nel Pacifico, mentre in questa fase vigeva ancora il patto di non aggressione tra Unione Sovietica e Terzo Reich, il patto Ribbentrop-Molotov).

Dunque, il Führer, ai primi di luglio, sembrò aver deciso di porre in atto l’invasione dell’Inghilterra.

«Il Führer ha deciso che uno sbarco in Inghilterra è possibile», viene scritto nelle prime direttive dell’OKW (l’Oberkommando der Wehrmacht, cioè l’Alto comando delle forze armate tedesche), «purché si consegua la superiorità aerea».

La data dell’attacco non è ancora stata fissata, ma i preparativi devono essere iniziati, si specifica, immediatamente. Per riservarsi la possibilità di un’eventuale marcia indietro, l’alto comando della Wehrmacht aggiunse, però, che «l’invasione è ancora allo stato di progetto e non è stata ancora decisa».

In realtà, Hitler tentennò ancora fino al 16 luglio, quando diramò la direttiva numero 16 per la preparazione di operazioni di sbarco contro l’Inghilterra.

«Poiché l’Inghilterra, a dispetto della sua situazione militare disperata, non mostra ancora di voler venire a patti, ho deciso di preparare un’operazione di sbarco contro di essa e, se necessario, di eseguirla. Scopo di tale operazione sarà l’eliminazione del territorio metropolitano inglese come base militare di operazioni contro la Germania e, qualora dovesse risultare necessario, la completa occupazione di esso».

Si tratta dell’«Unternehmen Seelöwe» (Operazione Leone Marino).

Tuttavia, ancora il 17 luglio Hitler, parlando al Reichstag, dopo essersi scagliato contro Churchill e la sua «cricca», accusandoli di volere continuare la guerra, “invitò” il popolo inglese a riflettere sulle conseguenze della prosecuzione della guerra.

«I vostri capi scapperanno in Canada», affermò il Führer, ma «per milioni di altri cominceranno grandi sofferenze». E, in tal modo, predisse, «un grande impero sarà distrutto, un impero che non è mai stata mia intenzione distruggere e neanche danneggiare… ».

In considerazione del fatto che a fare queste considerazioni e ad avanzare proposte di pace era colui che aveva tradito tutti gli accordi stipulati e che aveva invaso quasi tutta l’Europa, dai Pirenei al Circolo Polare, dall’Atlantico alla Vistola. Gli inglesi rigettarono questa “offerta di pace”.
Il piano dell’invasione, però, non solo non riuscirà, ma non verrà neanche compiutamente predisposto e ancor meno tentato.

La premessa per la sua attuazione era, come prevista nella direttiva del 2 luglio, il conseguimento della supremazia area da parte della Germania

La Luftwaffe di Herman Goering, intendendo scatenare un inferno di ferro e di fuoco sulla Gran Bretagna meridionale, si propose di perseguire due obiettivi: bombardare la popolazione civile senza sosta per fiaccarne lo spirito e distruggere la Royal Air Force.

La battaglia, nota come Battaglia d’Inghilterra, sarà vittoriosamente combattuta, dal 10 luglio al 31 ottobre 1940, dai caccia inglesi, in condizioni, di notevole inferiorità numerica rispetto alle forze dell’aviazione nazi-fascista (vi presero parte infatti anche aerei ed equipaggi italiani come si specifica meglio di seguito).

Già il 20 agosto il Primo Ministro britannico Winston Churchill, parlando alla Camera dei comuni, disse:

«Mai, nel campo dei conflitti umani, così tanti dovettero così tanto a così pochi».

Churchill rendeva, con tali parole, omaggio agli equipaggi del Fighter Command della Royal Air Force, che, pur in condizioni così disperate, stavano cercando di proteggere la sopravvivenza stessa della Gran Bretagna.

Il deludente esito della Battaglia d’Inghilterra, data la non raggiunta supremazia tedesca nei cieli inglesi, porterà Hitler a sospendere la progettata invasione.

Alla Battaglia d’Inghilterra, per esplicita volontà di Benito Mussolini, parteciparono anche, al fianco dell’aviazione tedesca, 170 aerei (tra caccia, bombardieri e ricognitori) del Corpo Aereo Italiano della Regia Marina (l’Italia aveva dichiarato guerra alla Francia e all’Inghilterra il 10 giugno del 1940 e aveva attaccato alle spalle la Francia, come abbiamo ricordato nei post Solo alcune migliaia di morti1940: La Francia, colpita alle spalle dall’Italia di Mussolini, reagisce bombardando Genova e Savona20 giugno 1940 l’attacco infame e fallimentare dell’Italia alla Francia).

A distanza di tre anni e 11 mesi dall’incompiuta Operazione Leone Marino, il 6 giugno del ’44, con l’operazione Overlord (l’abbiamo ricordata nel post Gli amici del 6 giugno), gli Alleati, proprio partendo dalle inviolate coste britanniche, faranno sbarcare in Normandia le loro forze: avrà inizio l’invasione, cioè la liberazione della Francia.

Alberto Quattrocolo

La battaglia della Somme

Il 1° luglio del 1916, a circa due anni dall’inizio della Prima Guerra Mondiale, che ormai su moltissimi fronti, inclusi quello occidentale e quello alpino, è divenuta guerra di trincea, i vertici delle forze anglo-francesi lanciano un’imponente serie di offensive, sul fronte occidentale, nella Francia settentrionale, per sfondare le linee tedesche. Si tratta di un’operazione che interessa un settore lungo circa sessanta chilometri, compreso tra Lassigny a sud ed Hébuterne a nord. Tale settore è tagliato in due dal fiume Somme. Il piano, proposto, ai primi di dicembre del 1914, dal generale Joseph Joffre ai vertici delle forze britanniche, prevede un massiccio attacco di fanteria, preceduto da una settimana di bombardamenti, e seguito da una rapida avanzata della cavalleria. La battaglia è voluta fortemente dalla Francia, che intende alleggerire l’enorme e insostenibile pressione dell’esercito tedesco a Verdun

Secondo Joffre, si otterranno «successi» importanti come quelli conseguiti nell’Artois e nello Champagne. Gli alleati, in effetti, pensano che i tedeschi stiano esaurendo le riserve che un’offensiva di tali dimensioni, che vede il ricorso ad un bombardamento preliminare di dimensioni inedite, non solo sia destinata al successo, ma costituisca una vittoria decisiva per le sorti del conflitto.

Il piano, però, non andrà a buon fine. Solo nel primo giorno di avanzata gli inglesi subiscono 59.000 perdite, tra feriti (più di 35.000), dispersi (più di 2.000) e morti (circa 20.000).

Complessivamente la battaglia, che si concluse il 19 novembre 1916, procurò 620.000 perdite tra gli Alleati e circa 450.000 tra le truppe tedesche: quella della Somme è stata una delle più sanguinose battaglie della Prima Guerra Mondiale.

Il successo previsto da parte degli alleati si tradusse in un’avanzata per conseguire la quale per ogni metro guadagnato persero la vita 150 soldati, quindi la conquista di meno di un centimetro di terreno richiedeva la morte di un soldato.

Tra i personaggi divenuti noti in seguito che presero parte alla battaglia della Somme, si possono ricordare, tra gli inglesi, J. R. R. Tolkien e, sul fronte opposto, quello tedesco, il futuro padre di Anna FrankOtto Frank (ad Anna Frank abbiamo fatto riferimento su questa rubrica nel post Gli amici del 6 giugno) e Adolf Hitler (a costui, su Corsi e Ricorsi, abbiamo dedicato diversi post).

Alberto Quattrocolo