Due stragi, che non vanno dimenticate, compiute da razzisti di estrema destra, entrambe il 22 luglio, la prima nel 2011 e la seconda nel 2016

Il 22 luglio del 2011 in Norvegia un razzista di estrema destra commette il crimine più violento dai tempi dell’occupazione nazista

Alle 15,22 del 22 luglio 2011, ad Oslo, sotto gli uffici del premier laburista norvegese Jens Stoltenberg, esplode un furgone carico di esplosivo. Lo ha “fatto in casa” e piazzato lì, 5 minuti prima, un uomo vestito da poliziotto, Anders Behring Breivik.
Gli uffici a quell’ora del venerdì sono quasi vuoti, quindi la carneficina non è delle proporzioni programmate da Breivik, che a causa del traffico imprevisto ha parcheggiato il furgone in ritardo rispetto alla sua “tabella di marcia”: “solo” 8 persone restano uccise, 209 vengono ferite e di queste 12 lo sono in maniera grave.
Ma per Breivik quello è solo il primo passo dell’azione terroristica programmata. Il culmine è la strage che intende compiere sull’isola di Utøya nel lago di Tyrifjorden, di proprietà della Lega dei Giovani Lavoratori (Arbeidernes Ungdomsfylking, AUF), un’organizzazione giovanile del Partito Laburista norvegese che organizza un raduno di socialisti e laburisti europei.
Giunto sull’isola quasi due ore dopo, Breivik spara a bruciapelo con una Glock ad un volontario della sicurezza, un ufficiale di polizia fuori servizio, uccidendolo, poi raggiunge la mensa. Qui, grazie al travestimento, inganna tutti: dice ai presenti che, visto quanto accaduto ad Oslo, è lì per proteggerli e per dare loro le istruzioni da seguire.
Po inizia a sparare con un fucile automatico. Ben 77 minuti dura la sua caccia all’uomo sull’isola. Ammazza altre 69 persone – due delle quali muoiono annegate nel lago, dove si sono gettate in cerca di scampo – e ne ferisce 110, di cui 55 in maniera grave.
Si tratta del crimine più violento avvenuto in Norvegia, dai tempi dell’occupazione nazista, cioè dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Per lo più le vittime sono giovani e adolescenti, dei quattordicenni.
Anders Breivik dà loro la caccia. Quando raggiunge i ragazzi che sono rimasti solo feriti dai suoi colpi li finisce tirandogli alla nuca.

Sopraggiunte le forze speciali della DELTA (Unità Norvegese Anti-Terrorismo), si arrende, senza opporre resistenza, alle 18,34.

Diversi anni prima di uccidere Breivik ha pensato e teorizzato il suo odio e ha pianificato la strage

Perché Breivik commette una delle più devastanti azioni terroristiche compiute in Europa? È pazzo?
No, non lo è. Il massacro è un’azione politica. In tribunale Breivik afferma che lo scopo era trasmettere un “messaggio forte al popolo, per fermare i danni del partito laburista” e per contrastare “una decostruzione della cultura norvegese”, che, secondo lui, sarebbe in corso a causa “dell’immigrazione in massa dei musulmani”.

Breivik non è un poveraccio disadattato. È una persona convinta di quello che fa. È un imprenditore (ha gestito una società di e-commerce con buoni risultati) di trentadue anni, che ha pianificato la strage nei dettagli, collocandola nella prospettiva  politica della “resistenza armata”: nel processo dichiara di averla iniziata a predisporre fin dal 2002, partecipando ad un incontro segreto a Londra per costituire un movimento di resistenza armata contro l’invasione islamica e per la difesa del retaggio culturale europeo.
Breivik odia a morte il multiculturalismo, l’Unione Europea, l’ONU (perché secondo lui sarebbe infiltrata dall’Islam), il governo laburista norvegese, il presidente degli USA Barak Obama, e, sopra ogni altra cosa, i musulmani e gli immigrati. Breivik, infatti, vuole cacciare tutti gli immigrati e tutti i musulmani dall’Europa per “salvare il genotipo nordico”.
Ma il suo non è un odio generico, nutrito semplicemente a livello emotivo, è anche pensato, teorizzato. Sviluppa la sua prospettiva – che egli definisce anti-multiculturalista, anti-marxista, anti-islamica – nel “memoriale 2083. Una dichiarazione europea d’indipendenza”, lungo ben 1518 pagine – scritte, in inglese, nell’arco di tre anni, e riassunte in 12 minuti di video pubblicato su Youtube.
Quindi, il suo programma politico va decisamente oltre la dimensione della strage e contempla la presa del potere in Europa entro il 2030 da parte di forze politiche di destra estrema. Di partiti, cioè, che siano in grado di sviluppare i punti del suo programma. E che, secondo il killer, sarebbero tra gli altri, Jobbik in Ungheria, il Front National di Marine Le Pen in Francia, England First e il British National Party in Gran Bretagna, la Lega Nord e Forza Nuova in Italia.

A ulteriore conferma del suo orientamento estremista di destra, durante il processo si alza e propone in più occasioni il saluto nazista, ma egli si definisce anche sionista e apprezza particolarmente come Israele tratta i palestinesi. Inoltre, si qualifica come il “salvatore del cristianesimo” e “il più grande difensore della cultura conservatrice in Europa dal 1950”.

Quali sono gli obiettivi politici di Breivik, che si definisce “salvatore del cristianesimo” e “il più grande difensore della cultura conservatrice in Europa dal 1950”?

Quali sono gli obiettivi politici di Breivik?
Soprattutto, questi: introdurre il protezionismo e porre termine al libero scambio, sciogliere l’Unione Europea e creare alleanze con la Russia di Putin (che ammira smisuratamente, quasi quanto l’attuale vicepremier giapponese, il conservatore Taro Aso), la Cina e l’India; cacciare dall’Europa tutti gli immigrati entro il 2083 (cioè esattamente 400 anni dopo la vittoria sugli Ottomani che assediavano Vienna), deportare tutti i musulmani dall’Albania e dall’Anatolia (per crearvi aree di produzione in cui concentrare lavoratori del Terzo Mondo con contratto a tempo determinato di 12 mesi e orario di 12 ore al giorno) e contestualmente giustiziare tutti coloro (intellettuali, politici, giornalisti, docenti…) che si sono macchiati della colpa dell’antirazzismo, poiché, secondo lui, hanno tradito le loro patrie favorendo “il genocidio culturale” degli europei (che egli chiama “popolazioni indigene”).

Infatti, la sua visione radicalmente de-umanizzante di interi popoli lo ha indotto a uccidere non delle persone appartenenti a quei popoli, ma dei giovani norvegesi di sinistra, che per lui rappresentano la quintessenza del nemico: sono i traditori. Cioè, sono più nemici dei nemici stessi, quei giovani europei progressisti, colpevoli di antirazzismo e di voler costruire un dialogo tra persone di culture diverse.

Anders Breivik viene  condannato il 24 agosto del 2012, a 21 anni di carcere (la pena massima prevista dalla normativa penale dell’ordinamento norvegese), prorogabili di altri cinque per un numero indefinito di volte, qualora, a pena scontata, sia  ancora ritenuto socialmente pericoloso.
In carcere continua a scrivere (intende scrivere 3 libri) e tenta di mettersi in contatto con altri estremisti di destra tra cui il terrorista svedese Peter Mangs (detenuto in quanto autore degli attentati terroristici di Malmö, in Svezia) e l’estremista tedesca Beate Zschäpe.

Inoltre, non soltanto, negli anni seguenti idee politiche e premesse ideologiche non troppo dissimili dalle sue impregnano programmi di movimenti e partiti europei, che in taluni casi arrivano anche al governo del loro Paese, ma la sua “resistenza armata” diventa fonte d’ispirazione per almeno altri due bagni di sangue [1].

Breivik ha ispirato altri due massacri: nel primo, nel Connecticut, nel 2012, Adam Lanza uccide 20 bambini di sei e sette anni, 6 operatori della loro scuola elementare e sua madre

Anders Behring Breivik è stato un ispiratore per il ventenne autore del massacro del 14 dicembre 2012 alla Sandy Hook Elementary School di Newtown in Connecticut (USA). Bilancio totale: 27 morti, più quella del killer che si spara prima dell’arrivo della polizia.

Adam Lanza aveva esplicitato l’intenzioni di superare la portata della mattanza di Breivik. E se Lanza non ci è riuscito rispetto al numero delle vittime, vi è riuscito per quanto riguarda la loro giovane età: quel massacro è costato la vita a 20 bambini di 6 o 7 anni. Inoltre ha ucciso 6 membri del personale della scuola e poco prima la propria madre.

22 luglio del 2016, a Monaco di Baviera, un diciottenne, razzista, tedesco-iraniano, che si ritiene un ariano puro, fa un’altra carneficina e grida: “Io sono tedesco” e “sono nato qui“.

Ancor più direttamente ispirata dalla carneficina compiuta da Breivik è quella commessa, non a caso il 22 luglio del 2016, a Monaco di Baviera, nei pressi del centro commerciale Olympia-Einkaufszentrum (OEZ). Qui 9 persone hanno perso la vita (3 turchi, 2 kosovari, 2 tedeschi, un ungherese e un greco), oltre all’attentatore, che si è suicidato, e 35 sono rimaste ferite.
Ali David Sonboly, un cittadino tedesco-iraniano di 18 anni, già vittima di bullismo scolastico e affetto da depressione, aveva sviluppato un’attrazione per i massacri compiuti nelle scuole negli USA e in Germania.
E ammirava, soprattutto, Breivik per la sua strage, al punto da mettersi a sparare proprio nel quinto anniversario della carneficina compiuta dal killer norvegese.

Però, non era solo la dinamica dell’azione terroristica commessa in Norvegia a suscitare l’entusiasmo di Sonboly. In comune con Breivik aveva anche le idee: idee razziste, che si manifestavano tra l’altro nella pretesa di essere, in quanto iraniano, un ariano puro, a differenza degli altri mediorientali. La sua posizioni politica, del resto, era così a destra da portarlo a considerare un onore l’essere nato lo stesso giorno di Adolf Hitler.

In un video on line si vede Sonboly ricaricare la pistola e discutere con un uomo affacciato al balcone di un edificio vicino. Le parole che il killer urla sono: “Io sono tedesco” e “sono nato qui“.

Come per gli attentati commessi da seguaci del sedicente Stato Islamico, probabilmente, è riduttivo e, forse anche fuorviante, pensare a questi esempi di ferocia come ad atti commessi da “lupi solitari”, da pazzi fanatici isolati. Come osservò Jason Burke sul Guardian, il 30 marzo dello scorso anno, già nel 1983 il suprematista bianco Louis Beam, appartenente sia al Ku Klux Klan sia all’organizzazione neonazista Aryan Nations, aveva pubblicato un manifesto sulla “resistenza senza leadership” contro il governo americano, ispirando verosimilmente l’uomo che, 12 anni dopo, con una bomba uccise 168 persone a Oklahoma City. Un altro ideologo estremista di destra, Tom Metzler, leader del gruppo neonazista White Aryan Resistance, aveva pubblicato un testo dal titolo eloquente: “Regole per i lupi solitari”. E le sue idee trovarono non poca diffusione.

Del resto Breivik, per quanto abbia agito da solo, secondo i giudici, nella lunga preparazione della carneficina, si era nutrito di letture, aveva cercato dei contatti e degli scambi proprio in ambienti che sostengono e promuovono teorie e azioni, di incontenibile violenza razzista, fondate su lla demonizzazione e sulla de-umanizzazione dell’Altro.

 

Alberto Quattrocolo

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Fonti:

Luca Mariani, “Tutto iniziò a Utoya”, L’Espresso n.30, 22 luglio 2018, pp. 66-69.

Breivik dichiarato sano di menteIl Post, 10 aprile 2012.

Non chiamiamoli “lupi solitari”, Il Post, 3 aprile 2017

Attentati del 22 luglio 2011 in Norvegia, Wikipedia.

 

[1] Considerando quanto è accaduto negli ultimi anni, dalla Brexit all’elezione di Trump fino all’affermazione in vari Paesi europei di forze politiche con programmi e valori non così distanti da quelli di Breivik, viene da pensare che, se avesse avuto solo un po’ più di pazienza, avrebbe potuto evitare di togliere la vita a tutte quelle persone, adolescenti inclusi, e restarsene tranquillo a casa di sua madre, a scrivere, odiare e guardare compiaciuto il compiersi di alcuni, non pochissimi, sviluppi concreti del suo progetto politico. Sulla sezione del blog Politica e Conflitto sono diversi i post dedicati al tema del nazionalrazzismo: Sostituzione irrazionale, La pietà è moribonda?,  Giorno maledettoAutorizzazione della violenza, Prima gli esseri umani, (in)giustizia nazionalrazzistaObiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzistaAntibuonismo nazionalrazzista(il)legalità nazionalrazzistaLa strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupriLa doppia morale nazionalrazzistaDove eravamoPropaganda nazionalrazzista e WelfareIl nazionalrazzismo come politica del conflitto (razziale)Nazionalrazzismo e socialrazzismo, Nazionalrazzismo.

 

17 anni dopo il G8 di Genova sono ancora attuali i contenuti del Movimento no-global

Genova per noi

Ho iniziato questo articolo troppe volte. Non sapevo da che “parte” iniziare.

C’erano allora, e ci sono adesso, troppi temi e troppe lotte ancora estremamente attuali e urgenti .

Ora cerco di scrivere per chi a quel G8 non c’era, o per chi era troppo piccol* per ricordarselo, per chi è arrivat* dopo.

Io nel 2001 avevo poco più di vent’anni.

 

Il G8 di Genova rappresenta per me un’esperienza eccezionale e collettiva. Un’esperienza enorme in termini di mobilitazioni, con decine di migliaia di manifestanti presenti ogni giorno nei cortei, un’esperienza complessa in termini di contenuti e saperi che venivano messi in campo grazie alla presenza di tantissime lotte che convergevano a quel vertice da tante parti del mondo diverse, una ferita profonda, insanabile, per la repressione senza limiti messa in atto da uno stato che, dal 20 luglio in poi, nel giorno in cui Carlo è stato ammazzato, non ho mai più considerato come “democratico”.

 

Il G8 di Genova segna un momento fondamentale di conflitto sociale e globale all’inizio del nuovo millennio. Un momento che ha cambiato la “mia” storia e sicuramente quella della mia generazione. Un momento preciso da cui non si torna più indietro.

È un’esperienza che ha segnato la vita di migliaia di persone sotto ogni punto di vista e di cui non riesco a parlare facilmente.

È la prima volta, dopo 17 anni, che provo a scriverne.

 

Andare a Genova. Avere vent’anni.

Ciò che ho vissuto a Genova – con le persone che erano insieme a me, amici, compagne, persone conosciute, sconosciute, incontrate per caso, scappando dalle cariche o restando negli scontri – ha determinato le mie scelte di vita negli anni che sono seguiti.

Dopo Genova ho continuato ad approfondire questioni per me importanti (i processi di dominio coloniale, post-coloniale, il “governo” dei processi migratori, il razzismo…), ho cercato di comprendere meccanismi di sfruttamento e oppressione “da vicino” andando a lavorare in un paese lontano, ho iniziato a capire che la mia vita, insieme ai nuovi contratti di “lavoro” che mi venivano propinati, sarebbe stata strutturalmente precaria.

 

Le istanze e le rivendicazioni “portate” a Genova per contrastare quel vertice dei G8[1] non solo anticiparono in modo estremamente preciso la violenza politica, economica e sociale che stava già massacrando enormi masse di popolazione in paesi già poveri (“quelli del sud e est del mondo”), ma prefigurarono anche le politiche di crisi permanente e di austerity che presto avrebbero impoverito e precarizzato anche gli abitanti del “primo mondo”. Soggetti di una “cittadinanza” che forse contava ancora con qualche forma di protezione sociale e di welfare.

 

Il movimento no-global, o new-global, o altermondialista. Non importa la definizione.

Il movimento dei movimenti fu, prima di tutto, la configurazione di uno spazio politico globale in cui non esisteva più una gerarchia di “saperi” e di “storie”.

Quel movimento era stato capace di eliminare una gerarchia delle lotte e delle rivendicazioni e di elaborare documenti comuni e pratiche di azione in modo orizzontale.

I movimenti in Europa erano finalmente parte di movimenti di lotta e di resistenza “globali” in questo e in altri continenti. Le popolazioni originarie (indigene) avevano preso la parola da tempo, dimostrando ad un “occidente” già vecchio, quale fosse stata la loro capacità di resistenza  e di autodeterminazione in difesa dei territori durante secoli di saccheggio e genocidio coloniale.

Il primo parallelismo che mi viene in mente ora è proprio il moltiplicarsi di quelle lotte, in ogni angolo del pianeta, contro mega-progetti nocivi e devastanti, o processi di accaparramento ed estrazione di risorse (estrazione mineraria, monocolture imposte dalle ex-colonie, ecc.) uniti a tentativi di deportazione forzata di intere popolazioni attraverso l’intervento militare e l’occupazione di interi territori.

 

No borders

Il 19 luglio 2001 ci fu la prima grande manifestazione contro il vertice del G8 per la libertà di circolazione e per i diritti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo.

Nel manifesto che lanciava quella giornata di mobilitazione, e che vide la partecipazione di almeno 50.000 manifestanti, c’era scritto “Libertà di movimento – Freedom without borders”. Evidentemente già allora i termini della questione, rispetto alla repressione e al disciplinamento dei “corpi migranti”, erano molto chiari e la Fortezza Europa aveva già dispiegato ovunque dispositivi fisici e amministrativi di detenzione extra-giudiziale.

 

Nel 1998 la legge Turco-Napolitano aveva  già istituito i CPT (centri di permanenza temporanea), poi divenuti CIE (Centri di identificazione ed espulsione) con la legge Bossi Fini, e infine rinominati C.P.R. (Centri di Permanenza per i Rimpatri) dalla recente legge Minniti-Orlando.

In queste poche righe non mi dilungherò nello spiegare che cosa siano ancora oggi dei campi di concentramento creati nei centri di molte città italiane o nelle “periferie”, in paesi di frontiera, sui confini o vicino al mare. Da nord a sud, da est a ovest.

 

Superando i confini nazionali, dove i “centri-lager” appena citati cambiano nome ma continuano ad esistere da vent’anni, osserviamo come si sviluppa la guerra aperta scatenata della UE contro i migranti insieme a tutto un dispiegamento di forme neocoloniali di concentramento e “gestione” di corpi, di vite, all’interno di altri campi (altri lager) situati in qualche tipo di enclave, o sui confini, su isole o direttamente costruiti e finanziati da paesi come Italia e Germania e “gestiti” dalle mafie locali in Libia, Turchia, ecc.

 

Sicuramente il 19 luglio di tanti anni fa non avrei potuto immaginare un potere di morte così esteso e capillare attuato nello spazio del Mediterraneo dall’Unione Europea e dai suoi “alleati”.

Allo stesso tempo le attuali politiche in voga, “sovraniste” (o nazionaliste, protezioniste, ecc.), espresse da governi europei di ogni genere e “colore”, spiegano una volta per tutte chi è eliminabile e chi non lo è.

Una guerra contro migranti, rifugiati e richiedenti asilo che ora i “democratici” cercano di condannare. Gente varia, partiti, che provano tanto orrore verso le forze populiste, fasciste e anti-europeiste alla vigilia di qualsiasi tornata elettorale ma che di fatto hanno portato avanti la stessa guerra, fino a poco tempo fa, solamente con più “stile” e discrezione.

 

Non sembra che il “ritorno della nazione” – non solo in Paesi come l’Italia, l’Austria o l’Ungheria, ma più in generale nella congiuntura globale che stiamo vivendo – sia destinato a mettere in discussione il “neo-liberalismo” che abbiamo criticato nelle politiche dell’Unione Europea. Al contrario, la sovranità rivendicata dalla nazione si mostra tanto feroce contro i poveri e gli estranei quanto spettrale di fronte al capitale finanziario e accondiscendente al cospetto delle retoriche e dei processi che puntano all’intensificazione dello sfruttamento del “capitale umano” di popolazioni impoverite e impaurite da anni di crisi. (Sandro Mezzadra, Il Manifesto, 4 luglio 2018).

 

 Conflitto.

Da Seattle in poi, “il movimento dei movimenti” aveva fatto capire che l’azione diretta contro i mega-vertici neoliberisti era possibile: forme di conflitto anticapitaliste, varie e differenziate, furono in grado di attaccare e far saltare, in quel caso, la conferenza del WTO (World Trade Organization).

Da quel momento (1999) era stato possibile concentrare l’attenzione mediatica globale sull’espansione di un movimento che finalmente rendeva possibile il passaggio dal classico conflitto capitale-lavoro a tutta una vasta rete di confluttualità antiliberista, mentre il capitalismo aveva già cambiato forme, discorsi, rappresentazioni, in mille rivoli e nuovi tentacoli.[2]

 

A Genova il G8 si incontrava per esaltare il processo di globalizzazione dell’economia di mercato.

Alle mobilitazioni contro il vertice aderirono oltre mille organizzazioni, da oltre 50 nazioni.

In quei giorni il manifesto “globale” delle proteste recitava: “ Voi G8, noi 6.000.000.000.”

Il 16 luglio Susan George dichiarò: “Se andrà avanti la finanziarizzazione dell’economia, l’Europa andrà incontro a una delle più grandi crisi sociali ed economiche della propria storia moderna”.  E, da quello stesso movimento, nasceva l’idea della Tobin Tax, la tassazione sulle operazioni speculative finanziarie, la denuncia dei derivati e la campagna contro i paradisi fiscali. Temi che mi sembrano ancora piuttosto attuali.

 

Anche i movimenti ambientalisti attaccarono fortemente quel modello di sviluppo globale, evidenziando il cambiamento climatico già in atto e lo sconvolgimento degli equilibri in diverse zone del pianeta.

In questo senso è impressionante rileggere ora, a distanza di 17 anni, i documenti ufficiali usciti dal Forum Sociale di Porto Alegre.[3]  È sconcertante leggere con quale chiarezza si prefigurassero da parte di quel movimento una serie di scenari, elaborati da un’intelligenza collettiva, che spiegavano in modo dettagliato le conseguenze dirette del modello neoliberista.

 

A Genova si era concentrato un movimento enorme, globale, articolato che finalmente andava da un continente all’altro, da una lotta all’altra, da un territorio ad un altro. C’erano popoli e c’erano conflitti connessi tra loro, c’erano voci che finalmente avevano preso la parola e denunciavano le condizioni in cui vivevano intere popolazioni in seguito alla ratifica di vari trattati internazionali di “libero scambio”, o paesi “terzi” che rimanevano ostaggi del debito, all’interno di una progressiva finanziarizzazione dell’economia che non è mai stata normata o limitata, e che invece è peggiorata.

 

Il vertice di Doha ha confermato l’illeggitimitá del Wto. La presunta “agenda per lo sviluppo” adottata in realtá difende solo gli interessi delle multinazionali. Con il lancio di un nuovo round il Wto si sta avvicinando al suo obiettivo di trasformare ogni cosa in merce. Per noi, cibo, servizi pubblici, agricoltura, salute, istruzione e i geni non sono in vendita. Inoltre rifiutiamo il brevetto di qualsiasi forma vivente. L’agenda del Wto viene estesa a livello continentale attraverso gli accordi di libero commercio e investimenti. Organizzando proteste come le grandi dimostrazioni contro l’Alca, i popoli hanno rifiutato questi accordi che rappresentano una ricolonizzazione e la distruzione di valori fondamentali, sociali, economici, culturali e ambientali.[4]

 

Da li a pochi mesi in Argentina ci sarebbe stata una crisi economica e istituzionale senza precedenti, provocata dalle ricette ultraliberiste imposte dal Fondo Monetario Internazionale attraverso feroci privatizzazioni.

Il 19 dicembre del 2001, dopo anni di crisi economica e debiti accumulati dai governi precedenti, il sistema bancario argentino tracolla e lo Stato dichiara la bancarotta. In quello stesso giorno scoppia la rivolta.

Ancora una volta possiamo azzardare un qualche tipo di parallelismo e ricordare come la minaccia di default nei confronti della Grecia nel 2015 abbia permesso alla allora chiama “Troika” (formata da FMI, BCE ed UE) di imporre misure pesantissime di austerità e di ridurre allo stremo (e alla fame) enormi settori di popolazione.

 

Corpi. Desideri.

Genova è stata anche una grande alleanza globale di corpi, di complicità, di sperimentazione e di pratiche di conflitto che provarono a sovvertire in diversi momenti e luoghi della città l’immaginario cristallizzato tra movimento “non-violento” e scontro di piazza.

Già durante le manifestazioni a Praga, nel 2000, durante le riunioni dell’Fmi e Banca Mondiale, il blocco pink aveva scelto la “frivolezza tattica” che risultò la più efficace per infrangere e invadere la “zona rossa”.

 

L’anno dopo, a Genova, prima dell’inizio del “vertice ufficiale”, il 15 e 16 giugno 2001 la rete delle donne (che allora era riunita sotto la sigla Marcia mondiale delle donne) aprì le iniziative politiche del Genova Social Forum con tre giorni di dibattiti, seminari e una manifestazione/happening per le vie della città, dal titolo Punto G: Genere e Globalizzazione.

 

Si può dire che a Genova, e soprattutto dopo Genova, nacque un numero significativo di collettivi e gruppi “inclassificabili”, accomunati dalla diversità delle pratiche, che proponevano strategie di protesta più ironiche e inclusive.

Istanze creative come le Sambe Internazionali (Rhythms of Resistance) e i movimenti più radicali e antagonisti LGBT furono in grado di sovvertire le rappresentazioni mainstream della protesta e dello scontro con “l’autorità”. Questa onda eretica cercò di analizzare la violenza estrema e la repressione che avevano massacrato e fatto a pezzi il movimento proprio a Genova. Diventava urgente creare “altri corpi” di protesta, inventare altri linguaggi, altre forme di conflitto e decostruire gli stereotipi interiorizzati dei “generi” presenti anche all’interno dei movimenti.

 

All’interno di questa ricerca, a “partire da sé”, e attraverso nuove pratiche spesso imprevedibili e perturbanti anche per  gli/le stesse attiviste che le ideavano e realizzavano, l’immaginazione si fece carne e le modalità di stare in piazza e di occupare lo spazio pubblico, anche nello scontro, si moltiplicarono, diventando finalmente più spiazzanti e erotiche.

L’urgenza e il desiderio di cambiare l’esistente, o di sfidare il potere e la possibilità di arrivare anche allo scontro diretto con le forze dell’ordine, si accompagnava al desiderio rappresentato da ogni corpo e soggetto differente (dissidente) che voleva esserci, che voleva partecipare, perché si sentiva a proprio agio, perché il linguaggio era condiviso e le pratiche erano state decise insieme, in modo orizzontale.

 

[…]Ancora in questo ambito è da collocare il movimento pink, un insieme disperso di pratiche libertarie del desiderio e del piacere anche sessuale, di etiche hacker “black, pirate”, le cui radici affondano nelle sottoculture punk dagli anni settanta in poi: “La chiave di volta del Pink è costituita da forme di convergenza fra tendenze e forme d’espressione pink queer e attivismo noglobal, secondo una progressione/commistione di significati che possiamo sintetizzare come pink, punk, no global […] Pink vuol dire femminista, queer, strano, libertario, vuol dire dissenziente, deviante, vuol dire aggressività gioiosa. Tutte qualità intrinsecamente eretiche e noglobal” (Foti 2009: 46, 47).
È interessante notare come, per i motivi esplicitati in apertura a questa introduzione, in Italia spesso attivismo pink, antagonismo queer, teorie e pratiche anti-autoritarie convergano, senza necessariamente auto-definirsi anarcoqueer come invece avviene in altri Paesi: con l’eccezione delle mailing-list “Deviazioni” (http://www.ecn.org/deviazioni/) sul sito Ecn (Isole nella rete) e il blog “anarcoqueer.wordpress.com” di recente formazione, si tratta perlopiù di collaborazioni internazionali e di attività – dalla circolazione di materiali in Rete all’organizzazione di raduni, convegni, gruppi di discussione e interventi – da parte di movimenti attivi in varie zone sul territorio nazionale. Basandomi su scritti che trattano di networking, antagonismo radicale e sottoculture queer (A/I 2012; Bazzichelli 2006; Foti 2009; Ilardi, 2009, a cura di; Warbear 2009a, 2009b) e su informazioni tracciabili in Internet fino al passaparola di contatti negli ultimi due anni, in questo studio discuterò dei gruppi Antagonismogay/Smaschieramenti, FrangettEstreme, Mujeres_Libres, Sexyshock di Bologna; A/Matrix, OrgogliosamenteLGBTIQ, Phag Off! e il collettivo Facciamobreccia di Roma; Pornflakes queer crew di Milano e la Torino Samba Band.[5]

  

Media e conflitto.

Un altro elemento cruciale che vorrei sottolineare è l’esperienza ricchissima che da Seattle in poi rappresentò l’informazione libera, indipendente, radicale. Un network globale di media attivist* che raccontò e documentò in ogni momento, in diretta, cosa stava accadendo per le strade di Genova. E poi la mattanza della Diaz, le torture di Bolzaneto, i feriti portati via dagli ospedali dalla polizia e rinchiusi in commissariati in cui accadde di tutto.

Tutto questo immenso lavoro di registrazione e documentazione indipendente rappresenta un materiale prezioso per la memoria e per la rabbia. Per non dimenticare. Per continuare a lottare.

Un lavoro che risultò imprescindibile anche per i processi contro vari agenti o interi reparti delle forze dell’ordine presenti a Genova in quei giorni, così come per “eventuali” procedimenti disciplinari nei confronti dei loro diretti superiori (responsabili).

 

Imprescindibile per la forza delle mobilitazioni fu il lavoro di Indymedia Italia, di Radio Gap (circuito di radio indipendenti), Candida TV, Isole nella Rete, Tactical Media Crew e moltissimi altre/altri videomaker, giornalisti/e, fotografe/i, registi, ecc.

 

Sappiamo come è finita.

Le proteste contro il vertice furono represse in modo devastante.

Con la terribile giornata del 20 luglio, con l’assassinio di Carlo e le cariche infinite, gli spari. Con centinaia di persone ferite alla fine di quella giornata che non andarono in ospedale per il timore di essere arrestate.

Forse chi aveva progettato e gestito la repressione in quei giorni, in quelle ore, pensò che la manifestazione del sabato non ci sarebbe stata. O che sarebbe arrivata poca gente, e molta avrebbe avuto paura e sarebbe rimasta a casa.

Invece alla manifestazione di sabato 21 luglio partecipano circa 300.000 persone. Il corteo, immenso, il più grande che abbia mai visto in vita mia, venne caricato ripetutamente dalle forze dell’ordine e spezzato in più punti.

E poi l’epilogo, quando la maggior parte di noi era già sui treni “speciali”, allontanati apposta dalla città per non scatenare una reazione, magari rimanendo bloccati per ore sui binari a pochi chilometri da Genova.[6]

 

“Alle 00.10 tra il 21 e il 22 luglio, quando ormai  gli scontri sono finiti e tutti si apprestano a cercare di riposare o di rientrare a casa, le forze dell’ordine fanno un blitz al Media center del Gsf (dove si trovano anche l’Indymedia center e la sede dell’assistenza legale) e alla scuola di fronte, la scuola Pertini-Diaz, dove stanno dormendo un centinaio di manifestanti, accusati di appartenere al black bloc. L’operazione si conclude con 61 ragazzi feriti e 93 fermi, 68 dei quali non convalidati dai giudici perché illegittimi.” [7]

Indymedia a Genova era alloggiata al terzo piano della scuola Pertini di fronte alla scuola Diaz. In quella scuola si trovava anche la segreteria del Legal Forum, gli avvocati del Genova Social Forum, al primo piano e le redazioni di Carta e Manifesto al secondo. Questa sistemazione ha permesso di riprendere l’irruzione nella scuola di fronte quasi in tempo reale. Nella stessa scuola era presente il network radiofonico Radio GAP che trasmise in diretta fino a quando la polizia non fece irruzione anche lì lasciando alla cronaca e alla storia la disperata testimonianza dei cronisti al microfono. L’audio di Radio GAP fu messo in coda al film “Lavorare con Lentezza” di Guido Chiesa facendo un parallelo con un’analoga irruzione della polizia negli studi di Radio Alice a Bologna durante il ’77. Mentre il video di Indymedia fu trasmesso dal TG5 di Enrico Mentana poche ore dopo il 21 Luglio, con il logo oscurato, e fu la prima volta che un pubblico più ampio della piccola comunità della rete italiana, allora davvero accessibile a pochi, poté vedere quello che era successo alla scuola Diaz oltre le cronache modellate sulla versione della polizia.[8]

 

Finale. Ma l’amore non finisce.

Non parlo a nome di nessun* e per nessun*.

Questo testo non ha alcuna pretesa di raccontare un movimento così ampio in modo esaustivo.  Un mondo che conteneva tanti mondi, estremente variegato per la sua potenza, per l’energia che ha mosso centinaia di migliaia di persone a essere parte di un movimento globale, per la complessità delle istanze che si opponevano ad un modello unico di “sviluppo” già ampiamente cambiato e superato in questo presente, pieno di trappole e contraddizioni.

In questo articolo non riesco a parlare della morte di Carlo, non riesco a descrivere un dolore immenso. In questo testo non analizzo le pratiche di repressione, le sue conseguenze, le nostre condanne, le assoluzioni (e le promozioni) dei “loro” vertici politici. Non riesco a parlare del senso di morte che ha accompagnato quei giorni e tutti i giorni che sono seguiti.

Per ogni soggetto che ha vissuto Genova in quei giorni di luglio 2001 ricordare ad alta voce, ricordare le ore, i dettagli, i sogni, i risvegli, può risultare ancora difficile. A volte impossibile.

 

Manuela Cencetti

Torino, luglio 2018.

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[1] Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti d’America e i rappresentanti dell’Unione Europea.

[2] In questo senso leggere o rileggere oggi il saggio di Naomi Klein “No Logo”, pubblicato nel 2000, che analizzava la crescita dello strapotere culturale e patrimoniale delle multinazionali, la ricerca sul branding, lo spostamento della manodopera per la produzione di “grandi marchi” dagli Stati Uniti a Indonesia, Cina, Vietnam, Filippine, ecc., il dilagare in occidente di una massa di lavoratori e lavoratrici precarie, atipiche, “interinali”, risulta impressionante.

[3] http://www.repubblica.it/online/mondo/portodue/documento/documento.html

[4] Punto 15 del documento finale del Forum sociale mondiale di Porto Alegre.

[5] https://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2014/02/16/anarchismo-queer-introduzione/

[6] Partito alla sera del 21 luglio, il treno per Torino arrivò a Porta Nuova alle sei e mezza del mattino del 22 luglio.

[7] http://matteopasquinelli.com/docs/Pasquinelli_Media_Activism.pdf, p. 85

[8] https://comune-info.net/2015/04/g8-media-indipendenti/

 

Viene ucciso da Cosa Nostra Boris Giuliano il 21 luglio del 1979

Così Borsellino ricorderà Giorgio Boris Giuliano nell’ordinanza di rinvio a giudizio del maxi-processo:

Deve (…) ascriversi ad ennesimo riconoscimento della abilità investigativa di Giuliano se quanto è emerso faticosamente solo adesso, a seguito di indagini istruttorie complesse e defatiganti, era stato da lui esattamente intuito e inquadrato diversi anni prima. Senza che ciò voglia suonare critica ad alcuno, devesi riconoscere che se altri organismi statali avessero adeguatamente compreso e assecondato l’intelligente impegno investigativo del Giuliano, probabilmente le strutture organizzative della mafia non si sarebbero così enormemente potenziate e molti efferati assassini, compreso quello dello stesso Giuliano, non sarebbero stati consumati”.

Dopo l’omicidio dello stesso giudice, queste parole fanno ancor più male agl’occhi di chi le legge.

Giuliano, investigatore formato dall’FBI, sul finire degli anni Settanta cercò la verità in terra siciliana, in uno dei periodi più pericolosi per farlo. Le novità apportate dal suo metodo di lavoro gli permisero di indagare sul caso De Mauro, legato a Enrico Mattei, sui prodromi della Seconda guerra di mafia, che si sarebbe consumata di lì a pochi anni, e sul traffico internazionale di droga, la cosiddetta Pizza connection.

L’eccessiva bravura nel suo lavoro, testimoniata dallo stesso Borsellino, gli costò la vita. Ci vollero circa quindici anni per condannare Riina, Provenzano, Greco, Madonia, Calò, Brusca e Geraci come mandanti. Fu Bagarella a premere il grilletto, il 21 luglio di quarant’anni fa. Sette volte. Alle spalle.

Alessio Gaggero

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20 luglio 1944: fallisce l’attentato ad Adolf Hitler

Claus Schenk von Stauffenberg fu un colonnello della Wehrmacht: è solitamente indicato come uno dei protagonisti dell’attentato al Führer del 20 luglio ’44.

Diversi esponenti dell’élite militare tedesca avevano espresso perplessità riguardo gli indirizzi presi dal partito nazista in campo bellico, già prima dell’inizio del conflitto globale, ma soprattutto in seguito al volgimento dello stesso a sfavore della Germania. Infatti, furono organizzati almeno tre attentati prima di quello di cui parliamo oggi: il 17 febbraio nel quartier generale dell’Heeresgruppe Süd, dove il piano non vide nemmeno la luce, a causa dell’opposizione del feldmaresciallo Erich von Manstein; il 13 marzo durante un trasferimento aereo, per mezzo di cariche esplosive che, però, non funzionarono; il 21 marzo a Berlino, dove la visita di Hitler fu tanto veloce da non concedere il tempo materiale per azionare l’arma.

A questo punto entra in scena Stauffenberg, giovane tenente colonnello sfiduciato dalle ripetute sconfitte del proprio esercito. Terminata la convalescenza, in seguito a gravi ferite, tra cui la perdita dell’occhio destro, entra in contatto con i cospiratori. Il piano è pensato nei particolari, ma è anche esposto a molti rischi: Hitler è, infatti, molto protetto, poiché la Gestapo sospetta la presenza di un piano per uccidere il Führer.

Una volta divenuto capo di stato maggiore dell’esercito territoriale, Stauffenberg ebbe la possibilità di avvicinare l’obiettivo presso la tana del lupo, il quartier generale del fronte orientale. Inoltre, tale grado avrebbe consentito di effettuare un colpo di stato in seguito alla morte di Hitler, tagliando le restanti teste dell’idra: l’operazione Valchiria, originariamente pensata per reprimere eventuali rivolte interne, sarebbe stata utilizza contro le SS e i restanti vertici del partito.

Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, in cui non fu nemmeno azionata la bomba, il 20 luglio, in seguito all’esplosione provocata proprio da Stauffenberg, fu messa in moto l’operazione Valchiria. Sfortunatamente per i cospiratori, un caso fortuito volle che l’ordigno fu spostato, lasciando una gamba del tavolo tra la bomba e il suo obiettivo.

Il Führer uscì quasi illeso dalla sala riunioni devastata e, venuto a conoscenza del tentativo colpo di stato in atto, riuscì a bloccare tutte le operazioni e ad arrestare gli attentatori. Questi furono processati dal Tribunale del Popolo, che li condannò a morte.

Il colonnello Henning von Tresckow, tra i primi cospiratori, pronunciò queste parole prima di togliersi la vita:

Il mondo intero ora ci diffamerà, ma io sono ancora del tutto convinto che abbiamo fatto la cosa giusta. Hitler è l’acerrimo nemico non solo della Germania, ma del mondo intero.”

Alessio Gaggero

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Bombardamento su Roma del 19 luglio del ’43.

Il 19 luglio del 1943 Mussolini incontrò Hitler a Feltre, nel Veneto. Il primo, caldamente consigliato dal Capo di Stato maggiore, generale Ambrosio, accarezza sempre più l’idea di uscire dalla guerra. L’Italia era entrata in guerra tre anni prima, accanto alla Germania nazista, per decisione del duce, indotto dai successi bellici tedeschi in Europa, tanto ad est che ad ovest e a nord, dove le forze anglo-francesi erano state battute, a risolvere lo stato di non belligeranza (su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, abbiamo ricordato l’entrata in guerra dell’Italia nel post Solo alcune migliaia di morti e l’attacco alla Francia nel post 20 giugno 1940 l’attacco infame e fallimentare dell’Italia alla Francia). Ma poi la guerra aveva preso una piega sfavorevole per le forze nazifasciste, anche in virtù dell’entrata in guerra degli USA al fianco dell’Inghilterra, dopo il 7 dicembre del ’41. Già le forze italiane avevano subito l’umiliazione della sconfitta da parte di quelle elleniche nel tentativo di invadere la Grecia muovendo dall’Albania, che l’Italia aveva invaso nella primavera del ’39, quando ancora l’Europa era in pace (si veda il post In Albania non portammo ordine, giustizia e pace), poi c’era stata la dissennata campagna di Russia, esitata in una disastrosa ritirata, mentre alle sconfitte subite in Africa Settentrionale ed Orientale, si affiancavano i pesanti bombardamenti degli aerei alleati sulle maggiori città italiane. Appena una settimana prima di quel 19 luglio la Royal Air Force aveva pesantemente bombardato Torino (l’abbiamo ricordato qui) . Inoltre gli anglo-americani erano sbarcati in Sicilia la notte del 9 luglio (vi abbiamo dedicato il post Con lo sbarco in Sicilia, dopo 21 anni di regime, subisce un’accelerazione la fine del Fascismo).

Adolf Hitler però era deciso a non lasciarsi sfuggire l’alleato,essendogli utile a mantenere il conflitto, cioè l’avanzata anglo-americana, lontano dalla Germania.

Mentre i due discutevano, a 500 chilometri di distanza si consumava il primo massacro aereo della capitale.

3.000 morti e 11.000 feriti. Il quartiere di San Lorenzo fu quello più colpito: 1.500 morti e 4.000 feriti. I bombardieri delle forze aeree alleate del Mediterraneo, guidati dal generale James Doolittle (abbiamo ricordato la figura di questo generale dell’avizazione americana nel post Quel bombardamento su Tokio di “incoraggiamento”), circa 500 in tutto, sganciarono 4.000 bombe in due attacchi distinti (uno di mattina e uno di pomeriggio), incontrando solo una debole resistenza anti-area.

Due gli obiettivi strategici degli Americani: interrompere il sistema di comunicazione, bloccando così i rifornimenti diretti a sud, verso il fronte, e incrinare il morale e la fiducia della penisola intera. Quanto al primo, è ampiamente documentato lo sforzo diplomatico del Vaticano, risalente già al 1942, di evitare il bombardamento di Roma. La Santa Sede spinse il governo italiano a spostare gli obiettivi militari al di fuori della città e cercò di convincere gli Alleati della concretezza di questo cambiamento. La notevole presenza di beni religiosi e artistici sul territorio cittadino; la disapprovazione dell’America latina e dei cattolici statunitensi, specialmente irlandesi; l’opportunità per l’Asse di fare propaganda a suo favore; l’abbassamento del morale della componente cattolica dell’esercito alleato: nessuno di questi fattori fu ritenuto sufficientemente valido da distogliere Doolittle dalla sua missione.

Da tradizione: il 19 luglio 64 d.C. Roma bruciò per mano di Nerone. 1879 anni dopo, la Città eterna brucia di nuovo, e continuerà sino al 4 giugno del ’44: la liberazione.

Alessio Gaggero e Alberto Quattrocolo

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La mediazione come contenimento del timore di essere giudicati negativamente per il solo fatto di essere in conflitto

Quando siamo in conflitto, molto spesso, rappresentiamo noi stessi come coloro che non hanno scelto di confliggere, ma che vi sono stati costretti dalle circostanze o dalla condotta della controparte.

Se siamo in lite, ci diciamo e diciamo agli altri, è perché siamo stati forzati a reagire ad un’aggressione di qualche tipo o ad un’altra ingiustizia.

Anche la nostra controparte, però, nella gran parte dei casi, ritiene di essere stata trascinata nel conflitto. E si propone ai terzi come obbligata a reagire all’offesa di un nostro comportamento.

Scriveva Brian Muldoon che prima di arrivare in tribunale il conflitto “arde nella mente e nel cuore degli attori del conflitto”, cioè si sviluppa sul piano cognitivo ed emotivo, prima di manifestarsi con comportamenti visibili. E, aggiungeva, le parti rappresentano se stesse come oggetto di un’ingiustizia, cui reagiscono chiedendo giustizia.

Perché tanto spesso viviamo il nostro essere in conflitto come se si trattasse di una reazione alla condotta altrui e non come se fosse un’azione scaturita da noi, non come se fosse una nostra scelta?

Tra le molteplici ragioni, forse, un ruolo non marginale lo gioca anche la nostra paura di essere giudicati negativamente, da noi stessi e dagli altri, per il solo fatto che siamo in conflitto? 

Non è un’ipotesi da escludere, visto che il conflitto crea nella collettività reazioni all’insegna della preoccupazione, dell’allarme e della riprovazione.

Una delle peculiarità della mediazione consiste nel suo basarsi sul presupposto che l’essere in conflitto non è di per sé un fatto censurabile: non lo è in termini etici, sociali, morali, né sotto profili relazionali, personali, psicologici, ecc. Il conflitto, infatti, è considerato un evento naturale. E quando questo atteggiamento a-valutativo non è solo adottato in termini teorici dal mediatore, ma è da questi declinato nella pratica dell’incontro con i protagonisti del conflitto, gli effetti sono immediatamente visibili. Perché i protagonisti del conflitto, relazionandosi con il mediatore non sono più condizionati dalla necessità di persuaderlo che la Giustizia è dalla loro parte e che l’Ingiustizia è tutta collocata nel campo del nemico.

Tratto dalla lezione di Alberto Quattrocolo svolta nel primo incontro della XIV edizione del Corso di Mediazione Familiare.

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Il 18 luglio è il Mandela Day

Il nome per esteso è Nelson Mandela International Day e, a voler essere precisi, la dichiarazione delle Nazioni Unite arrivò solo in seguito alla prima celebrazione non ufficiale, fortemente voluta dai concerti 466641 e dalla Fondazione Nelson Mandela. Ad aprile 2009, infatti, queste due realtà invitarono il mondo a sostenerle nell’istituire tale giornata: l’idea fondante è onorare l’eredità di Madiba2 attraverso il volontariato e il servizio alla comunità.

“Ciò che conta nella vita non è il semplice fatto che abbiamo vissuto. È quale differenza abbiamo fatto nelle vite degli altri a determinare il significato delle vite che conduciamo.” (T.d.a.)

Fino al 18 luglio 2009, 91° compleanno dell’ex presidente sudafricano, si susseguirono eventi formativi, di raccolta fondi, di volontariato, concerti ed esibizioni artistiche culminati nel concerto tenuto al Radio City Music Hall di New York. Quattro mesi dopo, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ufficializzerà la ricorrenza.

Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Mandela, per il quale è stata lanciata la campagna #100to100, un countdown di cento giorni, che si conclude oggi, volto a sensibilizzare ulteriormente rispetto al principio alla base di questa giornata: ogni individuo ha il potere di fare qualcosa, di cambiare il mondo.

Alessio Gaggero

 

1 Nelson Rolihlahla Mandela è il nome completo. Durante la seconda carcerazione a Robben Island, tuttavia, passò in secondo piano, in favore di 466/64. In seguito, “Prigioniero 46664” fu utilizzato come formula reverenziale per riferirsi a Madiba. Bono e Joe Strummer, poi, intitolarono così la canzone che entrò a far parte dell’omonima campagna contro l’AIDS in Africa: una serie di concerti dal 2003 al 2008.

2 In Sud Africa (ormai anche altrove) è conosciuto soprattutto con il nome attribuitogli dal suo clan, gli Xhosa.

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Il 17/07/2016 sono arrestati 2745 magistrati turchi ritenuti oppositori di Erdogan

Il Consiglio supremo dei giudici e procuratori turchi (Hsyk), il 17 luglio 2016, ordina l’arresto di 2.745 magistrati: si tratta di coloro che erano già stati rimossi dai loro incarichi essendo ritenuti fedeli a Fethullah Gulen, l’imam e magnate accusato da Erdogan di essere lo stratega del fallito golpe del 15 luglio.

Alessio Gaggero

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L’ISIS sferra un sanguinoso attacco in Iraq il 17/07/2015

Venerdì 17 luglio 2015, l’ultimo giorno di Ramadan, esplode un’autobomba nell’affollato mercato di Khan Bani Saad a nord di Baghdad, in Iraq. Nell’attentato sono rimaste uccise più di 115 persone, sia adulti che bambini. Seguiranno tre giorni di lutto cittadino, che incidono sulla festa al termine del mese di preghiera e digiuno.

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Primo test atomico nel deserto del Nuovo Messico il 16 luglio 1945

Il 16 luglio 1945, nel deserto del Nuovo Messico si svolge il Trinity test, la prima esplosione di una bomba atomica. Furono quattro gli ordigni fabbricati nell’ambito del Progetto Manhattan e sviluppati principalmente al Los Alamos National Laboratory. Quella esplosa il 16 luglio fu la prima bomba realizzata e le venne attribuito il nome in codice di “The Gadget”. Esplose con successo nel primo test nucleare. La seconda, “Little Boy” esplose su Hiroshima il 6 agosto. La terza “Fat Man” fu sganciata su Nagasaki il 9 agosto del ’45.

Alessio Gaggero

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