Seconda guerra mondiale: il sottomarino giapponese I-58 affonda la USS Indianapolis, uccidendo 880 marinai. È il 31 luglio 1945.

All’incrociatore pesante Indianapolis, di classe Portland, della Marina statunitense era stata affidata una missione fondamentale per le sorti della Seconda Guerra Mondiale: trasportare parti critiche e uranio per la bomba atomica che avrebbe colpito Hiroshima, quella soprannominata Little boy1.

La nave salpò da San Francisco il 16 luglio 1945, poche ore dopo il Trinity test, la prima esplosione atomica, a mo’ di test, fatta nel Nuovo Messico (lo abbiamo ricordato nel post Primo test atomico nel deserto del Nuovo Messico il 16 luglio 1945); in tre giorni l’Indianapolis arrivò a Pearl Harbor (stabilendo un record di velocità) e infine, il 26 luglio, giunse a destinazione a Tinian. L’obiettivo dell’Indianapolis fu dunque raggiunto, come testimoniato dall’esplosione del 6 agosto successivo, ma nel viaggio di ritorno i soldati furono attaccati dal sottomarino giapponese.

Da poco passata la mezzanotte, nei primi minuti del 31 luglio del 1945, due siluri, lanciati da un sottomarino giapponese, colpirono la nave, che impiegò dodici minuti ad inabissarsi. Come nel film Lo Squalo (1975, di Steven Spielberg) il personaggio interpretato da Robert Shaw racconta ai due, attoniti e inorriditi, compagni di viaggio (interpretati da Roy Scheider e Richard Dreyfuss), gran parte dell’equipaggio non morì per l’affondamento dell’incrociatore, poiché molti riuscirono ad evacuare prima che affondasse. Centinaia di marinai restarono a mollo per giorni e si trasformarono in cibo per gli squali; alcuni morirono di disidratazione, ipernatriemia, ipotermia; altri ancora, in seguito a deliri e allucinazioni, uccisero se stessi o i proprio compagni.

Sembra che, nonostante l’alto livello di segretezza della missione, furono lanciati gli SOS 2. I segnali non vennero, tuttavia, accolti nella loro importanza. Ci vollero, dunque, tre giorni e mezzo prima che qualcuno della Marina si accorgesse di quelle centinaia di uomini alla deriva: un bombardiere americano passò in quel punto dell’oceano durante una ronda di routine e i soccorsi poterono partire.

La USS Indianapolis aveva a bordo 1196 marinai. Ne furono recuperati appena 316.

Alberto Quattrocolo
Alessio Gaggero

1 Cui si è fatto accenno in questo breve articolo sulla rubrica Corsi e Ricorsi.

2 Le prime dichiarazioni ufficiali parlarono di mancanza di evidenze in tal senso.

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Il 30 luglio 1938 Hitler conferisce un’onorificenza ad Henry Ford

L’industriale americano Henry Ford ricevette il titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dell’Aquila Tedesca, che è la più alta onorificenza del regime nazista conferibile ad uno straniero, per l’impegno della sua filiale Ford in Germania nel rifornire l’esercito nazista di mezzi blindati.

Il Führer, però, non fu debitore nei confronti di Ford esclusivamente sotto il profilo industriale. Questi, infatti, nel 1918 acquistò un settimanale di Detroit, The Dearborn Independent, pubblicato poi tra il 1919 e il 1927, quando fu costretto a chiudere per le cause intentategli. La motivazione delle dispute giudiziarie risiedette nella pubblicazione di articoli di forte carattere antisemita: in particolare, la serie di scritti intitolata L’ebreo internazionale. Il problema del mondo propose la tesi secondo cui il popolo ebraico perseguiva, fin da prima dell’inizio del Novecento, l’obiettivo di esercitare un controllo sulla cultura e la finanza mondiali. Al suo interno, furono altresì ripresi i Protocolli dei Savi di Sion, un documento, successivamente definito un falso storico redatto dalla polizia zarista nel 1903, che sosteneva l’idea di una cospirazione ebraico-massonica volta alla conquista del mondo.

In Germania, nei primi anni Venti, gli articoli di cui sopra furono ripresi e pubblicati sotto forma di un’opera in quattro volumi, intitolata L’ebreo internazionale, Il problema più grande del mondo, più tardi tradotto in diverse lingue e diffuso in tutta Europa, Italia compresa. È a questo punto che avvenne il contatto, indiretto, tra i due personaggi: Hitler, imprigionato a seguito del fallito colpo di stato del ’23, ebbe tempo e modo di approfondire la lettura di alcuni dei pensieri di Ford, che rafforzarono le basi del celebre Mein Kampf (su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, ne abbiamo parlato nel post Il 1° aprile, il Mein Kampf e il boicottaggio nazista del commercio ebraico Qui, è addirittura presente il nome dell’industriale, unico Americano mai citato dal Führer.

Sembra che, poco dopo, il partito nazista chiese allo stesso Ford dei contributi, in forza delle idee sostenute dal suo giornale: la versione ufficiale riporta un rifiuto da parte dell’azienda. Ad ogni modo, 14 anni più tardi gli fu conferita l’alta onorificenza già citata.

La vicenda si concluse poi durante il 1942, quando gli avvocati dell’Americano intentarono un’azione legale, che comportò la fine della distribuzione non autorizzata del libro, al netto della circolazione del materiale (tuttora in essere) fuori dalla legalità.

Alessio Gaggero

L’attentato di via Pipitone si consuma il 29 luglio 1983, a Palermo

Sono passati 36 anni da quando Rocco Chinnici fu travolto dall’onda d’urto di una bomba di Cosa nostra. Insieme al giudice, persero la vita i due agenti della scorta, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e il portinaio del condominio, Stefano Li Sacchi. Sì, il condominio, perché l’ordigno si trovava su una Fiat 126 parcheggiata proprio sotto casa sua. Antonino Madonia premette il pulsante quando vide il magistrato uscire dal portone.

Forse basta poco per uccidere un uomo. Più difficile cancellare ciò che ha lasciato in anni di intensa attività, potendo vantare una religione particolare, come ricorderà tempo dopo Borsellino: quella del lavoro. Dopotutto, Cosa nostra non uccideva a caso: Chinnici era pericoloso perché aveva intuito, già alla fine degli anni Settanta, i legami che la mafia siciliana intratteneva con la finanza, la politica, l’imprenditoria e, soprattutto, con gli omologhi italiani ed esteri. Per questo sosteneva con forza la necessità di una battaglia trasversale al fenomeno mafioso: solo lo Stato nel suo complesso avrebbe potuto incidere in maniera risolutiva. Ognuno per sé non si va lontano.

Parallelamente, pose le fondamenta della struttura che porterà al maxi processo: il pool antimafia. L’innovazione che questo strumento portò alla lotta a Cosa nostra si riscontra, tra gli altri, anche nel valore protettivo per i magistrati stessi. La solitudine espone i singoli ai peggiori pericoli; il gruppo, di contro, permette alle indagini di sopravvivere anche alla morte di chi, fino ad allora, le aveva portate avanti. Senza contare l’imprescindibile valore del lavoro di squadra, anche a questo livello.

Le radici dell’infezione si dimostrarono, tuttavia, troppo profonde: non si può fare gruppo con chi gioca nella squadra avversaria. Sembra infatti che, in questo caso come in altri, i mafiosi avessero ricevuto indicazioni da qualcun altro, qualcuno di esterno e legato al mondo politico italiano: furono i cugini Salvo, su cui Chinnici stava indagando, a fare da ponte con Cosa nostra.

Nel 2002, la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta confermò 16 condanne per l’omicidio e riconobbe l’intervento dei Salvo nella trattativa. Il 6 marzo 2014, a Rocco Chinnici è stato dedicato un albero nel Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano.

Alessio Gaggero

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Il 28 luglio di 106 anni fa iniziava la Prima Guerra Mondiale

Il 28 luglio 1914 l’Austria-Ungheria muoveva guerra contro la Serbia. Erano trascorsi 14 giorni dall’attentato di Sarayevo e 5 giorni dalla scadenza dell’ultimatum austriaco. Iniziava la Grande Guerra.

Il primo agosto, la Germania, alleata dell’Austria, in seguito alla mobilitazione delle truppe dello Zar alla frontiera, dichiarò guerra alla Russia. Il 2 agosto i tedeschi posero mano all’attuazione del Piano Schlieffen, che prevedeva l’apertura di un fronte occidentale contro la Francia. Infatti, occuparono il territorio del Lussemburgo e procedettero verso il Belgio, violandone la neutralità. Così, il 3 agosto la Germania dichiarò guerra alla Francia, che era alleata della Russia. L’Italia, pur essendo membro della Triplice Alleanza, con la Germania e l’Austria, persistette ancora per quasi un anno nella sua scelta della neutralità. Il 4 agosto anche la Gran Bretagna entrò nel conflitto. Essendo alleata della Francia, dichiarò la guerra alla Germania. Tra il 6 e il 13 agosto del ’14, Serbia e Francia dichiararono guerra all’Impero austro-ungarico, mentre questo la dichiarò alla Gran Bretagna. Si definivano così gli schieramenti avversi della Prima Guerra Mondiale: da un lato, gli Alleati, cioè, le forze della Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia, Impero russo); dall’altro, gli Imperi Centrali (vale a dire la Germania, l’Impero austro-ungarico e l’Impero ottomano), che avevano costituito precedentemente quella Triplice Alleanza, nella quale figurava anche l’Italia, che restava, però, per il momento neutrale. Il 23 agosto anche il Giappone dichiarò guerra agli Imperi Centrali. Un anno dopo, fu la volta dell’Italia: su questa rubrica, Corsi e Ricorsi, abbiamo ricordato nel post Oh, che bella guerra, la sua entrata in guerra, contro l’Austria -Ungheria, al fianco di Francia e Inghilterra, con le quali si schiereranno anche gli USA, il 6 aprile del 1917. Il conflitto era diventato mondiale.

In quegli anni si sviluppò un concreto esempio del carattere contagioso del conflitto: la guerra coinvolse più di 70 milioni di soldati, di cui più di 9 milioni persero la vita in battaglia, così come circa 7 milioni di civili, per cause dirette e non.

Tra quelli che tornarono a casa e che erano genitori o lo sarebbero diventati di lì a poco, tenendo in braccio i loro bambini, in molti probabilmente pensarono che quei piccoli fossero fortunati, perché mai avrebbero vissuto gli orrori che loro era toccato soffrire e infliggere. Nessuno mai più avrebbe vissuto tanta disumanità, credevano.

Si sbagliavano.

Alla base di questo macello mondiale vi furono tanti e diversi fattori. Tra questi un ruolo importante lo giocarono i diversi nazionalisti e le logiche etero e autodistruttive che da quelli si sprigionarono. Ma con la fine del conflitto, nonostante il disastro economico e sociale, le tendenze e le tensioni che tanti orrori, tanta morte e tante sofferenze avevano provocato non vennero superate. Anzi, proprio le ideologie nazionaliste che avevano spinto al massacro milioni di persone, anziché essere espulse dal panorama politico, trovarono il modo di imporsi con una prepotenza inedita e con un successo inesorabile e fatale.

Così, se scoppiava in Russia la rivoluzione bolscevica, mentre rombavano ancora i cannoni della Prima Guerra Mondiale, nel devastato corpo del continente europeo, con la cessazione di quel conflitto, sorgevano i tumori del fascismo italiano e del nazionalsocialismo tedesco … E nel giro di due decenni si passava dalla Grande Guerra alla Seconda Guerra Mondiale.

Alberto Quattrocolo
Alessio Gaggero

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Milano, via Palestro, 27 luglio 1993. È estate, la mafia uccide.

La sera del 27 luglio 1993, alle 23:14 esplose una Fiat Uno parcheggiata davanti al Padiglione d’Arte Contemporanea (PAC), di via Palestro, a Milano. Purtroppo, nei pressi erano sopraggiunti tre Vigili del Fuoco, chiamati a verificare l’uscita di fumo dalla macchina stessa: persero la vita insieme a un Vigile urbano e a un cittadino marocchino, che si trovava su una panchina a breve distanza. Ma non era ancora finita: il gas, infiltratosi sotto terra, provocò una seconda deflagrazione quasi cinque ore dopo, danneggiando gravemente il Padiglione e mettendo a rischio la vita delle persone vicine.

Il procedimento penale, volto ad accertare autori e modalità di esecuzione, ha ricostruito i seguenti fatti, così definiti dalle parole della sentenza della Corte di Cassazione del 2002:

L’episodio di Milano è stato ricostruito in base alle dichiarazioni di Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco. Carra, unitamente a Lo Nigro che aveva con sé una miccia, aveva trasportato ad Arluno l’esplosivo, che era stato macinato e confezionato da Spatuzza, Lo Nigro e Giuliano nel rudere di Mangano, consegnandolo il 23 luglio; Lo Nigro e Giuliano si erano poi recati rispettivamente il 26 e il 27 luglio, a Roma, ove Scarano era impegnato nella preparazione degli attentati alle chiese, Scarano aveva appreso da Lo Nigro che quella sera sarebbero successe cose eclatanti in tutta Italia; aveva inoltre sentito LoNigro chiedere a Giuliano se aveva lasciato tutto a posto a Milano e quest’ultimo rispondere affermativamente; dopo gli attentati aveva sentito i predetti parlare tra loro e dire che le bombe di Milano e di Roma sarebbero dovute esplodere contemporaneamente a mezzanotte, ma che a Milano lo scoppio era avvenuto un’ora prima del previsto; la sera del 27 luglio, mentre preparavano l’autobomba nel cortile di via Ostiense per le stragi di Roma, Scarano aveva riferito a Di Natale che quella sera sarebbero scoppiate altre bombe anche a Milano; Scarano sollecitato da Di Natale a portare via l’esplosivo da via Ostiense in Roma, aveva risposto di avere pazienza perché doveva accordarsi con altre persone di Milano.

Successive dichiarazioni di Spatuzza rimescolarono le carte. Certo è che, negli anni delle bombe mafiose, Cosa nostra organizzò tre attentati nella stessa notte, tra cui quello di via Palestro. Tale affermazione non è scontata, stando a guardare le targhe commemorative. “Le”, perché ne esistono due, una successiva all’altra. La prima, posta a un anno dalla strage, riportava il seguente testo:

In questo luogo
il 27 luglio 1993
sacrificarono le loro giovani vite
Alessandro Ferrari Vigile urbano
Carlo La Catena Vigile del Fuoco
Sergio Pasotto Vigile del Fuoco
Stefano Picerno Vigile del Fuoco
Dris Moussafir cittadino del Marocco
Vittime innocenti di un vile attentato

Nella foto in cima all’articolo potete trovare l’attuale targa. È evidente la differenza che intercorre tra le due, in termini di riconoscimento del reale svolgimento dei fatti. Forse, il nostro Paese ogni tanto compie qualche passo avanti.

Alessio Gaggero

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La legge 354 del 26 luglio del 1975 rinnova, finalmente, l’ordinamento penitenziario

A partire dal ’68, si scatenarono numerose rivolte carcerarie: i detenuti pretendevano una riforma del sistema penitenziario, ormai desueto. Il periodo storico in cui si incunearono tali proteste coincise con il cambiamento della popolazione carceraria: i prigionieri politici salirono esponenzialmente di numero, provocando una significativa modifica negli interessi del mondo che ruotava attorno ai penitenziari.

Al termine di un difficile iter parlamentare, che vide infrangersi più volte le aspettative dei firmatari (in ragione del termine anticipato di diverse legislature) nel 1975 si giunse, infine, all’emanazione della nuova norma. Norma che rispondeva non solo alle necessità chieste a gran voce dai diretti interessati, ma anche all’art. 27 c.3 della Carta Costituzionale 1 e alle Convenzioni internazionali in materia, sotto cui il nostro paese aveva posto la propria firma 2.

 

Alcuni punti focali della riforma furono:

  • I principi di dignità e umanità della persona, che devono ispirare il trattamento penitenziario, anche e soprattutto per quanto concerne il comportamento del personale che lavora negli istituti.
  • L’individualizzazione del trattamento: per mezzo dell’osservazione scientifica della personalità, è necessario declinare i progetti sullo specifico individuo, onde permettergli di intraprendere un congruo percorso di risocializzazione.
  • Anche a fronte di un provvedimento di interdizione legale, sono garantiti il riconoscimento e l’esercizio dei diritti e delle facoltà dei ristretti.
  • Le misure alternative alla pena, elemento centrale del trattamento risocializzante.
  • L’apertura del carcere alla comunità esterna, volta a permettere l’entrata di figure che possano adempiere all’obiettivo di rieducazione dei condannati.

Tali propositi non sono stati pienamente soddisfatti negli anni seguenti, soprattutto a causa delle carenze di personale e strutture a disposizione. La nuova legge costituì, tuttavia, un importante passo avanti del nostro sistema carcerario in direzione delle indicazioni internazionali. Per un ulteriore miglioramento sarà necessario aspettare il 1986.

Oggi, a più di quarant’anni di distanza dal quelle vicende, una nuova norma riformatrice si è incagliata tra le onde del Parlamento. L’unica direzione auspicabile rimane, tuttavia, il reinserimento del condannato nella società.

Alessio Gaggero

1 “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”

2 Ad esempio, la Risoluzione ONU 30/08/1955: Regole minime per il trattamento dei detenuti

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La mediazione ridà fiducia nella parola

Due aspetti, tra loro intrecciati, terribilmente ricorrenti nei conflitti, specie quando pervengono a livelli significativi di escalation, sono la difficoltà di parlare e quella di ascoltarsi, cioè di ascoltare se stessi e di ascoltare l’altro.

Quando queste due difficoltà arrivano a sembrare insormontabili la comunicazione subisce delle alterazioni, risulta distorta. Gli eventuali sforzi di dialogo, come, del resto, i tentativi di riparazione, possono essere vissuti dalla controparte come manifestazioni di resa riluttante, come ammissioni di colpa mascherate o come segni di debolezza, oppure, addirittura, come possibili, insidiosissime, trappole.

Infatti, in tali circostanze, alla fiducia si è ormai sostituita la diffidenza; e ciascuno vede l’altro come se fosse un nemico. Un nemico infido, che potrebbe essere capace di qualsiasi cosa.

Sono, queste, situazioni intrise di rabbia, dolore, rassegnazione e stanchezza. E talvolta anche di solitudine: infatti, vi è anche da considerare un altro aspetto desolante: in quelle situazioni, la sensazione di incomunicabilità non riguarda solo il rapporto con coloro con i quali si è conflitto, ma spesso anche con quegli altri ai quali si tenta di raccontare, di spiegare, di far capire ciò che ci sta succedendo.

“Perché dovremmo rivolgersi ad un mediatore?”, ci chiediamo, se qualcuno ci propone tale eventualità, quando ci troviamo coinvolti in conflitti di simile portata. Si tratta di una proposta che ci suona come una perdita di tempo, dato che gli atteggiamenti e i comportamenti della nostra controparte ci portano a pensare che, al punto cui si è arrivati, parlare non serve più a niente?

In realtà, l’oggetto della nostra sfiducia non è la mediazione come intervento professionale da parte di un terzo. Il punto è che abbiamo iniziato a perdere la fiducia nella parola. E ciò aumenta i vissuti di frustrazione e di impotenza, poiché, anche se abbattuti, sfiduciati, arrabbiati e delusi, in fondo, un po’ ci piacerebbe che il nostro avversario prima o poi comprendesse un paio di cosette, quelle che tante volte abbiamo cercato di fargli capire.

Seguire un percorso di mediazione, se non ad altro, almeno a questo serve: a ritrovare la fiducia nella parola. Non è una cosa poco quando il conflitto ci sta togliendo il sonno e l’appetito, incupendo l’animo e le giornate, logorando nervi e pazienza, quando ci sta gravando sul cuore e il suo carico si fa più pesante per la sensazione che, nonostante la fatica di spiegare e persuadere, siano pochissime le persone capaci di comprenderci.

Ritrovare fiducia nella parola non è qualcosa di teorico. È un dato di fatto. Ha le forme e le sensazioni di un’esperienza di riscoperta.

Tra le varie ragioni per provare la strada della mediazione, infatti, vi è anche quella di poter essere, in primo luogo, ascoltati. Intendo: proprio ascoltati, ascoltati davvero.

Questa esperienza, non esattamente frequentissima, dunque, ridà fiducia nello strumento della parola. Nella mediazione c’è, infatti, qualcuno che comprende quel che diciamo e quel che cerchiamo di dire. E quel qualcuno può aiutarci a comunicare, a veicolare a coloro con cui siamo in conflitto quei significati che ci stanno particolarmente a cuore.

In fondo, qui sta il nocciolo della mediazione.

Alberto Quattrocolo

Tratto dalla lezione di A. Quattrocolo svolta nel primo incontro della XIII edizione del Corso di Mediazione Penale e in ambito Lavorativo e Sanitario

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Il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo sfiducia il Capo del governo, Benito Mussolini

Mussolini, posto dal Re Vittorio Emanuele III, a capo del governo, all’indomani della marcia su Roma, del 22 ottobre del 1922 (l’abbiamo ricordato qui, sulla rubrica Corsi e Ricorsi) aveva rapidamente instaurato un regime dittatoriale (si veda il post Dall’Aventino alla dittatura), giungendo, nel 1926, all’approvazione delle  leggi fascistissime (le abbiamo ricordate nel post Le prime leggi fascistissime) per cancellare “legalmente” ogni residuo di libertà.  Per vent’anni fu soppressa ogni speranza legalitaria, insieme alle più diverse forme di libertà (di stampa, di manifestazione del pensiero, di associazione, di riunione, di insegnamento, a proposito della quale si rinvia ad un altro post), mentre accanto al ripristino della pena di morte, veniva introdotto un Tribunale Speciale per reati politici, si istituiva l’O.V.R.A., la polizia politica segreta (si veda questo post) per garantire l’effettiva persecuzione di ogni oppositore, data la formale messa fuori legge di tutti i partiti e tutte le organizzazioni politiche, tranne il partito fascista, e l’irrogazione delle lunghe pene detentive previste per chi ricostituiva le organizzazioni disciolte o si affiliava ad esse.

L’istituzione del Gran Consiglio del Fascismo, con la legge 2693 del 9 dicembre 1928, entrava a pieno titolo in quest’opera di soppressione di ogni traccia di democrazia. Con esso, infatti, le elezioni erano state trasformate in semplici plebisciti di approvazione di una “lista unica” di deputati designati dal Gran Consiglio del Fascismo. Del resto, nel 1939 le elezioni, rese di fatto inutili, furono del tutto abolite nel 1939 con la sostituzione della Camera dei Deputati con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, la quale era composta solo da fascisti nominati dal Governo, mentre il Senato rimaneva di nomina regia.

Con l’accentramento del potere nelle mani del duce, tuttavia, anche il Gran Consiglio del Fascismo perse progressivamente tutte le sue funzioni, finché non smise definitivamente di riunirsi, verso la fine del 1939.

Il 25 luglio ’43, a circa quattro anni di distanza, però, tenne la sua ultima, lunghissima seduta 1: iniziata nel pomeriggio, si concluse dopo le due di notte del giorno successivo, con la votazione che decise il futuro di Mussolini, del fascismo e dell’Italia. Come accennato in un precedente articolo, lo sbarco in Sicilia da parte delle forze alleate ebbe un importante peso nel condurre gli attori principali, Dino Grandi e Vittorio Emanuele III, a tale decisione.

Poche ore più tardi, Mussolini, sfiduciato dal Consiglio, incontrò il Re presso Villa Savoia, laddove fu informato della sua sostituzione, in qualità di Presidente del Consiglio, da parte del suo ex Capo di Stato maggiore, il Maresciallo Badoglio. All’uscita, fu arrestato e incarcerato da alcuni carabinieri, con l’accusa di aver condotto l’Italia alla guerra, di essersi alleato con i nazisti e di essere responsabile della sconfitta subita in Russia.

Tra l’8 e il 10 gennaio 1944, Dino Grandi, che aveva proposto la mozione di sfiducia, Galeazzo Ciano (già Ministro degli Esteri e genero di Mussolini) e gli altri 17 componenti del Consiglio furono poi condannati a seguito del Processo di Verona, condotto dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato della RSI (Repubblica Sociale Italiana2. Dei diciannove membri del Gran Consiglio del Fascismo accusati, soltanto sei erano presenti al processo; tra questi Tullio Cianetti, che venne condannato a 30 anni di reclusione. Gli altri cinque, vale a dire Galeazzo Ciano, Emilio De Bono, Luciano Gottardi, Giovanni Marinelli e Carlo Pareschi, furono condannati a morte e fucilati. Gli imputati assenti, condannati a morte in contumacia, furono Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Luigi Federzoni, Cesare Maria De Vecchi, Umberto Albini, Giacomo Acerbo, Dino Alfieri, Giuseppe Bastianini, Annio Bignardi, Giovanni Balella, Alfredo De Marsico, Alberto De Stefani ed Edmondo Rossoni.

Nessuno di loro fu catturato dalle autorità repubblicane e tutti sopravvissero alla Seconda guerra mondiale.

Alberto Quattrocolo
Alessio Gaggero

1 Il verbale di tale riunione fu a lungo ritenuto inesistente. Nel 2013, tuttavia, Fabio Toncelli presentò al pubblico della Rai un documento, manoscritto, che sembrava essere il verbale in questione. Attualmente è al vaglio degli storici l’autenticità dello stesso, poiché la data indicata non sembra coincidere con quella dell’ultima seduta del Gran Consiglio.

2 La Repubblica di Salò, costituita da Mussolini con l’appoggio della Germania nazista nel Settentrione d’Italia, laddove gli Alleati, che stavano risalendo lo Stivale, non erano ancora giunti a porre in essere la liberazione dalla dominazione nazi-fascista.

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Il 24 luglio 1923 fu firmato il Trattato di Losanna e milioni di persone videro le loro vite cambiare radicalmente

Alla conclusione della Prima guerra mondiale, alcune popolazioni continuarono a combattere dure lotte per il riconoscimento dei propri diritti asseriti: in questo caso, Turchi, Greci e Armeni.

I primi andarono incontro a un conflitto per la propria indipendenza e promossero un radicale cambiamento della nazione: da sultanato a Repubblica. Tra il ’22 e il ’23 riconquistarono, quindi, alcuni dei territori persi con il precedente accordo, firmato con i vincitori della Grande Guerra, i quali riconobbero il nuovo stato delle cose. Chi perse i suddetti territori furono proprio i Greci, che dovettero dunque cedere Smirne e la Tracia.

Un fatto di interesse ancora attuale riguarda il cosiddetto Scambio di popolazione: parti delle reciproche minoranze etnico-religiose furono costrette a trasferirsi nei territori di ‘appartenenza’, per così dire, più prossima. La minoranza cristiana di stanza in Turchia fu spostata in Grecia, mentre i musulmani residenti in Grecia percorsero la strada al contrario: circa due milioni di persone in totale. Questo accadde sotto l’egida della comunità internazionale, all’epoca riunita sotto il nome di Società delle Nazioni. Alla quale fu richiesto, dalla Repubblica Ellenica, un aiuto nel gestire gli effetti sociali ed economici di tale cambiamento.

Infine, gli Armeni. Il trattato precedente (quello utilizzato dal partito di Ataturk per scatenare la sollevazione che portò, infine, alla Repubblica) ne riconosceva il genocidio ad opera dei Turchi e contemplava la fondazione di uno stato armeno. Se tale tentativo era già fallito l’anno precedente, il 1919, ora, nel ’23, le aspettative indipendentiste furono nuovamente frustrate: non fu riconosciuta nemmeno la distinzione etnica da altre popolazioni, avendo citato i diritti dei “sudditi non-musulmani della Turchia”.

Alessio Gaggero

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Il 23 luglio del 1967 inizia la sommossa di Detroit che costa la vita a 43 persone

Gli scontri, che proseguiranno fino al 27 luglio, uccideranno 33 afroamericani e 10 bianchi, anche a causa dell’intervento contemporaneo, ma poco coordinato, della Polizia cittadina e della Guardia Nazionale del Michigan.

L’evento scatenante è ricondotto all’irruzione delle forze dell’ordine in un locale, privo di licenza, sulla dodicesima strada: il numero di presenti si rivelò molto più elevato del previsto e ciò indusse molti curiosi a riunirsi attorno agli arrestati. A questo punto, con le prime luci dell’alba, iniziarono gli scontri.

Elementi importanti, considerati il periodo storico e il contesto ambientale, furono quello etnico e sociale. In seguito alla Grande migrazione afroamericana, Detroit vide radicalmente cambiare la propria composizione cittadina ed ebbe bisogno di diversi decenni per digerire il fenomeno, tanto sotto il profilo dell’integrazione culturale che edile. Finalmente, negli anni Sessanta Detroit poteva dirsi al passo con le altre grandi città del nord, come testimoniato da diversi riconoscimenti sia federali che giornalistici.

Il malcontento, tuttavia, serpeggiava tra la popolazione, anche in ragione degli elevati livelli di razzismo rilevati tra i componenti delle forze dell’ordine: minacce, offese, arresti pretestuosi ed irruzioni a base razziale erano frequenti. Gli arresti al Bling pig fecero traboccare il vaso. La città ne uscì devastata, tanto da richiedere l’intervento del presidente Lyndon Jhonson, che fu costretto ad inviare due divisioni dell’esercito ad aiutare le forze già presenti sul territorio. 1189 feriti, più di 7200 arresti e più di 2000 edifici distrutti. Dai disordini di New York del 1863 non si era più vista una situazione simile. Là, però, si parlava di Guerra di secessione.

Nel 2017 è approdato nei cinema un film, diretto da Kathryn Bigelow e scritto da Mark Boal, che rievoca quei fatti: Detroit.

Alessio Gaggero

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