giustizia riparativa

La giustizia riparativa. Una percorso innovativo, per restituire centralità alla vittima

Come è noto, l’esperienza giudiziaria corrente offre scarse forme di autentica soddisfazione per la persona offesa e questo anche in caso di accesso a riti alternativi, quali il patteggiamento, o in caso di sospensione condizionale della pena: in queste ipotesi, la vittima del reato ha per lo più la sensazione amara che tutto sia accaduto “senza lasciare traccia”.

Nelle dinamiche processuali della giustizia ordinaria la vittima, di fatto, risulta estromessa dal processo decisionale in ragione della natura pubblica (statuale) del sistema penale, che “razionalizza” la sua umana vicenda di sofferenza, di paure, di rabbia e dolore, restituendole una compensazione simbolica (la punizione del reo) e una monetaria (il risarcimento del danno). Tuttavia tali provvedimenti non riescono a rendere ragione dei vissuti patiti o a lenire la ferita esistenziale aperta dal reato subito, così come nessuna ricostruzione processuale può permettere una rielaborazione in grado di restituire un senso all’accaduto.
D’altra parte, lo stesso autore del reato in molti casi pare subire passivamente la vicenda giudiziale e la sanzione. Quest’ultima, spesso, è da lui vissuta come una “ritorsione” di un apparato statuale alieno e distante, o come un “incidente di percorso” all’interno del proprio percorso di vita. Non sono molte infatti le situazioni in cui la pena innesca nel condannato una riflessione sul reato compiuto e riesce ad attivare una reale presa di coscienza e un’autentica assunzione di responsabilità circa le conseguenze del proprio gesto.


La Giustizia Riparativa, invece, distinguendosi nettamente dai modelli della Giustizia Retributiva e Riabilitativa, che normalmente prevalgono nei vari ordinamenti – compreso quello italiano – consiste di percorsi che consentono alla vittima di recuperare una posizione di centralità nel procedimento penale e al reo di accettare la responsabilità delle proprie azioni, così sanando la lesione al tessuto sociale che la commissione del reato di fatto ha determinato. Quindi, soprattutto nella forma degli interventi di mediazione penale, l’intervento si concentra sulla relazione interrotta (o mai costituita) tra la persona-vittima e la persona-reo, e si muove in un’ottica di gestione del conflitto, mettendo entrambe le parti nella condizione di ingaggiarsi in un confronto. In tal modo alla verità processuale si affianca un’altra “verità”, ricostruita dalle parti, in grado di rendere conto fino in fondo dei vissuti, delle emozioni, della sofferenza, delle motivazioni e dei bisogni dei soggetti coinvolti.
I processi di Giustizia Riparativa mirano quindi alla responsabilizzazione del reo, da un lato, e a offrire, dall’altro lato, alla vittima la possibilità di riappropriarsi dell’evento, di ritrovare un ruolo attivo e di restituire significato all’accaduto attraverso l’attivazione di un percorso comune che permetta una migliore comprensione reciproca dei fatti e dei loro correlati emozionali ed esistenziali.

Più in particolare, rispetto alle vittime l’obiettivo è fornire loro l’opportunità di uscire dall’isolamento, affrancandosi dal senso di abbandono e solitudine che spesso consegue alla vittimizzazione, attraverso la condivisione del carico emotivo in una condizione di ascolto in un contesto protetto. Inoltre, la possibilità di elaborare ed esporre le proprie istanze, che solo di rado, contrariamente all’opinione corrente, riguardano propositi di vendetta, afferendo invece ad un’esigenza di ricostruzione di senso e di riparazione e superamento del danno sofferto.
D’altra parte, la Giustizia Riparativa fornisce anche al reo una doppia opportunità: da un lato, quella di esprimere i propri sentimenti, di mostrare alla vittima di essere una persona e non un’astratta entità minacciosa, e di porre rimedio alla propria azione delittuosa. Dall’altro, di entrare in relazione con la vittima, in quanto persona in carne ed ossa, non più come estranea o addirittura come figura astrattamente considerata e vissuta, e di riconoscersi responsabile verso un “Altro-da-sé”. In tal modo, per il reo la norma giuridica infranta, da generale e astratta, giunge ad assumere valore concreto di protezione di un bene preciso e individuabile (quello della vittima), con significative conseguenze anche all’interno del percorso di reinserimento sociale.

Silvia Boverini e Alberto Quattrcolo

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

 

————

1 E’ da notare tuttavia che anche nel nostro ordinamento si è fatto strada il paradigma della Giustizia Riparativa, ad esempio nelle disposizioni legislative che introducono, ai fini della riabilitazione delle persone colpevoli di qualche crimine, la possibilità di intraprendere un percorso di mediazione penale tra condannato e vittima, si pensi alla possibilità di intraprendere un percorso di mediazione reo-vittima promosse dal pubblico ministero in sede di indagini preliminari (ex art. 9 d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448) o alle forme di mediazione reo-vittima impartite dall’Autorità giudiziaria minorile nel progetto di messa alla prova (ex art. 28 d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448). Il nostro ordinamento prevede per altro in alcuni casi forme di riparazione riconducibili a una nozione ampia di giustizia riparativa, ad esempio negli istituti del lavoro sostitutivo (legge 689/81), del lavoro di pubblica utilità per alcune violazioni del codice della strada (ex art 54 d.lgs. 274/2000), del lavoro di pubblica utilità previsto per i tossicodipendenti (ex art. 73 comma 5-bis d.p.r. 309/90), dei progetti di pubblica utilità per i soggetti ammessi al lavoro esterno (ex art. 21, comma 4-ter, l. 354/75).

ascolto-conflitto

La mediazione dei conflitti come strumento di ascolto della vittima.

Intervista ad Alessio Gaggero, Psicologo e Mediatore presso il Centro di Mediazione Penale della Città di Torino.

“L’obiettivo principale dei percorsi di mediazione è riuscire a dare la parola alle vittime. Perché all’interno del procedimento penale minorile non c’è molta attenzione per le persone che hanno subito il reato. Spesso le vittime non vengono, non dico comprese o aiutate, ma nemmeno ascoltate.”

Come sei entrato in contatto con il tema della mediazione dei conflitti?

Ricordo di aver sentito parlare della mediazione dei conflitti per la prima volta da un professore all’Università. Lui parlava di mediazione civile e commerciale, che è uno dei vari rami della mediazione dei conflitti. Ricordo che mi piacque molto l’idea del poter risolvere il conflitto fuori dall’ambito giudiziario, quindi facendo parlare le persone. Ho parlato con il Presidente dell’Associazione Me.Dia.Re. che mi ha spiegato meglio l’approccio umanistico trasformativo, utilizzato nei Servizi di Mediazione dei Conflitti gestiti dall’équipe di Me.Dia.Re. Mi è piaciuto e per questo ho deciso di seguire il Master. Lo trovai molto vicino alla mia formazione psicologica, poiché l’attenzione è rivolta alla persona, all’individuo che hai di fronte, questo è quello che ho trovato interessante, che mi è risuonato molto. A differenza di altri approcci che sono più incentrati sul tentativo di trovare un accordo, l’approccio trasformativo-umanistico mi sembra particolarmente incentrato sull’ascolto e sul riconoscimento della persona ed è da lì che si parte per poi ricostruire tutto il resto. Non si parte, dunque, con l’obiettivo di arrivare all’accordo ma dal contatto, dalla relazione tra te (il mediatore) e l’altra persona. Ecco, questa è la cosa che più apprezzo di questo approccio.

Quale aspetto ti è piaciuto di più del percorso formativo svolto con Me.Dia.Re.?

Mi sono piaciute molto le simulate. Quindi, la possibilità di mettere in pratica la teoria grazie alle simulazioni, dove però ti trovi realmente a mettere in gioco te stesso, all’interno di una dinamica conflittuale: o come confliggente o come mediatore. Quindi non sei buttato allo sbaraglio a sperimentare sul campo, perché sei comunque dentro un contesto protetto, che è quello dell’aula, però ti sperimenti nella gestione dei conflitti portati da te o dagli altri corsisti. Si tratta, quindi di conflitti reali, tra persone reali, che devi gestire con l’aiuto dei formatori. Non è come avere a che fare con dei conflitti descritti sui libri. Questo è stato sicuramente uno dei punti di forza del Master. In sostanza, qualcuno portava un conflitto reale, che aveva vissuto sulla propria pelle, e lui e altre persone lo interpretavano in classe. Si simulava il percorso di mediazione: c’erano due corsisti che, come mediatori, svolgevano prima un colloquio con il primo confliggente, poi con il secondo e poi gestivano l’incontro faccia a faccia con i due.

Cosa, al contrario, ti è piaciuto poco?

Ho fatto il Master molto tempo fa, all’epoca non c’erano tantissimi contributi di docenti esterni. Non l’ho sentito tanto sul momento, ma poi ho notato che successivamente sono stati inseriti gli interventi di docenti esterni che portano altre esperienze e professionalità, e questo mi sembra molto apprezzabile.

Cosa ti ha messo più in difficoltà durante il percorso di formazione e tirocinio?

Le simulate stesse. Sono le situazioni più sfidanti, che ti attivano di più, in cui ti metti di più in gioco. Sono le più interessanti ma anche le più difficili. Hai di fronte una persona che chiaramente non è il confliggente vero, non ce l’ha realmente a morte con qualcuno, ma il conflitto lo prende ed è come se fosse davvero il soggetto reale. E tu sei lì e devi ascoltare, ecc. È molto utile farle perché poi quando ti trovi realmente ad affrontare un colloquio di mediazione, hai già fatto un bel po’ di esperienza.

Su quale argomento ti sei concentrato nella tesi finale?

La mia tesi riguardava la mediazione dei conflitti all’interno di famiglie omogenitoriali. Avevo visto che mancava praticamente del tutto letteratura sull’argomento. Non c’è mai stata attenzione su questo aspetto.
Alla luce della tua esperienza formativa e lavorativa, come definiresti la mediazione dei conflitti in poche parole?
Dare la possibilità ad esempio a due persone che a un certo punto si sono trovate in un conflitto di esprimere i loro vissuti, le loro emozioni di fronte a una persona esterna che non ti giudica, questo secondo me è in sintesi la mediazione dei conflitti.

Qual è il dispositivo di mediazione proposto da Me.Dia.Re.?

Il dispositivo prevede un numero non rigido, ma di solito almeno tre, di incontri preliminari svolti con ciascuna delle parti, valutando la possibilità di fare un incontro di mediazione. Poi eventualmente dopo l’incontro di mediazione si può anche tornare a fare alcuni colloqui individuali, per valutare con le singole persone come stanno e come è andato l’incontro e il percorso più in generale. Il modello comunque si costruisce molto sulla base delle esigenze specifiche delle persone che hai di fronte. Come dicevo prima, non ti rifai a degli schemi preimpostati. Hai un’idea di quello che può succedere, sei consapevole che puoi fare diversi colloqui individuali, alcuni colloqui di mediazione, poi tornare a quelli individuali. Costruisci il percorso in base alle esigenze delle persone.

Come si è svolto il tuo tirocinio?

Come tirocinio ho fatto diversi colloqui di mediazione famigliare, seguito da un tutor, che era anche un formatore. Ho visto due casi nello specifico. Abbiamo fatto diversi colloqui ma non siamo mai arrivati all’incontro di mediazione vero e proprio. Abbiamo visto due casi distinti. In un caso c’erano lui e lei, nell’altro solo lei. Abbiamo fatto diversi colloqui ascoltando le persone, cercando di capire se c’era la disponibilità delle due parti di fare un colloquio di mediazione. Io seguivo abbastanza quello che faceva il tutor, avendo pochissima esperienza professionale. Era la prima volta che mi trovavo in stanza con degli utenti. Era la prima volta che cercavo di ascoltare il vissuto che ci veniva portato dagli utenti, cercando di riconoscergli quelle parti che magari non erano state loro riconosciute dall’altro o dall’altra. Cercavamo di capire se fosse il caso di far incontrare le persone per dare loro l’opportunità di parlarsi in un luogo neutro come quello della stanza di mediazione.

Parlaci del tuo attuale lavoro.

Attualmente lavoro nel Centro di Mediazione Penale del Comune di Torino. È un ufficio del Comune di Torino che collabora con la Procura del Tribunale dei Minorenni. La Procura ci invia i casi di minorenni che hanno commesso reati non particolarmente gravi che il Procuratore valuta possa essere utile mandare in mediazione, per cui ci invia il fascicolo e ci chiede di provare a realizzare i percorsi di mediazione. Si fanno quindi colloqui individuali con le persone e poi si cerca di farle incontrare, se c’è la voglia e la disponibilità e se noi lo riteniamo opportuno. Ovviamente tutto il percorso è su base volontaria e coperto dal segreto professionale.

Quali sono i tuoi obiettivi, quando inizi un percorso di mediazione?

L’obiettivo principale credo che sia dare la parola ai ragazzi e alle vittime. Perché all’interno del procedimento penale minorile – non so per gli adulti – non c’è molta attenzione per le persone che hanno subito il reato. Spesso le vittime non vengono non dico comprese o aiutate, ma nemmeno ascoltate. Quindi già questo per noi è un successo: riuscire a far sentire ascoltata una vittima. Dall’altra parte, stiamo parlando di minori che hanno commesso un reato, quindi il nostro obiettivo è anche farli ragionare su cosa vuol dire un reato, il limite, il confine tra gioco e reato. Far comprendere che ci sono limiti che sarebbe meglio non oltrepassare. Poi se riusciamo a far incontrare le due o più parti in causa questi due obiettivi separati, responsabilizzazione dell’indagato e ascolto della vittima, nel momento del colloquio faccia a faccia vengono potenziati. Nel senso che la vittima ha la possibilità di dire a chi gli ha arrecato il danno come è stata lei come persona, e dall’altra parte il ragazzo ha la possibilità di vedere negli occhi della vittima e di ascoltare con le proprie orecchie gli effetti di quello che ha fatto. Quindi questi obiettivi vengono raggiunti ancora di più.

In questo senso, qual è il senso più profondo della mediazione dei conflitti?

Credo che, spingendoci oltre la stanza di mediazione, uno degli obiettivi ulteriori sia prevenire la recidiva: dare la possibilità di fermarsi a riflettere su ciò che è accaduto, tanto dentro quanto fuori di sé, dovrebbe evitare che si commetta in futuro un altro reato. Considerato che parliamo di adolescenti, è inevitabile che si commettano degli errori: l’importante è farne tesoro e trasformarli in esperienza, piuttosto che considerarli una macchia indelebile o il primo passo verso una carriera criminale. Questo vale tanto per i ragazzi, quanto per le famiglie, che spesso ci richiedono uno spazio per sé, utile a rileggere quanto accaduto sotto questa nuova luce.
Di più, spesso ci confrontiamo con realtà in cui il dialogo, il confronto verbale non sono considerati mezzi di soluzione dei conflitti: le parti si nascondono, per così dire, dietro denunce e controdenunce, evitando accuratamente di parlarsi, quando non dietro la violenza fisica. Il nostro intervento, che mette parole laddove spesso, appunto, non sono nemmeno considerate utili, diffonde la cultura del dialogo, che dovrebbe poi essere una delle basi fondanti delle nostre democrazie.

Sei soddisfatto del tuo lavoro?

Il lavoro è molto interessante e molto sfidante. Ci confrontiamo con situazioni molto difficili, con persone spesso molto arrabbiate, perché lavoriamo in ambito penale e minorile, quindi stiamo parlando di denunce, di reati, quindi il conflitto si è esacerbato al punto da essere uscito dai confini della legge. Ovvio che in tutti i tipi di conflitto la rabbia emerge a un certo punto ma in questo caso le persone sono ancora più arrabbiate proprio per il fatto di aver superato quei confini.

Ti sei sentito abbastanza preparato, quando hai iniziato a svolgere questo lavoro?

Devo dire che tra il tirocinio e le simulazioni che abbiamo svolto al Master non è che fossi già pronto all’azione, ma avevo già visto quali potevano essere le dinamiche conflittuali tra le persone, avevo già provato a sperimentare me stesso all’interno di un conflitto tra persone che non conosco. Il Master mi ha dato degli strumenti senza i quali mi sarei trovato in grossa difficoltà e forse avrei fatto anche dei danni alle persone che sono arrivate in mediazione.

Raccontaci una situazione che ti ha messo in difficoltà, nel corso del tuo lavoro.

Due ragazzini hanno litigato e sono venuti alle mani. È partita la denuncia da un genitore verso l’altro, una situazione abbastanza comune per quella che è l’utenza del nostro centro. Però in questo caso noi abbiamo visto sia la vittima che l’indagato, però dopo i primi colloqui abbiamo avuto la netta impressione che fosse molto difficile poterli mettere uno di fronte all’altro, un po’ per la fragilità dell’uno, un po’ per la mancanza di empatia dell’altro. Quindi abbiamo chiuso i colloqui un po’ perplessi circa la possibilità di fare un incontro di mediazione. È stato un momento abbastanza triste, mi sono sentito impotente, avrei voluto poter fare di più, ma le cose avevano preso una brutta piega, non sapevo cosa fare. Dopo qualche giorno fortunatamente ci siamo sentiti telefonicamente e siamo riusciti a trovare la disponibilità di entrambi ad un incontro di mediazione, che successivamente abbiamo svolto ed è andato molto bene. Alla fine i due ragazzi si sono anche stretti la mano, un risultato davvero eccezionale, considerando le premesse!
Un altro esempio di percorso di mediazione è quello partito da un danneggiamento di cosa pubblica da parte di un gruppo di ragazzi, svoltosi in un piccolo paese di montagna. In seguito ai colloqui individuali con tutti gli interessati, che, ognuno col suo tempo, hanno compreso il disvalore del proprio gesto, abbiamo organizzato un incontro con l’amministrazione comunale. In quell’occasione, è stata la viva voce del sindaco a spiegare ai ragazzi come il loro comportamento avesse causato uno spostamento delle risorse pubbliche verso la riparazione del danno, privando altre voci di bilancio di quell’ammontare. Sempre durante il faccia a faccia, è emerso il desiderio, da parte dei ragazzi, di riabilitare la propria immagine agli occhi della comunità danneggiata: l’amministratore ha dunque proposto di far pubblicare sul giornale locale i risultati delle attività socialmente utili che i ragazzi avrebbero svolto in seguito, permettendo alla comunità di tornare a considerarli come Marco, Matteo, Alessio e Alessandra [nomi di fantasia], e non più come i delinquenti che avevano commesso quel reato.

Mediazione tra dialogo e confronto

Mediazione tra dialogo e confronto [1]

di Maurizio D’Alessandro

 

Generalmente intendiamo con il termine dialogo un discorso fra due o più persone che miri a un’intesa. Tant’è che aprire un dialogo fra parti contrapposte indica il tentativo di persone disposte a ragionare con l’intento di raggiungere una verità o un’opinione condivisa: quando infatti si utilizza l’espressione “tra noi manca il dialogo”, indichiamo il fatto che ognuno resti della propria opinione. Escludendo la poesia o il teatro dove si fa genere, il dialogo nasce con Platone per l’esigenza di presentare drammaticamente il processo di disvelamento e di conquista della verità, attraverso il contrasto di opinioni contrapposte.

Il fine del dialogo in generale, sia che si instauri tra due persone o gruppi reali sia che venga utilizzato come strumento retorico per trattare un tema, è  trovare un’intesa o percorrere una strada concettuale che abbia come fine la scoperta della verità. Il dialogo trae la propria legittimazione dalla sua ripetibilità, dal suo dover render conto e nel suo tentativo di trovare l’intesa [2].

Se il dialogo presuppone un concetto di verità, il confronto prevede, invece, che ci sia il reciproco presentarsi di due punti di vista a cui viene offerta la possibilità sia di un incontro sia di uno scontro, sia di una convergenza sia di una divergenza.

Se definiamo la mediazione a partire dal concetto di prassi, essa non può essere un semplice agire tecnico-strumentale (cioè un mezzo in vista di un fine come prodotto) [3]. La razionalità dialogica dovrebbe intervenire per escludere la possibilità dell’inganno di molti da parte di uno o anche di un inganno tutti assieme: l’equiparazione dei ruoli e la regolazione del dialogo hanno la funzione di consentire la conduzione del discorso dialogico eliminando la possibilità del perseguimento di scopi particolari. Ma questa forma di conduzione dell’agire necessita di condizioni ideali che assicurino la correttezza del dialogo. Nel quadro del dialogo, in sostanza, si fa sentire il problema dell’inganno sofistico e l’appello alla serietà diventa impotente di fronte alle forme dell’inganno sistematico.

Le teorie che si rifanno al dialogo socratico per questo motivo risultano insufficienti per delineare e fondare un concetto di prassi e, dunque, anche della prassi della mediazione. Il dialogo ha, perciò, solo uno scopo rischiaratore che risulta preliminare e non fondante la prassi mediativa stessa. La tecnicizzazione di un ambito prevede il riconoscimento di una regolarità in una serie di eventi, o un gruppo di cose, e la sua conseguente assunzione a norma regolatrice.

Questo punto di vista fa emergere la critica a qualunque «normativismo» o «costruttivismo» che concepisca la realtà etico-morale a partire da valori che pretendano una universalità a priori ed a cui la ragione debba conformarsi. Ciò che viene messo in discussione è in sostanza se esistano valori a priori e se la ragione sia una facoltà tale che possa riconoscerli e che abbia la possibilità di adeguare il reale al razionale.

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background

Nel riconoscimento degli interessi in gioco il dialogo acquista dunque il proprio diritto solo come metodo rischiaratore ma va evitato che il dialogo «dispieghi una forma autonoma di razionalità», la quale viene poi erroneamente presa per la razionalità che spetta all’agire e viene calata sulla prassi per il tramite del dialogo.

Il dialogo che avviene nel processo mediativo ha dunque funzione strumentale all’interno della prassi della mediazione e non è il fine di essa.

Contro la “retorica del dialogo” come tentativo di ripristinare intesa e comunicazione fa da contraltare la mediazione come spazio di confronto in cui lo scambio può dare origine a una maggiore comprensione del punto di vista dell’altro ma che può anche esitare in un arroccamento ostinato nella propria posizione. Se uno dei presupposti della mediazione è quello dell’assenza di giudizio, il mediatore avrà, dunque, la funzione non di ripristinare il dialogo ma di permettere il confronto rispettando l’esito che i due confliggenti vorranno dare a tale percorso.

Se la mediazione pretende di non cadere nell’inganno sofistico di ripristinare a tutti i costi un dialogo tra i due confliggenti deve dunque favorire il confronto ma non utilizzare tecniche o strategie che favoriscano forzatamente il dialogo.

Per non cadere nei dubbi e negli equivoci di un “dialogo forzato”, è necessario che si separino i concetti di obiettivo e speranza[4]. L’obiettivo della mediazione è che i due confliggenti si sentano innanzitutto riconosciuti dai mediatori, la speranza, invece, è che la mediazione porti a un eventuale reciproco riconoscimento e a un ripristino della comunicazione attraverso il confronto.

Nella mediazione, dunque, non si costruiscono spazi di dialogo ma si offre l’opportunità di avere spazi di confronto.

Maurizio D’Alessandro

[1] In quest’articolo si cercherà di approfondire alcuni temi trattati in un precedente lavoro, cfr., M. D’Alessandro, A. Quattrocolo, L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, in La Giustizia Sostenibile vol. VIII, (pag. 273-286), Aracne, Roma, 2015.

[2] Cfr., H.G. Gadamer, Studi platonici I, II, tr. it. di G. Moretto, Marietti, Genova, 1983, si veda in particolare il saggio Etica dialettica di Platone, pp. 25-35.

[3] Cfr., M. D’Alessandro, A. Quattrocolo, L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, op. cit. e M. D’Alessandro, Ermeneutica, ontologia, prassi e conflitto, in C. Ciancio – M. Pagano (a cura di), Religione e ontologia. Studi in onore di Marco Ravera e Ugo Ugazio, Aracne, Roma 2013.

[4] Cfr., M. D’Alessandro, A. Quattrocolo, L’ascolto e la mediazione (umanistico-trasformativa) nei conflitti familiari, op. cit., p. 286.

master_mediatore

La mediazione dei conflitti in pillole

“L’effetto di una mediazione consiste nell’arrivare a “sentire l’altro”, a comprendere empaticamente la sua verità”. A. Quattrocolo

Perché Me.Dia.Re.

Nelle società complesse come la nostra, le occasioni d’incontro tra generazioni, generi, opinioni e culture diverse sono sempre di più. Al progressivo manifestarsi delle diversità e delle contraddizioni corrisponde il crescere dell’incertezza: lo sconosciuto, l’altro da sé incuriosisce ma fa anche paura, confonde, mette in discussione e ridisegna i confini del noto.

Spesso la perplessità o il disorientamento prodotti, invece di incontrare possibilità di evoluzione, degenerano in frustrazione e rabbia, dando luogo anche a violente esplosioni di collera, di fronte alle quali risulta impossibile distinguere le cause dagli effetti, o comprenderne le ragioni reali.

D’altra parte, il conflitto è irrinunciabile. Costituisce una modalità relazionale “naturale” e svolge una essenziale funzione di segnale: ci informa che qualcosa non va, o non va più, e che occorrono dei cambiamenti.

La mediazione dei conflitti si propone allora come innovativo strumento di gestione della conflittualità, in cui le parti possono avere accesso alla conoscenza, alla comprensione e all’accettazione della diversità dell’altro. Durante la mediazione, alla presenza di un terzo neutrale che ha il compito di favorire la circolazione del flusso comunicativo, le parti hanno la possibilità di elaborare le ragioni del loro aspro contendere, e di giungere in piena autonomia, attraverso il reciproco riconoscimento, alla formazione di accordi.

Tanto più significativi, se sorti all’interno di una relazione trasformata. In questi casi, il conflitto può diventare un’occasione preziosa per ricostruire o per modificare i rapporti con gli altri e, in qualche misura, anche un po’ con se stessi.

Quale mediazione

Nel modello di mediazione scelto da Me.Dia.Re., quello della mediazione trasformativa, il mediatore siede tra le parti non per giudicare, né per imporre delle soluzioni, ma per accompagnarle nel confronto, consentendo l’espressione non soltanto dei “fatti” proposti nelle diverse narrazioni in conflitto, ma dei loro significati, nonché dei bisogni e dei vissuti delle persone, al fine di riattivare i canali di comunicazione.

Da questo punto di vista l’effetto della mediazione non è tanto il mero accordo tra i confliggenti, quanto il ristabilirsi di una comunicazione, grazie al riconoscimento reciproco che trasforma la relazione, procurando la responsabilizzazione delle parti in merito al conflitto ed alla soluzione eventualmente trovata.

Lo strumento principale adottato nella mediazione trasformativa è quindi l’ascolto. L’espressione dei vissuti, la comunicazione della rabbia, dei dolori e delle angosce ad essa sottostanti, consente alle parti coinvolte di spiegarsi, di superare i ruoli con i quali si sono presentati o in cui sono stati incasellati dalla controparte. In quest’ottica, ascoltare, non significa cercare a tutti i costi una soluzione, né tentare di ‘guarire’ l’altro dalla sua emozione, ma, anziché eludere la sua sofferenza, aiutarlo ad affrontarla, comunicandogli che non è solo e che si è disponibili ad avvicinarsi ai suoi stati d’animo, senza censurarli né giudicarli.

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background
Slide background