pieta è moribonda

La pietà è moribonda?

La pietà è moribonda ? È un interrogativo che potrebbe sorgere leggendo alcuni fatti di cronaca.

Sembrano non avere avuto molta pietà il 17enne e il 15enne che, a Nardò (provincia di Lecce), all’inizio di dicembre, sono stati accusati di rapina, sequestro di persona, violenza sessuale, pornografia minorile e tentata estorsione, ai danni di un quindicenne.

Infatti, i due ragazzi hanno rinchiuso in un bagno pubblico il loro coetaneo, lo hanno picchiato, costretto a masturbarsi, riprendendolo in un video, postato su WhatsApp ad altri ragazzi, e lo hanno minacciato di non restituirgli scarpe e giubbotto, se non avesse loro corrisposto il giorno seguente la somma di 10 euro.

Pietà l’è morta era un canto della Resistenza, composto da Nuto Revelli nella primavera del ’44. Terminava così:

Tedeschi e fascisti

per sempre fuori d’Italia

gridiamo a tutta forza

pietà l’è morta!

Era un canto di guerra, di guerra partigiana, di guerra di Liberazione. E non concedeva pietà al nemico, la Germania nazista e la Repubblica Sociale Italiana.

La pietà è moribonda quando si considera l’altro meno di niente

Erano in guerra anche i quattro minorenni con  il liceale, 17enne, che hanno accoltellato nel rione Sanità (tre coltellate: una al fianco, una alla schiena, che gli ha perforato un polmone, e una, per «finirlo», alla gola, che gli ha quasi trafitto la giugulare, ma ha inciso per fortuna solo due millimetri)? Erano così in conflitto con lui da colpirlo «senza alcuna pietà», per citare le parole del Questore di Napoli?

Probabilmente, no. Non prima di somministrargli quel trattamento, in ogni caso. Forse, hanno semplicemente messo in atto uno di quei meccanismi di de-umanizzazione dell’altro che consentono a noi esseri umani di compiere inganni, ricatti, soprusi, abusi, crudeltà ed efferatezze varie ai danni di altri. “Altri”, che, per gli autori delle violenze, si meritano quanto gli fanno.

Ad esempio, forse i due giovani aggressori di Nardò ritenevano il ragazzino meritevole di una tale violenza, perché più ricco e benestante di loro, oppure perché meno ricco e meno benestante. Quale che sia la ragione, non lo vedevano come un soggetto simile a loro.  Non lo pensavano come una persona, non lo sentivano come un essere umano.

Forse, la pietà è moribonda – o almeno lo era – anche nell’animo dei membri della gang di bulli (tutti di buona famiglia), che, a Cologno Monzese, umiliavano, pestavano, derubavano e ricattavano altri minori, incluso un ragazzino disabile. Lo facevano per noia, hanno detto, «per ammazzare il tempo».

Analogamente, si può ipotizzare che avessero “spento” dentro di sé ogni forma di empatia i tre tredicenni, di Bagno a Ripoli (Firenze), che, negli spogliatoi della società sportiva dove si allenano, hanno costretto un ragazzino, tredicenne, disabile, a mangiare un pezzo di schiacciata, dopo averla gettata nell’acqua delle docce. Un suo amico ha tentato di difenderlo, di fermarli, ma quelli lo hanno costretto a sedere e guardare. Il giorno dopo sarà questo amico a parlarne con l’insegnante di sostegno.

A volte la pietà è moribonda anche verso i poveri

Ma non capita solo a qualche minorenne di mettere in stand by la pietà, cioè, il sentimento di partecipazione, anche dolorosa e premurosa, all’infelicità altrui. Succede anche agli adulti.

Per restare nell’ambito delle violenze ai danni di minori, si può pensare alle violenze sessuali, commesse da un anziano agricoltore di Oristano, ai danni di un sedicenne, in cambio di un lavoro in campagna, pagato 30 Euro al giorno. Oppure si può pensare alla tredicenne, costretta a prostituirsi, a Gibellina, da un allevatore sessantunenne.

Oppure si può pensare a quanto successo a Como. Qui, in ottemperanza dell’ordinanza del sindaco, Mario Landriscina, contro i mendicanti del centro storico, la polizia municipale ha impedito ai volontari di dare da mangiare ai senza tetto, italiani e stranieri, che dormono all’aperto, sotto l’ex chiesa di san Francesco.

Così, applicando l’ordinanza intesa a ripristinare «la tutela della vivibilità e il decoro del centro urbano», a tali volontari, che, da oltre sette anni, distribuiscono la colazione alle persone costrette a dormire in strada, è stato detto di non portare più il cibo fino al 10 gennaio.

Come spiega l’Avvenire, «A continuare a mandare via i poveri non si elimina la povertà, la si amplifica, la si fa diventare un nemico da combattere – hanno scritto i volontari del “Gruppo Colazioni”–. Vorremmo che il Natale fosse occasione per la ricerca di un’umanità più dignitosa».

In tal caso, si potrebbe supporre che le persone costrette a dormire per strade siano state considerate dall’amministrazione comunale alla stregua di spazzatura. Delle non-persone.

Dunque, se non proprio morta, a volte, la pietà è moribonda, anche verso costoro, i poveri.

Poveri, che sono sottoposti ad abusi sessuali in cambio di un lavoro, o che non hanno diritto di esistere, perché la loro vista può turbare l’estetica di una città addobbata a festa.

Non è un paese per poveri, verrebbe da osservare.

Quando la pietà è moribonda (o morta) per ragioni di business

Non sembrano avere suscitato empatia gli anziani, nel cuore di un barelliere legato alla mafia, che pare averli uccisi con aria iniettata in vena, a Catania, allo scopo di vendere ai familiari i servizi di onoranze funebri a pagamento.

La prospettiva del profitto è stata più forte anche della pietà per i defunti, nel caso dei furti sui cadaveri e delle truffe di cui sono accusati alcuni necrofori dei cimiteri di Torino.

Uno degli slogan più ricorrenti sulla scena politica, in riferimento al fenomeno migratorio, è “aiutiamoli a casa loro”.

È un argomento proposto non raramente per supportare prese di posizione avverse all’accoglienza di migranti, inclusi i richiedenti asilo e coloro ai quali l’asilo (o altra forma di protezione) è stata concesso.

Un articolo di Pietro Frattini (Aiutiamoli a casa loro, la diga di Gibe), su ilmemoriale.it, ci ricorda un servizio della Cnn sui risvolti spietati di un’operazione di aiuto a casa loro.

Undici anni fa, due mesi prima che la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni fosse adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la EEPC (Ethiopian Electric Power Corporation) appaltò direttamente, senza bando di gara, alla Società italiana Salini Costruttori la costruzione di una diga, con fondi garantiti dal governo Cinese, mentre le infrastrutture elettriche sono garantite dalla Banca Mondiale.

Ma la legge etiope prevedeva che il governo prima di dare l’approvazione ad un progetto dovesse valutare l’impatto ambientale e sociale. E questo impatto c’era e c’è!

Mezzo milione di abitanti erano contrari a subire quel che diventerà un vero e proprio trasferimento forzato in campi di reinsediamento. Il rastrellamento, come documenta la Cnn, portò alla distruzione di un intero villaggio e dei suoi abitanti: di 154 ne sopravvissero solo 7.

Ma fu tutta l’operazione ad essere svolta con violenza agghiacciante: bambini e bestiame scaraventati nel fiume, gli adulti legati agli alberi per essere fucilati, cadaveri dati in pasto alle iene.

La diga venne inaugurata nel dicembre 2016.

Quelli la cui la pietà è moribonda verso gli immigrati, perché bisognerebbe aiutarli – anzi, fregarli – a casa loro

In un altro post (Dove eravamo) su questo blog, si era scritto che, ancor prima di «aiutarli a casa loro», sarebbe gentile, oltre che utile, necessario e improcrastinabile, «smetterla di fregarli a casa loro».

Parrebbe confortare la fondatezza di quella banale osservazione il recente rinvio a giudizio del numero uno dell’Eni. L’accusa è di avere pagato tangenti a uomini del governo nigeriano, in cambio dello sfruttamento di uno dei più grandi giacimenti di petrolio al mondo da parte di Eni e Shell.

Tanto per non scordarsene, la Nigeria è quel luogo in cui l’organizzazione fondamentalista Boko Haram fa stragi continue e in cui c’è un devastante conflitto con le forze governative. La Nigeria è quel paese in cui ci sono oltre due milioni di persone in fuga e che dal ’97 al 2015 ha avuto oltre 50.000 vittime della violenza armata.

In un altro post ancora (Illegalità nazionalrazzista), era stato ricordato che con Isaias Afewerki, il feroce dittatore dell’Eritrea, l’ex colonia italiana, in cui giunsero a suo tempo oltre centomila immigrati nostri connazionali, collaborava, tra gli altri, Pier Gianni Prosperini.

Costui, ex assessore di AN della giunta Formigoni, come ricordava Gian Antonio Stella sul Corriere, non soltanto definiva il dittatore Afewerki «un uomo capace e sagace», un leader dalla «mano ferma e paterna», ma qualificava anche come traditori coloro che fuggivano dalla violenza della regime dittatoriale, sostenendo che erano balle le notizie sulle torture e sulle violenze messe in atto sistematicamente da quella dittatura.

La pietà è moribonda (o morta) quando si considera l’altro come un animale

Prosperini, che è stato condannato per aver rifornito di  armi e munizioni proprio il regime di Isaias Afewerki, eludendo i controlli internazionali e violando gli embarghi, in cambio di  un’entrata illecita semestrale, in ogni occasione ripeteva:

«Camèl, barchèta e te turnet a ca’. Capì? Possono restare da noi solo quelli che condividono i nostri valori e rispettano le nostre leggi. Non ti va bene? Camèl, barchèta e te turnet a ca’».

Nel 2009 Prosperini era stato arrestato per avere incassato una tangente da 230.000 euro su un appalto da 7,5 milioni di euro (richiese un patteggiamento).

Vittorio Mussolini, nel suo Voli sulle Ambe (Firenze, 1937), così commentava l’attività svolta da lui e dal fratello Bruno nella 14esima squadriglia, durante l’invasione italiana dell’Etiopia:

«È un lavoro divertentissimo, tragico ma bello».

Il lavoro di cui scriveva consisteva nello sganciare bombe incendiarie e gas tossici. L’uso di questi mezzi vietati dalla convenzione di Ginevra era stato autorizzato esplicitamente dal loro papà, Benito Mussolini, capo del Governo.

Vittorio Mussolini, in quel libro, aggiungeva che l’abissino «è un animale».

Ecco, basta vedere l’altro come un animale, che anche un’azione mostruosa, come quella di far piovere gas tossici e bombe incendiarie, non soltanto sulle armate del Negus, messe in rotta e prive di aerei e di contraerea, ma anche sulla popolazione civili (bambini inclusi) di villaggi e città, diventa «un lavoro divertentissimo, tragico ma bello».

La pietà è moribonda quando si prova rabbia

Il sentimento della pietà, cioè della partecipazione al dolore altrui, si spegne quando si è arrabbiati o indignati.

Rispetto al ragazzino vittima di atti di grave bullismo a Nardò, è interessante leggere alcuni commenti a tale notizia.

Un’insegnante scrive: È uno schifo…bisogna dare un segnale forte. (…). Pena di morte

Una mamma a tempo pieno lascia questo commento: (…) Brutti bastardi… sono d’accordo per una pena adeguata di pari violenza… In piazza nudi… ripresi e mandati su internet mentre si masturbano e vengono picchiati e derisi dalla folla!! Voglio vedere se vengono ripagati con la stessa moneta se avranno voglia di rifare un simile gesto!! Vergogna!!!

Un’altra commentatrice scrive: Non devo lavorare x sostenere questi vandali in carcere (…). Pena di morte… scusatemi, è ora di grandi punizioni.

Oggi pietà l’è morta ma un bel giorno rinascerà

Fa riflettere il fatto che la mamma del tredicenne di Bagno a Ripoli, verso i tre coetanei che hanno maltrattato suo figlio, non abbia invocato alcuna sanzione violenta. Ha postato la faccia del ragazzino che per la prima volta con l’aiuto del papà si taglia i baffi e ha scritto:

«La risposta ai tre compagni di squadra s…..i che negli spogliatoi del calcio ti hanno fatto uno scherzo orribile, anzi un vero e proprio atto di bullismo, è la tua faccia amore mio! Alta, fiera e timida come sei tu, che chiami amici anche quei tre che amici non sono!».

Forse, allora, la pietà non è morta ovunque, e forse neanche è moribonda. O, come cantava Francesco De Gregori (San Lorenzo),

Oggi pietà l’è morta, ma un bel giorno rinascerà.

Sì, ma quando? Quando rinascerà?

Se la nostra pietà è moribonda, potrebbe riprendersi con una cura di razionalità

Forse, se la nostra pietà è moribonda, potrebbe riprendersi un po’, con una cura a base di razionalità.

Forse si riaccenderà quando, usando i nostri occhi e il nostro cervello, ci accorgeremo che non vi è alcuna invasione [1]. E che non vi è alcuna islamizzazione dell’Italia o dell’Europa [2]. Quando punteremo lo sguardo su qualcos’altro, che non è una panzana propagandistica, di becero livello razzista, tesa a distrarre la nostra attenzione, ma che, invece, è drammaticamente vero. Qualcosa, che da sempre infetta, intossica, imbratta, corrompe il nostro territorio, il nostro futuro, i nostri diritti, i nostri corpi e la nostra moralità: le mafie.

Infatti, è appena il caso di ricordare non solo che sono 290 i comuni sciolti e commissariati per infiltrazioni mafiose in 26 anni, ma anche che il controllo mafioso del territorio si è radicato ormai indubitabilmente anche nel Nord (si pensi alle infiltrazioni della’ndrangheta in ambito politico e imprenditoriale in Lombardia).

Forse, dunque, quando sapremo guardare ai mali che, da sempre, affliggono la Repubblica, e cesseremo di scaricarne la colpa sugli altri, grazie a questo esame di realtà, potremo anche rivitalizzare la nostra capacità di provare pietà.

Se la pietà è moribonda, potrebbe rianimarsi, comprendendo che quando si comincia a discriminare e ad emarginare non ci si ferma più

Forse, se la nostra pietà è spenta, è perché ci rifiutiamo di capire che negare la dignità ad uno – emarginandolo, denigrandolo, umiliandolo, respingendolo – vuole dire toglierla a tutti, come dimostra, tra gli altri, il caso di Como, precedentemente citato.

Forse un giorno realizzeremo che la pietà è moribonda anche perché – non solo durante le campagne elettorali – si diffondono parole che cercano di assassinarla nei nostri cuori. Parole, che servono a farci vedere l’altro non per come è – un essere umano –, ma come un oggetto ingombrante, scomodo, inquietante, pericoloso, minaccioso.

Forse la nostra pietà rinascerà, quando ci accorgeremo che non vi alcuna differenza tra il comportamento di quell’autista di un autobus, che, in Val d’Aosta, ha tentato di costringere un ragazzo disabile, figlio di allevatori, a scendere lontano da casa, paragonandolo alle mucche, dicendogli che «puzza come loro» e che avrebbe dovuto andare a «zappare le patate invece di frequentare la scuola», e quello dell’anziano torinese, che, su un autobus, ha aggredito una giovanissima studentessa italiana, solo perché di pelle scura, “suggerendole” di tornarsene a casa sua (cioè in Africa) e di smettere di andare a scuola, perché tanto finirà a lavorare sul marciapiede. O dell’altro, sempre anziano e sempre italiano, che ha preso a calci, schiaffi e pugni Florentina Grigore, una quarantaquattrenne di origine rumena, minacciandola di pisciarle addosso se non scendeva dall’autobus, perché non aveva obliterato il biglietto. Florentina non aveva timbrato il biglietto perché aveva l’abbonamento [3].

Se la nostra pietà è moribonda, è anche perché una sorta di neo-negazionismo le impedisce di destarsi

Forse, se davvero la nostra pietà è moribonda, si riprenderà quando ci cadrà il velo dagli occhi. E, cadendo, ci lascerà vedere non solo il razzismo (vi sono diversi post su questo blog dedicati al nazionalrazzismo e al socialrazzismo), ma anche il neo-negazionismo implicito in chi, definendosi patriottico, ricorre allo slogan “Prima gli italiani”.

Il negazionismo, cioè di chi non tiene in alcun conto il fatto incontrovertibile che, alla base del fenomeno migratorio, vi sono guerre e terrorismi, persecuzioni e dispotismi, carestie e miseria, malattie e sfruttamento. E che, questi flagelli sono, in larghissima parte, direttamente collegati ai colonialismi di ieri e di oggi: colonialismi, questi ultimi, posti in essere dalle “nostre” multinazionali e dai “nostri” governi.

Forse la nostra capacità di sentire e di sentirci risorgerà quando recupereremo la capacità di pensarci nei panni dell’altro

Forse, la nostra capacità empatica avrà un sussulto di vitalità, quando capiremo che, in quanto esseri umani, non siamo diversi da chi accetta, o è costretto ad accettare, il rischio di morire di sete nel deserto, annegato nel Mediterraneo o assiderato sulle Alpi. Quando recupereremo quel pizzico di razionalità utile a sapere che al posto loro faremmo la stessa cosa.

Insomma, se veramente la nostra pietà è moribonda, potrà guarire quando sapremo guardare a noi stessi per come siamo, con le nostre luci – che sono tante – e le nostre ombre – che non sono poche, e smetteremo questa tendenza a proiettare le nostre ombre sull’altro.

 Alberto Quattrocolo

 

[1] I residenti in Italia sono poco più di 60 milioni. Di questi i cittadini italiani sono 55 milioni e 551mila. Gli immigrati residenti regolarmente in Italia, infatti, sono 5.029.000, secondo gli ultimi dati Istat, aggiornati al 1 gennaio 2017. Questo dato è indiscutibile, essendo basato sulle persone registrate alle anagrafi comunali aventi una cittadinanza diversa da quella italiana. Tale dato, però, comprende tutti gli stranieri, inclusi quelli provenienti da altri stati dell’Unione Europea. Gli stranieri non comunitari, infatti, sono circa 3 milioni 500 mila. Il che vuol dire circa il 6% del totale dei residenti (60 milioni e mezzo). A costoro si aggiungono gli stranieri regolari ma non residenti, quelli, cioè, che hanno cioè un regolare permesso di soggiorno, ma non sono iscritti all’anagrafe di nessun comune italiano. Secondo i calcoli del Ventiduesimo Rapporto sulle Migrazioni 2016 di Fondazione ISMU, si tratta di 410 mila persone (dato riferito al 1 gennaio 2016).

Gli stranieri provenienti dall’Unione Europea e quelli non comunitari, presenti regolarmente in Italia, dunque, ammontano a 5,4 milioni. Si noti che tale dato comprende anche coloro che hanno ottenuto l’asilo (i rifugiati), che sono 147 mila. Ai 5,4 milioni di stranieri legalmente presenti in Italia, si devono aggiungere:

Riassumendo in Italia ci sono 3 milioni 500 mila immigrati regolari provenienti da Paesi extra UE, inclusi i rifugiati, 410 mila regolari non residenti (con permesso di soggiorno, di cui, in realtà, una parte minoritaria è composta presumibilmente da originari dell’Unione Europea), 435 mila irregolari e 200 mila richiedenti asilo, per un totale di 4 milioni e 445 mila persone extra comunitari.

[2] L’unico modo per calcolare il numero dei musulmani presenti in Italia è contare il numero di coloro che provengono da Paesi abitati prevalentemente da islamici. Si tratta, perciò, di un calcolo viziato da un’approssimazione per eccesso, poiché non sono rari coloro che fuggono da regimi islamici o dal terrorismo islamico verso l’Europa, proprio perché sono di un’altra fede religiosa (cristiana per lo più). Ciò premesso, i presunti musulmani sono 2.500.000, di cui il 43% è cittadino italiano (in larghissima parte si tratta di persone che hanno acquisito la cittadinanza italiana secondo la legislazione vigente). Due milioni e mezzo su oltre sessanta milioni. E sono soltanto il 32,6 % dei migranti, essendo il 53% di essi di fede cristiana.

[3] Di questi e altri più violenti, anche con esiti letali, episodi di razzismo si è trattato nel post Giorno maledetto.

altraviolenza

Un’altra violenza sulla vittima

Non vi è soltanto quella derivante dal reato, vi è anche un’ altra violenza sulla vittima. Un’ altra violenza sulla vittima, tanto dannosa quanto sottovalutata e raramente riconosciuta.

L’ altra violenza sulla vittima è una violenza diversa e aggiuntiva

La vittima di una violenza, spesso, è oggetto di un’ altra violenza, cioè di una violenza ulteriore, successiva alla violenza commessa dal reo. Si tratta di comportamenti, per lo più, non sanzionati e, del  resto, difficilmente sanzionabili, dal punto di vista giuridico, che, tuttavia, in termini psicologici, danno luogo, appunto, ad un’altra violenza sulla vittima [1].

Quest’ altra violenza sulla vittima, che può assumere forme diverse, in ambito vittimologico, è indicata come post-crime victimization.

Si usa quell’espressione, soprattutto, rispetto alle situazioni nelle quali istituzioni diverse (amministrazione della giustizia e forze dell’ordine, in primis, ma anche operatori e operatrici sociali e dei media), spesso involontariamente, fanno sentire la vittima oggetto di una colpevolizzazione per quanto le è accaduto [2].

 

Quell’ altra violenza sulla vittima derivante dal mancato, incompleto o tardivo riconoscimento da parte dello Stato

Un’ altra violenza sulla vittima si produce, però, anche quando lo Stato pare non  pienamente riconoscere il carattere ingiusto e illegale del danno che essa ha subito, oppure quando non è in grado di condannare gli autori del delitto [3].

Un esempio recentemente portato all’attenzione della cronaca riguarda una giovane di Novara, disabile, che ha atteso 18 anni perché l’autorità giudiziaria riconoscesse definitivamente che essa, quando andava alle medie, veniva “affittata” dai suoi genitori a loro amici e conoscenti per fare sesso con lei (era stata abusata, peraltro, anche dai nonni).

Racconta La Stampa che è stato punito un solo colpevole: il padre, dato che la madre nel frattempo è morta e che gli altri uomini, cui la giovanissima era ceduta dai genitori, se la sono cavata (perché non identificati alcuni, per prescrizione altri).

Una testimonianza, tanto efficace e completa quanto dolorosa e angosciante, di come la risposta giudiziaria possa tradursi in un’ altra violenza sulla vittima, è costituita anche dalla lettera che Stella ha indirizzato al Presidente della Repubblicain occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, affidandone la lettura alla scrittrice Cristina Obber, all’interno dell’evento #InQuantoDonna (l’apertura della Camera dei Deputati soltanto alle donne che hanno subito la violenza e che con essa hanno avuto a che fare).

Definire la violenza sessuale come una ragazzata significa procurare un’ altra violenza sulla vittima

Stella, allora quindicenne, durante un’assemblea di classe, nel liceo artistico di Besana Brianza, fu attaccata da due compagne e un compagno: dapprima le fecero il solletico, e lei rise, poi le due ragazze la bloccarono sul pavimento e il ragazzo la violentò. Gli altri restarono allibiti ma non intervennero. In aula non c’erano insegnanti.

La sentenza, che arrivò 8 anni dopo, definì, secondo le parole di Stella, quel fatto una ragazzata, punì gli autori della violenza con qualche mese di attività di volontariato e le negò il diritto al risarcimento.

Quella sentenza ha comunicato a Stella che quanto ad essa inflitto

«è stata una ragazzata», perciò, «se riaccade, non è la fine del mondo. (…). Invece, Presidente, quanto ti capita, è la fine di un mondo che non sarà mai più come prima, è il sipario che cala, è il buio».

Scrisse ancora Stella:

«Quella sentenza mi ha fatto sentire in colpa (…) Succede così quando vieni umiliata nel profondo, pensi di non meritarti niente di che».

Leggendo la sua lettera, si direbbe che, per Stella, ciò che conta non è l’entità della pena, cioè che venga inflitta una maggiore sofferenza al ragazzo che la violentò e alle sue complici. Ciò che le preme pare, piuttosto, stare su questo duplice piano:

  • Il riconoscimento inequivocabile, da parte dell’istituzione, del carattere ingiusto e profondamente lesivo del fatto subito. Un fatto disumano, non una ragazzata, in quanto, realizzandolo, i suoi tre compagni l’avevano disumanizzata.
  • Un’azione tesa a far sì che quei tre ragazzi si rendano conto di quanto è grande e duraturo il male che le hanno procurato [4].

«Una voragine, Presidente, di rabbia, impotenza, abbandono. La sensazione di non valere niente. Perché io non cercavo vendetta, io cercavo una giustizia che mi dicesse che non era giusto quello che mi era stato fatto», è scritto in un altro passaggio della lettera.

Il mancato, o un tenue, riconoscimento, da parte dello Stato, del carattere ingiusto di una violenza, come spiegano le parole di Stella, procura un’ altra violenza sulla vittima, la quale sente confermare dall’autorità quel “messaggio” inviatole dall’autore della prima violenza: non meriti alcun rispetto, perciò ti si può stuprare e umiliare. Sei un oggetto, non sei umana.

Anche per il profugo il mancato riconoscimento ufficiale produce un’ altra violenza sulla vittima

Il riconoscimento da parte dello Stato ha una valenza così potente e profonda, perché le decisioni dei suoi tribunali sono pronunciate “in nome del popolo italiano”. Le decisioni delle autorità, le loro parole, quindi, anche sotto questo aspetto, pesano. Sono pietre.

Lo sono anche per coloro che presentano richiesta di protezione internazionale nel nostro e in altri Paesi.

Anche per costoro, le attese per le convocazioni, prima, e per le risposte, poi, da parte delle commissioni territoriali deputate ad accogliere o respingere le loro domande di asilo, sono fonti di stress e di angoscia.

Da quelle decisioni derivano, infatti, non soltanto le più ovvie e fondamentali conseguenze pratiche, legali ed esistenziali, connesse alla concessione o al diniego dell’asilo, ma anche altri implicazioni.

Si tratta di una risposta ad un riconoscimento, chiesto dall’individuo, all’Italia o ad un altro paese europeo, con l’idea che quello stato e, più in generale, l’Europa, rispetti e tuteli quei diritti inviolabili dell’uomo che nel suo paese sono stati violati.

Ad esempio, una donna che è stata stuprata davanti al marito e a uno dei suoi bambini, oppure l’uomo che, dopo aver visto massacrare e violentare moglie e figlie, è stata fucilato e, creduto morto, è stata gettato in una fosse comune dalle milizie jihadiste, attribuiscono un significato speciale alla decisione della commissione territoriale: qualcosa che non attiene solo alla concessione dell’asilo e alla futura possibilità di potersi ricongiungere un giorno con qualche famigliare, nascosto provvidenzialmente da altri parenti o da degli amici.

È l’attesa del riconoscimento ufficiale, da parte del popolo e del governo italiani, che quanto è stato fatto a loro, ai loro cari e agli altri abitanti del quartiere o del villaggio, è una mostruosità inammissibile, è un crimine contro l’intera umanità.

Lo stesso può dirsi per chi fugge dalle bombe, per chi è stato torturato, ingiustamente carcerato, o esposto ad altre forme di violenza.

Si registra costantemente il valore di questa ufficializzazione dello status di vittima, quando si ascoltano queste persone (come accade nei nostri servizi di sostegno psicologico per richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale), così come quando si ascoltano le persone vittime di reati diversi, commessi qui in Italia, incluse le donne vittime di violenza e i loro bambini (come accade nei nostri Servizi gratuiti di Ascolto e Sostegno Psicologico per le vittime di reato e le persone ad esse affettivamente legate).

 

Anche il mancato riconoscimento sociale può essere un’ altra violenza sulla vittima

Un’ altra violenza sulla vittima, però, che in quei servizi si riscontra con elevatissima frequenza, può consistere nel suo mancato riconoscimento da parte delle persone ad essa vicine o da parte di una porzione della comunità.

In un precedente post (Autorizzazione della violenza) era stato scritto che senza il riconoscimento da parte della comunità della ingiusta vittimizzazione avvenuta, alla persona colpita da un reato, è come se venisse comunicato che essa non è stata vittima di un atto iniquo, ma di qualcosa di inevitabile, di meritato, di dovuto, di sacrosanto.

Ad esempio, secondo le indagini, quest’ultimo aggettivo (“sacrosanto”) potrebbe applicarsi alla qualifica che pare sia stata data da padre Pio Guidolin al suo stesso comportamento. In particolare, secondo l’inchiesta, non solo costui, ma forse anche una parte della comunità dei fedeli, nel quartiere Villaggio Sant’Agata, di Catania, interpretava la sua pedofilia come “sacrosanta”.

Significativa in tale senso, infatti, è la reazione della comunità dei fedeli nei confronti del ragazzino che rese noti – dopo essersi rifiutato di sottostarvi – i “riti”, cioè gli abusi sessuali, di padre Pio Guidolin su altri ragazzini (tutti minori di 14 anni), affidatigli dalle famiglie: quel ragazzino venne isolato dai devoti del prete [5].

Un altro vissuto doloroso e deprimente – cioè un’ altra violenza sulla vittima – è anche quello dei beneficiari e dei richiedenti la protezione internazionale quando si sentono definiti come «falsi profughi».

Di fronte a tali definizioni sprezzanti sperimentano, nella realtà, qualcosa di simile all’incubo dei deportati nei campi nazisti. Lo illustrò Primo Levi ne I sommersi e i salvati : la devastante angoscia e l’inesprimibile desolazione del sopravvissuto che non viene creduto [6].

Alberto Quattrocolo

 

[1] In particolare, si tratta di un’ altra violenza sulla vittima, perché è diversa dalla prima e perché è ulteriore. Infatti:

  • è un’ altra violenza sulla vittima, nel senso che è diversa dalla prima, poiché è realizzata, in modo diverso e da persone diverse dagli autori di quella violenza che ha vittimizzato inizialmente la persona.
  • è un’ altra violenza sulla vittima, in quanto ulteriore, poiché è successiva alla prima e ne incrementa il danno, nella misura in cui acuisce e approfondisce la sofferenza procurata dalla prima vittimizzazione.

[2] Di questi aspetti si occupavano anche alcuni precedenti post: non solo quello dedicato al Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le Vittime di Reato e le persone ad esse legate, ma anche Colpa della vittima?, presente su questo blog.

[3] Rispetto alle vittime rimaste senza giustizia o con una risposta frammentata in Italia il pensiero corre anche a fatti come quelli di Ustica, alle tante, troppe, stragi della strategia della tensione e ai tanti altri delitti irrisolti in cui sono coinvolti mafie, servizi e poteri deviati.

[4] Ciò rinvia a quel che gli addetti ai lavori definiscono Giustizia Riparativa, che include interventi di mediazione penale, ma non si risolve soltanto in questi.

[5] Uno degli effetti più tragici del mancato riconoscimento sociale della vittima, può essere quello per cui la vittima finisce per credere di non essere vittima di un fatto dannoso ingiusto, ma di qualcosa che, in fondo, è naturale, che si è meritato. Nell’ambito della violenza interna a relazioni affettive è spesso il maltrattante a persuadere la vittima di meritarsi il maltrattamento (psicologico o anche fisico) che le infligge. Per limitarsi ad un recente esempio, si può considerare uno dei pensieri che, secondo quanto riporta il Corriere della Sera del 27 novembre (Merito le botte, è colpa mia) Emily Douet, prima di suicidarsi, scrisse alle sue amiche: «È colpa mia. L’ho fatto arrabbiare troppo. Me lo merito». Essendo convinta che fosse “colpa sua”, credette che non vi fosse una via d’uscita, se non quella di togliersi la vita. Spesso succede che a rinforzare questo pensiero, auto-colpevolizzante, della vittima siano altri (amici, famigliari, colleghi…).

[6] Ne ha parlato la dott.ssa Simona Corrente, psicoterapeuta, coordinatrice di uno dei progetti di sostegno psicologico per rifugiati e richiedenti asilo gestiti da Me.Dia.Re., nell’ambito del convegno Stand by me. A tale riguardo, peraltro, meriterebbe davvero un maggiore approfondimento, soprattutto in sede istituzionale, il modo in cui i richiedenti asilo sono esaminati dalle commissioni territoriali. Infatti, andrebbe seriamente considerata la possibilità che anche in tale sede si proponga nell’interlocuzione con il richiedente asilo, qualcosa di particolarmente rilevante, anche in termini di ri-vittimizzazione.

 

sos crisi

SOS CRISI: per chi e perché?

Da alcuni anni a Torino e in altre città piemontesi l’Associazione Me.Dia.R. gestisce SOS CRISI, un Servizio gratuito rivolto alle persone e alle famiglie il cui disagio personale o relazionale è stato provocato o aggravato da difficoltà economiche o occupazionali.

SOS CRISI come risposta al disagio e allo stress generati dalla Crisi economica

Il progetto SOS CRISI è stato avviato anni fa da Me.Dia.Re., allo scopo di rispondere al forte aumento delle richieste di sostegno psicologico. Richieste, implicite ed esplicite, proposte da persone o da famiglie che, per effetto di difficoltà innescate o acuite dalla crisi economica, come la perdita del lavoro e l’indigenza economica, stavano vivendo situazioni di forte sofferenza personale.

In particolare, emergevano condizioni di stress e dolore tali da compromettere fortemente, fino ad annientarle, talvolta, le capacità di reagire alle avversità. E ciò provocava il progressivo deterioramento delle relazioni familiari e sociali, generando condizioni di emarginazione sociale sempre più gravi e rischiose.

A chi si rivolge SOS CRISI

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Il Servizio gratuito si rivolge alle persone e alle famiglie che soffrono in termini psicologici o relazionali riconducibili a difficoltà determinate dalla Crisi economica e che pertanto si trovano in condizioni di forte esclusione e/o disagio sociale, quali ad esempio: giovani sfiduciati che non studiano e non lavoro (NEET), persone che hanno perso il lavoro, disoccupati di lunga durata, precari, ex imprenditori ed ex artigiani ridotti all’indigenza, giovani professionisti che faticano a entrare o ri-entrare nel mercato del lavoro, ecc.

Cosa offre SOS CRISI: un Servizio gratuito di Ascolto e di Sostegno Psicologico e Psicosociale

Come è noto, negli anni più recenti il tasso di disoccupazione ha subito una fortissima impennata, colpendo in modo particolare le fasce più giovani della popolazione. La difficoltà di accedere al mercato del lavoro, la perdita dell’occupazione o il passaggio a forme occupazionali meno stabili possono

  • causare ansie e sofferenze che rischiano di cronicizzarsi e diventare difficilmente curabili nel lungo periodo
  • accrescere tensioni e difficoltà di comunicazione provocando o aggravando relazioni conflittuali nella famiglia e in altri contesti relazionali
  • determinare o aggravare il rischio di emarginazione ed isolamento, a causa dei suddetti conflitti, se invece di essere fonti di crescita e trasformazione evolutiva, allentano o erodono o spezzano i legami interpersonali, facendo venire meno la fiducia nel loro intrinseco valore contenitivo e nella loro efficacia supportiva.

Ascolto e percorsi di sostegno 

Il Servizio gratuito SOS CRISI è in primo luogo un servizio di ascolto. Chiunque si rivolga al servizio, viene ascoltato individualmente, per offrirgli uno spazio di condivisione e di sfogo, ma anche per valutare quale percorso possa essere il più adatto.

Tra i servizi gratuiti offerti vi sono psicoterapie individualipsicoterapie di coppia e familiaripercorsi di gruppopercorsi di mediazione dei conflitti.

Inoltre, vengono organizzati dei Job Club, cioè la conduzione di gruppi di persone che

  • imparano delle tecniche pratiche per rendere molto più efficace la propria ricerca di lavoro;
  • si scambiano contatti e informazioni su possibili datori e sul mercato del lavoro locale;
  • si supportano e si stimolano a vicenda a rimanere costanti e positivi nella attività di ricerca;
  • non si limitano a cercare un impiego, ma stimolano la creazione di posti di lavoro grazie ad efficaci tecniche di auto-candidatura.

I Job Club sono condotti da trainer certificati dell’Associazione Me.Dia.Re., con la supervisione dell’ideatore del metodo Job Club, Riccardo Maggioli.

Le ragioni del sostegno offerto: le conseguenze psicosociali della crisi economica

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Come è noto, l’impatto della crisi economica sulla condizione emotiva e sugli stili di vita delle persone è importante.

Sul piano psicologico, ad esempio, aumentano i disturbi depressivi, quelli della sfera ansiosa (panico, ansia generalizzata) e quelli somatoformi (cefalee, insonnia, tachicardia, astenia, stanchezza).

L’aumento delle richieste di sostegno psicologico, però, da parte di persone o famiglie colpite dalla Crisi, spesso, non trova adeguata risposta da parte dei servizi pubblici. Questi, infatti, sono per lo più condizionati da costanti tagli alla spesa e da riduzioni del personale.

I servizi di psichiatria delle ASL, pertanto, riescono a mala pena ad accogliere pazienti, tendenzialmente in condizioni cliniche molto gravi, con patologie conclamate, i quali necessitano di un supporto farmacologico.

Sono invece, al di sotto delle richieste, i percorsi di psicoterapia proposti dalle ASL e, per lo più, non sono orientati specificamente alla cura delle situazioni correlate a sofferenze dovute alla crisi economica e/o lavorativa.

Inoltre, viepiù significativo si manifesta il fenomeno dei NEET – “Not (engaged) in Education, Employment or Training”. Si tratta di persone non impegnate nello studio, né nel lavoro e né nella formazione.

Nel 2016 si stimava che i NEET fossero oltre un terzo dei giovani tra i 20 e i 24 anni (Fonte: Istat). Tra il 2005 e il 2015 la loro percentuale era aumentata in Italia in misura superiore rispetto agli altri paesi Ocse: +10 punti percentuali, come riferiva l’ Ocse (I Neet aumentano in Italia. L’80% degli studenti non ha alcun aiuto finanziario) e come rifletteva S. Intravaia (Spesa al lumicino e record di Neet: la scuola italiana secondo l’Ocse”).

Come si è sviluppato il Servizio SOS CRISI

Il progetto SOS CRISI, sorge dalla lunga attività svolta da Me.Dia.Re., fin dai primi anni Duemila, nella gestione di Servizi gratuiti di Ascolto del Cittadino e di Mediazione dei Conflitti.

Infatti, con il sopraggiungere della Crisi economica, nell’utenza di quei servizi crebbero a vista d’occhio le situazioni di sofferenza legate a difficoltà di reddito e di occupazione.

Persone sprofondate di colpo nella disoccupazione, coniugi o genitori di disoccupati, negozianti e altri piccoli imprenditori che non reggevano più.

Tutti o quasi portavano angoscia, frustrazione, paura, senso di fallimento, di colpa, di vergogna e di solitudine. E rabbia. A volte, una rabbia afona, rivolta verso se stessi o proiettata sull’etourage famigliare, altre volte, indirizzata verso l’esterno. Verso la società, verso questa o quella impresa o verso la politica. E, soprattutto, la sensazione di essere completamente in balia degli eventi. Un sentimento di inadeguatezza e di stanchezza. A sua volta fonte di esasperazione.

Di fatto, quel Servizio, per un numero crescenti di utenti, divenne un vero e proprio servizio di sostegno psicologico.

Dal 2009 venne, pertanto, pensato, elaborato, progettato e attivato un sostegno psicologico specificamente dedicato alle “vittime” della Crisi: un supporto rientrante nel più generale Servizio di Ascolto e Mediazione.

Ma dalla fine del 2011, dato l’ulteriore incremento di richieste di sostegno psicologico, fu necessario rendere autonomo dal resto tale supporto alle persone colpite dalla Crisi economica.

Nacque, così, il Servizio SOS CRISI, progettato ed erogato con percorsi ad hoc, per coloro la cui sofferenza era legata alla Crisi economica.

A partire dal 2013 con contributi della Fondazione CRT (per la sua realizzazione a Torino) e della Compagnia di San Paolo (il contributo di questa fondazione era correlato all’implementazione di SOS CRISI su altri territori), dei fondi dell’Otto per Mille dell’Unione delle chiese metodiste e valdese, della Fondazione SociAL e della Banca d’Italia, fu possibile consolidare i risultati raggiunti, allargare il bacino d’utenza e potenziare l’offerta di servizi.

Tali sostegni economici permisero di costruire un’offerta eclettica, finalizzata a sostenere individui e famiglie nella sofferenza, nel disagio mentale, nelle difficoltà relazionali e nello sviluppare competenze ed empowerment necessari a reagire costruttivamente alle condizioni critiche in cui si trova.

La persistente attualità del Servizio gratuito SOS CRISI

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Secondo quanto emerso dalle ultime rilevazioni, la Crisi economica dovrebbe ormai essere alle nostre spalle.

Diseguaglianze, povertà e rischio povertà

Ad esempio, il Rapporto n.1 – l’Economia del Piemonte della Banca d’Italia evidenziava, infatti, che nel 2016 proseguiva in Piemonte la moderata ripresa dell’attività economica, grazie alla domanda interna e nonostante un indebolimento di quella estera. Il PIL risultava cresciuto dello 0,8 per cento. Già nel 2015, d’altra parte, era tornato ad aumentare, dopo tre anni di recessione, in virtù di una marcata ripresa nell’industria e più contenuta nei servizi. Il miglioramento, inoltre, era proseguito nei primi mesi del 2017 e, pur permanendo un’elevata incertezza, si prevedeva una moderata crescita degli investimenti, grazie anche ad una certa ripresa della domanda estera. Ciò sul piano occupazionale si collegava con una crescita nel 2016

Tuttavia, va considerato che siamo ancora lontani dai livelli occupazionali del 2008, cioè al periodo pre-crisi, e che vi è solo una moderata crescita del reddito disponibile e dei consumi.

L’Istat, peraltro, segnala che alla «significativa e diffusa crescita del reddito disponibile e del potere d’acquisto delle famiglie» si associa, purtroppo, «un aumento della disuguaglianza economica e del rischio di povertà o esclusione sociale».

Per il la stima dell’Istat è che il 30,0% delle persone residenti in Italia fosse a rischio di povertà o esclusione sociale. Ciò segnala un peggioramento rispetto all’anno precedente quando tale quota era pari al 28,7%.

Aumentano gli individui a rischio di povertà (saliti al 20,6%, dal 19,9%), le famiglie gravemente deprivate (salite al 12,1% da 11,5%) e le persone che vivono in famiglie a bassa intensità lavorativa (passate al 12,8%, da 11,7%).

Il rischio di povertà o esclusione sociale interessa soprattutto il Mezzogiorno (46,9%, in lieve crescita dal 46,4% del 2015), ma aumenta anche nel Nord-ovest (dal 18,5% al 21,0% ) e nel Nord-est (dal 15,9% al 17,1% ). Nel Centro continua a interessare il 25,1%.

Vi è, quindi, ancora una notevole quantità di persone per le quali l’uscita dalla Crisi è lungi dall’essere una realtà.

Angoscia e sfiducia

Su un altro registro, anche per coloro che, sul piano materiale, hanno superato in tutto o in parte la fase più buia della Crisi economica, non accusando “danni materiali definitivi”, va annotato che:

  • occorre del tempo per elaborare e superare gli effetti destabilizzanti della Crisi economica sulla condizione psicologica e relazionale di chi ne ha sofferto le ricadute
  • precarietà lavorativa e incertezza sul futuro, senso di vulnerabilità, altre difficoltà di reddito o di impiego persistenti, incidono ancora, e molto, sugli aspetti psicologici e sociali della Crisi
  • si avverte in taluni casi l’angoscia che la Crisi non sia davvero passata, ma sia solo entrata in una fase di latenza, quasi fosse una sorta di sonno ristoratore di questo mostro che prelude ad un risveglio all’insegna della furia più catastrofica
  • molte persone scottate dalla perdita dell’impiego, dalla forte contrazione o dalla chiusura delle loro iniziative private autonome stentano a rimettersi in gioco. Alcuni hanno una rappresentazione di se stessi come di impotenti disvelati. Come se si fosse scoperta e appresa la proprio impotenza, a seguito della destabilizzazione della Crisi, pervenendo ad un profondo senso di sfiducia nella società e in se stessi.

Per queste e altre situazioni i servizi di SOS CRISI sono un possibile sostegno per dare voce a preoccupazioni, paure, dolori e lacerazioni e per ricevere un supporto idoneo a ritrovare la fiducia.

Alberto Quattrocolo