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Ascolto e sostegno per le vittime di reato

Tra i servizi gratuiti offerti dall’Associazione No profit Me.Dia.Re. da oltre dodici anni ve n’è uno rivolto alle vittime di reato e a coloro che sono ad esse affettivamente legate.

Com’è nato il Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le vittime di reato e per i loro famigliari

Nel 2004, l’Associazione attivò a Torino, con un contribuo economico della Città, un Servizio gratuito di Ascolto del Cittadino e Mediazione dei Conflitti.

Si avvalevano di tale servizio, previo appuntamento telefonico, persone che erano coinvolte in situazioni di conflittualità interpersonale che le facevano stare male.

A gestire tale Servizio, infatti, erano dei professionisti nell’ambito della mediazione dei conflitti e della mediazione familiare. Non pochi casi, in effetti, erano di conflittualità all’interno della famiglia (sopratutto conflitti di coppia, ma non solo), di vicinato e sul luogo di lavoro.

L’approccio di questo Servizio, che caratterizza tutta le attività di mediazione (familiare, penale, sanitaria, in ambito organizzativo-lavorativo, sociale) dell’Associazione, prevede che, sempre, in ogni caso, anche quando si presentano insieme le persone coinvolte in un conflitto, esse vengano ascoltate separatamente.

Si svolgono, perciò, non meno di due colloqui individuali con ciascun protagonista del conflitto.

Dopo pochi mesi dall’apertura, capitò che si rivolgessero al Servizio anche persone che vivevano una situazione e avevano dei vissuti che soltanto sotto un certo aspetto potevano essere ricondotti alla conflittualità interpersonale.

Si trattava di persone che avevano subito dei reati o che erano affettivamente legate alla vittima di un reato.

Naturalmente, non essendo sempre esplicitato il motivo della richiesta al Servizio in sede di contatto telefonico per fissare il primo appuntamento, in alcuni casi soltanto nell’ambito del primo colloquio si veniva a sapere che l’esperienza dolorosa portata dalla persona non era quella di un conflitto di vicinato o familiare, ad esempio, ma quella dell’essere stata vittima di un crimine.

Poiché nel team vi erano persone dotate anche psicoterapeuti e criminologi (e, in quest’ultimo caso, con un curriculum apprezzabile anche sul versante vittimologico), non vi era ragione alcuna per non offrire uno spazio di ascolto e di supporto a chi si rivolgeva al Servizio in quanto vittima di un reato, e non perché in conflitto con un collega, un vicino di casa o un famigliare.

Del resto, lo sportello era definito e promosso come Servizio di Ascolto del Cittadino e non solo di Mediazione dei Conflitti.

In verità, un po’ studiando e un po’ con l’esperienza, quindi sulla pelle dei “nostri utenti”- onestamente, ciò va ammesso -, ci “specializzammo” nell’accoglienza e nel supporto delle vittime di reato.

Il passo successivo fu quello di ottenere un contributo economico, partecipando al bando Otto per Mille delle Chiese metodiste e valdese, con un progetto specifico.

Perché offrire Ascolto e Sostegno ad una vittima

Perché cercammo un supporto economico per svolgere questo servizio, non facendolo pagare, dunque, a chi ne intendeva fruire?

Perché ritenevamo – e la pensiamo ancora così – che dei vissuti della vittima di un reato dovesse farsi carico in primo luogo la comunità.

Questo servizio gratuito, che, con il tempo e a maggior ragione con l’aumento dei casi e con la formalizzazione derivante dalla progettazione e dalla concessione del contributo ad hoc, aveva assunto una fisionomia propria, si basava su un’idea di fondo.

Essenzialmente questa: dare alle persone che avevano subito un reato uno spazio e un tempo, attraverso più colloqui con dei professionisti, per condividere l’esperienza vissuta ed essere supportati rispetto alle conseguenze sul piano emotivo, affettivo, relazionale, esistenziale, famigliare, amicale, sociale, lavorativo…

Alcuni effetti della vittimizzazione

Perché, ci si potrebbe chiedere, le vittime di un reato e le persone ad esse legate dovrebbero avere bisogno di un servizio di questo tipo?

Una risposta realmente esaustiva implicherebbe centinaia di pagine e, in effetti, sarebbe opportuno rinviare a qualche testo di Vittimologia.

Tuttavia, un paio di aspetti si possono brevemente riassumere. L’uno riguarda i vissuti derivanti dalla vittimizzazione, cioè dall’essere stati vittime di un fatto dannoso ingiusto. L’altro riguarda la nozione stessa di vittima ai fini dell’individuazione di coloro cui rivolgere un simile servizio di sostegno.

Rispetto al primo aspetto, occorre considerare che l’esperienza di vittimizzazione può procurare emozioni e sentimenti di notevole intensità e particolarmente ingombranti. Vissuti, cioè, difficili da gestire e capaci di influenzare la vita quotidiana: rabbia e risentimento, ansia e sgomento, paura e insicurezza, vergogna e imbarazzo, senso di colpa e di inadeguatezza.

Inoltre, quanto più è stato violento il danno subito, possono aversi nelle vittime di reato altri vissuti e conseguenze che interessano sia la sfera psicologica che quella fisica: ipervigilanza, angoscia, reviviscenza del trauma, paura di vivere nuovi eventi simili, variazioni del tono dell’umore, ansia, disturbi del sonno, attacchi di panico, senso di impotenza, riduzione dell’autostima, problemi cardiaci, disturbi gastrointestinali, asma, emicranie o cefalee croniche…

Già solo questa dimensione, lascia intuire perché possa avere senso offrire alle persone che hanno subito un crimine la possibilità di alleggerire il loro carico emotivo.

La solitudine delle vittime

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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Ma vi è di più.

Una delle conseguenze del reato per le vittime è, generalmente, quella di sapere di poter contare su una diffusa solidarietà da parte degli altri (i cosiddetti consociati, che non sono soltanto i famigliari, gli amici e i conoscenti, ma tutti coloro che fanno parte di una certa comunità, sia essa locale o nazionale), ma di vivere, spesso, anche un’altra, apparentemente contraddittoria sensazione: la solitudine.

Per molteplici ragioni, sulle quali sarebbe eccessivamente lungo soffermarsi esaustivamente, le vittime di un reato non raramente fanno fatica a trovare un’efficace vicinanza emotiva da parte degli altri.

Ciò accade non solo quando si tratta di persone prive di legami o di relazioni significative.

L’auto-isolamento delle vittime

Accade, infatti, anche a chi una vita relazionale piena ed è circondato da persone che gli vogliono bene.

La solitudine della vittima può essere la conseguenza di un suo timore di appesantire con il proprio stato d’animo le persone cui è affezionata. La vittima, ad esempio, consapevole che anche il partner, il genitore, i famigliari e gli amici soffrono per quanto le è capitato, può essere indotta a ritenere di doverli tutelare dal suo dolore e dalla sua angoscia.

Oppure, la solitudine delle vittime può derivare dal pudore, dal riserbo, dal timore di essere avvertiti dagli altri come fastidiosamente ingombranti o, ancora, dall’idea che dar voce alla propria sofferenza significhi acutizzarla e cronicizzarla. E l’una o l’altra ragione inducono qualche volta le vittime a non condividere gli effetti più disturbanti dell’offesa subita con i loro cari, a tacerli e a viverli, perciò, in una condizione di auto-isolamento.

Non, raramente, però la solitudine della vittima è conseguenza delle difficoltà delle persone ad essa vicine di relazionarsi con le sue emozioni (e, in fondo, con le loro emozioni).

L’isolamento (da parte degli altri) delle vittime

Né va taciuto che, in non pochi casi, capita di rilevare che la solitudine della vittima è stata generata non tanto dallo spiazzamento da parte degli altri nel rapportarsi con una sofferenza che non si sa bene come accogliere, come maneggiare, come contenere, ma da un rifiuto della vittimizzazione stessa, da un mancato riconoscimento del suo avverarsi.

In tali casi, non è la vittima ad isolarsi. Essa viene isolata dagli altri.

Ciò accade quando coloro che la circondano ritengono che il suo soffrire per la vittimizzazione subita sia sinonimo di vittimismo. Oppure, quando, e non è raro, pensano che in qualche misura essa si meriti quel che le è successo (esempi particolare di tali dinamiche sono contenute nei post Chi subisce un’azione violenta non si chiama colpevole ma vittima , mentre altre considerazioni sulle logiche ad esse sottese sono contenute nel post Nessuna vittima è più uguale di un’altra, presenti entrambi nel blog Politica e conflitto, sul sito di Me.Dia.Re.).

Ad esempio, nei casi di violenza domestica può accadere che famigliari e gli amici si rifiutino di accogliere i tentativi di condivisione della vittima. E, addirittura, magari in virtù del legame che hanno con l’autore della violenza, in base ad una stravolta lealtà verso di esso, succede che i famigliari o i parenti censurino duramente la ricerca di un ascolto da parte della vittima (per un approfondimento si può leggere il post Colpa della vittima?).

La ri-vittimizzazione

Inoltre, non va dimenticato che per le vittime di reato l’incontro con le agenzie ufficiali preposte alla repressione del crimine può essere un’importante fonte di stress e sofferenza.

Per quanto da molti anni anche in Italia siano svolte molteplici iniziative di sensibilizzazione e di formazione per le forze dell’ordine, la magistratura penale, gli avvocati, gli operatori sanitari, gli assistenti sociali, ecc., affinché adottino un approccio corretto e tutelante anche sul versante emotivo nel rapportarsi con le vittime di reato, per queste l’impatto con l’istituzione può essere ri-vittimizzante.

Cioè, può dar luogo ad una sollecitazione dei vissuti procurati dal reato che, però, non è accompagnata da un’adeguato contenimento, da un empatica attenzione, sicché la persona si ritrova a patire alcuni degli effetti più disturbanti correlati alla vittimizzazione primaria (cioè quella generata direttamente dalla commissione del reato).

Qui, tra questi vissuti, se ne può segnalare uno solo, ma carico di implicazioni: il sentirsi de-umanizzati.

La de-umanizzazione della vittima

La de-umanizzazione, infatti, è uno dei vissuti più scomodi, angoscianti e dolorosi che la commissione del reato può procurare alla vittima (un maggiore approfondimento di questo aspetto si trova nel post Il rispetto per l’umanità di chi è vittima di una violenza non (è mai stato) procrastinabile, anche in tal caso all’interno del blog Politica e conflitto) .

Non si contano le volte in cui le vittime affermano che il reo le ha trattate come oggetti, come esseri privi di sensibilità.

Tale vissuto può essere provato anche successivamente all’esperienza della vittimizzazione procurata dal reo con la sua condotta lesiva. Può capitare che ci si senta de-umanizzati anche nella relazione con il sistema della giustizia.

Di nuovo, non si contano le volte in cui le vittime esplicitano che, ad esempio, nell’ambito del processo, si sono sentite accantonate, poste sullo sfondo, mentre, metaforicamente parlando, dei trattori passavano sulla loro sensibilità.

Il che, forse, è, almeno in parte, inevitabile, visto che lo scopo principale dell’attività giurisdizionale non è tutelare la condizione psicologica della vittima, ma acclarare i fatti e le responsabilità, al fine di comminare un’eventuale sanzione.

Certo, però, a volte viene da pensare che, per la vittima, l’esperienza del procedimento giurisdizionale, in assenza di un sostegno efficace, sia davvero una Via Crucis.

Non va, però, taciuto che la vittimizzazione secondaria possa verificarsi, in contesta extra-giudiziario, cioè in  situazioni in cui la vittima non è riconosciuta come tale, subendo di fatto una negazione non solo del suo status di vittima, ma della dignità della sua persona. Le viene, infatti, negata ogni legittimazione della sua sofferenza.

Un caso particolare, su questo registro, è stato preso in considerazione, nel post Le vittime di Piazza San Carlo, rispetto ai fatti di Piazza San Carlo, a Torino, il 30 giugno 2017.

A chi si rivolge il Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le vittime di reato?

Quali sono, dunque, i destinatari di un servizio di tipo vittimologico?

Senza dubbio, per usare un’espressione legale, le persone offese da reati dolosi.

Tuttavia, accanto a queste persone, vanno considerate anche le vittime di reati colposi. Anche per costoro, infatti, il danno ha ricadute importanti sotto molteplici aspetti e non meno meritevoli di attenzione.

Inoltre, va considerato che accanto alla vittima diretta del fatto illecito vi sono le persone affezionate alla vittima: famigliari, partner, amici…

Rispetto all’omicidio doloso o colposo, la cui vittima diretta è l’essere umano che ha perso la vita, è immediatamente evidente che le persone che amavano l’ucciso hanno anch’esse perso qualcosa. Hanno perso tantissimo, troppo, in verità.

Vi sono, però, infinite situazioni in cui reati (dolosi o colposi) privi di conseguenze letali feriscono profondamente non soltanto le vittime giuridicamente intese, ma anche altri soggetti.

Uno stupro, ad esempio, può devastare anche la madre, il padre, la sorella o il fratello, il partner della persona che ha subito la violenza. Lo stesso può valere per altri reati.

Per fare un solo altro esempio, si può pensare ai genitori, ai fratelli o agli amici più cari della vittima di bullismo.

Infine, è bene precisare che un simile sostegno non può essere riservato soltanto a quelle persone (vittime in senso legale o vittime in senso esteso, cioè sul piano umano) che abbiano denunciato il fatto o che siano state riconosciute come tali da provvedimenti giudiziari.

Se così fosse, infatti, verrebbe meno una delle funzioni più importante per il singolo e per la collettività di un simile supporto.

L’Ascolto e il Sostegno vanno offerti anche a chi non ha denunciato il fatto.

Per chiarire quest’ultimo aspetto occorre pensare a come, in mancanza di adeguato supporto, sia frequente che soprattutto certe condotte criminose restino ignote all’autorità giudiziaria.

Anche qui per fare solo un (vasto) esempio, si può considerare l’importanza di un simile sostegno ai fini della denuncia (e oltre) per fatti iscrivibili nel filone della violenza di genere.

La connessione tra il Servizio per le vittime di reato e gli altri Servizi e Progetti di Me.Dia.Re.

Un’ultima considerazione riguarda il fatto che l’esperienza maturata in tale ambito operativo e le riflessioni sorte proprio nella conduzione di percorsi gratuiti di ascolto e sostegno psicologico per le vittime di reato (nel senso esteso sopra accennato), sono state di particolare rilevanza anche al di là di tale contesto.

Così, quanto appreso e pensato nell’ambito del Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno delle vittime di reato è stato di particolare importanza per:

D’altra parte, l’esperienza pratica (clinica, per così dire) e umana, accumulata e in corso di sviluppo tutt’ora, nel Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le vittime di reato, quasi inevitabilmente, confluisce in parte in alcune pubblicazioni (tra cui, soprattutto, Giusio M., Quattrocolo A.,  Elementi di vittimologia e di Victim Support, 2013), nonché in diverse iniziative formative di Me.Dia.Re.:

 

Alberto Quattrocolo

colpa della vittima

Colpa della vittima?

 Per il reo è tutta colpa della vittima

Perché si dovrebbe sostenere che è per colpa della vittima se essa ha subito della violenza? In realtà, non si dovrebbe, punto e basta.

Su alcuni media e, soprattutto, sui social, però, con notevole frequenza si manifesta qualcosa di tanto antico quanto scorretto, anzi ingiusto: la tendenza a cercare in qualche presunta colpa della vittima le ragioni della violenza che le è stata inflitta.

Dire che è per colpa della vittima se ha subito una violenza è un atteggiamento frequente del reo

Dire che la colpa è tutta della vittima, in effetti, è esattamente ciò che fa il reo. È uno dei meccanismi di auto-assoluzione[1].

La funzione psichica dei meccanismi di auto-assoluzione è consentire all’autore di un reato di neutralizzare, dentro di sé, la portata dell’azione che sta per compiere (così da riuscire a realizzarla, senza avere, esitazioni che potrebbero trasformarsi in rinunce ad agire dannosamente contro altri), o che ha già compiuto (così da poter dormire, poi, sonni tranquilli).

Tra tali meccanismi auto-giustificativi, quello della colpevolizzazione della vittima è tutt’altro che secondario. Il reo, ancora prima che agli altri, dice a se stesso:

«La vittima non è una vittima, perché, quel che le è successo se l’è meritato».

Occhio! Il reo non dice che la vittima si è meritata quel che lui le è fatto, ma quello che le è successo. Come se la violenza inflitta fosse stata predisposta da una volontà superiore, da un fato, dalle circostanze, cioè da forze esterne al reo. Il quale, dunque, rappresenta se stesso come mero esecutore di un’azione, violenta, che alla vittima era, in qualche modo, dovuta: ad esempio, perché “se l’è cercata”, oppure perché lo “ha provocato”.

Sostenere che è tutta colpa della vittima serve ad auto-assolversi così da poter portare a compimento la violenza e non avere rimorsi poi

Non sono poche, anche leggendo la cronaca, le situazioni in cui l’aggressione sembra essere vissuta da parte dell’aggressore come una reazione ad una qualche colpa della vittima.

Tra i fatti recenti, vi sono due aggressioni che, dall’esterno, risultano essere, in termini razionali, del tutto incomprensibili.

Il primo caso riguarda l’aggressione a due donne anziane a Busto Arstizio (una di 63 e una di 84 anni), accaduta il 17 novembre, per strada, da parte di un ubriaco, un romeno 26enne, con precedenti per rissa e furto. Costui le ha prese a pugni, mandandone una in coma, a causa dell’urto della testa contro il marciapiede a seguito del suo spintone. Per qualche sconosciuta ragione, quell’uomo ha aggredito, così violentemente, proprio quelle due signore e non altri passanti. Per l’espressione del viso o per un fremito nelle spalle di una di loro? Naturalmente, è difficilissimo, se non impossibile, sapere cos’ha “provocato” quell’attacco, cos’ha visto in tali donne quel ventiseienne ubriaco.

L’altro fatto è quello che vede due ragazzi e una ragazza italiani accusati di avere aggredito, la sera del 17 novembre, un 19enne di Lanzo, che, tornava a casa dopo le lezioni sul treno Torino-Ceres.

Si può ipotizzare che, per questi tre giovani, in quel momento, non fossero immotivati i pugni e i calci in testa somministrati allo studente, dopo averlo schernito e insultato.

In virtù di qualche tipo di “ragionamento”, si sono legittimati a malmenare, in tre, all’interno di un vagone deserto, quello studente [2]. Quale ragionamento? Occorrerebbe chiederglielo per saperlo.

Il punto è che, mentre lo picchiavano, non si sentivano in colpa. Non pensavano:

«Sto facendo una cosa orribile: sto picchiando qualcuno! Di più, sto picchiando, spaventando e umiliando uno che non mi ha fatto nulla!».

L’impressione comune ad entrambi gli episodi, così come a tantissimi altri casi di violenza, è che gli aggressori avessero nella loro mente completamente oscurato l’umanità delle persone aggredite.

In fondo, da un certo punto di vista, la colpevolizzazione della vittima, permette di de-umanizzarla e così di attaccarla senza scrupoli e senza esitazioni.

Il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni.

Commentando diverse brutte azioni, un personaggio di La regola del gioco (1939, di Jean Renoir) osserva:

«Il tragico della vita è che tutti hanno le loro ragioni» [3].

I due uomini che hanno sferrato pugni, allo stomaco e in faccia, e preso a calci il regista Sebastiano Riso, il 2 ottobre, a Roma, nell’androne di casa, dove lo stavano aspettando, coprendolo di insulti omofobi, ritengono, probabilmente, di avere fatto una cosa buona e giusta.

Può darsi, cioè, che ritenessero l’ agguato un’azione dovuta, poiché, per loro, la colpa della vittima, Sebastiano Riso, era tale da autorizzare l’aggressione. Il regista, secondo loro, infatti, era colpevole di avere girato Una famiglia, che racconta della vendita clandestina di bambini partoriti da una donna (interpretata da Micaela Ramazzotti) a delle coppie etero e ad una coppia gay.

Ciò, almeno, è quanto si può dedurre dall’intervista che Riso ha concesso a La Repubblica del 4 ottobre.

È importante, dunque, comprendere le ragioni degli autori degli atti violenti, non per farle proprie (ci mancherebbe altro!), ma per altri scopi.

  • Per capire cosa c’è dietro la loro violenza esplicita e cosa li ha sorretti nell’attuarla e nel conviverci poi: ciò che Bandura chiamò anche meccanismi di disimpegno morale. [4]  
  • Per avere qualche informazione su cosa arriva alla vittima di questo loro atteggiamento mentale: ad esempio, può trattarsi di un vissuto di de-umanizzazione  [5]. 
  • Per valutare se c’è un rapporto tra la loro condotta violenta e come la società reagisce ad essa: rientra in questa dimensione il tema della legittimazione culturale della violenza  [6].

Perché le molestie sessuali nella nostra società sono così tante, così… troppe? Perché le vittime temono, con ragione, di essere incolpate per le molestie subite

Dirsi che è colpa della vittima è anche l’atteggiamento di chi violenta, molesta o abusa sessualmente di un’altra persona. In tal modo, l’offender può agire indisturbato. Non disturbato, cioè, da dubbi, incubi e rimorsi.

Ma questo atteggiamento non è proprio soltanto di colui che commette violenze. Sulla rubrica Sette e mezzo, del settimanale 7 del Corriere della Sera, Lilli Gruber, alcune settimane fa, aveva ricordato come il fenomeno delle molestie sessuali fosse oggetto di costante minimizzazione.

«Molestie che sono diventate “normali” per strada, nei luoghi pubblici e di lavoro, tra le pareti domestiche, sui social network».

Aveva poi aggiunto:

«Recenti studi dimostrano che in Italia, in Europa e negli Stati Uniti metà dell’universo femminile ha avuto a che fare almeno una volta nella vita con avances minacciose e sgradevoli».

Naturalmente, Lilli Gruber aveva anche precisato che tali dati includono soltanto i casi denunciati e riconosciuti, mentre restano ignote le vere dimensioni del fenomeno, visto che vergogna e paura rendono difficile alle vittime accusare gli aggressori.

Non casualmente la Gruber impiega il termine “vittima” e fa esplicito riferimento alla vergogna e alla paura. Emozioni, molto ingombranti e inibenti, che impediscono alla vittima di parlare, di condividere e di denunciare.

La colpa della vittima consisterebbe nell’essersela “cercata”

Lavorando in un’associazione che si occupa anche di violenza sulle donne (e sui loro bambini) e che offre un più generale Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno psicologico per le vittime di reato e le persone ad esse affettivamente legate, si riscontra, con drammatica frequenza, uno dei più importanti ostacoli, non solo per la denuncia, ma ancor prima per la condivisione della vittimizzazione subita: nel mondo che circonda la vittima della violenza, anche da vicino (parenti, amici, colleghi), troppo spesso, si tende a giudicarla, ad attribuirle la responsabilità per quanto subisce, invece di ascoltarla a-valutativamente, così da sostenerla e aiutarla a tutelarsi.

La persona oggetto di violenza si sente chiedere:

«Ma tu cos’hai fatto per provocarlo?»

Tale quesito, implicitamente colpevolizzante, così ricorrente nei casi di molestie sessuali, si propone anche in altre situazioni di violenza.

È un quesito, quello, che, dichiarando implicitamente la colpa della vittima, la costringe ad ammutolire o a tentare una disperata difesa argomentativa. Disperata, perché il suo interlocutore, tante volte, non è, in realtà, interessato ad ascoltarla davvero.

Quelli che ragionano come il molestatore, lo stupratore…

Così, la vittima, non riconosciuta come tale, si ritira in se stessa. Si chiude. Subisce, se non riesce a sottrarsi, continuando a soffrire in silenzio, perché ha verificato che la sua voce resterà inascoltata. E, talora, può arrivare a credere che sia normale, dolorosamente normale, che il mondo giri così. A volte, giunge a pensare che, forse, gli altri hanno ragione, quando le dicono che lei esagera, quando minimizzano la sua sofferenza, quando edulcorano la condotta del reo o quando, addirittura, lo giustificano.

In tal modo, l’autore del crimine sa di potere contare su una certa complicità morale. Una complicità, presumibilmente, nella gran parte dei casi, involontaria e inconsapevole, che, però, gli assicura una possibile garanzia di impunità, proprio nella misura in cui vi è chi, sostenendo la teoria della colpa della vittima, si schiera, di fatto, dalla parte del reo.

Quest’estate aveva sollevato molta indignazione un post pubblicato su Faebook da un mediatore culturale di Crotone, di origini pachistane, che, commentando gli stupri commessi a Rimini, affermava:

«Lo stupro? Peggio solo all’inizio, una volta si entra il pisello poi la donna diventa calma e si gode come un rapporto sessuale normale».

Per questa agghiacciante riproposizione del raccapricciante detto latino, ispirato ad un verso dell’Ars amatoria di Ovidio (Liber I, l. 673-674), “vis grata puellae” (la violenza è gradita alla fanciulla), quest’uomo è stato denunciato ed è indagato per istigazione alla violenza.

Quelli che dicono alla vittima (donna): «Ma dai che ti è piaciuto!»

Uno dei meccanismi di auto-giustificazione del reo consiste nel pensare che la sua azione non procura alcun reale danno, sicché, secondo lui, la vittima non avrebbe nulla di cui lamentarsi.

Questo atteggiamento mentale, questo tipo di narrazione, però, come si è visto, non è proprio solo dell’autore del crimine.

Nel 1979, il 26 aprile, venne trasmesso sulla Rai il documentario Processo per stupro, recentemente richiamato in molti articoli di giornale, sul processo a carico degli autori di uno stupro di gruppo, avvenuto a Nettuno. Erano accusati di avere violentato, per 4 giorni, una 18enne, Fiorella, una lavoratrice in nero, attratta nella loro trappola da una proposta di colloquio di lavoro.

Sì, il processo era a carico dei quattro imputati (tutti, grosso modo sulla quarantina), ma in aula i ruoli furono ribaltati: sotto accusa finì la vittima. Un difensore, per sostenere il carattere consensuale dei rapporti sessuali, affermò, tra le altre cose, che la fellatio, cui Fiorella era stata costretta, era incompatibile con la violenza: secondo l’avvocato, da parte di lei sarebbe bastato «un morsetto» per interromperla. E per interrompere la propria vita, aggiungerebbe chiunque altro, purché dotato di normale senso della realtà [7].

Erano, quelli, altri tempi? Ora non accadrebbe più una cosa simile in un’aula di tribunale o altrove?

Ad entrambe le questioni temo che la risposta sia: “no”. O, almeno, “non proprio”.

Si pensi a quanto riferito da La Repubblica, in ordine all’incidente probatorio teso a valutare le accuse a carico dei due carabinieri indagati per violenza sessuale ai danni di due studentesse americane. Si riferisce nell’articolo che il giudice avrebbe respinto alcune delle domande dei difensori degli indagati, per i toni accusatori e insinuanti dei quesiti da essi posti alle ragazze. Respingendo una di tali domande, avrebbe affermato:

«Questa non la ammetto, non intendo tornare indietro di 50 anni».

 Quelli che…: «Quale molestia? E comunque è tutta colpa della vittima».

Su Facebook ho letto un post scritto da una donna. Una donna italiana:

«Ma è mai possibile che tutto di un colpo sono state tutte molestate, ecc… Ma dai per favore! Come se nessuno sapesse come sia il Mondo dello Spettacolo, Teatro, Cinema, Musica. Prima la date e poi la rivolete indietro»

Occorre fare attenzione all’inversione contenuta nel testo del post citato: “darla via”. Non si fa cenno, nel post di questa donna italiana, all’essere sottoposte al ricatto di “darla” se si vuole lavorare, se si vuole ottenere un contratto, ecc. No, la signora in questione dice che la si dà via.

Come se quello della vittima di una molestia fosse, in realtà, un tentativo di corruzione.

Da vittime a colpevoli. Anzi, le donne che denunciano di essere state molestate, non soltanto, sarebbero colpevoli, perché, non avrebbero subito alcuna reale molestia, essendo consenzienti, secondo quanto scritto da costei, ma sarebbero anche colpevoli d’ipocrisia [8].

Cosa c’è dietro l’attribuzione della colpa alla vittima?

Perché, non solo l’autore del reato, ma anche altri, al pari di quello, pensano che quel che le è accaduto sia conseguenza di una qualche colpa della vittima ?

Perché si incolpano Asia Argento e tutte coloro che hanno affermato di avere subito le violenze del produttore hollywoodiano?

Perché, molto spesso, vi è così tanta rabbia, veicolata attraverso una vera e propria violenza verbale, nel dare la colpa alla vittima?

Vi è chi afferma che è colpa della vittima, credendo di esprimere un pensiero controcorrente o per difendersi dall’angoscia

A volte si direbbe che, più che il sottile piacere derivante dal dire qualcosa di provocatorio, vi sia una sorta di furia iconoclasta. Una rabbia che sembra indurre ad aggredire tutto ciò che ha le sembianze del politicamente corretto.

Allora, per differenziarsi, per ergersi al di sopra di quella che si crede essere la massa priva di pensiero critico, si rivolgono attacchi verbali violentissimi alla vittima di una violenza, ri-vittimizzandola.

Si scrive sui social, ad esempio, che è colpa della vittima se è stata molestata, stuprata, truffata, ricattata, sequestrata, ecc. E lo si fa con leggerezza, senza indugi e senza rimorsi. Nella più completa indifferenza per il dolore che quella arrogante colpevolizzazione può procurarle.

Non va dimenticato, d’altra parte, che può avere una valenza ansiolitica il sostenere che la violenza si sia verificata per colpa della vittima. Addossarle l’errore di essere stata imprudente, rinfacciarle un’eccessiva fiducia in se stessa o negli altri, definirla troppo ingenua, imprudente, avventata o spericolata, può servire a tranquillizzarsi.

Se ci convinciamo che è colpa della vittima, esorcizziamo il timore del “poterebbe capitare anche a me”. Scacciamo questa angosciante prospettiva, dicendoci che noi mai ci metteremmo in una situazione così pericolosa.

Chi dà la colpa alla (donna) vittima (di violenza) perché, essendo troppo libera, avrebbe provocato l’aggressione.

Nella sua arringa, l’avvocato Giorgio Zeppieri, nel ’78, a mo’ di difesa dei 4 imputati di sequestro e stupro ai danni della diciottenne Fiorella, affermava:

«Se questa ragazza fosse stata a casa, se l’avessero tenuta presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente».

Dunque, secondo questo avvocato, la giovane stuprata per 4 giorni era colpevole di essere stata troppo “libera” di muoversi. Ed erano colpevoli i suoi famigliari di averla lasciata libera di circolare.

Si direbbe che 39 anni siano passati invano, pensando a quanto scritto sulla sua pagina Facebook da don Lorenzo Guidotti, come racconta il Fatto quotidiano.

«Non posso provare pietà per chi vive da barbara con i barbari e poi si lamenta perché scopre di non essere oggetto di modi civili. Chi sceglie la cultura dello sballo lasci che si “divertano” anche gli altri».

È difficile non pensare al film Sotto accusa (1988. Di Jonathan Kaplan), che valse il Golden Globe e il premio Oscar a Jodie Foster, nella parte della protagonista.

La sceneggiatura era ispirata allo stupro compiuto in un bar di New Bedford, Massachusetts, nel 1983, di cui era stata vittima una giovane, Cheryl Arauj.

Il film, durissimo, non casualmente s’intitolava Sotto accusa (Accused, in originale), poiché ad essere posta sotto accusa era proprio la vittima, interpretata dalla Foster: una ragazza dalla “pessima reputazione”, violentata nel locale dopo essersi ubriacata, mentre gli avventori incitavano i tre stupratori.

La colpa della vittima consiste, secondo don Lorenzo Guidotti, più di trent’anni dopo, nell’essersela cercata.

Se un maschio si ubriaca e viene violentato, verrebbe da chiedere a questo parroco, sarebbe altrettanto privato del diritto di lamentarsi e dovrebbe accettare che altri si divertano con il suo corpo?

Quando la colpa della vittima consiste nell’aver dato confidenza al “nemico”

Tuttavia, nelle parole di questo parroco, oltre ad un filo di maschilismo, pare esservi dell’altro. Nel suo post, infatti, egli ravvisa una supplementare colpa della vittima di genere femminile: l’essersi mescolata ai barbari. E, secondo il suo ragionamento, i barbari agiscono come tali.

È naturale, anzi fatale, che si comportino così, poiché sono barbari, sostiene don Lorenzo Guidotti. Perciò, in un certo senso, il vero colpevole non sarebbe il ragazzo di origine magrebina cui la giovane, ubriaca, fidandosi, aveva chiesto aiuto, ma lei stessaIl giovane magrebino – supponendo che egli abbia realmente commesso il reato di cui è stato accusato -, secondo il parroco, avrebbe solo tradotto in azione le inclinazioni della sua natura.

Che capolavoro di ribaltamento! Il colpevole non è chi approfitta della fiducia e dell’estrema vulnerabilità, di matrice alcolica, di una giovane, ma la giovane stessa. Di nuovo, è per colpa della vittima (donna) se qualcuno (uomo) l’ha violentata.

A volte, quindi, anche l’ostilità verso il gruppo cui appartiene il reo porta alcuni a colpevolizzare la vittima con parole particolarmente violente [9].

Infatti, per don Lorenzo Guidotti, la colpa della vittima non è solo di essersi fidata di un magrebino, avendo già bevuto troppi alcolici, ma, ancora prima, di aver bevuto

«tutta la tiritera ideologica sull’accogliamoli tutti».

Quando l’ostilità verso il gruppo cui appartiene l’aggressore porta a strumentalizzare la vittimizzazione

Il vicesindaco leghista, Isabella Tovaglieri, ha commentato l’aggressione alle due donne di Busto Arstizio, cui si è fatto cenno nella prima parte di questo post, con queste parole: 

«Il vero problema di fondo è che si tratta di culture inconciliabili con cui non c’è dialogo. La cultura dell’integrazione è fallita bisogna prenderne atto e riflettere sul fatto che a commettere un reato così grave sia stato uno straniero presente illegalmente sul territorio, non è mai successo che un bustocco abbia compiuto un fatto del genere».

Anche qui, come nel caso del post di don Lorenzo Guidotti, pare esservi la strumentalizzazione di un reato violento. Anzi, violentissimogratuito, come si suole dire quando non ne sono comprensibili le motivazioni.

L’impressione che (anche da parte di altri esponenti della forza politica cui appartiene la vicesindaco di Busto Arstizio) si strumentalizzino queste tragedie è, anche, procurata dal fatto che simili reazioni (e altre ancora più forti: si veda in nota) non si registrano per le aggressioni gratuite commesse da italiani, incluse quelle cui si è fatto cenno in tale post [10].

Non vi è una questione culturale anche in quelle violenze? Sono integrati i loro autori italiani?

Quando la strumentalizzazione della vittima consiste nel sostenere che, ancor prima di essere vittima di un reato, è stata vittima dell’accoglienza

La cultura dell’integrazione è fallita anche nel caso dell’incubo decennale, fatto vivere da un catanzarese, cinquantaduenne, all’ex badante della sua precedente compagna, una romena di 29 anni e ai figli di 9 e 3 anni?

La donna romena è stata segregata, violentata, maltrattata e schiavizzata per 10 anni da quell’italiano (con precedenti penali per reati sessuali). Quando l’hanno trovata, viveva con i due bambini, nati dagli stupri commessi su di lei da questo suo padrone-carceriere, in una baracca fatiscente, invasa da topi, con fogli di cartone al posto dei letti e sacchi della spazzatura al posto del wc.

Era stata stuprata, da quell’uomo, ripetutamente per 10 anni. Veniva spesso ferita, anche durante le gravidanze. A volte, lui l’aveva suturata con del filo da pesca.

Se l’era cercata anche lei? Era colpevole anche lei di aver frequentato i barbari? Perché di questo episodio quasi non si parla? Forse perché ribalta alcuni stereotipi? [11]

Si tratta anche in tal caso di una violenza riconducibile ad un problema di culture inconciliabili?

Parrebbe di no, visto che non vi sono tracce di commenti sulla stampa e sui social aventi un tono paragonabile a quelli sui delitti commessi da stranieri.

Perché, allora, interpretare come un problema di inconciliabilità culturale l’aggressione ai danni di quelle due anziane signore a Busto Arstizio, peraltro da parte di un uomo con precedenti per reati violenti?

Per ragioni politiche, forse? Credo sia lecito supporlo.

Sulle ragioni politiche, in sé, a dire il vero, non vi sarebbe nulla da eccepire. E, magari, i commenti sopra citati (e quelli riportati nella nota 10) sono vissuti da chi li ha pronunciati come se fossero ispirati da un’ alta e nobile visione politica.

Ma, anche in tal caso, resta il fatto che quei commenti tolgono ai protagonisti della vicenda (le vittime e l’autore del reato) ogni spessore umano, rendendole simboliche, astratte. Le parole di Isabella Tovaglieri, come quelle di don Lorenzo Guidotti, magari inavvertitamente, rendono, di fatto, le persone e le loro dolorose vicende degli argomenti da usare nella lotta politica.

C’è chi dice: «Non usare il mio dolore per crearne dell’altro»

Il 15 ottobre, a Torino, Maurizio Gugliotta, di 52 anni, è stato accoltellato da un ambulante nigeriano, al mercato del “libero scambio” di via Carcano. La coltellata alla gola è stata inferta da un ventisettenne nigeriano, con il quale, secondo alcune ricostruzioni, discuteva per avere spazio sufficiente per sistemare la sua roba.

Matteo Salvini aveva commentato:

«Altro sangue sulle coscienze sporche di quelli che hanno spalancato i confini italiani».

Ma qualcuno non ci sta. Qualcuno vuole mettere un altolà alle strumentalizzazioni del dolore.

Si tratta dei famigliari di Maurizio Gugliotta, che hanno fatto un appello «a non usare il loro dolore per prediche razziste», secondo quanto riportato da La Repubblica.

Hanno esplicitamente chiesto che l’omicidio di Maurizio «non diventi la bandiera di qualcuno per andare sui giornali a predicare odio e razzismo».

Queste persone hanno sentito necessario dire ciò che dovrebbe essere ovvio per tutti. Cioè, che le responsabilità, come hanno affermato i famigliari della vittima, «sono sempre individuali e mai collettive».

Perché? Per quale ragione questa famiglia ritiene di dover tentare di prevenire la criminalizzazione di altri popoli, o di altre culture, per i reati commessi da singoli individui?

Perché vuole che il suo «dolore non diventi strumento per crearne altro».

Si tratta di una preoccupazione comprensibile per chiunque sia attento a ciò che si muove nella nostra società, inclusa una preoccupante violenza razzista. Una violenza, questa, che, per autolegittimarsi e per riscuotere consensi, cerca di strumentalizzare tragiche vicende come quelle vissute da Maurizio Gugliotta e dalla sua famiglia.

Alberto Quattrocolo

 

[1] Su questo blog, si è fatto riferimento ad essi anche in Chi subisce un’azione violenta non si chiama colpevole ma vittima. Inoltre, sia pure da un’angolazione diversa, i meccanismi di auto-giustificazione sono stati considerati rispetto alla legittimazione culturale della violenza razzista (Autorizzazione della violenza) e alla sua concreta realizzazione in danno degli immigrati, di coloro che li aiutano e di chi indaga su alcune organizzazioni che li demonizzano (Giorno maledetto).

[2] Per restare in ambito torinese e a fatti recenti, il 16 novembre, in Piazza della Repubblica, a Porta Palazzo, una donna è stata aggredita nella sua auto da un’altra donna, una trentaseienne, italiana, che l’ha picchiata per derubarla (è stata salvata dall’intervento di una giovane ciclista, che poi ha fornito informazioni tali da consentire l’arresto dell’autrice dell’aggressione). È ipotizzabile che per l’autrice di tale crimine, la sua violenza, mentre la realizzava, le sembrasse “giusta”. La vittima, probabilmente, dal suo punto di vista, “per qualche ragione”, meritava quel trattamento. Era per colpa della vittima, secondo l’autrice dell’aggressione, se lei la stava picchiando per derubarla?

[3] Per fare un altro esempio, è possibile che quei carabinieri della Lunigiana accusati di abusi, violenze varie (anche sessuali) e vessazioni ai danni di cittadini stranieri, commessi «senza ragione alcuna se non razziale», abbiano ragionato in termini auto-assolutori nel compiere quelle azioni. Si dicevano, forse, che le persone da essi abusate e maltrattate, si meritavano quanto loro inflitto. I reati contestati a questi uomini dell’Arma sono: falso in atti, abuso d’ufficio, sequestro di persona, rifiuto di denuncia, possesso illegale di armi (coltelli sequestrati nelle perquisizioni domiciliari); di schiaffi ad un marocchino per obbligarlo ad aprire un appartamento privato chiuso a chiave; di una contravvenzione elevata ad una donna straniera, per aver guidato senza cintura di sicurezza, mentre la cintura l’aveva allacciata; minacce come «Se parli ti stacco la testa», «Ti spezzo le gambe»; manganellate sulle mani appoggiate alle portiere delle auto durante i controlli; lesioni personali e contusioni multiple ai danni di un immigrato, cui avrebbero sbattuto la testa contro il citofono della caserma; scariche elettriche, mediante l’uso di due storditori, per obbligare un presunto spacciatore straniero a rivelare dove erano tenute le sostanze stupefacenti; sevizie, anche sessuali, ai danni di un giovane marocchino.

[4]  I meccanismi di disimpegno morale sono citati anche nel post Giorno maledetto.

[5]. Rispetto al vissuto di de-umanizzazione sperimentato dalla vittima rimando al post Ascolto e sostegno per le vittime di reato – che si riferisce al Servizio gratuito di Ascolto e Sostegno per le Vittime di Reato, gestito dall’Associazione Me.Dia.Re. – ai post Violenza razzista e Razzismo e terrorismo.

[6]. Con particolare riguardo alla legittimazione culturale della violenza razzista, rinvio al post Autorizzazione della violenza, mentre rispetto alla legittimazione culturale della violenza quale conseguenza del conflitto politico rimando alla Criminalizzazione dell’avversario politico.

[7] L’avvocato della vittima, Titta Mazzucca, replicò: «Quello che è successo qua dentro si commenta da solo, ed è il motivo per cui migliaia di donne non fanno le denunce, non si rivolgono alla giustizia. […] Ho letto sul giornale di un’ulteriore violenza fatta ad una ragazza di 17 anni, che non dirà bugie perché è sordomuta, e che è stata molto, molto malmenata perché forse ha fatto quella resistenza che qui si nega. Io mi chiedo, quale sarebbe stata la reazione? Sono quattro uomini. Certo, uno può dare un morsico, può rischiare la vita, e l’avrebbe rischiata. Ed ognuna delle donne ricorda quello che è successo a chi ha cercato di ribellarsi, a chi cerca di ribellarsi alla violenza. Ed ecco che violenza vi è anche se non vi sono reazioni di questo tipo, perché non ci si può aspettare che tutte siano delle Sante Goretti».

[8] A proposito di inversione di ruoli, rispondendo alla lettera di un lettore sulla sua rubrica Sette e mezzo, del settimanale 7 del Corriere della Sera, rispetto al caso Weinstein, Lilli Gruber osserva: «continuiamo a spostare l’attenzione. Vorrei ricordare a tutti di cosa stiamo parlando: un uomo molto potente ha imposto le sue voglie e le sue fantasie sessuali a donne che non intendevano compiacerlo. Le giovani che hanno finito per soccombere possono averlo fatto per mille motivi: per paura, per un tornaconto personale, per soldi, magari erano ubriache e troppo stanche per resistere. Volevano una parte in un film di Hollywood e la mamma ha spiegato loro che il mondo gira così: apri le gambe e pensa ad altro. Ma ripeto: non è questo il punto. Il punto è che un uomo ha violato la privacy del corpo di una donna senza che lei fosse consenziente, precondizione minima per un incontro tra due esseri umani. E quando manca l’assenso si parla di aggressione sessuale, punita per legge in tutti i Paesi civili. Non vorrei che la libertà di abuso e prevaricazione diventasse la “nuova normalità” in un mondo dominato da maschi squilibrati alla Weinstein». La Gruber afferma anche che: «Spesso gli uomini non capiscono neanche cosa significhi una molestia: le battute pesanti, gli ammiccamenti ambigui, i palpeggiamenti, gli sguardi osceni sono gesti violenti, a meno che non facciano parte di un gioco condiviso di seduzione». Il suo ragionamento si fa ancora più esplicito quando asserisce che vi è una «cultura maschilista e prevaricatrice che tollera e giustifica questi atti sessisti e umilianti. Se la legge punisse severamente chi è colpevole o complice, le donne sarebbero certamente più motivate a denunciare». Su tali aspetti si è espresso anche Frans Timmermann, primo vicepresidente della Commissione europea. Dopo aver riconosciuto la sofferenza e la solitudine della vittima e la sua difficoltà di denunciare – ha anche dichiarato di essere stato molestato da ragazzo – , l’ex ministro degli Esteri dei Paesi Bassi ha affermato: «Non ci si può affidare soltanto a una la legge per cambiare modelli culturali, ma è possibile aumentare la consapevolezza su quanto questi modelli culturali producano diseguaglianze che poi danneggiano la nostra società».

[9] Il parroco nel suo post aggiunge: «Tesoro mi dispiace. Ma 1) frequenti piazza Verdi (che è diventato il buco del cu*o di Bologna, e a tal proposito Merola sempre sia lodato!) 2) Ti ubriachi da far schifo! Ma perché? 3) E, dopo la cavolata di ubriacarti, con chi ti allontani? Con un magrebino?!? Notoriamente (soprattutto quelli in Piazza Verdi) veri gentlemen, tutti liberi professionisti, insegnanti, gente di cultura, perbene. Adesso capisci che oltre agli alcolici ti eri già bevuta tutta la tiritera ideologica sull’accogliamoli tutti». Il post di Guidotti si conclude così: «Svegliarti seminuda direi che è il minimo che potesse accaderti».

[10] Su Il Populista si legge che l’assessore leghista alla Sicurezza Max Rogora avrebbe affermato: «È la goccia che fa traboccare il vaso. Non è possibile riempire la nostra città di ‘robe’ così, che nemmeno definisco persone, senza che le forze dell’ordine abbiano i mezzi per intervenire. – spiega al quotidiano varesino – Questa gente deve andarsene fuori dai coglioni: si facciano un esame di coscienza i signori politici che hanno in mano i bottoni e che, come Renzi a Busto ma vale per tanti altri, girano con le scorte».

[11] Come fa notare Karima Moual su La Stampa, nello stesso giorno si discettava su una fake news relativa ad un’immaginaria bimba musulmana che sarebbe stata sposata ad un adulto della stessa religione? Una bufala creata per potere ancora una volta criminalizzare gli stranieri. E immediatamente usata per inveire contro l’immigrazione (Salvini, ad esempio, ha commentato: «cosa mostruosa, non c’è spazio in Italia per questo multiculturalismo»). Il  24 novembre esce un’altra notizia ancora più raccapricciante: un’undicenne nigeriana, che i genitori, entrambi lavoratori, spesso, affidavano ad un connazionale vicino di casa, sarebbe stata ripetutamente abusata e messa in cinta da costui. Si spera che, prima di spargere commenti razzisti, chi è sul punto di farlo conti fino a dieci, pensi per un momento, almeno, a questa bambina e poi si astenga.

giorno maledetto

Giorno maledetto

Un lungo giorno maledetto

Tra il 1 gennaio 2015 e il 31 maggio 2017 vi è stato un lungo giorno maledetto.

Il Quarto Libro bianco sul razzismo, Cronache di ordinario razzismo, a cura di Lunaria, documenta che contro gli immigrati sono state commesse: 1197 violenze verbali, 84 fisiche, 44 danni contro proprietà o cose, 158 episodi di discriminazione. Tra queste 1.483 offese, vi sono stati anche undici omicidi: due nel 2015, quattro nel 2016 e cinque nel 2017.

Ecco quel che è successo ad alcune vittime di violenze fisiche:

  • Muhammad Shazad Kan, 28enne pakistano, padre di un bimbo di 4 mesi che non vedrà mai, è stato pestato a morte, a freddo nel quartiere romano di Tor Pignattara, il 28 settembre del 2014. Ad ucciderlo è stato un ragazzo di 17 anni, il cui padre, Massimiliano Balducci, è stato condannato dalla Corte d’appello per istigazione all’omicidio a 10 anni di carcere.
  • a Roberto Pantic, rom 43enne, è stato ucciso con un colpo di pistola alla nuca, nella sua roulotte mentre dormiva, con la moglie e i dieci figli. L’omicida ha dichiarato di aver sparato per spaventarli e farli sgomberare «perché sporcano».
  • Sare Mamadou è stato ammazzato per aver preso un melone marcio da un campo. Lo hanno freddato, dopo avere discusso con lui e aver gettato via il melone, i proprietari del terreno. Lo hanno inseguito in auto e a piedi e poi hanno sparato con un fucile. Un suo compagno, Adam Kadago, preso al petto da un’altra fucilata, si è salvato.
  • Emmanuel Chidi Namdi, richiedente asilo nigeriano, è stato ucciso a Fermo per strada per avere preso le difese della sua compagna dagli insulti di alcuni razzisti. Profughi entrambi, la loro bambina e i loro genitori erano stati uccisi in un attentato di Boko Haram in una chiesa, erano fuggiti in Europa per trovare quell’umanità che i loro persecutori in Nigeria negavano. Ma hanno trovato la disumanità letale di un razzista.
  • Yusupha Susso, studente gambiano, si è preso un proiettile alla nuca. Yusupha si era difeso da un’aggressione razzista contro di lui e alcuni suoi amici. Ma uno degli aggressori era tornato alla carica con una pistola. Yusupha è sopravvissuto solo perché il colpo non ha leso il cervello.
  • Mohammed Habbassi, 34 anni, tunisino, disoccupato, nella notte tra il 9 e il 10 maggio, è stato mutilato e torturato a morte in provincia di Parma, da un vero e proprio squadrone della morte, nell’appartamento di cui non riusciva a pagare la pigione. Questa era la sua “colpa”. Una colpa non diversa da quella degli italiani sfrattati dalle case delle agenzie di edilizia popolare per morosità: quelli che membri e militanti di alcune organizzazioni politiche decidono di tutelare anche con la violenza.

 

Giorno maledetto. Il film

Nel 1955 uscì nelle sale cinematografiche Giorno maledetto (Bad Day at Black Rock), di John Sturges. Un film di suspense, ma anche di impegno civile, come si diceva un tempo, e segnatamente di denuncia non soltanto del razzismo, magari di pochi, ma soprattutto dell’omertà e dell’indifferenza della maggioranza[1].

La trama di Giorno maledetto era piuttosto semplice. Un uomo senza il braccio sinistro, John J. Macreedy (per questo ruolo Spencer Tracy ottenne all’8° Festival di Cannes il premio per la migliore interpretazione), scende dal treno in una cittadina desertica del Sud Ovest degli Stati Uniti. Accolto con diffidenza ostile, cerca informazioni su Komoko, un nippo-americano, che dovrebbe vivere da quelle parti, in un posto chiamato la Steppaia.

Nell’arco di 24 ore Macreedy arriverà a scoprire che Komoko non è stato internato, a seguito del bombardamento di Pearl Harbour e dell’entrata in guerra degli USA, come gli era stato detto inizialmente da alcuni abitanti di Black Rock.

È stato ucciso, orribilmente bruciato vivo, nella sua casa isolata, da alcuni cittadini di Black Rock, guidati e incitati dall’uomo più influente della cittadina, Reno Smith (interpretato da Robert Ryan). Un razzista violento e manipolatore, che, scartato alla visita di leva, reagì alla frustrazione immolando l’anziano giapponese.

Giorno maledetto e A Ciambra: qualcosa è cambiato ne L’ordine delle cose

Giorno maledetto si inseriva in una serie di altre pellicole hollywoodiane, iniziata già negli anni ’30, intese a denunciare il razzismo e le sue brutalità soprattutto verso afroamericani, latinoamericani ed ebrei[2].

Come altre opere antirazziste dell’epoca, Giorno maledetto toccava delle corde sensibili, ed essendo un prodotto di qualità, adeguatamente promosso e distribuito, incassò molto bene[3].

Non si può dire, invece, che oggi riescano sempre a sfondare al botteghino le opere che trattano temi simili a quelle del film di John Sturges.

L’ultima fatica di Andrea Segre, L’ordine delle cose, ad esempio, dal punto di vista degli incassi e dell’attenzione mediatica è ben lontana dal successo conseguito da Giorno maledetto a suo tempo in Italia. E sarebbe riduttivo pensare che sia solo una questione di distribuzione o di mero richiamo commerciale.

Qualcosa è cambiato.  L’unanimità di consensi che accoglieva allora tali opere, oggi non c’è più.

Guardiamo, ad esempio, alla reazione di Matteo Salvini rispetto al film italiano, A Ciambra. Diretto da Jonas Carpignano e prodotto da Martin Scorsese, la designazione di tale film, per concorrere all’Oscar come miglior film non di lingua inglese, è stata duramente contestata dal segretario della Lega[4]. Il suo disappunto era relativo alle persone e alle situazioni che il film racconta e non allo stile di regia.

Del resto, in quei decenni, in Italia, non vi erano soggetti ed enti politici che stimolavano il razzismo verso gli immigrati (del Sud), rinfacciandogli illegalità, insicurezza, ecc.

 

Giorno maledetto:  «La patria si difende a calci e pugni»

Già, all’epoca, in Italia, sostanzialmente nessuno spettatore si schierava dalla parte di Reno Smith, anzi, il suo personaggio suscitava inquietudine e sgomento[5]. Oggi, invece, i Reno Smith ci sono anche in Italia. E anch’essi, dicendosi patriottici, uccidono coloro sui quali hanno proiettato la loro paranoia, la loro frustrazione, la loro impotenza[6].

In altri post ho definito nazionalrazzisti quei soggetti e quei movimenti politici che identificano la nazione con la razza e stimolano, esprimono e agiscono l’odio verso gli immigrati, in nome della difesa della razza italiana[7].

Sulla sua pagina Facebook, Giuliano Castellino – leader di un movimento denominato “Roma ai romani”, che, con CasaPound e Forza Nuova, svolge una “resistenza etnica” per impedire che siano attribuite abitazioni popolari a persone di origine straniera, – ha scritto il 15 giugno che

«La patria si difende a calci e pugni».

Dalle parole ai fatti e viceversa, in effetti.

Non essendo note le motivazioni, è difficile ipotizzare che tipo di giustificazione davano alla loro coscienza e al mondo esterno quei giovani di Rosarno che, nei pressi della tendopoli di San Ferdinando, hanno commesso decine di gravi episodi di violenza razzista contro i braccianti stranieri, colpendoli con con bastoni di legno, spranghe, catene e coltelli

Hanno fatto ricorso a calci e pugni anche i due 17enni di Acqui Terme, che hanno picchiato un richiedente asilo somalo, l’8 di agosto, e i cinque razzisti, tra i 17 e i 19 anni, che a Roma hanno prima insultato e poi picchiato, il 29 ottobre di quest’anno, un bengalese e un egiziano.

 

Black Rock Italia

Non solo nel West degli anni ’50, ma anche nell’Italia di oggi, il fatto di non essere bianchi può fare diventare vittime di vili, meschine, squallide, forme di violenza.

Come quella ai danni di un minorenne egiziano, in provincia di Napoli, oggetto di più aggressioni fino al tentato omicidio, da parte di un 44enne pregiudicato, oppure come quella accaduta a San Cono (CT), contro quattro minori, anch’essi egiziani, assaliti da 5 italiani, armati di mazze da baseball, che ne ridussero uno in pericolo di vita per trauma cranico. Oppure come la violenza contro il 42enne senegalese, addetto alla sicurezza di una sala di slot machine, preso a calci, pugni e colpi di sgabello da cinque aggressori. Oppure, ancora, come l’aggressione ai danni di un richiedente asilo nigeriano, Emmanuel Nnamani, assalito, davanti ad un supermarket, da un uomo che prima lo offese con insulti razzisti, poi lo accoltellò all’addome, infine cercò di investirlo con l’auto mentre Emmanuel tentava di sfuggire alla sua furia.

Per tacere delle violenze pesantissime di cui sono accusati (189 capi d’imputazione) 37 carabinieri delle caserme della Lunigiana. Le vittime di questi abusi sono tutti extracomunitari. Dagli schiaffi, alle scariche elettriche, dalle manganellate alle minacce e alle multe senza motivo, dalla testa sbattuta contro un citofono alle sevizie sessuali su di un arrestato: tutti questi atti parrebbero essere stati dettati esclusivamente o prevalentemente dal razzismo di chi li ha compiuti.

In realtà, a volere fare un’altra associazione cinematografica, quest’ultima serie di violenze richiama, più che Giorno maledetto, il film L.A. Confidential (1997, di Curtis Hanson) e l’omonimo romanzo di James Ellroy da cui è tratto. Con una differenza, però: in L.A. Confindential l’agente Bud White, il più violento dei picchiatori, non sopportava l’idea della violenza sulle donne, mentre i carabinieri di cui sopra sono accusati di essersela presa anche con donne immigrate.

 

Pestaggi, insulti e minacce anche verso le donne

Neanche le donne, infatti, sfuggono alla furia dei razzisti, che, nella loro violenza, sembrano applicare una sorte di perversa parità di genere.

Ad esempio, non è sfuggita alla violenza razzista Florentina Grigore, 44 anni, di origine romena ma da quindici anni in Italia e residente ad Andora (SV), che nel maggio di quest’anno, alle 5 e mezzo del mattino, assopita sull’autobus che la portava al lavoro (una struttura di assistenza per anziani), è stata improvvisamente presa a calci, schiaffi e pugni da un settantenne italiano.

Perché costui, che minacciava di pisciarle addosso se non scendeva dall’autobus, ce l’aveva tanto con Florentina Grigore? Perché non aveva obliterato il biglietto. E ciò aveva scatenato l’italiano, secondo il quale lei era come tutti stranieri: viaggiano sempre gratis.

Florentina, in effetti, non aveva timbrato il biglietto. Aveva l’abbonamento.

Era in regola, sempre sull’autobus, anche Giulia, la quindicenne, promessa del basket, di nazionalità italiana (nata in Italia, figlia di un’italiana e un senegalese), che, a Torino, è stata presa a calci e insultata da un italiano sulla sessantina. Costui, dopo averle sferrato un calcio ad un ginocchio, cui lei non ha reagito, nel tentativo di ignorarlo, ha continuato ad insultarla: “suggerendole” di tornarsene a casa sua e di smettere di andare a scuola, perché tanto finirà a lavorare sul marciapiede.

Era in regola, oltre che incinta al sesto mese, anche la donna di origini africane che, il 16 agosto, accortasi di un tentativo di borseggio su un autobus, a Rimini, da parte di una 19enne di Ancona e di un 22enne di Caserta, dai due è stata aggredita e insultata. «Negri di me**a. Tornate al vostro paese», ha urlato il ragazzo. E, con un «Ti faccio abortire, negra di me**», ha rincarato la dose la ragazza.

 

Un lungo giorno maledetto per i Macreedy di oggi.

Un’altra donna aggredita per ragioni razziste è un’italiana di 59 anni. A settembre, in provincia di Parma, è stata minacciata e insultata da 50 persone. L’hanno bloccata nella sua auto per un’ora e mezzo.

La sua “colpa”? Aver affittato la casa a una cooperativa che ospiterà 20 profughi.

La sua colpa, quindi, è la solidarietà. Perché, se avesse affittato la villetta a dei turisti, verosimilmente nessuno l’avrebbe assalita.

Nel film Giorno maledetto, si spiega che per quattro anni i cittadini benpensanti di Black Rock, pur sapendo, non avevano fatto nulla, oppure avevano finto, anche con se stessi, di credere alla balla che Komoko fosse stato internato in quanto sospettato di essere una spia giapponese.

Poi, un giorno arriva un forestiero che non se la beve, che non gira la testa da un’altra parte. Che ha paura, ma vuole vederci chiaro[8].

Il regista di Giorno maledetto, John Sturges sfruttò il formato del Cinemascope, il colore, le scenografie e i costumi in termini drammatici, per rendere visivamente l’isolamento del protagonista, Macreedy, rispetto agli abitanti del posto[9].

Proviamo, allora, a dare un’occhiata anche a cosa succede a chi oggi, qui, tenta di opporsi alla violenza (nazional)razzista.

Prendiamo il caso di Paolo E., picchiato e preso a cinghiate a Vignanello in provincia di Viterbo da una quindicina di militanti di CasaPound, incluso il loro leader locale, Jacopo Polidori.

Perché Paolo è stato aggredito?

 

«Chi scappa dalla guerra abbandonando famiglia, moglie e figli non merita rispetto», recita un manifesto di CasaPound

Perché il 12 febbraio di quest’anno, Paolo osò condividere sui social un post che ironizzava sui manifesti di CasaPound. In questi era scritto:

«Chi scappa dalla guerra abbandonando famiglia, moglie e figli non merita rispetto».

Paolo E. ha usato l’ironia per ridicolizzare lo slogan[10]. Uno slogan il cui fine intrinseco è tentare di stroncare sul nascere quel minimo, civile, senso di comprensione e di solidarietà verso chi patisce le pene dell’inferno.

Dal punto di vista vittimologico, il manifesto, in effetti, offende chi espatria proprio per proteggere la vita dei suoi cari, oltre che la propria (e lo sanno bene coloro che ascoltano i rifugiati e i richiedenti asilo, tra i quali figurano anche gli psicoterapeuti dell’Associazione, sul cui sito si trova questo blog).

Si tratta, dunque, di un’offesa, sovrapponibile alle esternazioni dei seguaci del sedicente Stato Islamico o di altre sanguinarie organizzazioni. Infatti, è una denigrazione che risulterebbe gradita anche a quei terroristi, dato che disconosce l’umanità delle loro vittime e che contiene un’ implicita, indiretta, legittimazione delle loro atrocità.

Paolo E. ha reagito con l’ironia di fronte a questa ri-vittimizzazione di milioni di persone, ai quali il manifesto da lui parodiato cerca di negare non solo lo status di vittime, ma anche il rispetto per i loro sentimenti e i loro vissuti (e sono vissuti pesantissimi, poiché certi orrori non si possono mai archiviare, neppure quando si è lontani nel tempo o nello spazio dalle decapitazioni, dagli stupri, dalle mutilazioni, dai roghi umani, dagli spari e dalle esplosioni).

Concepito con l’intento di farle apparire prive di sentimenti umani, quali l’amore verso i loro cari, così da legittimare ogni offesa (a questo proposito mi permetto di rinviare a quelle strategie di legittimazione della violenza razzista trattate in un altro post) e ogni emarginazione nei loro confronti, quel manifesto affisso nelle città ricorda molto da vicino le denigrazioni antisemitiche indirizzate ai sopravvissuti dell’Olocausto nazista.

 

Colpevolizzazione della vittima e altre forme di disimpegno morale

Col senno del poi, allora, stupisce poco che quella quindicina di militanti di CasaPound abbiano messo in atto contro Paolo E. un’intimidazione brutale, tipica sia delle prassi brutalmente liberticide praticate dai fondamentalisti, che dello squadrismo fascista e nazista, a loro volte affini a metodi gangsteristici tutt’ora in voga[11]. Si pensi, a titolo esemplificativo, alle intimidazioni cui fu sottoposta la giornalista di Repubblica, Federica Angeli, costretta a vivere sotto scorta per le sue inchieste sulle attività criminali del clan Spada ad Ostia [12].

Tenuto conto di ciò, dunque, stupisce poco anche la moderazione con cui nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, il 9 novembre, Luca Marsella, leader di CasaPound Litorale, ha preso le distanze dalla violenza di Roberto Spada (fratello del boss Carmine, detto Romoletto), dopo che costui con una testata e con un manganello aveva aggredito il giornalista della Rai Daniele Piervincenzi, rompendogli il setto nasale.

Leggendo quell’intervista, è difficile non pensare, per associazione mentale, a quelli che Albert Bandura (1986), in una prospettiva interazionista, definì meccanismi di disimpegno morale, vale a dire di auto-assoluzione.

Tra questi vi è l’etichettamento eufemestico: che consiste nel ridimensionare la dolorosità delle conseguenze della condotta dannosa, distorcendo, cioè mascherando, il vero significato dell’azione. Definire, come fa Luca Marsella, «non un bel gesto» l’aggressione impressionante di Roberto Spada ai danni di Piervincenzi, sembra davvero un caso di etichettamento eufemistico, per quanto si tratti di un reato non commesso da chi lo ha così commentato.

Un altro meccanismo di disimpegno morale consiste nell’affermare che in qualche misura la vittima se l’è cercata (Bandura parla dell’attribuzione della colpa alla vittima).

Questa, su Facebook, è stata la posizione assunta da Spada, nonché, a meno di fraintendimenti, pare anche essere quella di Marsella, che asserisce di non condividere quell’aggressione, ma afferma che «questa è una situazione che qualcuno stava cercando, ed è arrivata». Che è come dire: “chi cerca trova”. Quindi Piervincenzi non sarebbe vittima di una violenza, perché se l’è cercata.

D’altra parte, quelli di Roberto Spada, sono atteggiamenti non così dissimili da quelli adottati, nel corso dell’aggressione ai danni di Paolo, da coloro che gli hanno rotto il naso e un dente e gli hanno lasciato escoriazioni da cinghiate sulla schiena (queste ultime inflitte da Jacopo Polidori): non prendere mai più in giro CasaPound, gli hanno detto malmenandolo.

Nel suo post su Facebook, sopra citato, Giuliano Castellino aveva scritto: «La patria si difende a calci e pugni». In tal caso la patria era CasaPound.

Si può reagire alle intimidazioni nazionalrazziste contro chi accoglie e contro chi non discrimina

Gli episodi di intimidazioni nazionalrazziste ai danni di chi si rifiuta di dismettere la propria umanità, non riguardano solo Paolo E. e la signora che intendeva affittare la villetta per ospitare dei profughi. Anche in tal caso vi è un elenco tutt’altro che breve.

Per non fare che due esempi si pensi agli ordigni esplosi o piazzati senza miccia presso le chiese della zona di Fermo, per scoraggiarle dall’aiutare migranti e altri in condizioni di disagio. Oppure ai tentativi di intimidire ,  da parte di Generazione Identitaria, Andrea Palladino per le inchieste da lui realizzate su tale organizzazione di estrema destra impegnata in una campagna antimigranti.

Ma oltre a coloro che tentano di aiutare chi ha bisogno, quando si tratta di stranieri, o a coloro che indagano su chi vuole difendere la patria a calci, pugni e minacce, può capitare di subire violenze anche ad altri. Magari solo perché provano un sentimento di amore: infatti, è una forma di violenza anche la discriminazione di cui fu oggetto quest’estate Chiara, rea di amare un ragazzo di origine nigeriana.

Si potrebbero ridurrebbe significativamente sia l’elenco delle intimidazioni, che quello delle violenze razziste, che probabilmente saranno ricapitolate nel prossimo Libro bianco sul razzismo, se, come gli abitanti di Black Rock, noi tutti, qui, ora, comprendessimo che questa violenza, spacciata talora per (grottesco) patriottismo, uccide anche la nostra anima, e se, come lo sceriffo, il medico e l’albergatore di Giorno maledetto, decidessimo di recuperare la nostra dignità.

Se ci teniamo alla nostra libertà, al rispetto per noi stessi, allora, mi sa proprio che ci tocca reagire collettivamente alle prepotenze dei nostri Reno Smith. Anche soltanto disapprovarle apertamente sarebbe molto.

In fondo, a noi italiani l’hanno insegnato la cronaca e la storia della lotta alle mafie.

L’unico modo della società civile per proteggere coloro che si espongono, quelli che si assumono la responsabilità e il rischio di restare umani, è non lasciarli moralmente e materialmente soli. In realtà, è l’unico modo che abbiamo per conservare il rispetto di noi stessi.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Il film citato nel titolo di questo post non è l’unico dai risvolti antirazzisti della cinematografia del regista, John Sturges. Pur dedito a produzioni mainstream di schietto stampo hollywoodiano, qua e là questo regista ha inserito esplicite condanne a varie forme di pregiudizio e di violento razzismo. In ambito western, per dire, si può pensare a Il giorno della vendetta, che inizia con uno stupro ai danni di una ragazza indiana, e alle prime sequenze di I magnifici sette. Del resto, il western in quel periodo fu spesso usato per commentare criticamente la società contemporanea, anche con opere dichiaratamente antirazziste e altre filo-indiane: tra quelle incentrate sul tema del pregiudizio verso gli afroamericani figurano, ad esempio, all’inizio dei ’60, I dannati e gli eroi, del maestro John Ford, e, all’inizio dei ’70, Libero di crepare e Non predicare, spara. Né va sottovalutato che già nel lontano 1936 il genere western aveva offerto al regista William A. Wellman, con Robin Hood dell’Eldorado, l’occasione per una severa e cruda requisitoria sul razzismo, in tal caso verso i messicani, rappresentato dal film come un corollario della politica imperialista USA.

[2] Nell’ambito del cinema sonoro si possono annoverare Black Legion (1937) e Vendetta (1937) tra le prime, durissime, opere di denuncia. Nel primo, diretto da Archie Mayo, Humphrey Bogart (non ancora una star) interpreta un operaio che, surclassato sul luogo di lavoro da un collega di origine straniera, entra a far parte della Legione Nera, organizzazione terroristica di ultra destra, xenofoba e razzista, e giungerà a commettere violenze varie, omicidi compresi. Il secondo è diretto da Mervin LeRoy, già autore di altri film attenti alle tematiche sociali (in particolare, Io sono un evaso e Piccolo Cesare – capostipite gangster movie e cronologicamente primo dei tre capolavori del genere: gli altri due film, di poco successivi, sono Scarface, di Howard Hawks, e l’ancor più efficace Nemico pubblico di William A. Wellaman). Vendetta è forse ancora più disperato e angosciante di Black Legion. Racconta di un giovane afroamericano che, benché processato e prosciolto dall’accusa di aver ucciso una donna bianca, viene linciato dalla folla. Entrambi i film, prodotti e distribuiti dalla Warner Bros., sono esemplificativi dell’attenzione ai temi sociali seguita da questa Major in pieno New Deal. Dopo la parentesi della guerra (periodo nel quale, tuttavia, si colloca una potente denuncia del linciaggio in danni di tre uomini innocenti, ritenuti colpevoli, in fondo, solo perché forestieri: Alba fatale del già citato William A. Wellman), il ciclo sulla violenza razzista si apre con delle pellicole, alcune a basso costo, di rilevante successo commerciale e di critica, anche a livello internazionale, quali Odio implacabile, Linciaggio, Nella polvere del profondo Sud, Uomo bianco tu vivrai, La setta dei tre K, Il sole splende alto, L’imputato deve morire e prosegue negli anni sessanta, con Il buio oltre la siepe, La scuola dell’odio, L’odio esplode a Dallas, La caccia, e propone all’inizio degli anni ’70 Il silenzio si paga con la vita, l’ultima fatica di una leggenda della Hollywood del periodo classico, Wiliam Wyler, Joe – La guerra del cittadino Joe e L’uomo del Klan. Non sono citati nell’elenco precedente alcuni film antirazzisti usciti negli stessi decenni, assai noti, pluripremiati e apprezzati dal pubblico mondiale – quali: Barriera invisibile, Pinky, la negra bianca, La parete di fango, La calda notte dell’ispettore Tibbs e Indovina chi viene a cena? -, perché, a differenza dei titoli sopra riportati, non propongono vicende in cui l’odio razziale assume le forme della violenza fisica letale, individuale o di gruppo.

[3] Al pari di altre pellicole tra quelle citate nella nota precedente, anche Giorno maledetto riscosse un buon successo commerciale a livello internazionale. Non solo negli USA, dunque, ma anche in altri Paesi, Italia inclusa. Grazie anche al premio attribuito a Spencer Tracy, che costituiva ormai una garanzia pressoché costante circa le qualità dei film in cui appariva. Accanto a Tracy, del resto, Sturges aveva diretto un cast di qualità impressionante: Reno Smith era interpretato da Robert Ryan, che sapeva sempre rendere i suoi villain ricchi di sfumature e credibilità. Gli altri attori, superlativi, erano: Walter Brennan, che aveva già ottenuto 4 volte il premio Oscar come miglior attore non protagonista; Lee Marvin, non ancora divo ma già bravissimo; Ernest Borgnine (di origine piemontese), che quell’anno avrebbe meritato l’Oscar come protagonista, nella parte di un italoamericano, in un film a modestissimo budget ma di enorme successo, prodotto dalla società di Burt Lancaster, Marty, vita di un timido (1955, di Delbert Mann), che fu vincitore dell’Oscar come miglior film e della Palma d’oro proprio a quell’8° Festival di Cannes in cui fu premiato Spencer Tracy per Giorno maledetto; Dean Jagger, anch’esso già vincitore dell’Oscar come miglior attore non protagonista; i più giovani ma molto efficaci Anne Francis e John Ericson. A garantire il buon successo dell’opera, inoltre, vi erano alcune scelte produttive, come il fatto di essere girato a colori e con il formato panoramico del Cinemascope. Inoltre anche l’ambientazione western, nel caso di Giorno maledetto, a quei tempi era un fattore capace di spingere il pubblico ad entrare in sala.

[4] L’opera, con un approccio tutt’altro che banale, mette in discussione stereotipi e pregiudizi, in particolare verso i rom.

[5] Roberto Ryan era conosciuto dalle platee per i suoi personaggi ambigui, spesso violenti. Anche per questo, oltre che per la sua bravura, fu una scelta di casting azzeccatissima. Robert Ryan, infatti, 8 anni prima che uscisse Giorno maledetto, aveva già interpretato un antisemita assassino nel noir Odio implacabile (1947, di Edward Dmytryk), vincitore del Grand Prix come miglior film sociale al 2º Festival di Cannes. Il personaggio di Reno Smith richiamava fortemente quello interpretato da Ryan in Odio implacabile. I ragionamenti stereotipici, il senso di superiorità, la paranoia dei due personaggi vengono verbalizzate nei loro dialoghi con gli altri interlocutori con argomenti assai simili. Peraltro, è interessante notare che nel romanzo, da cui è tratta la sceneggiatura (scritto dal futuro sceneggiatore e regista Richard Brooks), la vittima dell’intolleranza omicida di Odio implacabile non era un ebreo ma un omosessuale. Robert Ryan tornerà ad interpretare un razzista, il cui odio ha effetti disastrosi, in un altro celebre noir, il cult Strategia di una rapina.

[6] In Giorno maledetto e nelle altre opere hollywoodiane citate nelle note i razzisti inventavano o strumentalizzavano accuse di terribili misfatti rivolte a membri di una minoranza (messicani, afroamericani ed ebrei, soprattutto), onde sfruttare il pregiudizio diffuso nella popolazione e perseguire inconfessati fini politici o di altra natura, personale o economica. La trama di Giorno maledetto, in effetti, è richiamata da quella di un western di serie B, solo per il carattere contenuto del budget, non certo per la resa. Si tratta di Il ritorno di Joe Dakota del 1957. In tal caso l’omicidio dello straniero si collega ad un interesse economico inconfessabile. Restando in ambito hollywoodiano, ma venendo a film più recenti, la bandiera a stelle e strisce veniva sbandierata dai neonazisti di American History X e, ancor prima, dai baroni del bestiame intenti a massacrare gli immigrati europei nel kolossal western di Micheal Cimino, I cancelli del cielo. In quest’ultimo un gruppo di ricchi allevatori, intenzionati ad impedire agli immigrati dell’Europa centro-orientale di stabilirsi legittimamente nelle terre del Wyoming, in nome della difesa dell’ordine e della legalità, decide l’eliminazione di 125 persone, reclutando a tal fine un piccolo esercito di sicari prezzolati. Ispirato ad un fatto realmente accaduto, il film di Cimino vede sostanzialmente solo lo sceriffo James Averill (interpretato da Kris Kristofferson) rifiutarsi di prendere per buone le motivazioni patriottiche e identitarie proposte dal presidente dell’associazione dei baroni del bestiame, Frank Canton (Sam Waterston). E sarà di fatto il solo a schierarsi in difesa degli immigrati europei. Del resto, al personaggio interpretato da Jeff Bridges, che, appresa la notizia della lista della morte, notava «Maledizione! Diventa pericoloso essere poveri, in questo Paese. Non ti pare?», Averill rispondeva: «Lo è sempre stato». Come dire ne I cancelli del cielo, così come in Giorno maledetto, c’era già tutto. Entrambi i film, pur diversissimi tra di loro, mostravano come il fatto di essere stranieri poteva costare la vita.

[7] I post, pubblicati sul blog Politica e conflitto, dedicati al tema del nazionalrazzismo sono: Autorizzazione della violenza(in)giustizia nazionalrazzista Obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzistaAntibuonismo nazionalrazzista(il)legalità nazionalrazzistaLa strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupriLa doppia morale nazionalrazzistaDove eravamoPropaganda nazionalrazzista e WelfareIl nazionalrazzismo come politica del conflitto (razziale)Nazionalrazzismo e socialrazzismo

[8] Alla fine del film, Macreedy riuscirà a smuovere dall’omertà, dall’inerzia e dall’indifferenza alcuni degli abitanti di Black Rock, che gli diranno ciò che sanno e lo aiuteranno a far arrestare Smith e i suoi complici. Si scoprirà anche che Macreedy, ex ufficiale e reduce di guerra (da qui la mutilazione), era giunto in quel paese sperduto del West per consegnare a Komoko, padre di uno dei suoi commilitoni, la medaglia alla memoria ottenuta dal figlio, caduto in Italia, combattendo contro i tedeschi.

[9] Macreedy, infatti, è filmato mentre si aggira per le strade di Black Rock con un abito da città, con un cappello nero, un completo scuro e la cravatta nera sulla camicia bianca. Gli abitanti, invece, vestono un po’ da cowboy e sopra i blue jeans portano camicie chiare

[10] Il post ironico era: «Chi mette il parmigiano sulla pasta col tonno non merita rispetto».

[11] Si veda quanto riportato su La Stampa del 6 novembre, relativamente alle intimidazioni di Roberto Manno, un piccolo boss in ascesa, che, a Pioltello, ha costretto una famiglia di ecuadoregni ad andarsene dopo un prestito ad usura facendogli esplodere la porta di casa.

[12] Su la Repubblica del 9 novembre nel commento Noi cronisti nelle strade dei boss, relativo alla notizia sull’aggressione al reporter della Rai Daniele Piervincenzi, da parte di Roberto Spada, di cui si parla più avanti nel testo, Federica Angeli ripercorre sinteticamente la vicenda. Risale al 2013 l’indagine di Repubblica sulla commistione tra clan e politica a Ostia. Scoperto che Armando Spada, cugino del capoclan degli Spada, aveva ottenuto la gestione del lido più bello, affidata ad una società di cui facevano parte il genero del capoclan e Ferdinando Colloca, all’epoca leader di CasaPound, Federica Angeli fu sequestrata in quel lido proprio da Armando Spada e da uno dei suoi per due ore. Registrò tutto con la telecamera. Tra le minacce registrate vi erano quelle che prendevano a  bersaglio i suoi figli. «Pensa ai tuoi figli… dimentica questa storia». Da quel momento, 23 maggio 2013, la giornalista vive sotto scorta. Due mesi dopo, dal balcone di casa fu la sola testimone di una sparatoria tra il clan Spada e quello Triassi (il boss Carmine aveva ordinò a tutti di rientrare in casa) e andò a denunciarli. Roberto Spada, colui che, l’8 novembre, ha preso a testate e manganellate il reporter Piervincenzi, allora, nel novembre 2014, su Facebook minacciò esplicitamente i figli di Federica Angeli («Ora il nostro oggetto sono loro, non tu»). Alcuni giorni dopo le fu versata della benzina sotto la porta di casa.

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Autorizzazione della violenza

L’autorizzazione della violenza razzista come aspetto intrinseco del nazionalrazzismo

È in corso da tempo una campagna tesa a generare un’ autorizzazione della violenza. In particolare, un’ autorizzazione alla violenza razzista.

In un precedente post si erano posti in rilievo alcuni tratti della violenza razzista. Quel che si vuol qui aggiungere è un altro aspetto: l’ autorizzazione della violenza razzista è un tratto caratterizzante, connaturato di ciò che in precedenza ho chiamato nazionalrazzismo[1].

In altri precedenti post su questo blog avevo definito nazionalrazzismo quell’insieme di movimenti, organizzazioni e soggetti politici che, a volte esplicitamente altre volte in maniera implicita, sostengono non solo che esistano le razze, ma stabiliscono anche una gerarchia tra di esse, in termini morali, etici, culturali, ecc. Dunque, tali organizzazioni politiche possono essere descritte come nazionalrazziste, perché, ponendo mente a quelle operanti in Italia, affermano che esiste la razza nazionale degli italiani, la descrivono come superiore e la contrappongono alle altre.

 

Attenzione alla vittima

Quando si parla di violenza, oltre a porre l’attenzione su chi la commette e su chi la istiga, la sollecita o la dispone, occorrerebbe porre anche non minore attenzione su chi la subisce.

Prendere in considerazione la vittima è essenziale sotto molteplici profili. Tra questi ve n’è uno che vale la pena qui porre in risalto: la relazione tra la rappresentazione della vittima nella mente dell’aggressore, la reazione della società e i vissuti della vittima stessa.

Questa relazione, infatti, è di particolare rilievo ai fini dell’autorizzazione della violenza. Anche di quella razzista.

Emilio C. Viano[2] ha affermato che lo “status di vittima” si realizza attraverso un preciso processo, di autopercezione e di eteropercezione, distinto in una serie di autonomi stadi:

1° la presenza di un danno: la vittima percepisce un danno, che può essere fonte di sofferenza fisica e /o morale, procurato dall’azione altrui

2° l’autopercezione come vittima: la vittima realizza che il fatto lesivo è ingiusto e si riconosce come vittima di tale condotta dannosa

3° la condivisione della vittimizzazione: la vittima, attraverso la denuncia, il resoconto, la confidenza, ecc., rende noto ad altri quanto le è accaduto

4°il riconoscimento: altri soggetti le riconoscono il carattere ingiusto del danno subito e le procurano una “convalida” dello status di vittima. In tale ambito si colloca l’ufficializzazione, cioè il sostegno da parte della comunità, il riconoscimento da parte di agenzie ufficiali e, laddove esiste, l’aiuto da parte di strutture di sostegno specializzate.

 

I risvolti dannosi del mancato riconoscimento della vittima come tale

Questi stadi sono costitutivi del processo di vittimizzazione. E sono particolarmente importanti per la persona colpita da un crimine e per coloro che ad essa sono affettivamente legati.

Infatti, senza il riconoscimento da parte della comunità della vittimizzazione avvenuta, alla persona colpita da un reato, è come se venisse comunicato che essa non è stata vittima di un atto ingiusto, ma di qualcosa di meritato, di dovuto, di inevitabile, di necessario, di sacrosanto.

Ciò può avere conseguenze nefaste, come dimostrano molte situazioni legate ad abusi e maltrattamenti.

Accade, infatti, che alcune vittime, in mancanza del riconoscimento e della convalida dello status di vittima, finiscano non solo con il sentirsi isolate, indifese e rimosse dalla considerazione della comunità, patendo nuovamente quel trattamento disumanizzante che già connotava il reato subito, ma arrivino anche a convincersi che quel che è loro accaduto in qualche misura è naturale o meritato.

L’ autorizzazione della violenza come legittimazione culturale

Se quanto sopra descritto dovesse apparire non solo ingiusto ma anche infrequente e improbabile, occorrerebbe ricredersi.

Alcuni reati, a causa della considerazione sociale dei soggetti contro cui sono commessi, non suscitano particolare sdegno o allarme. Correlativamente non vi è alcun significativo riconoscimento da parte della società della gravità dell’offesa e quindi della vittima come tale.

Per fare alcuni esempi: non vi è convalida dello status di vittima verso il ladro a sua volta derubato dei propri beni, come non vi è nei confronti del borseggiatore o del rapinatore uccisi per un eccesso di difesa da parte delle loro vittime; analogamente è assai poco considerata la violenza sessuale subita da chi esercita la prostituzione.

Negli esempi citati la reazione della collettività è di indifferenza o di condanna molto contenuta verso l’autore della violenza e, correlativamente, di scarsissime vicinanza, comprensione e solidarietà verso le vittime. Si pensa che quanto accaduto a costoro se lo siano meritato, come una sorta di rischio della carriera illegale seguita o del disprezzato “mestiere” svolto.

Ultimamente anche la violenza commessa contro esponenti politici non suscita unanime riprovazione e preoccupazione, anzi molti commenti sui social indicano una sorta di approvazione verso gli autori delle aggressioni (ne avevo fatto cenno in Le aggressioni a Roberto Speranza e ad Osvaldo Napoli: la radicalizzazione del conflitto dal vertice alla base e ritorno).

L’assenza di reazione negativa da parte dei consociati costituisce, però, in molti casi una sorta di garanzia di impunità morale, se non anche legale, per gli autori della violenza. Quanti sono, infatti, coloro che vengono condannati per violenza sessuale ai danni di prostitute? Quante di queste, sapendo cosa le attende, denunciano?

Quel che si profila rispetto agli immigrati è un vertiginoso incremento della legittimazione culturale alla violenza nei loro confronti. Un’ autorizzazione della violenza razzista, cioè ad aggredirli in vari modi, che si fonda su una peculiare legittimazione culturale. Di matrice politica.

Il fine politico dell’ autorizzazione della violenza razzista

La comunicazione nazionalrazzista è costantemente intenta nel trasmettere l’idea che il principale nemico degli italiani, afflitti dalla decennale crisi economica e da altri più o meno endemici mali, è costituito dagli immigrati stranieri.

Impedendo a migranti di arrivare e scacciando quelli già presenti, secondo la comunicazione nazionalrazzista, gli italiani di “pura razza”, oggi mal messi, dopo staranno meglio. Molto meglio.

Sostenendo queste posizioni, i nazionalrazzisti si propongono come gli unici veri e capaci difensori del popolo, cioè della razza nazionale, giacché, per essi, questa esaurisce la nozione di popolo.

È indispensabile pertanto al nazionalrazzismo assicurarsi che vi sia un nemico rispetto al quale essere considerato un baluardo. Avendo scelto a tale scopo gli immigrati stranieri, sono costoro quelli che vanno demonizzati.

Per il nazionalrazzismo è una necessità vitale, dunque, rappresentarli con caratteristiche minacciose e inquietanti.

Così facendo, però, il nazionalrazzismo, oltre a commettere un’azione violentissima, diretta contro qualche milione di persone, pone in essere anche un’altra forma di violenza, apparentemente indiretta: la diffusione di sentimenti funzionali a far pensare e sentire che vi sia un’ autorizzazione della violenza razzista.

Anche l’ autorizzazione della violenza razzista passa attraverso la legittimazione culturale di tale violenza.

La promozione della paura (xenofobia), della ripulsa e dell’odio (razzismo) verso gli immigrati, quindi, è in relazione circolare con l’opera di legittimazione culturale tesa all’ autorizzazione della violenza. Un’attività condotta dal nazionalrazzismo attraverso tutti gli strumenti con tutte le risorse di cui dispone. E sono ragguardevoli gli uni e le altre.

Nel caso del nazionalrazzismo la legittimazione culturale della violenza verbale, in primis, ma anche fisica, verso gli immigrati consiste nel diffondere la svalutazione di un gruppo di persone (che in verità l’unica cosa che hanno in comune è quella di non essere nate in Italia, data l’estrema varietà di condizioni, provenienze, motivi dell’espatrio, ecc.) fino a deumanizzarle.

Tale esito è perseguito attraverso una serie di operazioni.

  • Uno costante evocazione dello spettro dell’invasione: gli immigrati stranieri, in verità, sono poco più di 5 milioni su oltre 60 milioni di italiani, quindi non il 30% come gli italiani, in virtù di menzognere propagande, credono, ma l’8,3%. E quelli sbarcati sulle nostre coste sono stati al massimo 200.000, cioè un po’ meno degli italiani emigrati all’estero in cerca di lavoro.
  • L’insistente tentativo di fare percepire gli immigrati come elementi parassitari rispetto ai corpi sani e produttivi della nazione italiana, cioè gli italiani di pura razza: in realtà il costo dell’accoglienza è lievemente inferiore alla ricchezza generata in Italia dall’immigrazione (si veda il Dossier Statistico Immigrazione 2017 del Centro Studi e Ricerche IDOS).
  • La rappresentazione degli immigrati come criminali o come attuali o potenziali terroristi: la comunicazione nazionalrazzista cita solo dati parziali, tacendo sempre quelli che disconfermano tale messaggio xenofobo, dato che, in realtà, dati completi alla mano, il tasso di delittuosità degli stranieri regolari è più basso di quello degli italiani. Per una descrizione corretta qualitativa e quantitativa dei reati commessi dagli immigrati si possono consultare i dati di Eurostat o il già citato Dossier sull’immigrazione. Quest’ultimo è particolarmente efficace anche nel porre in evidenza le lacune informative su cui si basa la strumentalizzazione razzista della percentuale degli stranieri sulla popolazione carceraria: in sintesi, tra le altre cose, si ricorda che gli immigrati sono più facilmente arrestati e sottoposti a carcerazione preventiva rispetto agli italiani, ma che man mano che il processo procede vengono scarcerati per l’infondatezza delle accuse. Rispetto all’equiparazione immigrato-musulmano-terrorista, la bassezza è tale da lasciare senza parole, soprattutto di fronte alle dimensioni impressionanti degli attentati commessi ai danni di fedeli dell’Islam proprio dai fondamentalisti (si pensi ai recenti attacchi in Afghanistan – 72 morti solo in nei due attentati del 22 ottobre condotti presso due moschee  e altri 9 in quello del 31 ottobre – e in Somalia – 189 morti nel primo attacco e 23 nel secondo). Inoltre, tanto per restare a quanto scritto su questo blog si possono leggere, al riguardo: (il)legalità nazionalrazzistaLa strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupriLa doppia morale nazionalrazzista.
  • La descrizione degli immigrati stranieri come agenti volontari o involontari di una colonizzazione culturale e religiosa: mettendo da parte la difficoltà di contrapporre razionalità a paranoia, viene da chiedersi: occorre ancora ricordare, ad esempio, che il 53% degli stranieri immigrati è di fede cristiana e che i musulmani sono un milione in meno dei cristiani stranieri, essendo appena il 32,6% degli immigrati?

Così, colpevolizzandoli tutti, per gli illeciti commessi da alcuni, demonizzandoli per come sono, anzi per come sono descritti, si arriva a deumanizzarli fino al punto che per una parte rilevante della società ospitante non è considerato riprovevole, bensì inevitabile o perfino meritorio, offendere, umiliare, maltrattare tali persone.

 

Aspetti criminosi dell’ autorizzazione della violenza razzista

Il fine dell’ autorizzazione della violenza razzista, pertanto, consiste proprio nel privare gli immigrati della tutela dell’incolumità fisica e morale.

In particolare, il nazionalrazzismo cerca di indurre la società italiana a spogliarli non (almeno non direttamente) della tutela assicurata dalle forze dell’ordine, ma, in una prima fase, di un’altra importantissima difesa. Mi riferisco alla tutela sociale, culturale, morale, etica e psicologica, di tipo preventivo, consistente nella consapevolezza diffusa e profonda che denigrare, umiliare, calunniare, offendere, picchiare, bastonare, sfruttare, derubare o discriminare qualcuno è considerato inammissibile e riprovevole dal 99% e più dei cittadini.

Se rispetto ad un gruppo di esseri umani viene meno nella coscienza collettiva il principio dell’inviolabilità assoluta della loro persona, qualsiasi offesa verso di essi cessa di essere moralmente disapprovata, non venendo più considerata ingiusta, incivile, bestiale.

L’eliminazione di tale remora nei potenziali aggressori verbali e fisici degli immigrati, naturalmente aumenta significativamente la loro esposizione al pericolo di essere vittime di reato. Sia da parte di chi è animato da obiettivi politici o da odio razziale, sia da parte di chi persegue altre finalità illecite (economiche o di altra natura).

Per una panoramica, indignata e polemica, sulla possibile efficacia criminogenetica dell’ autorizzazione della violenza razzista si può leggere Fuoco e botte contro gli immigrati, il pogrom silenzioso che va avanti da mesi (e la politica dorme) di Francesco Cancellato. Ma, in realtà, andrebbe distribuito casa per casa e inserito nei libri di testo nelle scuole il Quarto Libro bianco sul razzismo, Cronache di ordinario razzismo a cura di Lunaria.

I vantaggi politici dell’ autorizzazione della violenza razzista

Naturalmente, oltre al fine suddetto, l’ autorizzazione della violenza razzista, verbale e fisica, permette al nazionalrazzismo di conseguire dei vantaggi di non poco conto nel perseguimento della sua strategia politica.

  • Più si estende e radica la percezione che contro gli immigrati stranieri tutto è lecito, trattandosi di mostri, più il nazionalrazzismo ha la possibilità di incrementare il tasso di volgarità e parzialità della sua comunicazione. E di farlo senza correre il rischio di suscitare una corposa e inibente reazione avversa da parte della cosiddetta società civile. In tal modo, l’incremento costante della rozzezza e della natura palesemente razzista dei suoi attacchi agli immigrati, gli assicura un consenso e un’approvazione crescenti.
  • Più gli immigrati sono considerati temibili e dannosi e più è considerato naturale, o perfino doveroso, denigrarli e aggredirli, meno avranno voce e attenzione coloro che non sono razzisti. In termini di competizione elettorale, il vantaggio politico di tale promozione della violenza contro gli immigrati non andrebbe minimamente sottovalutato, dal momento che essa permette di azzerare, o almeno ridurre alla percezione che siano solo un mugugno, un brontolio, i discorsi di coloro che contrastano la propaganda di odio nazionalrazzista. Costoro, infatti, si ritrovano ad essere rappresentati, dal nazionalrazzismo alla stregua di traditori, antipatriottici complici di pericolosissimi criminali.
  • Più l’immigrato in quanto tale è considerato dal pensiero dominante come socialmente pericoloso, più si riduce lo sdegno, per le violenze messe in atto direttamente dalla parte più estremista dei nazionalrazzisti verso gli immigrati e verso coloro che difendono i loro diritti fondamentali di esseri umani (per una rassegna si veda il servizio Nazitalia su L’Espresso del 30 luglio, e ancora Il vento fascista dalle periferie al Parlamento. Gli squadristi sono tornati in strada: gli episodi lì citati e altri ancora, in realtà meritano una trattazione più approfondita, anche per i risvolti inquietanti, un po’ squadristi e un po’ mafiosi, delle varie prepotenze, aggressioni, ricatti e intimidazioni).
  • Più cresce e si diffonde nella società l’autorizzazione alla violenza razzista, più il nazionalrazzismo ha la certezza di essere riuscito a trasformarne i valori fondamentali di quell’identità europea che sostiene di volere difendere (libertà, uguaglianza davanti alla legge, rispetto della dignità di ogni essere umano, pari opportunità, ecc.).

Alberto Quattrocolo

 

[1] I post dedicati al tema del nazionalrazzismo sono: (in)giustizia nazionalrazzista,  Obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzistaAntibuonismo nazionalrazzista(il)legalità nazionalrazzistaLa strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupriLa doppia morale nazionalrazzistaDove eravamoPropaganda nazionalrazzista e WelfareIl nazionalrazzismo come politica del conflitto (razziale)Nazionalrazzismo e socialrazzismo

[2] Criminologo e vittimologo di origine torinese, docente all’Università di Washington, a lungo consigliere statunitense in materia di analisi politica, di difesa e di sicurezza e consulente di istituzioni internazionali impegnate nella lotta al crimine e nella tutela delle vittime.