mediazione in pratica

La mediazione in pratica

Principali modelli di mediazione

Vi sono diversi modi di mettere la mediazione in pratica. Due autorevoli studiosi statunitensi hanno tentato di delineare una classificazione degli approcci maturati negli ultimi decenni[1]. Delle quattro impostazioni rinvenute da Bush e Folger, le più interessanti sono due.

La mediazione in pratica secondo un modello “problem solving” teso a soddisfare gli interessi delle parti

Il primo filone, quello che gli autori definiscono “The Satisfactory Story”, considera la mediazione in pratica come uno strumento per soddisfare nel modo più pieno possibile le esigenze e le richieste dei confliggenti. Si tratta di aiutare le parti a ridefinire il conflitto nei termini di “un problema comune e reciproco”, attraverso l’adozione di atteggiamenti collaborativi, che si rifanno alle tecniche del problem-solving e alla logica distributiva e rivendicativa della contrattazione. La prospettiva, pertanto, è quella di superare il “win-lose approach” per approdare ad una “win-win strategy”.

L’opinione di Elisabetta Nigris è che, pur ricco di molti meriti, soprattutto nell’aver determinato un’importante svolta culturale, quest’approccio nasconde una velata paura del conflitto.

Le tecniche adottate si risolvono spesso nella proposta di pacificazione forzata, che riducono l’aggressività e la violenza immediata, ma che non danno risultati del tutto soddisfacenti nel lungo periodo. Si limitano spesso, infatti, ad un tipo d’analisi e d’intervento che si concentra più sul sintomo – ossia sulle cause apparenti dei conflitti stessi – che sulle motivazioni recondite[2].

La mediazione in pratica secondo il modello trasformativo

Nel modello definito da Bush e Folger “The Transformation Story”, la mediazione in pratica non ha il fine di trovare necessariamente una soluzione al conflitto, ma quello di aiutare le parti ad elaborarlo positivamente. Il mediatore diventa, quindi, un ponte tra le parti, nel tentativo di ristabilire una comunicazione che faccia emergere quei blocchi emotivi e cognitivi che hanno impedito fino a quel momento la gestione costruttiva della vicenda. In quest’ottica la mediazione trasformativa, più di altri modelli, pone l’accento sugli aspetti relazionali e comunicativi del conflitto: “il richiamo alla riorganizzazione delle relazioni sottolinea la necessità di distanziarsi dal campo in cui si svolge il conflitto stesso, per smascherare le motivazioni apparenti che vengono addotte”.

Quest’impostazione pone in evidenza che una relazione conflittuale può essere gestita non soltanto ponendo attenzione ai fatti, agli interessi in gioco e agli obiettivi, concentrandosi sulle soluzioni che mirano alla cessazione delle ostilità e al ripristino dell’equilibrio turbato, ma anche e soprattutto soffermandosi sugli stati d’animo dei confliggenti.

Le mediazione in pratica nel modello Ascolto e Mediazione dei Conflitti

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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Va da sé, dunque, che lo strumento principale adottato, la risorsa centrale, è l’ascolto empatico. E ciò vale anche per la mediazione in pratica proposta da Me.Dia.Re., che non a caso definisce i propri Servizi di Ascolto e Mediazione dei conflitti.

L’ascolto, oltre ad offrire, riconoscimento, contenimento e sollievo da un senso di solitudine e di isolamento. Produce anche un altre effetto: permette al mediatore di accompagnare i confliggenti verso la consapevolezza che nell’incontro di mediazione non vale la logica per la quale se uno è nel giusto ciò avviene necessariamente a discapito dell’altro, il quale, allora, per definizione, sbaglia. Il che non implica che, per il mediatore, le parti debbano rinunciare ai propri punti di vista e ai propri valori, ma significa che, grazie al suo ascolto, sono liberati, in tale contesto, dalla classica preoccupazione secondo cui

dimostrare che ho ragione significherebbe ammettere che potrei avere torto” (Beaumarchais).

Dunque ai fini di un esito soddisfacente della mediazione in pratica occorra la preesistente esistenza di una volontà di reciproca apertura dei medianti. Infatti, sono rare le situazioni in cui i confliggenti si rivolgono al mediatore perché realmente alla ricerca di un terzo neutrale che li aiuti nella costruzione di un accordo. Più spesso ciascuna delle parti cerca nel mediatore un giudice che si trasformi in un alleato forte, che attribuisca ragione a sé e torto all’altra parte.

Dall’ascolto al riconoscimento di sé e al riconoscimento reciproco

Il modello di mediazione praticato da Me.Dia.Re., pertanto, fa appello non al bisogno/desiderio delle parti di raggiungere un accordo, ma al loro stare male nel conflitto, al loro sentirsi soli e al bisogno di porre rimedio a tale dolore.

Il mediatore, infatti, riconosce quella solitudine, accoglie rabbie e frustrazioni, comprende la tristezza della fiducia perduta, ma il suo ascoltare e rinviare ai protagonisti della mediazione i loro vissuti, consente a ciascuno di parlare di sé. Così, poco alla volta, entrambe le parti si ritrovano a dar voce a ciò che provano, non per rinfacciarlo all’altro ma per semplicemente per esprimere la loro condizione e, in fondo, anche per dirlo a se stesse. L’espressione dei vissuti, la comunicazione dei dolori e delle angosce consente, allora, di lasciar cadere i ruoli con i quali si sono presentati ed attorno ai quali ruotava il conflitto. Di fronte al mediatore, ma soprattutto al cospetto l’uno dell’altro, non ci sono più soltanto due coniugi in lite e prossimi alla separazione, un padre e una figlia costretti nei rispettivi abiti, o due vicini di casa o due colleghi portatori di valori, abitudini, stili di vita o di lavoro inconciliabili, ma due esseri umani. Due individui che si raccontano e che, attraverso il racconto di sé, offrono all’altro la possibilità di una conoscenza più ricca e complessa, che può condurre alla comprensione e al reciproco riconoscimento.

L’effetto dell’ascolto svolto dal mediatore è proprio questo arrivare a sentire l’altro, a comprenderne empaticamente la realtà e a riconoscere la verità soggettiva ma preziosa di cui è portatore.

Naturalmente non sempre la mediazione arriva a tali esiti. E probabilmente è un bene che sia così. Forse sarebbe alquanto pericoloso un mondo nel quale, coricandosi la sera, il mediatore potesse realisticamente permettersi di pensare con Goethe:

su tutte le vette è pace”.

D’altra parte, se questa fosse la sua aspirazione, sarebbe verosimilmente un pessimo mediatore.

L’altra faccia della medaglia

Naturalmente questo modello di mediazione, fondato sull’ascolto delle emozioni, presenta delle criticità.

La principale, forse, consiste nell’assenza di certezze, di basi consolidate, anche di tipo teorico, su cui appoggiarsi.

Uno dei pilastri su cui le pratiche di mediazione, compresa quella qui descritta, poggiano è, in effetti, la capacità naturale di mediare presente nelle persone. Ciò che la Klein chiama “accesso alla posizione depressiva”, cioè la capacità di ognuno di uscire dallo schema difensivo e/o aggressivo in cui è, o si è, ingabbiato per “sentire” l’altro, esiste indipendentemente dall’intervento di mediazione, anche se alcuni modelli (incluso quello qui delineato) si fondano proprio su tale potenzialità dell’essere umano.

Dubito fortemente, quindi, che tale modello di mediazione, che non ha scoperto l’ascolto e l’empatia, abbia inventato alcunché ex novo. Credo, invece, che abbia il pregio, piuttosto, di saper amalgamare risorse e competenze particolari, da sempre esistenti nelle attitudini umane, e di applicarle nel delicato settore della gestione del conflitto. Inoltre, è verosimile che abbia più di un debito verso molteplici discipline. Si pensi, ad esempio, alle riflessioni maturate in ambito criminologico che hanno portato alla costruzione del paradigma della “giustizia riparativa”, ai richiami a teorie psicologiche dei più diversi orientamenti e ancora agli spunti forniti dalla sociologia e dalla filosofia.

La mediazione in pratica è l’applicazione di un sapere pratico

Proprio per questa ricchezza di riferimenti, è difficile sostenere che tale modello di mediazione poggi il suo intervento su un complesso definito e organico di teorie sociali, o che si basi su particolari teorie della personalità (anche se nell’ambito della mediazione familiare vi è un saldo riferimento ad un orientamento consolidato della psicologia).,

Tuttavia ciò non significa che questo mediatore si muova sospinto dall’improvvisazione, poiché, evidentemente hanno un‘indubbia rilevanza le conoscenze acquisite sul conflitto e sulle sue dinamiche, nonché le riflessioni elaborate sull’efficacia di particolari strumenti d’intervento, che sono stati modellati proprio sulle peculiarità delle interazioni conflittuali.

Ciononostante, il suo sapere, essendo essenzialmente frutto dell’esperienza propria e altrui, resta suscettibile di costanti smentite, proprio perché egli agisce nel campo della soggettività: multiforme, imprevedibile, caotico (in quanto regolato da un ordine che molto spesso non si comprende).

Per questo deve essere disposto a rinunciare a molte garanzie e sicurezze, avendo solo la certezza che l’imprevisto è dietro l’angolo.

Detto in altri termini, ogni incontro di mediazione – come ogni autentico incontro compiuto nel quotidiano con qualsiasi individuo – mette in gioco anche il mediatore, ne scardina il personale puzzle con cui compone il proprio mondo, e lo modifica, aumentandone la complessità.

Ogni colloquio (si fa riferimento all’accoglienza delle singole parti separatamente, cioè ai c.d. colloqui preliminari che precedono la sessione di mediazione cui partecipano tutti gli attori del conflitto), dunque, significa per il mediatore non solo proporsi come specchio, ma anche porsi davanti ad uno specchio.

Uno specchio che, riflettendo la sua immagine in modo più o meno fedele, potrebbe disorientare.

Il paracadute formativo

Sotto quest’ultimo profilo, il training formativo dovrebbe costituire una sorte di paracadute: maggiore è la conoscenza che tale mediatore ha dei propri limiti, maggiore è la sua disponibilità a mettersi in gioco, a lasciarsi attraversare da argomenti, comportamenti e situazioni potenzialmente disturbanti, minori sono i rischi di destabilizzazione, nonché quelli di compromettere il processo di mediazione.

Sono queste le ragioni essenziali per le quali è consigliabile un percorso formativo caratterizzato da una massiccia quantità di situazioni interattive, nelle quali siano sempre presenti stimoli emotivi di diversa intensità.

Tuttavia, per la delicatezza dei temi affrontati, per il rispetto che merita la sensibilità di ciascuno dei partecipanti – lo stesso rispetto e considerazione che sono dovuti ai medianti in un intervento di mediazione – il formatore deve in ogni momento avere presente il benessere dei suoi interlocutori e salvaguardarlo. Senza tali precauzioni è probabile che invece di rifornire il futuro mediatore di un paracadute, lo si spinga fuori dell’aereo senza neppure un ombrello.

Resta vero che anche una formazione ben condotta non costituisce una garanzia certa: in ogni colloquio preliminare, in ogni mediazione, cioè in ogni salto nel buio, il paracadute può non aprirsi. In tal caso lo schianto, ovviamente, non è fatale, ma può essere piuttosto doloroso.

La risorsa della modestia

Quest’ultima considerazione si lega ad una risorsa che il mediatore dovrebbe avere ed esercitare: la “modestia”.

Intendo con tale termine non un tratto caratteriale o una qualità morale, ma un atteggiamento connaturato alla peculiarità della posizione di chi si presenta come terzo neutrale e privo di potere tra gli attori del conflitto.

Il mediatore, nel colloquio preliminare come al tavolo della mediazione, è co-protagonista – cioè deuteragonista o tritagonista, a seconda dei casi – in quanto incontra un altro essere umano e condivide con questi la scena dell’incontro (ed è, ovviamente, protagonista dell’esperienza dal proprio punto di vista), ma deve (dovrebbe) tendere a proporsi come lo sfondo da cui far emergere e risaltare con la massima nitidezza possibile la figura del mediante o dei medianti.

Non si tratta di un compito facile. Proporsi come sfondo, significa riuscire contemporaneamente ad essere presenti e a mettersi da parte.

Si tratta di dar vita ad un equilibrio instabile, tanto delicato quanto difficile, poiché implica trovarsi per tutto il tempo dell’incontro nella posizione di chi segue la narrazione altrui, e in un certo senso la rivive, ma senza potere intervenire su di essa.

Il mediatore si pone accanto al mediante o ai medianti, assiste al prodursi, o riprodursi, concreto e drammatico del conflitto, si lascia condurre nel conflitto, cioè nelle sue valenze emotive e affettive, però, ne resta spettatore neutrale.

Uno spettatore sui generis, poiché, in realtà, egli c’è e comunica la sua presenza testimoniando le sue sensazioni. Le sue sensazioni, tuttavia, non sono le “sue”: sono i vissuti che egli avverte nei medianti. Soltanto questo è quanto egli testimonia ai protagonisti. Le emozioni “veramente sue”, come le sue opinioni, devono restare dove e come stanno: silenziose dentro di lui. Diversamente non potrebbe porsi come facilitatore di un racconto il cui narratore e interprete è un altro e, poi, come catalizzatore di una trasformazione di cui il soggetto attivo è, ancora, l’altro.

La modestia, quindi, intesa in senso lato (o vago), c’entra.

Riconoscere il confine

C’entra anche perché il mediatore deve avere quel minimo d’umiltà – e di prudenza – necessaria a ricordare costantemente che le sue parole, il suo specchiare le emozioni e i sentimenti altrui, non sono mai “vere”. Egli dice, non dichiara, poiché, in fondo, il suo rispecchiare resta una testimonianza che egli propone di se stesso. Di ciò che avverte dentro di sé: di ciò che avverte dell’altro, d’accordo, ma sempre dentro di sé. Occorre, pertanto, che abbia quel tanto di modestia sufficiente a rammentarsi che, come quella presentata da ogni testimone, la sua è una verità squisitamente soggettiva. In quanto tale, dunque, suscettibile di contraddizione.

Per queste ragioni, nel corso della formazione, sono (dovrebbero essere) così numerose le attività in cui si chiede ai partecipanti di riconoscere le emozioni e i sentimenti percepiti nell’altro e di distinguerli da quelli avvertiti dentro di sé. Di riconoscere il confine

Non per ridimensionare questi rilievi e tali criticità, ma per banali esigenze di realismo, va riconosciuto, infine, che questa mancanza di certezze circa l’efficacia degli strumenti adottati non è propria soltanto della professione del mediatore, ma in maniera e misura diverse di molte altre professioni (se non di tutte): si pensi, per fare solo un esempio, alla professione medica, che pure è fondata su una scienza in continuo progresso, ma che nella pratica continua ad essere talora simile ad “un’arte” e ad essere caratterizzata dall’incombenza di un’alea, a volte assai pesante da sostenere anche per i suoi esercenti più collaudati.

Alberto Quattrocolo

[1] Bush R.A.B., Folger J.P (1994), Promise of Mediation, Jossey-Bass Publ., San Francisco.

[2] Nigris E. (2002), I conflitti a scuola, Bruono Mondatori, Milano, p.26.

 

prima gli esseri umani

Prima gli esseri umani

Prima gli esseri umani, dovrebbe essere lo slogan di ogni forza politica di destra, di centro e di sinistra e di quelle che ritengono che destra e sinistra siano categorie superate.

Prima gli esseri umani dovrebbe essere il principio che guida il nostro relazionarci all’altro, ovunque. Anche sul luogo di lavoro, nel rapporto con i servizi pubblici (quelli della giustizia, della sanità, quelli sociali, ecc.) e nei rapporti di comunità e di vicinato, così come in quelli “virtuali”, che tanto virtuali non sono, e spesso ancor meno virtuosi.

Non è sempre facile anteporre l’umanità

Prima gli esseri umani, tuttavia, rischia di essere solo una frase vuota, retorica, senza spessore, perché nel tran tran di tutti i giorni, la sollecitazione in essa contenuta viene frequentemente disattesa.

Tutti noi ci troviamo, nella vita di tutti i giorni, a non essere considerati e riconosciuti come esseri umani. In tali casi, la nostra umanità passa in secondo piano o scompare addirittura. Così capita che ci sentiamo trattati come mere risorse produttive, come consumatori, come pratiche, come cartelle, come numeri.

Talora, però, siamo noi a trattare gli altri come entità astratte, come meri simboli di qualcosa, come strumenti per la realizzazione di altri fini, magari elevati. Cioè, ci rapportiamo all’altro esclusivamente in funzione del nostro e dell’altrui ruolo di quel momento. Lo trattiamo come un cliente, ad esempio, ma non come una persona che è anche un cliente.

Si può considerare la situazione descritta su Repubblica dell’11 ottobre: “Che la morte di Francesca non sia inutile”. Tra le tante parole dei genitori di Francesca Graziano, parole profonde e alte, toccanti e riflessive, vi è un passaggio che fa pensare: è quello in cui si descrive lo scambio tra Francesca e i suoi datori di lavoro.

Alla domanda sul perché non rendesse più come prima, aveva risposto: perché non mi sento bene. Allora ti dobbiamo sostituire, era stata la replica che le era arrivata.

Ecco: se non mi sento bene, cioè se sono umana, devo essere sostituita. Ma è proprio la mia umanità che fonda la mia competenza, che sorregge la mia motivazione, le mie capacità professionali. Se non fossi umana, non potrei essere quel lavoratore che fino a ieri rendeva, che oggi non ce la fa e che domani tornerà a rendere. E come tutti gli esseri umani a volte sto bene, a volte poco bene e a volte sto proprio male.

Però, la logica nella quale viviamo – quella in cui forse siamo vissuti negli ultimi decenni o negli ultimi secoli – non tiene conto di ciò. Conta solo l’adesso della prestazione attesa.

Lo stesso discorso può farsi rispetto a infinite altre situazioni in cui l’umanità viene negata.

Ma per lo più non c’è cattiveria.

Molto spesso, credo, succede e basta. Nessun dolo. Sono negazioni dell’umanità altrui involontarie, incidentali, collaterali. Necessarie, nel senso di dovute, o ritenute tali, ma non volute.

Il fine della sostituzione di Francesca non era farla sentire gettata via, procurarle sofferenza e portarla alla disperazione. Forse chi le ha dato quella risposta era preso in una morsa, tra l’incudine e il martello, come suole dirsi.

Sei dentro un ingranaggio più grande di te e ti ritrovi ad agire nel modo in cui è previsto che tu faccia. Come da programma. E il programma, in sé, non è necessariamente sbagliato. Perché vi sono contratti da rispettare, attese da soddisfare, diritti da garantire e costi da sostenere e contenere.

Quando non vengono prima gli esseri umani questi si alienano reciprocamente

Si dice che è il Sistema. I nostri arti sarebbero tirati con fili invisibili da burattinai indefinibili. Secondo questa prospettiva, ci troviamo ad agire non ciò che sentiamo e pensiamo, ma ciò che il Sistema ci detta. Ragioniamo e ci comportiamo secondo ciò che il Sistema prescrive alla nostra mente, con tanta quotidiana e irriducibile sistematicità che non ce ne rendiamo neppure conto. Può anche darsi che sia così, che si sia davvero manovrati, manipolati, condizionati dal Sistema.

Quale che sia la causa, quando non vengono prima gli esseri umani, questi si alienano l’uno dall’altro. E si trattano reciprocamente come alieni. Così si affaccia lo spirito del prima io.

A volte tale spirito ci sussurra ad un orecchio, ma riusciamo ancora a sentirci degli esseri umani, a non alienarci dall’altro, conservando quel minimo di capacità empatica che ci permette di riconoscere l’altro come simile a noi.

A volte, lo spirito del prima io non sussurra soltanto, ma ci assorda. Allora l’altro, nella nostra percezione, si allontana improvvisamente. Come se scattasse all’indietro. Finisce sullo fondo. Ne intravvediamo la sagoma, ma non è più una persona. Non ha più lineamenti, occhi, personalità, desideri, intenzioni, bisogni. È un’entità insensibile. È un manichino, un’immagine priva perfino di tridimensionalità.

Lo abbiamo perso, sì, ma non del tutto. Perché a quel punto possiamo anche proiettargli addosso frustrazioni profonde, amarezze, paure e rabbie.

 

Quando non vengono prima gli esseri umani arrivano i conflitti

È difficile per tutti noi tenere a bada queste involuzioni delle interazioni e dei rapporti con le altre persone. Capita di finirci dentro senza avvedersene. E, poi, quando ce ne accorgiamo, stiamo malissimo.

Perché, a quel punto, finalmente, vediamo quel che è accaduto. Misuriamo, centimetro per centimetro, sulla pelle nostra e altrui, la capacità umana di fare e di farsi del male. Ci vergogniamo. Tanto da volere sprofondare, a volte. E ci sentiamo anche un po’ soli, almeno finché non riusciamo a recuperare l’altro, a riparare il legame rotto e a curare le lacerazioni personali.

Molto spesso, però, la consapevolezza non arriva o arriva troppo tardi, quando i danni sono irreparabili.

Capita con le guerre. I due conflitti mondiali furono scatenati sostanzialmente dalla logica del prima io, anzi della sua variante plurale: prima noi. Un criterio guida che, se non è alla base di tutte le guerre, lo è di molte, passate e attuali.

Si potrebbe ritenere che abbiamo visto versare abbastanza sangue, noi esseri umani. Ormai dovremmo avere imparato che quando si sostituisce il prima gli esseri umani con il prima noi presto o tardi arrivano distruzioni e autodistruzioni. E lutti.

 

Prima noi porta allo scontro

Quando è il prima io (solo io) prende il posto del prima gli esseri umani (incluso io) ed è affermato e agito da tutti gli attori della relazione, quasi inevitabilmente questi arrivano allo scontro.

Passo prima io, dice uno. No, tocca a me, dice l’altro. Bum!

Ma ci sono le regole sulla precedenza, si potrebbe obiettare. È vero, ci sono quelle regole. Si tratta delle regole che traducono operativamente il principio per il quale prima vengono gli esseri umani. Le regole poste per evitare che si accumulino le ossa fratturate. Di tutti.

Estromettere dal pensiero e dalla cultura, dalla coscienza e dal sentimento il prima gli esseri umani e soppiantarlo con il prima noi, dunque, significa dirigersi, molto spesso, verso il muro del conflitto. Andarci contro a velocità folle, con l’incoscienza dell’automobilista spericolato che si sente onnipotente. Quello che pensa di avere tutto sotto controllo e non riesce neppure a pensare a quanti e quali danni – cioè costi umani, sociali, politici, economici e culturali – procurerà lo schianto. Solo dopo lo scontro, forse, di fronte alle macerie, avrà un’immagina di quanto i danni saranno, anche sul lungo periodo, insostenibili e spaventosamente invalidanti.

Anteporre il noi all’umanità, però, non presenta soltanto potenziali risvolti bellici, ma ha anche altre implicazioni. Implicazioni in termini morali, etici, culturali, economici, ambientali, sociali e psicologici.

 

Prima gli esseri umani non è sinonimo di slealtà verso i compatrioti, ma di istinto di autoconservazione come specie umana

Così, vendiamo armi ad estremisti, a dittatori, a regimi dalla politica interna ed estera discutibilissima (più controversa ancora della nostra), ci concludiamo affari, li sosteniamo finanziariamente o con altri mezzi. Facciamo guerre, (non) dichiarate per esportare pace e democrazia, allo scopo di trarne utili economici enormi. Inquiniamo a destra e a sinistra, ecc. Sempre seguendo il criterio del prima noi, della cura dei nostri interessi, dei nostri posti di lavoro, della nostra insaziabile fame di energia, dei nostri consumi, dei nostri equilibri[1].

Prima noi, viene detto, perché in gioco c’è la tutela del nostro gruppo, del nostro mondo, del nostro way of life. Mentre il prima gli esseri umani risuona come minaccioso per la nostra vita, per come la conosciamo.

Poi, però, la natura umana e quella fisica presentano il conto. Sommosse, rivoluzioni, tensioni internazionali, regimi dispotici, terrorismo, carestie, diseguaglianze, tensioni sociali, immigrazioni epocali, disastri ambientali e cambiamenti climatici angoscianti. E ci tocca realizzare che il rifiuto del prima gli esseri umani in nome del prima noi ci costa parecchio, ci minaccia, in fondo, in maniera radicale. Ci fa esplodere fisicamente e simbolicamente. Ci spezza nella contraddizione fondamentale che avevamo tentato di negare.

 

Prima gli esseri umani non è sinonimo di uno stanco internazionalismo buonista ma di lealtà verso la propria umanità

Nel ripudio del prima gli esseri umani e nella sua sostituzione con il prima noi, che va dilagando dagli USA all’Austria (un ripudio fieramente e, in un certo senso coerentemente, rivendicato dal nazionalrazzismo[2]), il meccanismo di giustificazione costantemente proposto ai fini della propria auto-assoluzione e della persuasione altrui, si declina, in sintesi così: la coperta è troppo corta per riuscire a coprire tutti coloro che hanno freddo, quindi copriamoci noi, che ce l’abbiamo già addosso, e gli altri si aggiustino.

Ma è la coperta davvero troppo corta?

Se guardiamo alla realtà del nostro Paese, la tesi per la quale vengono prima gli italiani andrebbe integrata con alcuni dati.

Si dice che, data la ristrettezza delle risorse, occorre pensare prima agli italiani. Più di quanto non si faccia attualmente. È la logica, appena malcelata, del mors tua e vita mea, cui già facevo in un post dedicato all’antibuonismo nazionalrazzista. Una logica che, in natura, a volte, si impone.

L’Italia, però, si trova davvero in questa situazione?

Da non esperti, da profani dei conti pubblici, parrebbe plausibile nutrire parecchi dubbi e farsi qualche idea.

A leggere l’editoriale di Francesco Riccardi su l’Avvenire del 16 ottobre ce n’è d’avanzo per farsene un’ideina. Infatti, ci viene ricordato che il lavoro nero, l’economia sommersa e le attività propriamente illegali pesano per il 12,6% del Prodotto interno lordo, 208 miliardi di euro complessivamente, secondo la stima dell’Istat relativa al 2015. Secondo i calcoli più drastici, quelli proposti da Il Giornale, i migranti ci costerebbero 4,7 miliardi.

Appare, pertanto, dubitabile che azzerare quest’ultima spesa significhi aiutare davvero i cittadini italiani. Se il ladro della mia auto mi lasciasse sul marciapiede l’ombrello che tenevo sul sedile posteriore, non ne caverei una grande soddisfazione.

L’alibi della coperta corta

La coperta è troppo corta davvero, oppure, è comodo affermare che lo è affinché nulla cambi?

Viene il sospetto, assai poco paranoico, che l’argomento della coperta corta sia un comodo alibi.

O, peggio ancora, vi è qualche margine per supporre che la storia della coperta corta sia utile a sostenere la teoria del prima noi, così da stimolare una sorta di istanza difensiva tra gli italiani, una sorta di sentimento apparentemente autoconservativo, ma in realtà autodistruttivo.

Perché sedare i cittadini italiani e indurli a proiettare sul più archetipico dei nemici immaginari (lo straniero) le sofferenze generate da storiche magagne, tutte interne, così dal non doversi impegnare a risolverle, non significa voler il bene degli italiani, ma l’esatto contrario.

 

Prima noi al posto di prima gli esseri umani è il nocciolo del reato

Alla base del reato (contro la persona, contro il patrimonio, contro lo stato, contro il popolo, ecc.), vi è, in fondo, quasi sempre se non sempre, il pensiero del prima io.

È questa la prospettiva che, per lo più, guida e supporta l’azione criminale.

L’evasore fiscale non dice: prima gli esseri umani e il loro bisogno di servizi. Ma dice: prima io e il mio bisogno, o desiderio, di tenermi il denaro. Allo stesso modo, il corruttore, il corrotto, lo stupratore, il magnaccia, il pedofilo, il mafioso, ecc. non considerano l’umanità delle loro vittime dirette e indirette, ma si dicono: prima vengo io. Oppure, quando agiscono nell’interesse di un gruppo particolare, si dicono: prima veniamo noi.

Gli autori di tali e altri delitti non si limitano a realizzare l’azione che concretizza il prima io. Ma teorizzano questa prospettiva. Attivano, per dirla rozzamente, meccanismi di auto-giustificazione o auto-legittimazione della condotta criminosa. E tali meccanismi funzionano abbastanza efficacemente. Permettono, infatti, già prima di delinquere di auto-assolversi, così da poter compiere il delitto e, dopo averlo commesso, da riuscire a conviverci[3].

 

Il prima io è la negazione dell’umanità dell’altro

Alla base del delitto vi è la negazione dell’umanità della vittima. L’interruzione del sentimento, della consapevolezza del legame che accomuna ogni essere umano è ciò che consente di rapinare, violentare, emarginare, sfruttare e discriminare l’altro.

La negazione dell’umanità dell’altro, l’oscuramento del volto altrui, però, non è soltanto ciò che consente al reo di agire, ma è anche ciò che connota l’escalation conflittuale.

Lo si riscontra in quei conflitti di coppia, familiari, di vicinato e in altri contesti relazionali, giunti a livelli esasperati di spersonalizzazione e deumanizzazione reciproca. Non a caso lo scambio di auguri e i contatti tra soldati schierati in trincee contrapposte durante il Natale del 1914 (la cosiddetta Tregua di Natale) fu presto interrotto.

Come si fa a scannare uno che si sente simile a sé? È difficile, tanto difficile. Quasi impossibile.

L’unico modo per riuscire a scannarlo è odiarlo o averne paura da morire e, soprattutto, non considerarlo simile a sé. Anzi, percepirlo come una minaccia, meglio, appunto, se mortale.

Ecco allora che per fondare la legittimità del prima noi e l’illegittimità del prima gli esseri umani occorre convincere che gli altri sono alieni, cioè stranieri rispetto alla nostra umanità. Sub-umani o disumani.

Se si dipingono gli altri come mostri, allora il prima noi è vissuto come se fosse in realtà uguale al prima gli esseri umani, poiché diventa: solo noi siamo esseri umani

Non occorre dirlo apertamente. Anche se vi è chi lo fa. Può bastare suggerirlo con una costante rappresentazione dell’altro, del migrante, come un soggetto pericoloso, destabilizzante, violento, antitetico e portatore di caos.

Non è un’operazione particolarmente sofisticata. Basta poter contare su alcune condizioni:

  • mezzi e risorse necessarie per realizzare una campagna ininterrotta, svolta su vasta scala e capillarmente
  • una disponibilità dei destinatari della campagna di odio ad essere manipolati. Cioè, il loro sentirsi già in gran parte non considerati come esseri umani. Se tale presupposto c’è, essi, alienati da quell’umanità che gli dovrebbe essere riconosciuta, più facilmente saranno propensi a disconoscere l’umanità altrui. Magari proprio per riaffermare la propria superiorità di essere umani.

Potendo contare su tali due presupposti, la sostituzione del prima gli esseri umani con il prima noi è sdoganata, legittimata, addirittura nobilitata.

Simili dinamiche sono poste in essere, scientemente, dai tanti fondamentalismi politici e religiosi, che hanno insanguinato la storia dell’umanità fino ad oggi.

Se ce ne ricordassimo, non sarebbe così utopico recuperare in termini più pregnanti quel prima gli esseri umani che, in fondo, mettiamo in atto tutti i giorni. Dando la precedenza al pedone sulle strisce pedonali, rispettando la raccolta differenziata, astenendoci dal fare i furbi…

 

Alberto Quattrocolo

 

[1] Tanto per fare un esempio, si pensi alla discussa decisione della Camera dei Deputati relativa all’embargo delle armi nei confronti dell’Arabia Saudita.

[2] Sono molti ormai i post dedicati al nazionalrazzismo sul blog Politica e conflitto.

[3] Nei percorsi di mediazione penale (ma anche in altre situazioni, naturalmente) capita di osservare cosa accade nell’istante in cui tali meccanismi cessano di funzionare.

 

(in)giustizia nazionalrazzista

(in)giustizia nazionalrazzista

Il carattere iniquo della (in)giustizia nazionalrazzista

Il nazionalrazzismo – termine che ho proposto per descrivere quelle organizzazioni, politiche e non, e quei soggetti che teorizzano l’esistenza di un razza italiana che sostanzia ed esaurisce la nazione italiana e a cui ho dedicato diversi post[1] – da tempo svolge un’assidua comunicazione finalizzata a promuovere una particolare visione della giustizia, cioè una (in)giustizia nazionalrazzista.

Al cuore di questa (in)giustizia nazionalrazzista vi è la colpevolizzazione di tutti gli immigrati per le colpe (vere o presunte), cioè i reati e altri comportamenti devianti, commesse da alcuni. Si tratta di uno schema che, a chiunque sia applicato, rappresenta la quintessenza dell’ingiustizia.

Da sempre, infatti, una delle forme archetipiche e più detestabili di ingiustizia consiste nel punire anche l’incolpevole per le colpe commesse dal reo.

Tale ingiustizia è ancora più intollerabile quando sono tanti, tutti, i membri di un gruppo ad essere puniti per le colpe di una minoranza di esso (fosse pura una minoranza numerosa). Si tratta, nientemeno, della logica sottesa alla rappresaglia.

Perciò, nel titolo e nel resto del testo, si potrebbero tranquillamente liberare le lettere “in” dalle parentesi e attaccarle senza problemi alle parola “giustizia”.

Quale ulteriore aggravante del carattere ingiusto di tale propaganda, che il movimento nazionalrazzista persegue nei vari Paesi in cui si manifesta con prepotenza, vi è un altro aspetto: negare la realtà e soppiantarla con la mistificazione, attraverso una campagna incessante, fino a far sì che la bugia diventi una verità oggettiva nella percezione collettiva.

Infatti, consapevole della manifesta iniquità insita nella colpevolizzazione di persone innocenti, il nazionalrazzismo cerca di far crede che, in realtà, a tutti gli immigrati siano imputabili delle colpe effettive o potenziali.

I fini della campagna sulla (in)giustizia nazionalrazzista

Analogamente a quanto proposto nel post su (il)legalità nazionalrazzista e in quelli sull’antibuonismo nazionalrazzista, mi permetto di rilevare che tale campagna, declinata in molteplici contesti e con i più diversi mezzi (dai social, alle manifestazioni di piazza, agli articoli sulla stampa, ecc.), la (in)giustizia nazionalrazzista persegue in definitiva un triplice fine.

  • Demonizzare i migranti, si tratti dei cosiddetti migranti economici o di richiedenti protezione internazionale e rifugiati, tale fine è perseguito con una doppia operazione:
    • la costante divulgazione sui social e su altri mezzi di “fatti” proposti per confermare gli stereotipi negativi verso i migranti;
    • la negazione di altre possibilità di interpretazione degli stessi fatti e il rifiuto o l’oscuramento di altre notizie astrattamente capaci di erodere la montagna di preconcetti e pregiudizi nutriti nei loro confronti.
  • Screditare, fino a delegittimarli, i soggetti, gli enti e le organizzazioni pubbliche e private che sono favorevoli alle attuali (o a più accentuate) politiche di accoglienza e inclusione (“i buonisti”, secondo la ricorrente definizione nazionalrazzista).
  • Accreditarsi come unica barriera contro una marea montante di ingiustizie e illegalità.

In sostanza, il fine ultimo della campagna sulla (in)giustizia nazionalrazzista, mi pare che sia quello di procurare una gran massa di consensi e di tradurla in voti in occasione delle prossime consultazioni elettorali – le elezioni regionali in Sicilia e quelle nazionali del 2018 – nonché di quelle successive a queste. La visione, direi, perciò, è di lungo periodo.

 

Qual è l’essenza dell’(in)giustizia nazionalrazzista? “Fermare l’invasione” e difendere la “razza italiana”

L’idea di fondo che il nazionalrazzismo cerca di veicolare, anzi di diffondere, è che la razza italiana è trattata ingiustamente. Attenzione: non i cittadini italiani, ma la razza italiana.

Infatti, non rientrano in questa “razza” i cittadini italiani di origine straniera. Questi sono considerati dal nazionalrazzismo come facenti parte di un piano criminoso per portare africani ed asiatici a soppiantare gli italiani (e, su scala europea, a soppiantare gli europei, mentre, oltreoceano, destinati ad essere sostituiti sarebbero i bianchi, preferibilmente, anglosassoni).

Si possono ricordare a questo proposito le affermazioni di Matteo Salvini, relative al piano della presidente della Camera dei Deputati per “la grande invasione”. La posizione del segretario leghista, in realtà, non è espressione di un’idea nuovissima, visto che questa teoria fu proposta già diversi anni fa da altri “pensatori”[2].

L’elemento di novità nelle “teorie sostitutive” proposte oggi in Italia consiste, dunque, esclusivamente nel fatto che tali idee trovino non solo ospitalità nel dibattito politico nostrano,  ma anche una concreta attuazione.

Un esempio per tutti è quello degli scontri tra militanti nazionalrazzisti e polizia per impedire la presa di possesso di una casa popolare assegnata ad una famiglia la cui coppia genitoriale è composta da un italiano e un’eritrea.

 

(in)giustizia nazionalrazzista dal punto di vista sociale

In un post su Facebook il leader di Forza Nuova, Roberto Fiore, ha affermato:

«Il modo in cui il sindaco di Roma Virginia Raggi e la Questura capitolina sta affrontando una vera emergenza sociale equivale a soffiare sul fuoco per trasformare la protesta civile e silenziosa in protesta violenta. Forza Nuova si fa carico delle doglianze dei romani costretti a vedere i propri quartieri in stato d’assedio e famiglie sfrattate portate via e messe in mezzo alla strada. Forza Nuova chiede l’immediata liberazione dei patrioti italiani colpevoli solo di aver reagito ad una vergognosa azione antipopolare»

L’idea di (in)giustizia nazionalrazzista dal punto di vista sociale è efficacemente espressa dalle parole di Fiore: gli italiani vengono sfrattati per lasciare spazio allo straniero, dunque, per ristabilire la giustizia, o meglio per dare corso ad una (in)giustizia nazionalrazzista, i patrioti italiani devono impedire l’esecuzione di un provvedimento amministrativo applicativo di una legge.

Anzi, per boicottare l’applicazione della legge, avrebbero addirittura il diritto-dovere di attaccare le forze dell’ordine, colpevoli di garantire l’esecuzione di “una vergognosa azione antipopolare”.

 

La lotta senza quartiere nei quartieri delle nostre città svolta dalla (in)giustizia nazionalrazzista 

A parte il linguaggio e le condotte dispiegate, che sono indiscutibilmente da camicie nere, da fascismo squadrista (violento) della prima ora, è assai significativo il fatto che la lettura e la risposta data alla situazione citata da questi nazionalrazzisti siano di questo tipo: si vuole far lasciare l’abitazione ad una famiglia “tutta italiana”, che da tempo è morosa rispetto al pagamento del canone, solo per impedire che tale appartamento di edilizia residenziale pubblica sia attribuito ad un’altra famiglia di non proprio pura razza italiana.

Non è la sorte del primo nucleo famigliare che interessa ai nazionalrazzisti, ma il fatto che subentrino degli italiani non puri. I quali, però, legalmente ne hanno diritto, versando in analoghe o peggiori condizioni di disagio[3].

A riprova della latitante sensibilità sociale di questa forma di (in)giustizia nazionalrazzista vi sono due banali considerazioni:

  • le organizzazioni nazionalarazziste quando una famiglia italiana è sfrattata a favore di altri italiani si astengono da analoghe iniziative patriottiche 
  • invece di lasciare sfrattare quella famiglia italiana per morosità, non hanno pensato di aiutarla economicamente a saldare il debito, pagandoglielo di tasca loro o con una sottoscrizione.

Quest’ultima sembra una provocazione? La sciocchezza proposta da un buonista irrecuperabile?

Be’, è vera la prima affermazione e lascio giudicare gli altri sulla seconda. Faccio presente, però, che la realtà supera la fantasia anche dei più inguaribili buonisti: è successo qualcosa di simile, infatti, ad Orbassano, come racconta il Quotidiano di Torino Sud.

 

Il patriottismo sociale “strabico” e la discutibile sensibilità sociale della (in)giustizia nazionalrazzista

In realtà, più che la giustizia sociale, quella che interessa al nazionalrazzismo è la realizzazione di una lotta senza quartiere nei quartieri delle nostre città. Gli preme solo arrivare a stabilire un’ingiustizia nazionalrazzista.

Infatti, assumiamo pure un punto di vista patriottico: se essere patrioti vuol dire difendere gli italiani in condizioni di povertà e disagio, allora cosa dire degli italiani che fanno danni ad altri italiani, aumentandone rovinosamente le difficoltà, i disagi e le sofferenze?

Prendiamo qualche recente esempio di truffe, limitandoci a quelle ai danni dell’INPS:

  • quanto costano a ciascuno di noi fatti come la truffa all’INPS realizzata da 370 italiani, che incassavano l’assegno sociale, fingendosi poveri, mentre erano residenti all’estero? In tal caso il costo è di 10 milioni di Euro. Sai quanti affitti si possono pagare agli enti di edilizia popolare con quei 10 milioni?
  • Altre due recenti truffe all’INPS sono stata scoperte in Calabria, rispettivamente in provincia di Cosenza (a Castrovillari), con 324 false assunzioni e un danno di 880.000 Euro, e a Corigliano Calabro, grazie all’invenzione di 335 falsi braccianti, scherzetto costato ai contribuenti onesti altri 800.000 Euro. Ci si costruirebbero un bel po’ di casette per le famiglie italiane con quei soldi. Ma anche per delle famiglie straniere e perfino marziane – contando anche i 2 milioni di un’altra truffa a Palermo, relativa a false invalidità e false malattie -, se truffe simili non fossero compiute dai nostri connazionali.

Se, poi, spostiamo lo sguardo alle truffe proprio sul tema della casa, come si spiega che coloro che si definiscono patriottici non contestano, con una protesta civile e silenziosa, come dice il leader di Forza Nuova, i 120 italiani di pura razza che avrebbero trasferito la loro residenza da Roma ad Amatrice, per incassare i contributi previsti per i residenti nelle zone terremotate (anche 900 Euro al mese)?

Oppure: perché non manifestano solidarietà ad Angelo Cambiano, l’ex-sindaco di Licata (Ag), che vive sotto scorta perché minacciato più volte per il suo impegno contro l’abusivismo edilizio (tra le intimidazioni patite vi è stato l’incendio di due case di famiglia), che è stato sfiduciato dal consiglio comunale proprio perché intenzionato a far eseguire le sentenze di abbattimento delle costruzioni abusive?

Ancora: perché non si adoperano a Napoli per sollecitare, civilmente, il pagamento delle multe e degli affitti, visto che il Comune non riesce a riscuotere tale somme di denaro per mezzo miliardo di Euro (pari al 50% dell’importo complessivo)?

 

(in)giustizia nazionalrazzista e capri espiatori

Come mai mentre recitano gli slogan della (in)giustizia nazionalrazzista sulla concorrenza sleale degli immigrati nel lavoro, Fiore e altri non si indignano per il fatto che, in realtà, anche qui sono gli italiani quelli che fregano altri italiani?

Un esempio? I concorsi all’Università di Firenze.

In realtà, l’idea di giustizia che il nazionalrazzismo vuole affermare, come scritto in apertura di questo post, è di semplicissima descrizione: è un’ingiustizia.

Un’ingiustizia, poiché sostanzialmente individua nell’immigrazione la fonte di tutti i mali e cerca di proiettare sui migranti la frustrazione, la rabbia, l’angoscia e la desolazione degli italiani, affinché questi abbiano qualcuno di concretamente tangibile da odiare e a cui far pagare anche le loro colpe.

Infatti, il nazionalrazzismo non si limita a svolgere una campagna di criminalizzazione degli immigrati, sfruttando e amplificando i fatti di cronaca relativi a reati commessi da stranieri (aspetto già visto nei post sulla strumentalizzazione degli stupri e sull’illegalità nazionalrazzista).

Affianca quella costante denigrazione ad un martellamento insistente sulle fasce sociali più colpite dal disagio generato dalla Crisi (quindi sia quelli già prima sofferenti che le la media borghesia impoverita, ma  mirando soprattutto ai vecchi e ai nuovi poveri), per convincerle che responsabili della loro sofferenza sono:

a) gli immigrati 

b) le pubbliche amministrazioni nazionali, regionali e locali che, secondo la propaganda nazionalrazzista, privilegiano gli stranieri sul piano dell’assistenza sociale e sanitaria.

Il messaggio ripetutamente inviato è che sono gli italiani ad essere discriminati dall’ente pubblico a favore degli stranieri.

Il nazionalrazzismo dice che i migranti costano una montagna di soldi,  che vengono perciò sottratti agli italiani. In tal modo spera che quelli, tra costoro, che si sentono poco supportati dallo Stato (una grandissima percentuale di italiani) siano inclini ad avvertire gli immigrati come parassiti.

Gli immigrati costerebbero allo Stato 4,6 miliardi, secondo quanto riporta Il Giornale: un bel po’ di quattrini, certamente, ma l’evasione fiscale ce ne costa 111, cioè 24 volte di più!

Ciononostante il messaggio nazionalrazzista funziona. A dispetto di quanto sia ingenuo pensare che i problemi dell’occupazione, dei tagli ai servizi, ecc., siano attribuibili all’emigrazione, visto che sono, invece, senza dubbio, ascrivibili all’evasione fiscale.

Forse perché da sempre gli esseri umani hanno bisogno di capri espiatori e hanno bisogno di crederli realmente colpevoli.

Ad esempio, il fatto che i reati in Italia siano calo da anni (pur essendo sempre, comunque, troppi), mentre l’immigrazione è costantemente cresciuta, non porta una parte degli italiani a concludere che l’affermazione per la quale l’immigrazione è sinonimo di delinquenza è una mistificazione.

Anzi, quel messaggio viene acriticamente accettato da un numero crescente di italiani. E l’immigrato è sempre di più sentito come un nemico. Un nemico insinuatosi slealmente entro le pareti domestiche. Un nemico da scacciare spietatamente.

 

Alberto Quattrocolo

 

[1] Gli altri post sul tema o ad esso implicitamente correlati sono: Obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzistaAntibuonismo nazionalrazzista, (il)legalità nazionalrazzista, La strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri, La doppia morale nazionalrazzista, Dove eravamo, Propaganda nazionalrazzista e Welfare, Il nazionalrazzismo come politica del conflitto (razziale), Nazionalrazzismo e socialrazzismo

[2] Ad esempio, Renaud Camus, nel 2001, con La grande sostituzione (Le grand remplacement) sosteneva che in breve i francesi di “pura razza” e la loro cultura sarebbero stati sostituiti dagli immigrati (e dai loro figli), individuandone i segnali in un decadimento della lingua francese, correlata ad un minor consumo dei testi classici: anche a voler prendere sul serio Renaud, ci sarebbero non poche obiezioni sulla valenza probatoria dei suoi argomenti. Su L’Espresso del 1° ottobre di quest’anno (“Non è lo straniero che uccide la cultura”), lo psicoanalista Luigi Zoja, che cita proprio le idee di Renaud, evidenzia anche la loro palese infondatezza. In quell’articolo Zoja cita anche Samuel Huntington. Costui già nel ‘96 aveva presentato le sue “teorie” anti-islamiche, in Lo scontro di civiltà, poi nel 2004 era tornato alla carica con La nuova America. Qui denunciava la perdita d’identità degli americani di razza pura, quelli discendenti dai coloni originari, a causa del melting pot, legittimato dai movimenti per i diritti civili degli anni ’60 e ’70. A suo parere l’America è in via di snazionalizzazione a causa degli immigrati e del mancato, radicale, contrasto ad essa da parte del Governo (tra quelli che Huntington considera minacciosi per l’identità americana vi sono anche gli italoamericani).

[3] Avevo già proposto delle osservazioni sulla logica del mors tua vita mea che informa questo tipo di azioni nel primo post relativo all’antibuonismo nazionalrazzista.

mediazione empatia

La mediazione e l’empatia

Il dolore procurato dal conflitto o che lo ha provocato non può condizionare la decisione di un tribunale

Può il sistema giudiziario dare risposte ad interrogativi sul senso di una lite? Può dare riscontri, accoglienza e risposta sul valore che i rapporti hanno avuto e/o conservano tra le parti? Può una pronuncia giudiziaria trasformare, ad esempio, due ex coniugi in persone in grado di nutrire una fiducia reciproca rispetto alle capacità di assolvere le funzioni genitoriali?

Tali quesiti scaturiscono dal rilievo che il sistema giudiziario non è pensato per contenere ed elaborare alcuni aspetti della vicenda sottoposta al suo giudizio.

Del resto la pronuncia dell’Autorità Giudiziaria non è finalizzata quasi mai a risolvere il conflitto sul piano relazionale. La decisione del Tribunale, infatti, non riporta automaticamente la serenità tra le parti, non placa il rancore, non rimargina le ferite.

…ma dev’essere al centro di una mediazione svolta con empatia

Queste ferite, però sono spesso la radice del conflitto, la sua portata emotiva e affettiva, le sue conseguenze sull’interiorità dei protagonisti. E, più che all’interno dell’aula di un tribunale, possono essere accolte e, soprattutto, riconosciute all’interno di un percorso di mediazione.

In particolare, un’attenzione speciale alla dimensione emotiva e affettiva del conflitto è posta da quei paradigmi di mediazione che considerano aspetto fondamentale dell’agire mediativo l’empatia declinata mediatore.

L’attività del mediatore non è solo la soluzione del problema-conflitto

Infatti, se l’attività del mediatore si riducesse ad un approccio di «problem solving» e si proponesse come fine la «risoluzione del conflitto», tale fine diventerebbe il presupposto dell’agire del mediatore e ne determinerebbe le modalità di relazionarsi con le parti.

In tal caso, però, i vissuti delle persone coinvolte nella relazione conflittuale troverebbero davvero spazio ed ascolto da parte del mediatore?

L’importanza di questa domanda è palesata da un’altra, ad essa inestricabilmente connessa e che sempre dovrebbe guidare l’agire relazionale, cioè: al termine di una mediazione orientata solo al “problem solving” si può parlare di una «soddisfazione» del confliggente?

Per rispondere ad un simile interrogativo occorrerebbe intendersi sul significato dell’espressione “soddisfazione”. Probabilmente, sotto un certo profilo, la risposta è affermativa, se la controversia si è chiusa con un accordo che ha fatto venire meno le ragioni razionali e comportamentali della lite. L’aspetto critico, tuttavia, sta nel valutare se si sono risolte anche le ragioni di natura “non razionale” che stanno alla base del conflitto, cioè quegli elementi cognitivi ed emotivi che hanno reso necessario ai protagonisti della vicenda il ricorso ad un professionista esterno per la gestione del conflitto.

Il rischio, infatti, nell’adottare un metodo orientato esclusivamente al “problem solving” è che, al termine di una mediazione, venga meno (temporaneamente?), l’oggetto esterno del conflitto – che si trovi cioè un accordo, ad esempio, sulla ripartizione dei beni ereditati, sulla liquidazione di un danno, sull’affidamento dei figli, ecc. -, ma che l’ostilità rimanga. E, accanto ad essa, sopravviva una sensazione di mancato chiarimento e, più in generale, un sentimento di vuoto, la mancanza di un vago ma scottante quid (sul quale torneremo più avanti), per cui risulta difficile per i protagonisti di quel conflitto dirsi soddisfatti e riuscire a spiegare le ragioni della propria parziale insoddisfazione.

Locandina Master Mediatori familiari
Locandina Master Mediazione penale
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L’obiettivo di una mediazione è rimettere ciò che il conflitto toglie: il riconoscimento

Se, però, il fine di una mediazione non fosse quello di ottenere un risultato predefinito (la pace e l’accordo che disciplina gli aspetti materiali e immateriali del rapporto futuro tra le parti), ma avesse come principale obiettivo quello di far sì che ciascun soggetto possa sentirsi riconosciuto, verrebbe colmato un vuoto. La mancata soddisfazione del bisogno di riconoscimento, infatti, è spesso (per non dire sempre) uno dei fattori alla base dell’innescarsi di un conflitto. E, d’altra parte, il conflitto, per struttura intrinseca, genera un meccanismo che annulla il riconoscimento dell’altro e spesso sorge proprio dal comportamento o dall’atteggiamento dell’altro che genera una percezione di mancato riconoscimento. Con il progredire dell’escalation, il conflitto, poi, arriva, nei casi più estremi – ma non è un fatto raro – a distogliere i due soggetti coinvolti dal considerare l’altro una persona, quando non addirittura un «essere umano»: a seguito della sofferenza provata da ciascuno per non essersi sentito riconosciuto (il che crea un vulnus al sentimento di dignità), la rabbia conseguente e il bisogno di affermare insieme alle proprie ragioni anche l’imposizione del proprio esistere, traducono l’altro nella figura del «nemico», con una distribuzione dei ruoli di «vittima» e «carnefice», che finisce appunto, col relegare gli individui ad un ruolo, ingabbiandoli dentro una maschera.

In ragione di ciò, si può cogliere l’importanza dell’ascolto, di un ascolto empatico (si è fatto più volte riferimento a tale aspetto, in questa rubrica, Riflessioni: ad esempio, nel post L’ascolto empatico: un ingrediente irrinunciabile dei percorsi di mediazione dei conflitti) da parte del mediatore, che, a lungo andare accompagna il superamento della bidimensionalità in cui i due soggetti coinvolti si sono reciprocamente appiattiti.

Il mediatore, sotto questo profilo, si ritrae da se stesso, nel senso che non si pone come soggetto giudicante (cioè di soggetto portatore di principi e di valori e incline ad affermarli di fronte ad un fatto di cui è testimone), per proporsi come specchio, non distorcente, dei vissuti dei contendenti. In tal modo, restituisce loro tridimensionalità. In breve, l’obiettivo è riconoscere e far sentire riconosciuta la persona.

Il mediatore ha a che fare con delle persone non con delle parti

Ciò presuppone nel mediatore, però, la capacità di guardarsi dalla tentazione di forzare le persone al riconoscimento reciproco, cioè dal rischio di trattarle, non come persone, ma come parti.

È da questo accorgimento, costantemente mantenuto durante tutto l’iter del percorso, infatti, che sorge quella possibilità di liberazione dal ruolo che costringe gli individui nella logica ferrea e disumanizzante del conflitto.

Tale criterio, d’altra parte, è saldamente legato all’astensione dei mediatori dal porre in atto dei tentativi di induzione alla conciliazione. Tentativi che, se fossero dispiegati, rigetterebbero le persone nelle condizioni di parti ed equivarrebbero a delle censure su ciò che pensano e/o provano, configurando, ancora una volta, una compressione di quella libertà di provare sentimenti e di esprimerli che una pratica di mediazione intrisa di empatia deve rispettare e garantire.

I tentativi di riappacificare, d’altra parte, come dimostra l’esperienza, vengono non solo per lo più respinti, ma sono ancora più dannosi – un danno sotterraneo, ma degli effetti corrosivi – se, per stanchezza, sfinimento o accondiscendenza, i protagonisti dell’incontro li accolgono. In tal caso, infatti, spesso accade che:

  • la pace raggiunta è soltanto temporanea e apparente, pronta a ritrasformarsi in schermaglie o in lotta mortale,
  • l’esperienza della mediazione viene vissuta come un’esperienza dolorosa, ma improduttiva. In ultima analisi, come un tradimento del patto stipulato con il mediatore.

L’empatia non si impara ma si affina

Essenziale, dunque, è per il mediatore accogliere e riconoscere anche tutti quei sentimenti che paiono chiudere le porte a delle possibilità di mediazione; non farlo significherebbe prestare un’attenzione selettiva, interessata e guidata soltanto dai propri obiettivi. E ciò potrebbe creare una condizione relazionale ambigua tra il mediatore e i soggetti che ad essi si sono rivolti: il rischio, infatti, è che i primi possano assumere – o essere percepiti come se avessero – un atteggiamento di superiorità (morale, intellettuale, psicologica), sicché i fruitori della mediazione, anziché sentire la comprensione del professionista, finiscono con l’avvertire una condizione di forte asimmetria. Come se fossero alla presenza di un saggio, che conosce dei loro guai e delle loro sofferenza più di quanto essi stessi non conoscano. Il mediatore, però, non è più saggio dei mediati, non ha una maggiore conoscenza delle cose della vita, e l’unica differenza che lo “avvantaggia” – fatta salva “la preparazione tecnica” – è che il conflitto che si trova a gestire non gli appartiene.

Per queste e altre ragioni, se si vuole lavorare come mediatore (familiare o penale, in ambito organizzativo o in ambito sanitario), è indispensabile che la formazione seguita sia quanto più possibile esperienziale e offra la possibilità di sperimentarsi ripetutamente nel ruolo di terzo e nel ruolo di parte del conflitto. Quest’ultima condizione, infatti, è quella che permette più efficacemente di verificare su di sé come alcune comunicazioni del mediatore siano davvero di aiuto, supportino la riflessione e sblocchino, mentre altri interventi irrigidiscano e irritino le parti, inducendole a chiudersi e arroccarsi.

L’empatia è una dote innata per gli esseri umani, ma il suo impiego consapevole può e deve essere affinato. A ciò dovrebbe, in primo luogo, tendere un percorso formativo per chi vuole sperimentarsi in tale ambito professionale e su tale aspetto non è inopportuno insistere anche nell’attività di supervisione per questi professionisti.

Alberto Quattrocolo

Obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzista

Obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzista, intesi come bersagli e come fini

L’espressione “obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzista” rinvia ad un duplice significato della parola obiettivo. Cioè, gli obiettivi come risultati perseguiti dall’azione polemica svolta, in chiave antibuonista, dal nazionalrazzismo; e gli obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzista intesi come bersagli di un’azione di tipo conflittuale-offensivo.

Avevo proposto il termine nazionalrazzismo in riferimento a quell’insieme di organizzazioni, per lo più politiche, impegnate a proporre un’identificazione tra razza e nazione italiana, a stimolare la xenofobia e a trasformarla in odio per i migranti, per sfruttare questi sentimenti ai fini della conquista del potere politico[1].

Gli obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzista in termini di bersagli sono tantissimi: gli immigrati (tanto i cosiddetti migranti economici, quanto i rifugiati e i richiedenti asilo), i nomadi, tutti coloro che non si allineano al pensiero nazionalrazzista e ancor di più tutti coloro che vi si oppongono. Ma tra questi bersagli, alcuni sono più attaccati di altri.

In particolare tra le persone più note, gli obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzista più frequentemente colpiti sono la presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e Papa Francesco.

 

Papa Francesco, Mattarella e Boldrini sono in cima alla lista degli obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzista

Nei confronti della Boldrini il livello degli attacchi in molti casi è davvero di una bassezza sconsolante. Si va dagli insulti e dalle minacce, quasi sempre a sfondo sessuale (e sarebbe da ricordare che già Grillo l’aveva presa di mira, quando aveva chiesto: cosa le fareste?) ad altre aggressioni in cui il livello di violenza non si abbassa, ma semmai si fa più contorto: ad esempio, le viene rinfacciato l’attentato di Barcellona; le viene addossata da Giorgia Meloni la colpa per le violenze commesse dal branco di Rimini, mentre, sempre rispetto a tali crimini, un sindaco leghista di un comune ligure posta sui Facebook la proposta di mandare il “capo” di quegli stupratori a casa sua. L’elenco potrebbe continuare, ma mi pare che siano più che sufficienti gli esempi citati.

Anche rispetto agli attacchi a Mattarella mi limito a ricordare quelli della Lega Nord e di Casa Pound seguenti alle sue parole sulla tragedia di Marcinelle (ho già citato questa polemica in un altro post sul tentativo del nazionalrazzismo di sviluppare un conflitto razziale in Italia) e quelli del segretario della Lega che lo accusa di essere complice degli scafisti.

In entrambi i casi la “colpa”, la “provocazione”, del capo dello Stato sarebbe stata quella di paragonare i milioni di migranti italiani che cercarono lavoro all’estero (in Belgio nel primo caso, in Argentina rispetto alla seconda polemica citata) con i migranti che arrivano in Italia oggi.

Ma i nazionalrazzisti, che tanto insistono sulle nostre radici cristiane, tratto considerato come caratterizzante la cultura occidentale, l’identità europea e la “razza italiana”, non provano minor risentimento verso il pontefice.

La sua netta, e ribadita più volte, presa di posizione contri i muri – a partire da quelli proposta da Donald Trump -, il suo costante ricordare che assicurare l’accoglienza dei migranti significa mettere in pratica valori cristiani, il suo continuo, implicito, opporsi alle campagne d’odio e alle generalizzazioni svolte da movimenti xenofobi e razzisti, lo mettono al primo posto del risentimento nazionalrazzista. Come dimostra, tra i tanti esempi, il servizio trasmesso da Piazza Pulita, giovedì 5 ottobre su La 7.

Infatti, nelle affermazioni di Papa Francesco il nazionalrazzismo trova una potente e profonda smentita di un aspetto fondamentale della sua propaganda: la difesa dei valori occidentali e dell’identità cristiana. Tanto che all’interno del nazionalrazzismo si arriva a dire che “il prossimo” di cui parla il Vangelo è solo colui che è vicino e non è l’altro in generale.

Gli obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzista sono criminalizzati

Sono in molti in politica a tentare di delegittimare l’avversario. Si può anzi dire con minima approssimazione che è un modo di condurre la dialettica politica che accomuna tutte o quasi le forze politiche[2].

Sotto questo aspetto, la tendenza dell’antibuonismo nazionalrazzista alla criminalizzazione degli avversari non pare proprio essere una novità assoluta.

Nulla di nuovo sotto il sole, dunque? Sì, certo. Ma anche nulla di bello sotto il sole. E poi vi è una differenza. Forse più di una.

Normalmente si criminalizza il partito dell’avversario, richiamandosi a comportamenti, indagati o giudicati dalla magistratura, realizzati da personalità di primo o di secondo piano di quel partito.

Il nazionalrazzismo, invece, criminalizza gli avversari politici non in virtù di reati commessi da parlamentari dei partiti presi di mira, ma di illeciti compiuti da altri, che non c’entrano nulla.

Così le brutalità commesse a Rimini da un gruppo di giovani e giovanissimi di origine straniera sono attribuite a colpa della Boldrini. Della violenza commessa ai danni dell’operatrice di un centro di accoglienza per richiedenti asilo, nella retorica nazionalrazzista, sono responsabili i buonisti dei partiti di sinistra. Ancora, del mancato pagamento di biglietti ferroviari o di altri mezzi di trasporto pubblici da parte di alcuni immigrati, sarebbero complici, secondo gli slogan del nazionalrazzismo, la Boldrini & Company.

L’antibuonismo nazionalrazzista usa i fatti di cronaca per dare addosso agli avversari politici

Riguardo a quest’ultimo proposito è interessante un passaggio compiuto da Calderoli alcune settimane fa.

In linea con una comunicazione secondo la quale, se l’autore è un immigrato il reato è meno grave rispetto a quando è italiano colui che ha commesso lo stesso tipo di crimine, si tratti di una rapina, di un furto o di uno stupro (ho già commentato su questo blog la strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri e, più in generale, la sua doppia morale), Calderoli ha proposto il suo commento ad un’aggressione commessa da un migrante ai danni di un autista di autobus a Parma. Nel pezzo “Migrante picchia l’autista del bus”, del Corriere della Sera del 31 agosto, viene riportata una sua affermazione:

«È a persone come queste che si vuole concedere la cittadinanza?»

Non è una battuta particolarmente originale, essendo tale messaggio stato speso più e più volte rispetto ai fatti di Rimini di quest’estate. Ma mi pare costituire la sintesi perfetta non solo della doppia morale nazionalrazzista, ma anche della sottigliezza della sua crociata antibuonista.

Infatti cosa c’entra l’aggressione all’autista di un autobus o la commissione di brutalità e stupri da parte di immigrati con l’approvazione al Senato del disegno di legge sulla cittadinanza, già votato alla Camera?

Nulla. Ma la battuta funziona. Funziona perfettamente. Permette, infatti, di addossare la responsabilità dell’aggressione all’autista non soltanto a chi l’ha compiuta ma anche agli obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzista. Inoltre permette di aggravare la “colpa” di costoro, di criminalizzarli, per il fatto che sono favorevoli alla legge sulla cittadinanza, come se il favore per tale norma significasse essere disponibili a promuovere altre aggressioni ai danni di conducenti o stupri ai danni di donne italiane, comunque occidentali, da parte di immigrati.

 

La logica emotiva dell’antibuonismo nazionalrazzista

Quella proposta di legge prevede la concessione della cittadinanza ai bambini e ai giovani nati e cresciuti in Italia da migranti regolari[3]. Quindi non ha la minima attinenza con il fatto citato polemicamente da Calderoli. Ma per il “pensiero” nazionalrazzista la mancanza di nessi logici non è un problema. La mancata adesione al piano di realtà delle sue campagne d’odio non vale a scoraggiarlo, né d’altra parte serve ad ostacolarle.

Gli obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzista, infatti, vengono colpiti da comunicazioni denigranti e criminalizzanti che non hanno un gran rapporto con i fatti e con la logica razionale, ma ce l’hanno, strettissimo, con la logica di quelle emozioni negative che il nazionalrazzismo vuole alimentare e diffondere.

Secondo il ragionamento proposto da Calderoli, come da altri esponenti della Lega, incluso il leader, i diritti spetterebbero unicamente ai gruppi di persone che a suo giudizio mostrerebbero di meritarseli. E tra questi, ovviamente, non figurano gli immigrati.

Proviamo ad applicare questo principio verso gruppi diversi da quelli contro cui si scaglia sistematicamente il nazionalrazzismo.

Vediamo un po’: a Ibiza, 15 giorni prima che venisse picchiato il conducente di Parma, un suo collega è stato picchiato da una coppia di turisti inglesi. Ibiza dovrebbe chiudere le frontiere agli inglesi, specie se entrano in coppia?

Veniamo all’Italia e agli italiani.

Utilizzando la logica di Calderosi, in primo luogo, il reddito di cittadinanza andrebbe escluso a priori considerando quanti sono i falsi poveri italiani.

Poi non si dovrebbero neppure prendere in considerazioni aumenti salariali rispetto ai dipendenti pubblici, considerando che non pochi “furbetti del cartellino” sono stati colti sul fatto.

Perché discutere sulle indennità di invalidità e sulla loro inadeguatezza, visto l’elevato numero di falsi invalidi? E come può venire in mente di ridurre le tasse alle imprese grandi, medie o piccole, al lavoro autonomo tutto, data la mostruosa dimensione dell’evasione e dell’elusione fiscale?

Ancora seguendo lo schema nazionalrazzista: perché conservare il diritto di voto ai cittadini delle regioni, delle provincie e dei comuni in cui Cosa Nostra, ‘ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita sono nate (una bella fetta del Sud Italia)? Perché riconoscere ancora l’elettorato passivo e attivo a coloro che risiedono in comuni in cui queste organizzazioni criminali operano, prosperano e si radicano (il resto del Sud, il Centro e il Nord Italia).

Rispetto a questo mostruoso fenomeno Made in Italy, come la mettiamo?

Noi italiani, residenti nel Bel Paese, come gruppo, abbiamo dimostrato tutti di meritare la cittadinanza?

Sì, anzi no, ma non importa. Perché le colpe di alcuni non devono ricadere su tutti gli altri.

Ma se utilizzassimo l’impostazione di Calderoli, pensando ai tanti comuni, anche al Nord, sciolti per mafia, ai tanti casi di voto di scambio, all’omertà che permette alle mafie di spadroneggiare senza farsi notare troppo, di sfruttare, di abusare, di estorcere, di commettere violenze e omicidi, di ammazzare l’economia e di schiacciare la libertà di tanti, tantissimi di noi, potremmo provocatoriamente chiederci: è a persone come queste che vogliamo lasciare il diritto di cittadinanza?

 

Gli obiettivi dell’antibuonismo nazionalrazzista come fini

In realtà, è ovvio che l’antibuonismo nazionalrazzista limita agli immigrati la sua tendenza (razzista) a considerare come rivelatori di caratteristiche intrinseche di un intero gruppo i comportamenti negativi di alcuni suoi membri.

È un classico del pregiudizio che le scorrettezze commesse dal membro del gruppo A (in-group) sono viste dagli altri membri come non rappresentative delle qualità dell’intero gruppo.

Mentre, se ad agire male è un membro del gruppo B, out-group rispetto al gruppo A (il gruppo esterno per antonomasia, in tal caso: gli stranieri), quella condotta viene considerata da quelli del gruppo A come rappresentativa del carattere deviante di tutti i membri di B.

Tuttavia, generalmente, il pregiudizio per lo più è inconsapevole, mentre qui la tattica comunicativa è assolutamente premeditata.

Il nazionalrazzismo, infatti, si guarda dal seguire la stessa logica rispetto ai reati e alle altre scorrettezze poste in essere dagli italiani.

Se ne astiene non non perché quella logica è illogica, assurda e grottesca, ma perché l’ultima cosa che il nazionalrazzismo vuole è irritare gli italiani, gli elettori italiani.

Al massimo può rimproverare loro di essere da sempre troppo buoni, ma anche in tal caso, blandisce un potenziale elettorato, tentando di convincerlo di appartenere alla nobile quanto fantomatica “razza italiana”.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Sono ormai diversi i post dedicati sul blog Politica e conflitto al nazionalrazzismo (gli ultimi quattro sono antibuonismo nazionalrazzista, (il)legalità nazionalrazzista, La strumentalizzazione nalzionalrazzista degli stupri, Doppia morale nazionalrazzista. In precedenti post, invece, avevo definito socialrazzismo quel razzismo, più o meno spontaneo, che si sviluppa in chi, pur non essendo un militante, un sostenitore o un elettore di forze politiche nazionalrazziste, manifesta odio verso gli immigrati, in particolare sui social, essendo convinto che l’immigrazione costituisca una minaccia per la sicurezza degli autoctoni tanto sul piano delle protezioni sociali, che sarebbero dissanguate dai costi per l’accoglienza e l’integrazione, quanto su quello dell’ordine pubblico e della legalità.

[2] Più volte in questo blog, ho segnalato che vi è anche una tendenza alla personalizzazione degli attacchi e alla de-umanizzazione dell’avversario. In molti casi, avevo rilevato nel mio piccolo, la competizione politica è giocata anche sul piano della criminalizzazione, facendo anche largo, e poco corretto uso, delle iniziative giudiziarie a carico di avversari politici. Avevo espresso una certa preoccupazione in ordine alla triplice possibilità derivante da tale dinamica relazionale nell’ambito del conflitto politico:

[3] Il disegno di legge prevede che: può diventare cittadino italiano chi è nato in Italia da genitori stranieri, di cui almeno uno in possesso del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo. Occorre che la dichiarazione di volontà di un genitore, o di chi esercita la responsabilità genitoriale, sia presentata al comune di residenza del minore, entro il compimento della maggiore età. In assenza della dichiarazione, chi vuole diventare cittadino italiano può farne richiesta entro due anni dal raggiungimento dei 18 anni di età. Lo straniero nato e residente in Italia legalmente senza interruzioni fino a 18 anni, può chiedere la cittadinanza non entro uno ma entro due anni dal raggiungimento della maggiore età.

antibuonismo nazionalrazzista

Antibuonismo nazionalrazzista

L’antibuonismo nazionalrazzista consiste in primo luogo nel creare i buonisti e nel colpirli

Da molti anni si sente parlare di buonismo e oggi assistiamo ad una sorta di antibuonismo nazionalrazzista. Avevo chiamato nazionalrazzismo (sul blog Politica e conflitto, in una serie di post, che vanno da (il)legalità nazionalrazzista a Nazionalrazzismo) quell’insieme di organizzazioni, per lo più politiche, che contano su un rilevante supporto mediatico,  impegnate nello stimolare e sfruttare la xenofobia, onde trasformarla in odio per i migranti e utilizzarla come mezzo per la conquista del potere politico.

Dopo i migranti il peggior nemico dei nazionalrazzisti sono quelli che essi accusano di essere buonisti. Dopo i migranti? Be’, forse, a ben vedere sono proprio i buonisti coloro contro cui i nazionalrazzisti conducono grossa parte della loro battaglia.

I migranti, ancora una volta, sono soltanto uno strumento della lotta politica del nazionalrazzismo.

Gli immigrati vengono colpiti dalla propaganda e, in particolare dall’antibuonismo nazionalrazzista, per due principali ragioni:

  • Individuare un nemico tangibile e facilmente riconoscibile contro cui far convergere delusioni, frustrazioni, angosce e insicurezze, pregiudizi e fobie degli italiani, serve a distrarli dalle vere cause del disagio e delle diseguaglianze e permette facilmente di proporsi come loro difensori
  • Mettere in condizioni di svantaggio competitivo gli avversari (politici e non solo), ridicolizzandoli e delegittimandoli, proprio attraverso un’articolata crociata antibuonista.

La natura strumentalmente conflittuale del termine buonista

Non sono stati i nazionalrazzisti ad inventare la parola buonismo. Il termine fu coniato da Ernesto Galli della Loggia e si prestò subito ad essere usato per stravolgere la realtà.

Impiegata inizialmente per smascherare sarcasticamente l’atteggiamento ipocrita di chi finge di comportarsi da persona buona per mero opportunismo, la parola è stata utilizzata per ribaltare il senso delle azioni altrui e delegittimarle. Così diventa “buonista” chi ha fiducia nel prossimo, chi pensa che ci si debba rivolgere all’altro educatamente, rispettandolo e cercando di capirne il punto di vista.

Ha scritto Michele Serra:

«serve a ridurre ogni moto di umanità o di gentilezza a un’impostura da ipocriti, e di conseguenza ad assolvere ogni moto di grettezza e di disumanità»

Da sempre in un conflitto giocato sul piano verbale capita che, per mettere l’altro in posizione svantaggiata, si distorca il suo ragionamento, facendolo diventare assurdo, inopportuno, ecc.: è una tattica vecchia come il mondo, di cui la crociata antibuonista del nazionalrazzismo si serve copiosamente e con egregia efficacia.

Nel caso dell’antibuonismo nazionalrazzista l’obiettivo è il seguente: far passare chi non è razzista come se fosse una persona che, per idiozia o per malafede, considera tutti i migranti dei modelli di virtù.

L’ antibuonismo nazionalrazzista capovolge significati e pensieri

Importa poco che chi è favorevole all’accoglienza e all’inclusione dei migranti abbia una rappresentazione non idealizzata di tali persone.

In fondo è sufficiente costringerlo a giocare in difesa. Basta riuscire a farlo apparire propenso all’idealizzazione.

Come? Il gioco è facile, facilissimo. Basta attaccare i migranti, con comunicazioni diffamanti e denigratorie, intrise di violenti pregiudizi, demonizzandoli di continuo, cosicché l’avversario, nella dinamica reattiva del “gioco” in corso, si trovi costretto a comunicare un’ovvietà: cioè che non sono mostri ma esseri umani come tutti gli altri.

A quel punto il gioco è fatto. L’ antibuonismo nazionalrazzista agilmente distorce il ragionamento altrui e lo ripropone come se fosse una continua glorificazione del migrante. In tal modo gli è facile sostenerne la falsità.

Per forza ci riesce! Essendo esseri umani, coloro che emigrano possono essere simpatici o antipatici, gentili o egoisti, socievoli o scontrosi, educati o maleducati, pigri o infaticabili, onesti o disonesti, di mentalità aperta o chiusa.

Il cosiddetto buonista questo fatto lo dà per scontato, come dà per scontato che si tratti di esseri bipedi e implumi. Ma è proprio grazie a questa mancata evidenziazione di un aspetto ovvio che l’antirazzismo cala il suo asso. Stravolge l’osservazione altrui e poi ne “dimostra” l’infondatezza, l’erroneità.

Se poi gli antirazzisti si permettono di porre in rilievo che dietro l’immigrazione vi sono ingiustizie secolari, che i rifugiati sono vittime di atrocità indescrivibili, ecco che l’antibuonismo nazionalrazzista si scatena.

Infatti, ancora una volta, distorcendo il ragionamento antirazzista (cioè la banale osservazione della realtà), lo accusa di dipingere rifugiati e richiedenti asilo, non come vittime, ma come santi martiri e di descrivere anche i cosiddetti migranti economici come pellegrini in odore di santità.

Ancora una volta, la razionalità è messa all’angolo.

Dire che una persona è vittima di un’ingiustizia, infatti, non significa affatto volerla ritrarre come bella, buona e cara. Una vittima di una violenza è una vittima di una violenza, punto e basta. Anche se è considerata da qualcuno antipatica come la puzza e brutta come la fame.

L’articolo 10 della Costituzione italiana riconosce il diritto d’asilo allo straniero cui nel suo Paese è negato l’esercizio delle libertà democratiche riconosciute nel nostro. L’art. 10 non dice che l’asilo è concesso solo a condizione che lo straniero richiedente sia beneducato, gentile, riconoscente, operoso, ecc.

Se la bevono in tanti, anche gli “insospettabili”, questa assurdità dell’accusa buonista

Francesco Francio Mazza su Linkiesta offre uno spunto interessante parlando di quelli che chiama “Uomini buoni” e “Ultras identitari”.

Condivido il disgusto per la strumentalizzazione delle vicende atroci patite dalle persone aggredite e violate, cui si riferisce nell’articolo, ma mi pare che il ragionamento di Mazza induca a riflettere su di un rischio: quello di stravolgere non tanto o soltanto il significato delle parole, ma soprattutto il pensiero e i sentimenti degli interessati.

Intravvedo questo rischio, quando:

  • si definisce “uomo buono” – come se fosse affetto da un difetto cognitivo (cioè come se la denominazione completa fosse “troppo buono”), come se fosse soggetto da un condizionamento ideologico -, chi evidenzia l’assurdità di porre in risalto la nazionalità dell’autore di un reato o di una vittima
  • si accostano le persone non razziste a coloro che considerano la nazionalità del reo un’aggravante e ritengono la non italianità della vittima come un elemento attenuante o come una circostanza che rende il fatto immeritevole di attenzione.

Cosa c’entra la bontà con il non essere razzisti? Non si tratta forse di banale buon senso? Non si tratta di stare dentro i valori che, si dice, innervano la cultura occidentale? Perché il non discriminare dovrebbe essere sinonimo di buonismo?

La polemica antibuonista, nazionalrazzista o meno che sia, in sostanza sostiene che il cosiddetto buonista nasconde i problemi che l’immigrazione porta con sé.

Se qualcuno li nega o li minimizza, certo svolge un’operazione intellettuale sbagliata e disonesta. Ma un conto è riconoscere tali problemi, illustrare il disagio che ne deriva, un altro è demonizzare.

Non è da buonisti – cioè da idioti o da ideologicamente strabici – riconoscere che uno stupro è uno stupro. Chiunque sia l’autore e chiunque sia la vittima.

La logica discriminatoria dell’antibuonismo

Non è da  buonisti affermare che le vittime sono tutte uguali e nessuna è più uguale di un’altra (in riferimento ad altri aspetti discriminatori avevo scritto un altro post relativo alla pericolosa tendenza a fare graduatorie di vittimizzazione: Nessuna vittima è più uguale di un’altra).

Mentre, mi pare, significa essere buonisti (cioè, ipocriti) con gli uni e cattivisti con gli altri:

  • considerare le vittime italiane come più vittime delle persone straniere offese dagli analoghi crimini
  • e ritenere i criminali stranieri più colpevoli degli italiani autori di reati analoghi.

Forse, il punto è che, come proponevo in un vecchio post (La politica della scorrettezza politica), l’antibuonismo è diventato di moda. Si ha orrore della correttezza politica. E, per paura del biasimo collettivo, si finisce con il non accorgersi, nel conformarsi al dogma della scorrettezza politica, di assumere atteggiamenti che sono scorretti sotto ogni profilo.

Però, andando al di là del ragionamento svolto da Francesco Francio Mazza, viene da chiedersi: perché il timore di apparire buonisti induce ad essere offensivi solo verso alcuni gruppi di persone? Tendenzialmente verso quelle che sono in posizione svantaggiata e hanno più difficoltà a difendersi?

Chissà perché il conformismo antibuonista non crea alcuna difficoltà ad essere accondiscendenti e collusivi, o almeno comprensivi e tolleranti, verso chi si comporta come una canaglia.

Buonisti con le canaglie e cattivisti con i poveri diavoli. Come dire: vigliaccheria, meschinità, opportunismo.

Che siano diventati virtù i vizi che metteva alla berlina la grande commedia all’italiana degli anni d’oro del nostro cinema?

L’ antibuonismo nazionalrazzista cavalca l’accoglienza che non funziona e predica il mors tua vita mea

L’ antibuonismo nazionalrazzista, del resto, non si applica soltanto ai fatti di cronaca nera. Per l’ antibuonismo nazionalrazzista tutte le volte che si segnalano problemi di mancata inclusione, di critica integrazione, ciò equivale a dimostrare che l’accoglienza in sé è generatrice di disagi, scontenti, devianze, ecc.

Il carattere assurdo più che drastico delle “soluzioni” proposte dall’antibuonismo nazionalrazzista

Ed ecco che si parla si falsa accoglienza. Invece di formulare proposte per migliorare la situazione, si demonizza l’accoglienza tout court.

Con lo stesso criterio ogni volta che un parto va male si dovrebbe mettere in discussione l’ostetricia come professione. Ogni volta che si verifica un errore giudiziario o che un contenzioso dura oltre l’umanamente tollerabile (il che accade in una grandissima parte dei casi) si dovrebbe mettere in forse l’esistenza dei tribunali. Ogni volta che si verifica un’infezione in corsia si dovrebbero chiudere gli ospedali.

L’antibuonismo nazionalrazzista non riesce a superare la logica per cui “la tua morte è la mia vita”

Inoltre l’ antibuonismo nazionalrazzista non si sofferma neppure un secondo a mettere in discussione il criterio mors tua vita mea sotteso al principio “prima gli italiani”.

Del resto, come accennato nel precedente post su questo blog, (il)legalità nazionalrazzista, l’ antibuonismo nazionalrazzista mette in pratica quel criterio disumano ogni volta che cerca di impedire, con la violenza, ad una famiglia di immigrati di prendere possesso di una casa di edilizia residenziale pubblica legittimamente assegnatale. E poco importa all’ antibuonismo nazionalrazzista se queste persone hanno acquisito la cittadinanza italiana, quel che conta è cacciarle via, per “difendere” gli occupanti abusivi di “pura razza italiana”.

Non viene mai in mente che il problema possa essere anche affrontato in termini diversi dalla “logica” del chi butto giù dalla torre? Evidentemente no.

Sarebbe troppo buonista andare oltre questa ristretta prospettiva?

No, semplicemente, rivelerebbe alla radice il controsenso intrinseco all’antibuonismo nazionalrazzista. Oppure il suo, forse inconscio, rifarsi ad una sorta di darwinismo sociale, o ad un  homo homini lupus in versione 2.0?

L’ antibuonismo nazionalrazzista stigmatizza l’accoglienza che funziona

Del resto alla crociata antibuonista del nazionalrazzismo non piace neanche l’accoglienza che funziona.

Anzi, questa soprattutto le sta sull’anima. Infatti, uno dei messaggi su cui insiste con particolare sistematicità e veemenza è proprio quello teso a far sorgere invidia, rabbia e senso di impari trattamento negli italiani rispetto alle garanzie offerte ai rifugiati e ai richiedenti asilo.

L’antibuonismo nazionalrazzista recita più o meno sempre lo stesso copione  –  proposto del resto anche da quelli che in un precedente post avevo chiamato socialrazzisti (vi avevo dedicato anche La violenza dei socialrazzisti e Conflitti, rabbia e frustrazione sullo sfondo del socialrazzismo): i rifugiati e i richiedenti asilo sono trattati troppo bene, sono viziati e non se lo meritano, mentre gli italiani emigrati all’estero tiravano la cinghia e andavano via per lavorare e non per poltrire.

Piccole dimenticanze dell’ antibuonismo nazionalrazzista

L’ antibuonismo nazionalrazzista, in primo luogo, finge di scordare che l’accusa  di pigrizia, da parte degli altri popoli, soprattutto nordici, gravava sugli italiani tutti, inclusi e per primi quelli emigrati. Al pari di questo stereotipo era altrettanto diffusa la rappresentazione dei migranti italiani come esportatori di criminalità, soprattutto organizzata, e come portatori di una cultura pericolosamente arcaica e retrograda, impossibile da integrare con quella nordamericana o nordeuropea.

In secondo luogo, l’antibuonismo nazionalrazzista trascura il non tanto piccolo dettaglio che i nostri connazionali emigrati nel ‘900, tolti quelli in fuga dal fascismo durante il ventennio e tolti gli ex gerarchi fascisti nell’immediato dopoguerra, erano tutti “migranti economici”.

Come lo sono oggi i nostri giovani, che, formatisi qui, vanno a cercare lavoro all’estero (il che, secondo Confindustria, ci costa circa 15 miliardi all’anno, un punto percentuale di Pil annuo).

Ma nei loro confronti l’antibuonismo nazionalrazzista non pronuncia parole di rimprovero. Per fortuna, aggiungo io. Ma chissà che un domani, andando al governo, il nazionalrazzismo non possa tacciarli di antipatriottismo.

Un altro dettaglio trascurato dall’ antibuonismo nazionalrazzista

Secondo la propaganda nazionalrazzista, i richiedenti asilo, i rifugiati o i titolari di protezione internazionale o umanitaria, dunque, sarebbero troppo coccolati nel nostro Paese (che i nazionalrazzisti accusano di essere irrimediabilmente buonista).

Ebbene i rifugiati sono persone che fuggono dalla guerra o che sono state seviziate, torturate, picchiate, stuprate, discriminate o incarcerate perché non aderenti o non conformi ad una certa “ideologia”. Persone che hanno visto le loro case e i loro cari saltare in aria o che hanno assistito allo sgozzamento, alla decapitazione, alla fucilazione, allo stupro, alla castrazione, oppure al rogo di coniugi, sorelle, fratelli, genitori, amici, colleghi e vicini.

Secondo l’ antibuonismo nazionalrazzista si stava meglio quando si stava peggio

In terzo luogo, per l’antibuonismo nazionalrazzista evidentemente è un male se ai migranti di ieri non era offerto nulla, mentre ai richiedenti asilo di oggi è offerto un supporto.

Chissà, forse per l’antibuonismo nazionalrazzista andrebbe biasimato anche il fatto che un tempo la sanità pubblica non esisteva, mentre gli infortunati di oggi, almeno, possono andare gratis in un pronto soccorso. Forse per l’antibuonismo nazionalrazzista la scoperta degli antibiotici costituisce un’ingiustizia, in particolare verso tutti coloro che per via delle infezioni morirono o subirono amputazioni prima che, nel 1928, Alexander Fleming scoprisse, un po’ casualmente, la penicillina.

Alberto Quattrocolo