(il)legalità nazionalrazzista

La legalità comunemente intesa e la (il)legalità nazionalrazzista

Da tempo alcune organizzazioni politiche (partiti, associazioni e movimenti) svolgono un’insistente campagna centrata sui temi della sicurezza, del degrado urbano, dell’osservanza della legge, riconducibile costantemente alla tematica dell’immigrazione. A mio avviso, si tratta di un tentativo poderoso di diffondere una particolare concezione della legalità, cioè una (il)legalità nazionalrazzista (al nazionalrazzismo ho dedicato diversi post come: La strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri, La doppia morale nazionalrazzista, Propaganda nazionalrazzista e Welfare, Il nazionalrazzismo come politica del conflitto (razziale), Nazionalrazzismo e socialrazzismo).

Tale campagna sulla (il)legalità nazionalrazzista è svolta con toni e accenti diversi, ma quasi costantemente propone una doppia denuncia: quello del fenomeno migratorio, come generatore di un’illegalità diffusa, e quello delle politiche dell’accoglienza, come complici della crescita dell’illegalità.

Il diritto e la (il)legalità nazionalrazzista

Ma a che tipo di legalità si riferisce il nazionalrazzismo? E, prima ancora, la legalità è sempre un valore?

La risposta a questa domanda non è facilissima. Ma, per semplificare le cose e stare banalmente su un piano di buon senso, direi che si può rispondere così: «dipende».

Cioè, quando si afferma che la legalità è un valore s’intende dire che è un valore l’osservanza della legge da parte dei consociati. Ma il rispetto della legge è sempre un valore?

Dipende da qual è la legge da rispettare.

Infatti: non vi è un granché da discutere quando si pensi alla violazione delle norme che proibiscono e puniscono il furto, la truffa, la rapina, l’omicidio, il voto di scambio, la partecipazione ad un’organizzazione di stampo mafioso, ecc.; mentre è discutibile che il rispetto della legge sia un valore positivo rispetto ad altre situazioni.

Ad esempio, è discutibile che fosse ammirevole l’osservanza della Legge per la protezione del sangue e dell’onore tedesco e della Legge sulla cittadinanza del Reich (cioè due “delle leggi di Norimberga”, promulgate il 15 settembre 1935 dal Reichstag del Partito Nazionalsocialista, convocato a Norimberga).

Riusciva difficile all’epoca per molti tedeschi considerare il rispetto di quelle norme come qualcosa di moralmente ed eticamente lecito. Ed è improponibile oggi affermare che la loro osservanza avesse a che fare con la legalità comunemente intesa. Quella a cui ci si riferisce quando si pensa alle leggi che sanzionano la pedofilia, l’evasione fiscale, la corruzione, l’inquinamento ambientale o l’abuso edilizio.

È da reputarsi come positivo l’essere stati rispettosi della legalità, applicando e osservando le leggi razziali fasciste del 1938? Violava il valore della legalità chi cercava di impedirne l’applicazione? Era rispettoso della legalità rispondere alla chiamata alle armi dei bandi Graziani (Ministro della Difesa della Repubblica Sociale Italiana) del ’43 e del ’44, che punivano con la morte i renitenti e i disertori?[1]

Quindi, la questione non è il rispetto della legge in sé, ma il rispetto delle leggi conformi a quelli che l’articolo 2 della nostra Costituzione chiama «i diritti inviolabili dell’uomo».

La (il)legalità nazionalrazzista è conforme a tali diritti? E, quindi, in Italia, difende, come afferma di fare, il valore della legalità?

Non esattamente, direi. Credo che, perciò, si possa parlare di (il)legalità nazionalrazzista. E, forse, si potrebbe togliere la parentesi e scrivere esplicitamente: illegalità nazionalrazzista.

Prepotenze e altre condotte all’insegna della (il)legalità nazionalrazzista

Che tipo di legalità, infatti, è quella delle prepotenze violente realizzate da militanti e leader nazionalrazzisti (ma anche da quelli che altrove ho chiamato socialrazzisti)?

Mi riferisco, tra i tanti, troppi, casi, al seguente: il 27 settembre a Roma, la protesta dei militanti di estrema destra, per la consegna di un’abitazione popolare a una famiglia italiana, ma in parte di origine etiope, ha portato al ferimento di tre poliziotti, colpiti alla testa da sampietrini. Sono stati arrestati 4 militanti (per lesioni e resistenza a pubblico ufficiale) tra cui il leader del movimento di estrema destra “Roma ai romani”, Giuliano Castellino.

La famiglia assegnataria, composta da madre (etiope), padre (italiano) e un bambino piccolo, dopo gli scontri, insultata dagli abitanti, è andata via dal quartiere[2].

Anche ammesso che vi sia l’intenzione di tutelare delle persone disagiate, come gli abitanti abusivi sfrattati, che razza di legalità è quella consistente nello scacciare, con violenza fisica e verbale, a mo’ di linciaggio, altre persone, che versano in analoghe o peggiori condizioni di disagio e che sono, perciò, legittime assegnatarie di alloggi di edilizia popolare?

Soffermiamoci un attimo sul caso del 27 settembre. La signora è di origine eritrea, che gravissima colpa!

Infatti, arriva da un luogo in cui la dittatura di Isaias Afewerki, che dura dal 1993, lo ha reso il secondo stato più militarizzato al mondo. Si tratta , di un Paese, di religione cristiano ortodossa, in cui sono state abolite le elezioni, la libertà di stampa e impedito l’accesso a giornalisti stranieri, dove si applicano torture spaventose ai prigionieri, dove c’è la leva obbligatoria a tempo indeterminato (il che impedisce di espatriare legalmente, visto che nessun uomo può avere un passaporto prima dei 60 anni). Ah, dimenticavo un paio di particolari.

  • È anche il Paese che fu una colonia italiana in cui giunsero oltre centomila immigrati nostri connazionali.
  • È il Paese il cui dittatore poteva contare sulla collaborazione tra gli altri di Pier Gianni Prosperini. Si proprio l’ex assessore di AN della giunta Formigoni che, come ricordava settimane fa Gian Antonio Stella sul Corriere, definiva il dittatore Afewerki «un uomo capace e sagace», un leader dalla «mano ferma e paterna», qualificava come traditori quelli che fuggivano dal Paese e balle quelle sulle torture e le violenze. Prosperini è stato condannato per aver rifornito di  armi e munizioni il regime di Isaias Afewerki, eludendo i controlli internazionali e violando gli embarghi, in cambio di  un’entrata illecita semestrale.

Ah, Pier Gianni Prosperini era anche colui che in ogni occasione ripeteva come un mantra:

«Camèl, barchèta e te turnet a ca’. Capì? Possono restare da noi solo quelli che condividono i nostri valori e rispettano le nostre leggi. Non ti va bene? Camèl, barchèta e te turnet a ca’».

Nel 2009 era stato arrestato per avere incassato una tangente da 230 000 euro su un appalto da 7,5 milioni di euro (richiese un patteggiamento).

La (il)legalità nazionalrazzista e la legge 205 del 1993

In Italia vige una normativa, la legge 25 giugno 1993, n. 205 (e successive modifiche e integrazioni), la cosiddetta “Legge Mancino”, che punisce gesti, azioni e slogan aventi per scopo l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali, oltre all’utilizzo di simboli razzisti.

Sulla violazione della legge Mancino, in particolare mediante comunicazioni su internet, era stato intervistato da Famiglia Cristiana, a fine ottobre del 2016, il prof. Giovanni Ziccardi, il quale si era soffermato sulla difficile distinzione tra libertà di espressione e apologia di reato.

Ma per stare ad un livello più cronachistico basta dare un’occhiata alla home page del sito Cronache di ordinario razzismo, per avere una sintesi del mancato rispetto della legge 205 del ’93 e di altre leggi da parte dell’insieme delle organizzazioni che mi sono permesso di definire nazionalrazziste.

Modestamente aggiungo che sono moltissimi i comportamenti e le dichiarazioni di politici, giornalisti e opinionisti che mi paiono contrastare spettacolarmente con quelle norme: se non sempre con il loro testo letterale, invariabilmente con la loro sostanza, la cosiddetta ratio legis.

Tra i comportamenti più plateali vi è il manifesto, proposto da Forza Nuova, con l’immagine raffigurante un uomo nero che aggredisce e tenta di spogliare una donna bianca e sopra la scritta:

Difendila dai nuovi invasori, potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia“.

Il manifesto è una leggera modifica di quello diffuso nel ‘44 dalla Repubblica sociale italiana, raffigurante un soldato statunitense, che per la propaganda repubblichina costituiva l’invasore straniero, intento a strappare con violenza la camicetta di una donna bianca.

Quello citato non è certo il primo “manifesto” palesemente razzista di questo partito: un’altra immagine, visibile il 31 maggio di quest’anno, sempre sulla pagina di Forza Nuova, era quella di Mbayeb Bousso, la studentessa quindicenne che, vestita con un abito tricolore, aveva accolto il Presidente Mattarella a Mirandola. La scritta sotto l’immagine era:

Non è questa l’Italia che vogliamo

Nel testo sottostante si leggeva la “ratio” di tale immagine: contrastare la “sostituzione etnica”. In breve: ce l’hanno e ce l’avevano con il disegno di legge sul diritto di cittadinanza (impropriamente chiamata legge sullo Ius Soli, quando è, invece, soprattutto una legge sullo Ius Culturae).

Piano Kalergi e programmi di (il)legalità nazionalrazzista

Un tema, quello della sostituzione etnica di popolo, caratterizzato da assordanti richiami alle citate leggi razziste del Terzo Reich e del regime fascista italiano, che Matteo Salvini propone con insistenza, da un po’ di anni in qua, intrecciandolo con quello della legalità.

La difesa della legalità e la difesa della razza italiana (fino a qualche anno fa la Lega parlava di razza padana, che andava difesa dai “terroni”, dagli albanesi e dai rumeni), secondo Salvini, sono intrecciate.

Il “Piano Kalergi” una teoria del complotto, a dir poco, estremista, ritiene che sia in atto una cospirazione per effettuare un “genocidio programmato dei popoli europei“, grazie all’immigrazione di massa, onde giungere a “distruggere completamente il volto del Vecchio continente“, a seguito dell’incrocio dei “popoli europei con razze asiatiche e di colore, per creare un gregge multietnico senza qualità e facilmente dominabile dall’élite al potere“.

Ne aveva parlato Salvini nel febbraio del 2015, asserendo che dietro c’era l’Unione Europea, poi a maggio in un’intervista a SkyTg24, quindi alla festa leghista di Ponte di Legno del 15 agosto 2016, allorché aveva provocato una reazione dei principali sindacati nazionali di polizia. Perché, avevano reagito?

Non soltanto perché aveva parlato di «un tentativo di genocidio delle popolazioni che abitano l’Italia da qualche secolo e che qualcuno vorrebbe soppiantare con decine di migliaia di persone che arrivano da altre parti del mondo»[3]. Ma, soprattutto, perché, indossando una felpa della Polizia di Stato, aveva promesso che, una volta andato al Governo, avrebbe difeso la legalità dando mano libera a polizia e carabinieri per “ripulire” le nostre città[4].

Per rimediare ai “mali della società”, Salvini aveva anche incitato a sgomberare gli alberghi in cui erano ospitati i migranti e aveva proposto di caricare questi ultimi su di un furgone e mollarli «in mezzo al bosco a 200 chilometri, così ci mettono un po’ a tornare».

Stava parlando di rifugiati e richiedenti asilo, cioè di coloro cui parla l’art. 10 della Costituzione, stabilendo che vanno accolti, in quanto non è loro concesso l’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Repubblica italiana.

Alla faccia della legalità!

Forse, proprio per non contraddire se stesso, cioè la sua campagna sulla legalità (nazionalrazzista, aggiungo io), il segretario della Lega, poche settimane fa, ha proposto di abolire la legge Mancino e la legge Fiano. Così, l’illegalità nazionalrazzista, sotto questo aspetto, sarebbe a posto, cioè diventerebbe legale.

Sì, lo sarebbe formalmente, ma non sostanzialmente, non potendosi considerare democratico un ordinamento che, non vietandoli, autorizza sia l’incitamento alla violenza e alla discriminazione di matrice razzista, che la creazione e lo sviluppo di organizzazioni fasciste preordinate a sovvertire proprio la democrazia.

 

Mano libera alla polizia come progetto di (il)legalità nazionalrazzista

Sullo stesso registro, e nell’ambito dello stesso discorso tenuto sul palco della Pontida il 17 settembre di quest’anno, si colloca la ripresa dello slogan delle mani libere alla polizia, da parte di Matteo Salvini.

È apparentemente paradossale che il leader di un partito che, si richiama così spesso ai temi della democrazia (soprattutto quando, a Napoli, vi sono manifestazioni antileghiste realizzate da altri, e quando qualifica come antidemocratici provvedimenti giudiziari che riguardano il suo partito, segnatamente le sue casse, o singoli esponenti di questo)[5], della legalità e dei valori occidentali, trascuri il dettaglio che quando le forze dell’ordine hanno le mani libere, quando sono svincolate dalle procedure e dalle regole previste dalla legge, trionfa proprio l’illegalità.

Trionfano le illegalità poste in essere direttamente dalle forze dell’ordine e quelle che, in base al tipo di reato, a chi ne è l’autore o la vittima, non disturbano le forze di polizia e chi politicamente le comanda.

Questo risvolto ce lo insegnano la storia e la cronaca. Basta voltarsi indietro e ripensare ai paesi sotto il dominio comunista, all’Italia sotto il fascismo, alla Germania nazista o alla Spagna franchista, alle dittature centro e sud-americane, oppure guardare ora, verso sud o verso est, oltre l’orizzonte, proprio là dove provengono tanti di coloro contro i quali il nazionalrazzismo cerca di stimolare la paura e la rabbia.

Dare mano libera alle forze dell’ordine significa proporre la cosa più antidemocratica che possa venire in mente, essendo questo proprio il requisito di base dei regimi autoritari e delle dittature. Significa, infatti, lasciare il monopolio dell’uso legittimo della violenza a soggetti che, svincolati dalle regole, agirebbero soltanto in virtù di arbitrari indirizzi politici.

La “politica” della ruspa e la (il)legalità nazionalrazzista

Invece, sono proprio le regole quelle che fanno la differenza tra una democrazia e altri tipi di regimi. Ce l’hanno spiegato, tra gli altri, Cesare Beccaria, gli autori della Costituzione degli Stati Uniti e i padri costituenti italiani, coloro che li hanno preceduti e, poi, politologi come Giovanni Sartori, costituzionalisti come Gustavo Zagrebelski e tanti, davvero tanti, altri.

Recentemente anche Steven Spielberg, con il Ponte delle spie, ce lo ha ricordato. Mi riferisco alla scena in cui l’avvocato James Donovan (Tom Hanks), rivolgendosi all’agente della C.I.A., afferma:

«Io sono irlandese, lei è tedesco, ma cosa ci rende entrambi americani? Una cosa sola, una, una, una: il manuale delle regole. Lo chiamiamo Costituzione e ne accettiamo le regole. È questo ciò che ci rende americani, solamente questo».

Le regole cui si riferisce sono quelle che assicurano il diritto di difesa anche ad una spia del KGB. Dice ancora Donovan:

«Ogni uomo merita una difesa, ogni uomo è importante».

Le regole a cui si riferisce, analoghe a quelle che valgono da noi, non sono compatibili con gli slogan che invocano l’uso della ruspa per spostare degli esseri umani. Perché belli o brutti, buoni o cattivi, onesti o disonesti, sono, appunto, esseri umani. E ogni essere umano è importante.

Come si può teorizzare la tutela del diritto alla sicurezza e alla tranquillità di qualcuno attraverso il mancato rispetto dei diritti inviolabili, dell’umanità, dell’altro? Non si può.

Non si proclama che due torti fanno una ragione, che dei comportamenti scorretti o perfino illeciti autorizzano l’arbitrio e la violenza dello Stato.

Sempreché si voglia vivere in un sistema democratico.

Sempreché, quando ci si definisce patriottici, si abbia in mente non una patria che durò poco più di vent’anni ed ebbe fine il 25/4/1945, ma una patria definita: «una Repubblica democratica, fondata sul lavoro, la cui sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione».

 

Alberto Quattrocolo

[1] Ancora: la legalità è un valore se pensiamo alle leggi degli Stati segregazionisti degli Stati Uniti, all’ordinamento sovietico, alle leggi sudafricane sull’Apartheid, oppure, per venire ai giorni nostri, alle norme introdotte da Erdogan in Turchia e agli ordinamenti repressivi delle libertà fondamentali (dei diritti civili e dei diritti politici) di tanti altri Paesi? L’elenco delle leggi attuali, vigenti in giro per il Mondo, considerate moralmente raccapriccianti potrebbe essere, invero, lunghissimo.

[2] Altri esempi di analoghi abusi e sopraffazioni, cioè di illegalità nazionalrazziste avvenute a Roma, sono:

  • Il 6 dicembre del 2016 , urlando ripetutamente “Non vogliamo negri né stranieri qui, ma soltanto italiani“, un gruppo di manifestanti ha impedito ad una famiglia marocchina (con tre figli, è composta da madre disoccupata e operaio edile con reddito annuo di 12mil), che ha rinunciato a voler abitare lì, di prendere legittimamente possesso dell’alloggio assegnatole e sgomberato alcune settimane prima perché occupato abusivamente
  • A gennaio di quest’anno, alcune decine di militanti di Forza Nuova, CasaPound, “Roma ai romani” e “Alcuni italiani non si arrendono” hanno impedito ad una famiglia, composta da padre, madre e 5 figli di origine egiziana, di prendere possesso dell’alloggio Ater, occupato abusivamente da una coppia di romani (lei 17enne, incinta, lui ventenne precario)
  • Howlader Dulal di 52 anni, di origine bengalese con cittadinanza italiana a fine giugno, è stato aggredito a calci e pugni in largo Ferruccio Mengaroni a Roma, da quattro ragazzi italiani tra i 20 e i 25 anni ai quali stava chiedendo informazioni per raggiungere l’abitazione popolare assegnatagli dal Comune per la sua famiglia. Dulal lavora in un ristorante e viveva con la sua famiglia in un appartamento di 40 metri quadri. Ha due figli, di cui uno disabile ed era nono in graduatoria tra gli aventi diritto all’alloggio popolare.

[3] Il testo citato è soltanto uno degli esempi, insieme alle citazioni precedenti, che mi hanno indotto ad usare l’aggettivo nazionalrazzista in relazione a soggetti, movimenti, forze politiche e altre organizzazioni che propongono una politica basata sull’esaltazione dell’identità nazionale e sulla demonizzazione degli immigrati. Mi pare, infatti, che termini come populista, sovranista, (ultra)patriottico o xenofobo si prestino poco a descrivere questo tipo di organizzazioni, che vogliono diffondere l’idea di una razza italiana (come già faceva il manifesto della razza del 1938), o tutt’al più europea, e che promuovono l’odio verso i migranti, definendoli nemici di quella razza.

[4] Giuseppe Tiani, segretario del SIAP aveva affermato: «non è accettabile che un politico come Salvini possa continuare a permettersi d’indossare la divisa della Polizia di Stato promettendo che se dovesse andare al Governo utilizzerà poliziotti o carabinieri per una sorta di delirante demagogica e pericolosa ‘pulizia etnica’. Corre l’obbligo di ricordare a Salvini che l’ultimo governo di cui la Lega ha fatto parte è quello dei tagli lineari a tutte le Forze di Polizia i cui effetti nefasti paghiamo ancora oggi nonostante l’emergenza sul fronte dell’immigrazione e del terrorismo. Quanto accaduto ieri a Ponte di Legno è un atto gravissimo perché si tenta di manipolare sul piano politico il ruolo delle Forze di polizia che sono terze e rispondono solo agli interessi dello Stato e delle politiche di Governo legittimate dalle procedure democratiche. Si tratta dell’ennesimo atto provocatorio davanti al quale i poliziotti democratici prendono le dovute e doverose distanze».

[5] Non molto tempo fa disse: «La Lega è estremamente preoccupata per il clima in cui versa l’Italia. Renzi sta instaurando un regime staliniano: il Parlamento è comprato, la magistratura schierata e la tv pubblica militarmente occupata. A me l’aria che puzza di Unione Sovietica non piace».

strumentalizzazione stupri

Strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri

La strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri passa sopra il dolore delle vittime e dei loro cari

Su certa stampa e su certi social media è in corso un’insistente strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri (sul blog ormai sono diversi i post dedicati al tema del nazionalrazzismo). Si tratta di una comunicazione che non ha alcun riguardo per le persone che coinvolge: le vittime, coloro che ad esse vogliono bene e le popolazioni criminalizzate dalla retorica nazionalrazzista.

Partiamo dalle vittime.

Quando siamo vittime di una prepotenza, di un sopruso, di una violenza, ci capita di chiederci “perché?” E vorremmo chiedere all’aggressore proprio questo: Perché? Perché l’hai fatto? Come hai potuto? Non ti sei reso conto che sono un essere umano e non una cosa?

Da vittime di una violenza sentiamo il bisogno di una risposta a queste e ad altre domande che stanno su non dissimili registri. E abbiamo bisogno, quindi, di giustizia, di riparazione. Di una giustizia e di una riparazione che non sono solo quelle conseguibili nei tribunali.

Così, molto spesso non ci placa la più esemplare delle sanzioni detentive per il reo, né ci basta la sua condanna ad un risarcimento economico, per quanto cospicuo. Abbiamo bisogno di qualcosa di più e di diverso. Di un significato. Abbiamo bisogno di colmare una voragine, un vuoto di senso. Di trovare uno spazio di recupero. Anche di ritrovare la serenità derivante dal potersi (ri)fidare degli altri.

Ma non è per questo tipo di esigenze – morali, esistenziali, emotivo-affettive, relazionali, piscologiche e sociali – che esistono le procedure giudiziarie e le aule di tribunale[1].

Spetta ad altri pezzi della società interessarsi a queste dimensioni. In parte spetta anche alla politica. E la strumentalizzazione della sofferenza della vittima da qualsiasi parte arrivi, quale che sia l’intenzione con la quale è svolta, non soltanto non fornisce risposte a quelle domande e a quelle esigenze, ma rischia fortemente di ri-vittimizzare la persona offesa dal delitto e tutti coloro che patiscono con lei. L’effetto, infatti, può essere quello di sentirsi ancora una volta trattati come oggetti, essendo considerati soltanto come esempi, come numeri, insomma, come assi da calare sul tavolo della partita elettorale.

Così le affermazioni del deputato leghista Cristian Invernizzi (la proposta della castrazione chimica, l’accusa di corresponsabilità rivolta a chi è a favore dell’accoglienza) – a commento dello stupro dell’operatrice ventiseienne di una struttura di accoglienza nella Bassa Bergamasca, che ospita 31 richiedenti asilo – assai poco probabilmente possono risuonare in termini di vicinanza emotiva, di reale interesse umano per la vittima di quell’aggressione violentissima e oltraggiosa.

Che differenza tra le parole del deputato e quelle di Daniela Testa, la collega dell’educatrice che ha subito quella violenza sessuale, riferite dal Corriere della Sera! Da una parte un esponente politico che stimola emozioni violente e odio, dall’altra una persona che spiega e che ragiona.

Come non pensare anche alla signora Chinyery, la vedova di Emmanuel Chidi Namdi, il 36enne richiedente asilo, scampato alle carneficine di Boko Haram, che in Nigeria aveva ucciso i genitori della coppia e la loro figlioletta? Dopo la condanna di Amedeo Mancini, l’italiano che a Fermo aveva picchiato a morte Emmanuel, intervenuto in difesa della compagna dai suoi insulti razzisti, Chinyery ha rinunciato a ogni azione risarcitoria, in cambio dell’impegno del condannato a pagare i 5.000 Euro per il rimpatrio della salma. Poi ha dichiarato: «Non lo odio. Vorrei solo che avesse il coraggio di guardarmi e dirmi perché, però adesso è tardi»[2].

La superficialità delle analisi nazionalrazziste sulle violenze sessuali

Ciò che conta, per questa campagna nazionalrazzista, è dipingere tutti i migranti come probabili stupratori.

Perciò la strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri viene svolta con una superficialità impressionante.

Tale superficialità emerge, in primo luogo, dal fatto che il nazionalrazzismo limita il suo “discorso” ai dati disponibili, cioè a quelli relativi alle violenze denunciate. E ci si avventa sopra, asserendo che gli immigrati stuprano 4 volte di più degli italiani.

Ma trascura un piccolo particolare: la violenza sessuale è messa in atto soprattutto in famiglia e per lo più da maschi italiani.

È quasi nauseante dover andare a studiare i numeri, ma a volte tocca farlo, sperando di non risultare minimizzanti verso le sofferenze personali e familiari degli individui coinvolti.

Il Ministero dell’Interno ha diffuso i dati relativi ai primi 7 mesi dell’anno: 2.333 casi di stupro nel 2017 e 2.438 persone denunciate o arrestate[3]. Tra queste, 1.534 sono italiane e 904 straniere, dunque, è apparentemente vero che quasi 4 denunciati su 10 (esattamente il 37%) sono stranieri, ma non è vero che 4 su 10 sono immigrati[4].

Se consideriamo il totale degli immigrati, si ha che uno ogni 1.300 è stato denunciato per violenza sessuale. Il che significa un’incidenza non quadrupla, ma doppia[5]. Che è tanto, tantissimo, perché il numero dovrebbe essere zero. Come per gli italiani, del resto.

Inoltre, è discutibile il tentativo di ricondurre la maggior parte degli stupri commessi da stranieri a coloro che arrivano dalle coste africane sui barconi[6]. Come rileva il giornale on line TPI, «le nazionalità coinvolte in misura superiore non sono quelle a cui rimanda la retorica anti-migranti diffusa nel nostro paese, che accusa soprattutto persone provenienti sui barconi dalle coste dell’Africa. Per questo è più corretto parlare di stranieri in generale, non di migranti[7]».

La lacunosità dei dati ufficiali è taciuta dalla strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri

Naturalmente alla campagna d’odio nazionalrazzista non interessa granché considerare che i dati ufficiali sulle violenze sessuali denunciate possano non essere realmente rappresentativi delle caratteristiche del fenomeno. Otto casi su dieci restano ignoti. Quindi, conosciamo le caratteristiche degli autori e delle vittime soltanto di due casi su dieci. Chi sono le vittime e chi sono gli autori nell’80% dei casi? Non lo sappiamo.

  • Le vittime potrebbero essere tutte donne italiane che si sono astenute dal denunciare dei violentatori immigrati ? Teoricamente è possibile.
  • Potrebbe esservi anche nel sommerso la stessa distribuzione delle nazionalità degli autori di reato rilevata per gli stupri noti? È possibile.
  • Ma è anche possibile che siano per lo più stupri commessi ai danni di donne italiane o straniere da parte di partner, ex partner, famigliari, amici o conoscenti. Sono, infatti, questi i casi in cui più rare sono le denunce. E, se così fosse, potremmo essere certi che responsabili degli stupri non siano, in realtà, in schiacciante maggioranza proprio gli italiani?
  • Oppure, e non vi sarebbe da stupirsi, potrebbe anche darsi che gli immigrati siano stupratori esattamente nella stessa misura in cui lo sono gli italiani.

In tutti i casi, la questione riguarda la rappresentazione che il mondo maschile ha della donna. Ed è da folli, da disinformati o da malintenzionati affermare che ciò interessi soltanto le culture di provenienza degli immigrati.

Altre “piccole” dimenticanze della strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri

Vi sono alcuni aspetti sull’orribile fenomeno della violenza sessuale che la strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri non si cura di fare presente nella sua martellante propaganda. Ad esempio, nella campagna nazionalrazzista c’è un silenzio assordante sulle situazioni in cui la vittima non è italiana.

I clienti delle vittime della tratta sono perlopiù italiani

A proposito delle vittime straniere di stupro, come si spiega che alla propaganda nazionalrazzista non venga mai in mente di considerare le vittime della tratta a scopo di sfruttamento sessuale[8]?

I trafficanti e gli sfruttatori sottopongono queste giovani, spesso minorenni (ma c’è anche la tratta dei ragazzini ed è in crescita), a violenze di tutti i tipi, con un’intensità e una crudeltà inaudite. Ma queste ragazze sono anche stuprate, sia in senso letterale che in senso più ampio, dai clienti.

Naturalmente alla propaganda nazionalrazzista, intenta a promuovere l’idea del nero che aggredisce la donna bianca, come fa Forza Nuova con un suo recente manifesto, non conviene affatto far presente che a rendere possibile questo traffico di esseri umani sono gli italiani e gli europei. E non mi riferisco soltanto alla criminalità organizzata autoctona (Cosa Nostra, ad esempio), che pure in tale traffico è coinvolta parecchio e ci lucra tantissimo. Mi riferisco anche ai clienti. Perché, trattandosi di un mercato, anche in tale caso, senza domanda non ci sarebbe offerta.

Inoltre, come si potrebbe definire il rapporto sessuale di un uomo con una ragazza (spesso una ragazzina), a dir poco spaventata, costretta con ricatti di varia natura e con spietata violenza fisica a stare sulla strada per farsi caricare? Non è qualcosa di simile allo stupro anche l’atto compiuto dai clienti su queste giovanissime, costrette a prostituirsi? Clienti che, guarda un po’, sono quasi tutti italiani.

Occorre proprio ricordare che il codice penale punisce chiunque induca qualcuno a compiere atti sessuali “abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica”? Si può negare che le ragazze vittime di tratta siano in condizioni di inferiorità fisica o psichica?

Se possiamo equiparare alla violenza sessuale i rapporti sessuali dei clienti con le ragazze vittime della tratta, come cambiano, allora, i numeri e le proporzioni su cui tanto si concentra il nazionalrazzismo per sostenere la naturale perversità degli immigrati?

Anche l’orribile primato del turismo sessuale tocca agli italiani

Ancora: se prendiamo in considerazione il turismo sessuale degli italiani, come cambiano, allora, i numeri? Cosa ci dice questo fenomeno rispetto all’inclinazione degli italiani allo stupro e alla pedofilia?

Come mai su questo schifoso fenomeno il nazionalrazzismo non compie le solite generalizzazioni e non propone castrazioni chimiche per i sex offenders? Perché la strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri trascura il fatto, segnalato tempo fa da Ecpat Italia, che gli italiani (per lo più uomini) sono ai primi posti come clienti di bambine e bambini fatti prostituire in Paesi del Terzo Mondo?

Ricordiamoci che, tra gli altri quotidiani, appena due anni fa, Il Giornale segnalava che l’Ente bilaterale nazionale del turismo (Ebnt) denunciava il primato italiano nel turismo sessuale: 80.000 italiani.

Diciamolo: ottantamila italiani che stuprano! A meno che qualcuno non voglia tirare in ballo anche in tal caso qualche grottesca scusa, sulla falsariga dell’aberrante teoria della vis grata puellae (t.l.: “la violenza è gradita alla fanciulla”).

Se applicassimo al turismo sessuale la generalizzazione compiuta dalla strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri ai danni degli immigrati, a quale conclusione dovremmo pervenire? Che tutti i maschi italiani sono pedofili stupratori?

Quale manifesto, sullo stile di quello di Forza Nuova, andrebbe confezionato in tal caso? Forse l’immagine di un bambino e di una bambina dalla pelle scura, aggrediti sessualmente da un uomo bianco, che ha il tricolore italiano stampato sulla camicia?

Sarebbe una rappresentazione degli italiani intollerabilmente ingiusta, volgarmente offensiva e diabolicamente perversa, oltre che di cattivissimo gusto. Come, mi permetto di dire, è intollerabilmente ingiusto, volgarmente offensivo, diabolicamente perverso e di cattivissimo gusto il manifesto di Forza Nuova.

Le donne straniere in Italia sono più vittime di quelle italiane

Marco Cobianchi su il Giornale del 24 settembre di quest’anno, citando il sito Truenumbers.it, scrive che le donne straniere sono più esposte di quelle italiane alla violenza, cioè allo stupro e al femminicidio. E lo stesso dicasi per i bambini stranieri.

Puntualizza Cobianchi che, «se si separa lo scandalo collettivo e la prurigine giornalistica dai fatti veri, si scopre che, in realtà, l’Italia è un Paese dove le donne sono infinitamente più rispettate che in altri Paesi o altre culture. Parlare di statistiche quando si tratta un tema così delicato può sembrare crudele, ma se si vuole capire che cosa succede nella pancia del Paese bisogna guardare i numeri e non i giornali che della esibizione del sangue fanno la loro linea editoriale».

Poco più avanti aggiunge:

«Il grafico in queste pagine spiega che le donne straniere sono vittime di omicidi 4 volte di più delle italiane. E che nel 1995 le donne straniere venivano ammazzate addirittura 17,5 volte di più. Chiaramente questa statistica non dice chi è l’autore di questi delitti, ma dice che l’Italia è un Paese molto più pericoloso per le donne non italiane che per le italiane. Idem per i bambini, come vedremo».

La strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri racconta solo la parte che serve a suscitare odio, paura e orrore verso l’immigrato.

Su ITALIAPATRIAMIA, il 20 settembre, si legge:

«Ennesimo caso di stupro, ormai è diventato un virus contagioso, questa volta tocca alla provincia di Bergamo. L’ennesimo atroce atto brutale è avvenuto stavolta in una struttura d’accoglienza per migranti dove vengono esaminate le richieste d’asilo. Le due bestie in attesa di asilo sono state arrestate dopo che il fatto è stato segnalato, il tutto avvenuto alle 10 di questa mattina».

Questo articolo di Italiapatriamia si guarda dal raccontare anche che in difesa dell’operatrice, aggredita da un richiedente asilo da poco arrivato dalla Sierra Leone, sono intervenuti altri due ospiti della struttura, cioè altri due richiedenti asilo, i quali hanno sfondato la porta del bagno in cui veniva consumata la violenza. Questo particolare, infatti, attenuerebbe almeno un po’ l’efficacia della campagna nazionalrazzista, volta a generalizzare un singolo comportamento delittuoso per criminalizzare tutti gli immigrati, richiedenti asilo inclusi, e tutti coloro che non la pensano come i nazionalrazzisti e che non svolgono ragionamenti razzisti.

Inoltre, l’articolo in questione rivela anche una scarsa conoscenza del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo. Nelle strutture d’accoglienza non si esaminano le richieste di asilo. Tale compito spetta alle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale. La struttura di accoglienza, come quella in cui si è verificata l’aggressione, invece, è il posto in cui i richiedenti asilo e i titolari di protezione internazionale sono ospitati e supportati.

La strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri gioca sempre la carta della generalizzazione

Il deputato leghista Cristian Invernizzi non potrebbe essere più esplicito. Si legge, infatti, su il Giornale che avrebbe affermato:

«Chi vuole far finta di non vedere lo scempio di questa falsa accoglienza di falsi profughi è responsabile quanto i carnefici. Subito castrazione chimica ed espulsione immediata per questi soggetti».

Quindi, la violenza sessuale di un individuo della Sierra Leone si presta immediatamente per qualificare tutti come falsi profughi e potenziali stupratori (da castrare). Chi vuole far finta di non vedere è co-autore della violenza, secondo la strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri. Che, però, ovviamente si guarda dal compiere analoghe generalizzazioni quando il reato è commesso da soggetti diversi da quelli che sono il bersaglio preferito della loro campagna d’odio.

Seguendo la logica Cristian Invernizzi, sarebbero falsi profughi e probabili stupratori anche i due ospiti della struttura di accoglienza accorsi a liberare la ragazza e a tentare di fermare l’autore della violenza? Sarebbero anch’essi meritevoli di espulsione?

Andrebbero castrati chimicamente ed espulsi, oltre ai membri del branco di Rimini – che ha stuprato anche una trans peruviana (la quale, chissà perché, viene sempre dimenticata nelle narrazioni nazionalrazziste, mentre è proprio colei che ha fornito la descrizione necessaria all’identificazione dell’unico maggiorenne del gruppo) -, anche:

  • il ventitreenne del Bangladesh accusato di avere stuprato e rapinato una turista finlandese
  • il giovane polacco ricercato per avere legato, picchiato e stuprato una signora tedesca senza fissa dimora
  • il ventiseienne italiano, di Latina, arrestato con l’accusa di avere stuprato una giovane turista italiana in un bungalow
  • i due carabinieri accusati di avere violentato due studentesse statunitensi a Firenze ?

Inoltre: se oltre il 60% degli stupri in Italia è commesso da italiani, allora andrebbero espulsi gli italiani, no?

No, ovviamente. Ma non perché sarebbe poco pratico e un tantino assurdo, ma perché, ci insegna la propaganda nazionalrazzista, c’è una innegabile superiorità etnico-culturale degli italiani. Afferma la strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri che, per la loro superiorità, gli italiani sono inconfrontabili con i brutti ceffi neri: tutti uguali e tutti animali, anzi bestie.

Ancora, sempre seguendo la logica sottesa alla strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri: se gli immigrati maschi sono tutti o quasi probabili stupratori, perché non espellere soltanto loro e lasciare tranquillamente risiedere in Italia le donne straniere, che certo non stuprano, ma semmai vengono stuprate?

Alla strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri non interessano i vissuti delle vittime

In realtà, il nazionalrazzismo non pare interessarsi un granché a come stanno, a come si sentono, a cosa vivono le vittime della violenza di genere o le vittime di reato in generale. Se così fosse, infatti, vi sarebbe una vicinanza nei confronti di tutte le vittime di violenza, manifestata con pari empatia, a prescindere dalla loro nazionalità e da quella del reo.

Ad esempio, rispetto alle due ragazze statunitensi di Firenze l’empatia di Matteo Salvini è stata davvero scarsina, mentre di non poco peso è stato il garantismo manifestato vero i carabinieri indagati. Un atteggiamento garantista che, in linea con una doppia morale nazionalrazzista, il segretario della Lega, però, non dimostra quando ad essere sotto accusa sono degli immigrati.

Nella strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri si mettono in giro anche delle bufale, ri-vittimizzando le due studentesse americane. Forse perché la loro “colpa” è quella di avere denunciato di essere state aggredite non da degli africani ma da due italiani e, per giunta, da due carabinieri. Così, si blatera di un’inesistente polizza assicurativa, che avrebbero stipulato le due ragazze contro lo stupro, e si fa circolare una foto fasulla che le ritrae nel mezzo di un festino alcolico[9].

Sui fatti di Rimini, dunque, si scatena la propaganda anti—immigrati del nazionalrazzismo, che mortifica in primo luogo le vittime, insistendo anche sulla pruderie di particolari irrilevanti. Nel caso di Firenze, invece, la propaganda nazionalrazzista si sposta (apertamente o sommessamente) al fianco degli indagati e rivela un atteggiamento giustificazionista, che essa non ammetterebbe mai per altri indagati o imputati. E la campagna nazionalrazzista non si cura del fatto che, con questi argomenti giustificazionisti, è come se ri-violentasse le due studentesse, accusandole, esplicitamente e implicitamente, di essersela cercata.

In realtà, riesce davvero difficile capire qual è la reale differenza tra questo atteggiamento nazionalrazzista, di colpevolizzazione delle due giovani vittime americane, e quello, gravissimo, di quel mediatore culturale che su Facebook scrisse: «nel corso della violenza la donna poi diventa calma e gode come in un rapporto sessuale normale».

Alberto Quattrocolo

[1] In questi giorni non si può non aggiungere che anche sul fronte della risposta giudiziaria, talvolta, la delusione può essere massima e dolorosissima: Repubblica riferisce che una sedicenne, dopo le violenze subite dal padre, nel 2001 era stata in una casa per minori a Torino dove fu abusata e drogata proprio dall’educatrice del centro, ma dopo 16 anni di lungaggini giudiziarie, la Corte di Cassazione la sera del 21 settembre di quest’anno, ha riconosciuto la prescrizione dei reati a carico degli imputati (l’educatrice, il marito e un amante di costei).

[2] Tanto per non farle mancare nulla del peggio di cui noi esseri umani siamo capaci, dopo così tanta violenza subita, qualcuno ha anche creduto opportuno colpire ancora con insulti razzisti Chinyery. E si è trattato di un poliziotto. Tale puntualizzazione non intende significare che tutti i poliziotti sono dei razzisti violenti, ma che lo è stato quel singolo soggetto. E’ bene precisarlo per segnare la differenza con la logica nazionalrazzista, così incline alla generalizzazione dei deprecabili atti di singoli individui quando questi sono immigrati, come nel caso della strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri.

[3] Nello stesso periodo del 2016 erano 2.345, quindi a differenza degli altri reati, diminuiti del 12%, questa fattispecie criminale è sostanzialmente rimasta invariata.

[4] Poi, la strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri, affermando di compiere un esame accurato dei dati, in realtà, non approfondisce granché. Infatti, facciamo due conti senza pregiudizi:

  • Il 99% degli stupri è commesso da persone di età compresa tra i 20 e i 40 anni. Trascuriamo allora quell’1%.
  • I cittadini italiani di sesso maschile, residenti in Italia, di età compresa tra i 20 e i 40 anni sono 4.167.924 (inclusi gli stranieri, il totale della popolazione maschile residente in Italia di quella fascia di età è 5.091.944)
  • Se sono italiani quelli che hanno commesso i 1.534 stupri denunciati, allora vuol dire che, su poco più di 4 milioni di maschi italiani (usi gli stranieri), a stuprare sono uno ogni 2717 individui.
  • Invece i 904 stupri commessi dagli stranieri equivalgono a uno stupratore ogni 1022 stranieri presenti in Italia.

L’incidenza degli stranieri accusati di stupro rispetto agli italiani, dunque, non è quattro volte tanto, come dice la strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri. Ma è vero che è, comunque, molto di più: 2,65 volte in più.

[5] Infatti, va considerato che il gruppo di quei 904 stranieri denunciati include all’incirca un 21% di persone che non sono migranti,  coloro contro cui si scaglia la strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri, ma sono stranieri per varie ragioni presenti in Italia (studenti, turisti, ecc.). Quindi sono 703 gli stupri che sarebbero stati commessi da immigrati. Roberto Saviano su L’Espresso evidenzia quest’aspetto, che di per sé sarebbe lampante: «Demoskopica scrive che il 61 per cento di italiani è seguito dall’8,6 per cento di romeni, dal 6 per cento di marocchini, dall’1,9 per cento di albanesi e dall’1,3 per cento di tunisini. Da questo calcolo resta fuori un buon 21,2 per cento. Stranieri anche loro? Di dove? Nel mondo non sono solo i migranti a viaggiare… ma che importa, quello che doveva passare è che vengono dal mare a prendere il nostro lavoro e a violentare le nostre donne». Tra quel 21,2% di violenze sessuali commesse da stranieri non immigrati rientrano casi come quello dell’israeliano che ha tentato di violentare una turista belga, ventenne, sull’Aracoeli, a Roma.

[6] Gian Maria De Francesco su Il Giornale cita un rapporto relativo agli anni tra il 2010 e il 2014 e pubblicato a novembre 2016 dal gruppo di ricerca italiano Demoscopika, dove si legge: che dopo gli italiani i più denunciati per stupro sono i romeni (8,6%), i marocchini (6%), gli albanesi (1,9%) e i tunisini (1,3%). Se proprio si vogliono fare discutibilissime e rapide connessioni tra il reato, l’autore, la sua patria di provenienza e la sua cultura di appartenenza, si dovrebbe annotare che quell’8,6% delle violenze sopra citato è attribuito cittadini comunitari (essendo la Romania nell’Unione Europea e all’interno di Schengen). Cioè a uomini che sono probabilmente di fede e cultura cristiane (la popolazione romena è al 99,6% di religione cristiana). Quindi, quell’8,6% è costituito da persone che non c’entrano nulla con gli sbarchi. E c’entrano ancora di meno con lo Ius Soli. Sempre seguendo queste improprie logiche classificatorie, e ammesso che quegli autori di stupri che sono di origine marocchina, albanese e tunisina siano tutti musulmani, costoro, messi insieme fanno il 9,2% dei denunciati per stupro.

[7] Si riportano le nazionalità delle persone sbarcate al 31 luglio 2017: Nigeria, 16.317; Bangladesh, 8.687; Guinea, 8.631 Costa d’Avorio; 7.905, Mali, 5.526; Gambia, 5.465; Senegal, 5.366; Eritrea, 5.325; Sudan, 4.882; Marocco, 4.632; Ghana, 3.520; Pakistan, 2.390; Somalia, 2.327; Camerun, 1.991; Siria 1.939;  altre, 10.310. Totale: 95.213.

[8]  Il maggior numero di vittime di tratta proveniente da paesi extraeuropei presenti in Italia arriva dalla Nigeria, mentre il paese comunitario da cui proviene il maggior numero di vittime è la Romania.  Tra le altre nazioni prevalenti figurano Egitto, Bangladesh, Ghana, Tunisia, Senegal, Moldavia, Brasile, Marocco, Cina e Albania.

[9] Sul sito Se Non Ora Quando – Torino si pone in evidenza come rispetto ai fatti di Rimini e di Firenze vengano applicati due pesi e due misure da parte di quella che io ho definito la strumentalizzazione nazionalrazzista degli stupri: «in entrambi i casi al centro del sentimento collettivo dovevano esserci le vittime: una ragazza polacca e una trans peruviana, due studentesse americane. E invece no».

doppia morale nazionalrazzista

La doppia morale nazionalrazzista

Secondo la doppia morale nazionalrazzista il migrante è naturalmente delinquente e stupratore.

Il nazionalrazzismo si rapporta continuamente con i fatti secondo una doppia morale: una doppia morale nazionalrazzista. In un precedente post – e in altri successivi a quello: Propaganda nazionalrazzista e Welfare, Il nazionalrazzismo come politica del conflitto (razziale), Nazionalrazzismo e socialrazzismo – proponevo tale termine in riferimento alle organizzazioni che promuovono una politica centrata sull’esaltazione degli italiani, in quanto nazione, e sulla svalutazione e addirittura sulla demonizzazione degli stranieri migranti, che sarebbero da respingere e scacciare, in quanto causa di tutti, o quasi, i mali della nostra società.

La doppia morale nazionalrazzista sfrutta tutte le occasioni proposte dalla cronaca per criminalizzare tutti i migranti. Così se, a Rimini, due minori di origini marocchine, un minore nigeriano e un ventenne senegalese, dispiegando una violenza feroce, degna dell’Arancia Meccanica, si danno ai furti, alle rapine e agli stupri (colpendo una coppia di fidanzati polacchi e una transessuale peruviana), ecco che la doppia morale nazionalrazzista sfrutta tali fatti per suscitare odio verso i migranti. Infatti, immediatamente, la doppia morale nazionalrazzista riconduce questi crimini ad aspetti etnici.

Agiscono come un branco selvaggio perché sono africani: questo è il messaggio nazionalrazzista. Anzi, la prima parte del messaggio. La seconda parte del messaggio è: cacciamoli via tutti così gli stupri cesseranno Infatti, il manifesto con l’immagine di una donna bianca aggredita da un uomo nero, che le strappa la camicetta, è stato confezionato da Forza Nuova proprio per veicolare questo tipo di contenuto. Forza Nuova, però, non è l’unica a svolgere questo tipo di “discorso”. E coloro che sui social o sui giornali alimentano questa retorica, naturalmente, si allineano perfettamente o quasi, alla doppia morale nazionalrazzista.

I parametri di giudizio distorti della doppia morale nazionalrazzista

La doppia morale nazionalrazzista è doppia, infatti, perché usa parametri diversi per commentare fatti simili. Pesa i fatti con unità di misure differenti, in modo tale da fornire continuo alimento alla paura dei migranti e, quindi, per suscitare negli italiani un autentico odio nei loro confronti. Ad esempio, la doppia morale nazionalrazzista si astiene dal porre in evidenza che la violenza sulle donne non è prerogativa esclusiva dei migranti. Anzi!

L’Inchiesta con analisi statistica sul femminicidio in Italia (a cura di Fabio Bartolomeo, Ministero della giustizia – Direzione generale di statistica e analisi organizzativa) spiega che:

  • le donne uccise da uomini (uccise perché sono donne: questo è il femminicidio) sono state in media 150 all’anno negli ultimi 4 anni, cioè, una ogni due giorni
  • nel 74,5% dei casi l’autore è di nazionalità italiana
  • nel 77,6% la vittima è una donna italiana e nel 22,5% è una straniera.

Ma, prima di concludere che il 25,5% degli autori di femminicidio sono immigrati, occorrerebbe considerare che nell’analisi non si distingue tra stranieri migranti e stranieri non migranti. Si dice, nell’analisi, che di quel venticinque e mezzo per cento di assassini stranieri

  • il 46,2% arriva dall’Est Europa (quindi in parte possono tranquillamente essere cittadini di nazioni in cui trionfa il locale nazionalrazzismo che tanto piace al nazionalrazzismo italiano),
  • il 24% proviene dall’Africa
  • il 14,4% arriva dall’Asia
  • il 10,6% arriva dal Sud America
  • il 4% arriva da “altro”.

In realtà il femminicidio è commesso nel 75% dei casi in ambito familiare. Ma alla doppia morale nazionalrazzissta questo dato non interessa.

La doppia morale nazionalrazzista mira a diffondere nelle vie delle città la paura del migrante

In effetti la doppia morale nazionalrazzissta mira a seminare il terrore nelle strade e non ad esplorare il fenomeno della violenza sulle donne. Infatti, si astiene dal porre in rilievo il fatto che l’omicidio della donna si sviluppa per lo più all’interno di relazioni tra persone che si conoscono, persone tra cui c’è o c’era un legame: nel 55,8% si tratta di una relazione sentimentale, nel 17,5% vi è una relazione di parentela (oltre la metà di tali casi vede l’omicidio commesso dal figlio ai danni della madre), nel 15,1% la relazione era di tipo amicale e nel 2,2% erano colleghi di lavoro. Solo nel 9,4% si tratta di uccisioni commesse ai danni di sconosciute (prostitute e anziane signore sole).

La doppia morale nazionalrazzista, per fare un altro esempio, si guarda, dall’evidenziare che l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), nella sezione fact-checking del suo sito internet, spiega che è vero che «su mille stranieri presenti sul territorio italiano circa 3,5 sono in carcere, mentre su mille italiani lo 0,6 è detenuto» e che «sembra dunque che uno straniero abbia una probabilità di essere arrestato di oltre cinque volte superiore rispetto a quella di un italiano». Però, aggiunge che questi dati mascherano una realtà più complessa: «Tra il 2009 e il 2015, a fronte di un aumento del 47% degli stranieri residenti la popolazione carceraria straniera è scesa dal 37% al 33% del totale. Se dunque gli stranieri continuano a essere denunciati e a finire in carcere di più rispetto agli italiani, non sembra essere provata la tesi per la quale una maggiore densità di stranieri fa aumentare la loro criminalità (per esempio perché farebbe crescere la loro marginalizzazione e segregazione)».

Secondo la doppia morale nazionalrazzista i migranti sono tutti delinquenti per natura

Secondo la doppia morale nazionalrazzista le molestie, le violenze sessuale e i femminicidi commessi da italiani non hanno alcun legame con la loro identità nazionale, con la loro cultura. Invece, la doppia morale nazionalrazzista insiste prepotentemente sulla provenienza dell’autore del delitto, se è commesso da un immigrato. Gli stessi comportamenti delittuosi, se compiuti da migranti, nella narrazione della doppia morale nazionalrazzista, sono rivelatori di una naturale, genetica o culturale, tendenza a stuprare e molestare.

Consapevoli della forza delle immagini, della potenza emotiva di certi fatti, i nazionalrazzisti possono permettersi di non mascherare la loro doppia morale. La doppia morale nazionalrazzista presume, e in larga parte ci azzecca, che l’allarme sociale, l’indignazione, la rabbia, che fatti come gli stupri e le rapine di Rimini provocano, permettano di diffamare interi popoli. La doppia morale nazionalrazzista sa che quelle emozioni sono alleati potenti, che permettono di criminalizzare masse di individui, senza che l’assurdità e le contraddizioni interne alla retorica nazionalrazzista siano immediatamente colte dal pubblico.

La doppia morale nazionalrazzista si indigna se non viene messo in risalto che l’autore del reato è straniero.

I nazionalrazzisti, coerentemente con quanto sopra, polemizzano con quei quotidiani che non pongono immediatamente in evidenza che l’autore di un determinato delitto è un immigrato. Così hanno “denunciato” quelle testate che non hanno messo in “giusto” rilievo l’origine africana del “branco” di Rimini.

Sull’Amaca del 30 agosto Michele Serra aveva evidenziato l’assurdità di tale polemica nazionalrazzista (“canea razzista” era l’espressione usata da Serra), facendo notare anche la falsità dell’accusa (nazional)razzista, rivolta ai quotidiani non (nazional)razzisti, di aver tenuta nascosta l’origine straniera dei ricercati per i fatti orribili di Rimini.

Ma a tale argomento se ne aggiunge un altro, dallo stesso Michele Serra poi proposto nell’Amaca del 1° settembre: perché si dovrebbe porre in rilievo la nazionalità del delinquente? Se la nazionalità o la provenienza geografica degli autori dei crimini commessi a Rimini ad agosto conta, allora perché non pretendere che si evidenzi anche la nazionalità del criminali quando sono italiani, francesi, russi, belgi, tedeschi, statunitensi o svizzeri? La notizia, apparsa su La Stampa del 20 settembre, di uno stupro commesso ai danni di una guardia medica, una dottoressa di 51 anni, da parte di un catanese di 26 anni, ci dice forse qualcosa circa la tendenza a violentare degli italiani o dei siciliani o dei catanesi?

La risposta a tale interrogativo retorico è fornita proprio da Michele Serra nell’ultimo articolo sopra citato: « ogni sottolineatura enfatica della nazionalità di un reo – così come della nazionalità della vittima – è in parte stupida, in parte strumentale. Non serve ad attribuire minore o maggiore gravità al crimine, minore o maggiore colpa al criminale: serve solo ad alimentare, strutturalmente, il discorso razzista. È per questo che, giustamente, nei titoli di giornale non si legge mai “preso stupratore italiano” ».

Alberto Quattrocolo

dove eravamo

Dove eravamo

Dove eravamo quando…?

Dove eravamo quando ci fu l’attacco alle Torri Gemelle l’11 settembre del 2001? Tutti ce lo ricordiamo. Dove eravamo il 16 marzo 1978, quando in via Fani, a Roma, fu sequestrato Aldo Moro, oppure quando saltò in aria la stazione di Bologna e quando vi fu la strage di Ustica? Tutti coloro che erano abbastanza grandicelli per capire se lo ricordano. Dove eravamo quando fu ucciso, a Dallas, il 22 novembre del 1963, il presidente degli Stati Uniti, John F. Kennedy? E quando, cinque anni dopo, furono assassinati suo fratello Robert e un paio di mesi prima, il 4 aprile del ’68, il reverendo Martin Luther King, premio Nobel per la pace? Tutti gli americani e molte persone nel mondo se lo ricordano. Dove eravamo quando Neil Armstrong fece un piccolo passo per un uomo ma un grande balzo per l’umanità o quando il “rivoltoso sconosciuto” in piazza Tienanmen fronteggiava i carri armati? Tutti se lo ricordano.

Certi momenti coinvolgono tutti

Certi momenti ci coinvolgono tutti a prescindere dal luogo in cui avvengono. Si fissano nella memoria collettiva. E quando si tratta di fatti di sangue, feriscono e offendono su larga, larghissima, scala. Quando, il 6 gennaio del 1980 un killer mafioso assassinò il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, quando, il 3 dicembre ’82, nella strage di Via Carini, a Palermo, furono uccisi da killer mafiosi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, oppure quando il 30 aprile dello stesso anno Cosa Nostra uccise Pio La Torre e Rosario di Salvo, tutti gli italiani si sentirono coinvolti. Le stragi di Capaci e di Via D’Amelio ci ammazzarono un po’ tutti. Dove eravamo in quel 23 maggio e in quel 19 luglio del ’92? Anche se non lo ricordiamo esattamente, rammentiamo bene quel che provammo. L’angoscia, il dolore, la rabbia, l’orrore, l’impotenza. Dove eravamo? In realtà, eravamo là, in quell’isola che sanguinava per conto di tutta l’Italia. Eravamo là, anche se distanti centinaia o migliaia di chilometri. Ci sentivamo là. Eravamo vicini con la mente e con il cuore.

Dove eravamo quando il piccolo Alfredino Rampi era imprigionato nel pozzo e cercavano di salvarlo? È facile rispondere: eravamo davanti alla TV. Angosciati, trepidanti e infine tristissimi. Addolorati e commossi, eravamo lì.

Dove siamo ora?

Dove siamo ora che tanti piccoli Alfredini muoiono nel grande pozzo del Mediterraneo o nel pozzo deserto del Sahara? Siamo altrove. Perché? Perché per noi quei bambini non sono Alfredino. Sono numeri. Quei bambini, quelle donne, quegli uomini non sono che una cifra, dei non-soggetti. Dei non-umani. Dove eravamo? Forse ce lo chiederemo tra 15 o 20 anni, magari di meno. Non c’eravamo.

Perché? Perché per noi non c’erano quei bambini, quelle donne, quegli uomini. Non c’erano mai stati. Se per noi ci fossero  stati, se per noi fossero esistiti, in quel lontano, ma forse non così lontano, 2017 (dall’inizio dell’anno 2.542 migranti hanno perso la vita nel viaggio verso l’Europa e, di questi, 2.369 nel Mediterraneo Centrale tra il Nord Africa, la Libia e l’Italia), noi ci saremmo stati per loro. Li avremmo sentiti come persone e non come migranti e basta. Li avremmo sentiti come esseri umani in carne e ossa, con un cuore e un cervello, e non come una massa di alieni, come una seccatura o un’intrusione.

In tanti, in troppi, eravamo altrove

Ma dove eravamo nel 2017 o nel 2015, oppure nel 2013? In tanti, in troppi, eravamo altrove.

Eravamo stati vicini ai cecoslovacchi durante “la primavera di Praga” e, ancor più che vicini, pieni di indignazione e magone, quando i carri armati sovietici la schiacciarono. Eravamo stati vicini agli ungheresi nel ‘56 e poi eravamo stati solidali con Lech Walesa e Solidarność.

Condannavamo il Muro di Berlino ed eravamo vicini ai tedeschi della Germania Orientale quando tentavano di scavalcarlo (in circa 20 anni 133 furono le persone uccise dalla polizia di frontiera della DDR mentre tentavano la fuga).

Ma non eravamo altrattanto vicini ai 360 in fuga dall’Eritrea, cioè dal regime dittatoriale di Isaias Afewerki, che persero la vita nel naufragio del 3 ottobre 2013 a poche miglia da Lampedusa (368 morti acclarati e circa 20 dispersi). E, l’11 ottobre dello stesso anno, temo, ci sentimmo solo un po’ vicini ai 268 siriani morti affogati (tra questi 60 erano bambini). Eppure anche costoro erano in fuga da un regime non meno odioso di quello comunista della Repubblica Democratica Tedesca o degli altri stati appartenenti al Patto di Varsavia. Anzi, la situazione della Siria è senza dubbio più tragicamente sanguinosa di quella della Germania comunista.

Je suis Charlie, dicevamo anche noi. E ci siamo sentiti vicini alle vittime, e ai loro famigliari, di tutti gli attacchi terroristici commessi in Europa. Ma la strage di Nassiriya del 14 settembre di quest’anno, costata la vita a più di 80 persone, non figura nelle prime pagine di molti giornali.

Tutt’altro che indifferenti siamo stati rispetto alla sofferenza e poi alla morte del piccolo Charlie Gard, avvenuta a fine luglio di quest’anno, ma lo siamo rispetto ai più di 200 bimbi morti nel Mediterraneo nel 2017.

Avevamo i nostri guai

Potremmo tentare di giustificarci dicendo che stavamo lavorando o che stavamo cercando lavoro. Che c’era la Crisi. Che tenevamo famiglia. Che non è possibile essere ovunque e sentirsi vicini a tutti. Potremmo dire che avevamo i nostri guai. E sarebbe tutto vero.

Ma quante volte, pur tenendo famiglia, pur essendo occupati, o disoccupati in cerca di lavoro, pur presi da un bel po’ di guai, ci siamo stati per gli altri, per quelli più inguaiati di noi? Tante volte. E in molti casi siamo stati vicini non soltanto con le emozioni, ma anche con il corpo. Durante e dopo tante catastrofi ci siamo stati per coloro che soffrivano, morivano o erano morti. Abbiamo spalato fango da strade, case e negozi di altre città, abbiamo levato macerie di case non nostre. Abbiamo cercato superstiti, dispersi e morti sconosciuti. Abbiamo organizzato o partecipato a raccolte fondi.

Dove eravamo in quei casi? C’eravamo? Sì, eccome.

Forse si potrebbe iniziare a vederci e a sentire un po’ di più

Nel 2027 o nel 2032, i nostri figli, neonati e bimbi di oggi, saranno adolescenti, e forse ci chiederanno dove eravamo dieci o quindici anni prima. Cioè, in quegli anni di annegamenti, sfruttamenti, torture, tratte, campi profughi, campi di concentramento e crimini vari contro l’umanità. Sarebbe meno pesante, allora, meno schiacciante come responsabilità, poter rispondere: «Dapprima, per un bel po’ di anni, non ci siamo stati. Non li sentivamo come esseri umani, ma come alieni, come cose ingombranti. Non li volevamo vedere. Non li volevamo sentire. Poi, è capitato che, guardandoci in faccia, non ci siamo più piaciuti un granché. E non ci piaceva quello che veniva fatto, detto e scritto da alcuni politici e da tanti elettori[1]. Guardando te, che eri un affarino così piccolo, forte e indifeso allo stesso tempo, a me, per esempio, è scattato qualcosa dentro. Ho pensato che non volevo lasciarti lo stesso mondo in cui stavo vivendo. Così, poi, in qualche modo, a ciascuno per motivi forse anche molto personali, è successo di aprire gli occhi. E li abbiamo sentiti come esseri umani. Allora abbiamo agito come esseri umani. E ci siamo sentiti degli esseri umani».

E poi cos’è successo?

«Cosa avete fatto?», potrebbe chiederci nostra figlia o nostro figlio.

Forse risponderemo: «Cose piccole. Abbiamo iniziato a disapprovare esplicitamente chi faceva discorsi razzisti. Abbiamo detto che non parlavano a nostro nome coloro per i quali i migranti andavano scacciati con le ruspe o ricacciati in mare. Abbiamo anche inviato alcune decine di milioni di mail ai nostri sindaci e ai presidenti regionali, al Presidente della  Repubblica, al Presidente del Consiglio e ai Presidenti della Camera e del Senato, scrivendogli che per noi i migranti non erano marziani ma esseri umani e che pretendevamo che come tali fossero rispettati ».

«Tutto qua? ».

«Be’, sembra poco ma non lo è. Ma, sai, la cosa più importante è che abbiamo iniziato a interessarci davvero e a tentare di capire in che mondo viviamo. Abbiamo cercato di vedere i collegamenti tra i fatti che accadono».

«E cosa avete capito?».

Abbiamo capito dove eravamo

«Non tutto, ma alcune cose, forse, sì. Ad esempio, che le sofferenze, le diseguaglianze, la disoccupazione e le ingiustizie sociali non c’entravano nulla con gli sbarchi e con la presenza degli stranieri. Che, quando la coperta è corta, occorre accertarsi del fatto che davvero non basti a scaldare tutti e che, se è davvero così corta, occorre capire perché lo è e non bisogna spingere l’altro fuori al freddo, ma semmai procurarsi una coperta più grande.

«Tutto qui?».

«No, abbiamo anche pensato che quelli che ci dicevano che i migranti andavano respinti e aiutati a casa loro trascuravano di dirci che sarebbe già stato importante non fregarli a casa loro, magari in nome di irragionevoli ragioni di Stato. Ci è venuto il dubbio, infatti, che, forse, forse non occorrerebbero grossissimi aiuti se si smettesse di fregarli a casa loro. E se si smettesse di fare affari e appoggiare quelli che li fregano. Affari che, poi, sul lungo periodo, sono davvero pessimi per tutti».

«Ci avete visto chiaro finalmente?».

«Insomma, più che altro abbiamo iniziato a vedere le cose nella loro complessità. Abbiamo riconosciuto con quanti e quali incantesimi eravamo stati distratti, manipolati e ingannati. E abbiamo riconosciuto quanto eravamo noi stessi corresponsabili di queste distrazioni, di questi inganni e di queste manipolazioni».

«Ok, ma, poi, cos’è successo?».

Ci siamo ricordati dei nostri valori

«Poi non ci sono più state ragioni, cioè scuse, per trattarli come criminali o, ancora peggio, come rifiuti da smaltire. Ci siamo ricordati dove vivevamo, cioè dei nostri principi e di quanto c’era voluto, quanto s’era lottato perché si affermassero».

«Quali? ».

«Quelli scritti nella Costituzioni, ad esempio. Cioè, che tutti gli uomini sono uguali e meritano di essere rispettati. Che sono riconosciuti i diritti inviolabili dell’uomo e che la Repubblica concede l’asilo a tutti coloro che provengono da posti in cui non sono garantite quelle libertà democratiche che sono garantite nel nostro Paese. E che a tutti è richiesto l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».

«E quindi?».

«Quindi le cose sono cominciate a cambiare. A cambiare davvero».

«In meglio?».

«Beh, questo dimmelo tu».

 

Alberto Quattrocolo

[1] Altrove ho parlato di nazionalrazzismo e di socialrazzismo.

Nazionalrazzismo

Propaganda nazionalrazzista e Welfare

Secondo la propaganda nazionalrazzista la principale causa dell’inadeguatezza dello stato sociale è il fenomeno migratorio.

Il trasformare i migranti in capri espiatori e il demonizzare coloro che ne riconoscono l’umanità come se fossero traditori e corrotti, attraverso campagne di odio variamente sviluppate, sembrano costituire aspetti centrali della propaganda nazionalrazzista (in un altro post avevo definito nazionalrazziste quelle organizzazioni che svolgono una politica tesa a stimolare e manipolare la rabbia e la frustrazione degli italiani, in particolare, di chi soffre per il disagio sociale, sollecitando paura e odio per i migranti).

Si tratta di una strategia che pare funzionare assai bene dal punto di vista dell’acquisizione del consenso, stando almeno ai sondaggi di ieri (2016) e di oggi (anche se alcuni importanti partiti o movimenti nazionalrazzisti presenti in Europa non hanno brillato particolarmente in alcune recenti consultazioni elettorali).

Del resto, dopo oltre dieci anni di crisi economica (non va scordato che è iniziata in realtà già nel 2008, per poi esplodere nel 2011) e dopo circa tre decenni di progressiva riduzione delle garanzie sociali, non è così sorprendente che possa funzionare.

Molto spesso si è rivelata efficiente ed efficace nella lotta politica l’identificazione di un nemico determinato, ben visibile, su cui stimolare la proiezione di rabbie e frustrazioni, senso di impotenza e delusioni, senso di ingiustizia e di insicurezza, paura e angoscia.

Com’è noto, del resto, funzionò perfettamente tale operazione in Germania, permettendo ad Adolf Hitler di andare al potere e di esercitarlo su quasi tutta l’Europa. Il nazionalsocialismo tedesco scelse come nemici del popolo, descrivendoli come colpevoli delle sue sofferenze, gli ebrei, i comunisti, i socialdemocratici, i democratici e i liberali.

Oggi, secondo la propaganda nazionalrazzista, tra i principali fattori causali del disagio sociale, e pertanto tra i principali nemici, vi sono i migranti e coloro che li rispettano in quanto esseri umani.

La superficialità della propaganda nazionalrazzista sui temi sociali

Impressiona il livello di superficialità  della propaganda nazionalrazzista sulle questioni relative allo stato sociale.  Tra le cause del disagio non vi sarebbe la crescita delle diseguaglianze, che, come spiega l’Istat, rende i pochi ricchi ancora più ricchi, impoverisce la classe media, e aumenta drammaticamente il livello di povertà, ma il fenomeno migratorio. Cioè, sarebbero i più poveri ad impoverire ed emarginare i meno poveri.

Pare, inoltre, che l’interesse nutrito dal nazionalrazzismo per il Welfare sia più fumo che arrosto. E ciò, in qualche modo segna una differenza tra i nazionalrazisti e i socialrazzisti.

In un precedente post avevo proposto tale definizione per coloro, che non solo temono, ma addirittura odiano i migranti e palesano tale sentimento con particolare violenza, in vari modi, a partire dai social, ritenendoli una minaccia non solo per la loro sicurezza ma anche per la conservazione dello stato sociale: per i socialrazzisti eliminando i migranti le garanzie dello stato sociale sarebbero assicurate e perfino rinforzate per gli italiani. I socialrazzisti sono persone su cui la propaganda nazionalrazzista  punta molto per incrementare i suoi consensi, estendendoli al di fuori della cerchia dei razzisti da sempre.

La parzialità nella propaganda nazionalrazzista sullo stato sociale.

Un tema su cui costantemente insiste la propaganda nazionalrazzista è quello dell’incidenza dei migranti sulla spesa sociale. Si tratta di una clamorosa distorsione della realtà. Infatti, a seconda del metodo di calcolo, nell’ultimo anno per cui si ha il dato, il 2014, come spiega il Dossier statistico immigrazione, il gettito fiscale e contributivo versato dagli immigrati in Italia è superiore di 1,8 o di 2,2 miliardi di euro rispetto alla spesa pubblica destinata all’immigrazione[1].

Naturalmente la propaganda nazionalrazzista si guarda bene dal fare osservare che le principali voci di spesa pubblica italiana sono sanità e pensioni, che sono rivolte principalmente alla popolazione anziana, che è italiana[2].

Secondo la propaganda nazionalrazzista, poi, gli immigrati rubano il lavoro. Questa “teoria” non tiene conto di alcuni particolari: i 2,3 milioni di occupati stranieri (pari al 10,8% degli occupati totali) si concentrano in pochi settori e professioni scarsamente qualificate (soprattutto come personale non qualificato nei servizi domestici e di cura e come operai edili) e non paiono avere grosse chances per crescere[3]. Il fatto è che per gli immigrati il permesso di soggiorno è legato al lavoro, perciò devono lavorare e non possono essere selettivi nella loro ricerca lavorativi. E ciò concorre a creare non pochi effetti discriminatori[4]. D’altra parte, non possono permettersi di rimanere inattivi, non avendo altri redditi, né supporto familiare.

Anche la retorica secondo la quale “tolgono la casa” agli italiani va messa in discussione: la propaganda razzista, tutta presa dall’esaltare la “concorrenza” degli immigrati su questo bene scarso, tralascia di spiegare che “la casa” si assegna in base a condizioni socio-economiche di oggettivo bisogno[5].

La natura contraddittoria dello stato sociale nella propaganda nazionalrazzista

Del resto il nazionalrazzismo è in sé alquanto incompatibile con i valori a fondamento dello stato sociale configurato dalle democrazie liberali moderne. Libertà, uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale, anche nei termini di pari opportunità, sono principi per la cui realizzazione effettiva è stato concepito lo stato sociale. E il suo fine è perseguire l’integrazione e l’inclusione nella società di tutti, nessuno escluso.

Il nazionalrazzismo, invece, ripudia proprio l’integrazione e l’inclusione. E la stessa idea di tutela o ricostruzione del legame sociale, alla base delle politiche sociali delle liberal-democrazie, è ammessa dal nazionalrazzismo soltanto nella prospettiva di una solidarietà riservata ai membri della nazione.

Così, la crisi del senso di appartenenza alle istituzioni che pervade grande parte della popolazione, viene nel nazionalrazzismo ad essere sfruttata proprio nella sua matrice di sofferenza sociale, ma non per rimediarvi, bensì, per rimpiazzarla con un nuovo sentimento di appartenenza: quello alla nazione. All’interno di questa, peraltro, anche la solidarietà sociale perde la sua connotazione di diritto e di dovere.

Quelli proposti dalla propaganda nazionalrazzista più che diritti sociali sembrano privilegi

Infatti, quale stato sociale è quello in cui i diritti sociali sono riconosciuti solo ad alcuni e non ad altri in analoghe o peggiori condizioni di disagio? Quale stato sociale è quello in cui si afferma l’idea che non si deve salvare la vita di un uomo, una donna o un bambino che stanno affogando solo perché non appartengono alla nazione? Che tipo di stato sociale è quello che non si connette con i diritti civili e politici?

La risposta a tali quesiti è che non è uno stato sociale. Non lo è nel senso della nostra Costituzione. È, invece, un insieme di privilegi accordati strumentalmente per incrementare o per conservare il consenso popolare.

L’abbiamo già visto in tante, troppe, esperienze di totalitarismo di sinistra e di destra. Si chiamavano diritti sociali, ma erano qualcosa di diverso, poiché i diritti o sono per tutti o non sono. Altrimenti si tratta non di diritti ma di privilegi concessi in virtù di politiche discriminatorie, una sorta di grotteschi premi-fedeltà. Non è a questo tipo di stato sociale che pensavano i nostri padri costituenti quando scrivevano la Costituzione. Infatti, si legge nell’art.2 che la Repubblica non soltanto garantisce i diritti inviolabili dell’uomo ma “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.

Quando si esclude un gruppo dal sistema del Welfare si creano le premesse per escluderne poi altri

D’altra parte, la politica nazionalrazzista di esclusione del migrante da ogni forma di solidarietà, nel caso in cui vi fosse un governo nazionalrazzista, potrebbe tranquillamente essere seguita da una riduzione dei diritti sociali per altre categorie di persone domani.

Nel momento in cui si dà il via alla discriminazione, nel momento in cui la si legittima, la diga può dirsi crollata per sempre.

Se quest’anno viene  negato ogni tipi di sostegno sociale ai rifugiati e ai richiedenti asilo, l’anno venturo potrebbe toccare alle persone LGBT, alle coppie di fatto o a quelle che hanno meno di due figli: quest’ultima ipotesi richiama qualcosa di già visto nel ventennio fascista. Ma le altre ipotesi sono meno fantasiose di quanto possa apparire a prima vista. Specie, considerando la visione rigidamente conservatrice dei costumi che spesso il nazionalrazzismo esprime (una recente notizia del sindaco di Pontida pare andare decisamente in tale direzione)

 

La “storica” scarsa attenzione allo stato sociale delle organizzazioni nazionalrazziste

Forse la mancata accuratezza della discussione sui temi dello stato sociale, seriamente inteso, da parte dei nazionalrazzisti potrebbe avere avere “radici storiche”. Infatti, alcune forze nettamente nazionalrazziste e altre che lo sono di meno (ma spesso senza remore cavalcano la propaganda nazionalrazzista) fino a  4 o 5 anni fa sostenevano convintamente la teoria “più mercato, meno stato”. E per “meno stato” intendevano esplicitamente dire: “meno stato sociale”.

Una parte dei nazionalrazzisti di oggi, che si dicono preoccupati per gli effetti dell’immigrazione sul Welfare, quindi, fino a ieri proponevano in campagna elettorale e realizzavano, quando erano al governo, una politica di tagli (lineari) alla spesa sociale. Banalizzavano le teorie keynesiane e demonizzavano chi ne richiamava l’attualità, definendoli “partiti delle tasse”, del “più stato e meno mercato”[6].

Sembra, quindi, poco probabile che non soltanto vi sia, nella prospettiva del nazionalrazzismo, un’idea di politica sociale corrispondente ai bisogni e alle dinamiche della società attuale, ma anche una corrispondenza con quanto, magari pure in termini informi, in termini di attese e di preoccupazioni è al centro del socialrazzismo.

 

La capacità di condizionamento politico della propaganda nazionalrazzista

Se il nazionalrazzismo è rinvenibile in termini integrali in precisi movimenti e partiti politici, la capacità di condizionamento politico della propaganda nazionalrazzista va ben oltre. In particolare, sembra che riesca ad incidere sui temi dello stato sociale, dei diritti civili e della sicurezza.

Mi pare che comportamenti e politiche di ispirazione nazionalrazzista siano riscontrabili anche nei partiti per i quali il razzismo è un odioso disvalore. Un ruolo non irrilevante probabilmente è giocato dall’influenza del crescente socialrazzismo, 

Un esempio è fornito dalla presa di posizione della sindaca di Podigoro. Ma altri esempi possono rivenirsi all’interno delle polemiche interne allo stesso Consiglio dei Ministri tra il ministro Minniti e il ministro Delrio e di quelle tra il primo e il ministro Orlando, ma vi sono state anche quelle tra Marco Minniti e il sindaco di Firenze, Dario Nardella, e ancora tra il Ministro dell’Interno e Gino Strada.

Quella di Podigoro pare essere una di quelle situazioni in cui la leadership politica non ascolta la pancia dei cittadini per coglierne paure e rabbie, per elaborarle e per poi parlare alla loro testa. Sembra uno di quei casi in cui l’azione politico-amministrativa è direttamente condizionata dalla pancia dei cittadini (si possono considerare al riguardo i pensieri sviluppati in un altro post)[7].

Episodi come quelli di Podigoro, le esitazioni in seno alla maggioranza di Governo relative al disegno di legge sul cosiddetto Ius Soli temperato[8], l’astensione del Movimento Cinque Stelle, la contrarietà di Forza Italia e gli attacchi delle altre opposizioni di destra, insieme alle tante polemiche sull’operato delle imbarcazioni delle ONG, procurano una forte impressione circa la reale influenza della propaganda nazionalrazzista. Un’impressione ancor più forte di quanto non sia quella derivante dai sondaggi.

Alberto Quattrocolo

 

[1] È vero che la spesa per il welfare e i costi sociali dell’integrazione sono sostenuti principalmente a livello locale (casa, sanità e asili nido), mentre il gettito fiscale e quello contributivo (con l’eccezione dell’Irpef regionale e comunale),  essendo destinati a livelli centrali risultano meno rilevabili a livello locale, ma occorre tenere presente che anche quando la propaganda nazionalrazzista denuncia una presenza eccessiva di stranieri nelle strutture sanitarie, trascura di segnalare che l’80 per cento della spesa sanitaria è rivolta agli anziani, cioè ad italiani.

[2] Se si sommano le diverse voci (sanità, scuola, servizi sociali, casa, giustizia, accoglienza e rimpatri e trasferimenti economici) del 2014 si arriva a 14,7 miliardi di euro, pari a circa l’1,8 per cento del totale della spesa pubblica italiana, di tali quasi 15 miliardi la spesa relativa all’accoglienza dei richiedenti asilo (che rientra all’interno della voce “ministero dell’Interno”, e che include non soltanto l’accoglienza, ma anche i rimpatri e la lotta all’irregolarità) ammontava in quell’anno 1 miliardo di euro. Importo aumentato  a oltre 3 miliardi a seguito dell’aumento degli sbarchi nel 2015 e 2016 (e a oltre 4 miliardi, nel 2017), ma questi sono in corso di ridimensionamento nella seconda parte del 2017. Ora, dando un’occhiata alle entrate balza all’occhio un altro aspetto taciuto dalla propaganda nazionalrazzista: le entrate. Qui le voci principali sono il gettito Irpef e i contributi previdenziali (che contribuiscono al sostegno della spesa pensionistica, pur non essendo una vera e propria imposta). Chi obietta sull’inserimento dei contributi come voce di entrate, non considera che circa 2,3 milioni d’immigrati pagano i contributi e che ogni anno migliaia di essi tornano ai loro paesi lasciando una parte di contributi sociali in Italia, che non vengono più riscossi, per un valore di 375 milioni di euro all’anno. Inoltre soltanto 26 mila prendono una pensione previdenziale e solo 38 mila ricevono una pensione di tipo assistenziale. E poi vi sono l’imposta sui consumi, sui carburanti, le entrate del lotto e delle lotterie, le imposte sui permessi di soggiorno e sulle acquisizioni di cittadinanza: sommando il tutto si arriva 16,9 miliardi di euro, di cui 10 miliardi versati dagli immigrati. Rispetto alla spesa che era di circa 15 miliardi, l’avanzo positivo è di 2,2 miliardi di euro.

[3] Peraltro, le ricerche empiriche hanno smentito o almeno molto ridimensionato, la supposta competizione tra italiani e stranieri per il lavoro. I dati, anzi mostrano che gli occupati stranieri si concentrano nel settore dei servizi alla persona (il 28,9%), nell’industria (18,4%) e nelle costruzioni (13,3%), mentre gli italiani lavorano prevalentemente  nell’istruzione/sanità e pubblica amministrazione (22,1%) e nell’industria (20,4%), ma con ruoli differenti da quelli degli stranieri, e nel commercio (15,6%). Per quanto riguarda le professioni gli stranieri hanno il peso maggiore nei servizi domestici, dove rappresentano il 72,7% degli occupati.

[4] Spiega una ricerca della Fondazione Moressa che gli stranieri mediamente dovrebbero lavorare 80 giorni in più per avere la stessa retribuzione degli italiani. E ciò non dipende dal fatto che sono meno preparati, ma perché ghettizzati in professioni di scarso livello. Infatti, con l’arrivo della Crisi il tasso di occupazione degli stranieri è infatti sceso dal 67,1% al 58,1%, mentre gli italiani sono scesi dal 58,1% al 55,3%.

[5] Al riguardo la propaganda nazionalrazzista si guarda dal ricordare che mediamente solo il 20 % degli immigrati è proprietario di casa, contro l’80 % degli italiani e che il reddito medio di un immigrato corrisponde al 63 % di quello di un italiano.

[6] Chiamavano comunisti i sostenitori della preservazione o dell’incremento dello stato sociale, anche quando costoro erano anni luce distanti dal comunismo o lo avevano fermamente avversato fino al crollo dell’Unione Sovietica.

[7] Mentre potrebbe non dare quest’impressione la presa di posizione di Pippi Mellone, sindaco di Nardò, sullo Ius Soli.

[8] Si prevede che un bambino nato in Italia da genitori extracomunitari diventi automaticamente italiano soltanto se almeno uno dei due genitori: si trova legalmente in Italia da almeno 5 anni; dichiara un reddito non inferiore all’assegno sociale; vive in una casa rispondente ai criteri di idoneità; supera un test di conoscenza dell’italiano. Inoltre, può essere riconosciuta la cittadinanza ai bambini arrivati in Italia molto piccoli, che hanno fatto le elementari e le medie nel nostro Paese a quelli tra i 12 e i 18 anni, che potranno ottenere la cittadinanza solo dopo avere abitato in Italia per almeno sei anni e superato un ciclo scolastico

Nazionalrazzismo

Il nazionalrazzismo come politica del conflitto (razziale)

Quelle organizzazioni che portano avanti una politica nazionalrazzista [1], per poter legittimare la mentalità violenta che gli è propria e per trovare legittimazione culturale e politica, quindi, sostanzialmente per conseguire consenso, naturalmente, non mirano alla gestione dei conflitti esistenti in ambito sociale. Al contrario la politica nazionalrazzista è finalizzata alla loro provocazione, slatentizzazione e a stimolarne continuamente l’escalation. In un certo senso, si potrebbe dire che la politica nazionalrazzista promuove ed esaspera quella “guerra tra poveri” che percepiscono i socialrazzisti (avevo definito tali coloro che ritengono l’accoglienza dei migranti e le politiche di inclusione socialmente punitive per gli autoctoni ed esprimono la loro rabbia attraverso violente manifestazioni di odio razzista soprattutto sui social). Ma mi pare che la politica nazionalrazzista faccia di più.

Sui media tradizionali che ne esprimono le visioni, sui siti internet e attraverso altre forme di comunicazione, inclusa quella del vivo, anche sul piano interpersonale, la politica nazionalrazzista propone e diffonde molteplici tentativi di dare vita a nuovi conflitti o di attribuire vigore ed estensione a conflitti già esistenti – latenti o manifesti. Così, ad esempio, promuove l’idea dell’invasione, sfrutta il fenomeno del terrorismo dell’Isis per svolgere quella che può definirsi una promozione – a tratti esplicita – di uno scontro di religione. Sostiene l’idea che i migranti portino malattie, ecc.[2] Nel rappresentarsi come difensore degli autoctoni contro le prepotenze di un establishment che, in verità, resta indefinito (l’Unione Europea, le banche, le grandi corporation, la Cina, gli USA), ma che invariabilmente è dipinto come incompetente, sfruttatore e corrotto, si pone anche come argine alla corruzione, che sarebbe svolta dai migranti, della pura nobiltà dei costumi e delle tradizioni degli italiani. In breve, il conflitto di cui la politica nazionalrazzista si propone fieramente come parte è in gran parte proposto a tutti gli effetti come un conflitto razziale, tra la “razza” italiana e le inferiori razze dei migranti. Mi pare significativa, infatti, la polemica innescata dal segretario della Lega Nord, dal portavoce di Casa Pound e da Forza Nuova nei confronti di Sergio Mattarella. Nella sua pagina Facebook scriveva Matteo Salvini: «Non si possono paragonare gli italiani emigrati ai clandestini mantenuti in Italia per fare casino». Occorre leggere con attenzione: gli italiani erano emigrati, gli altri, quelli che vengono in Italia, sono clandestini e fanno casino. Secondo Salvini, perciò, gli italiani emigranti erano persone degne, i migranti che raggiungono il nostro Paese, invece, sono indegni (clandestini e casinisti).

Noi (razzisti), buoni, contro di loro, migranti e “buonisti”, cattivi

La politica nazionalrazzista, come tutti i movimenti estremisti, divide rigidamente il mondo in buoni e cattivi, a costo di inventare i secondi e costruire un bel po’ artificialmente i primi. Non si limita, dunque, ad eliminare le sfumature anche a discapito della verosimiglianza. E non esita a raccontare un mondo che non esiste e non è mai esistito, anche se lo fa spesso con toni che permettono di conservare una funzionale ambiguità.

Gli italiani che emigravano non erano né migliori né peggiori, probabilmente, dei migranti che oggi si dirigono verso l’Europa. E non si dovrebbe scordare che attraverso l’emigrazione furono esportate in gran parte del resto del mondo, e non solo negli USA, Cosa Nostra, ‘ndrangheta e Camorra, con effetti devastanti. Si pensi solo a quante persone innocenti – francesi, statunitensi, ecc.- sono state da allora (diciamo dai primi del ‘900) ad oggi ammazzate, sfruttate, rapinate, ricattate, picchiate e incatenate dai mafiosi nostrani emigrati negli altri Paesi.

Però le affermazioni come quella di Salvini, nell’inventare una superiorità (etica, morale, culturale..?) degli italiani emigranti rispetto agli africani e agli asiatici migranti di oggi, mantengono una certa vaghezza. Così, “casinisti” è un termine vago, che di per sé non si sa bene a cosa si riferisca. Ottimo per suscitare ostilità verso i migranti, perfetto per smentire plausibilmente l’attribuzione di una finalità pesantemente offensiva. Più esplicita delle parole scritte da Salvini è la dichiarazione di Paolo Grimoldi, deputato della Lega Nord e segretario della Lega Lombarda ripresa da il Giornale. «È vergognoso che il presidente Mattarella nel ricordare la strage di Marcinelle paragoni gli italiani che andavano a sgobbare in Belgio o in altri Stati, dove lavoravano a testa bassa, dormendo in baracche e tuguri, senza creare problemi, agli immigrati richiedenti asilo che noi ospitiamo in alberghi, con cellulari, connessione internet, per farli bighellonare tutto il giorno e avere poi problemi di ordine pubblico, disordini, rivolte come quella avvenuta oggi nel napoletano dove otto immigrati minorenni hanno preso in ostaggio il responsabile della struttura che li ospita. Paragonando questi richiedenti asilo nullafacenti agli italiani morti a Marcinelle il presidente Mattarella infanga la memoria dei nostri connazionali. Si vergogni».

Mattarella e “quelli che la penano come lui” devono vergognarsi, dunque, secondo il deputato leghista, nonché secondo Simone Di Stefano, il vicepresidente di CasaPound e secondo l’autore del post sulla pagina Facebook di Forza Nuova. Quelli che essi definiscono sprezzantemente “buonisti” sono i cattivi nella narrazione della politica nazionalrazzista. Perché? Perché il Presidente della Repubblica avrebbe osato ignorare l’intrinseca superiorità italiana e paragonare gli emigranti italiani ai migranti di oggi, infangando i primi. E perché, nel farlo, avrebbe commesso l’ancor più pericoloso delitto consistente nel tentativo di fare aprire gli occhi sul fatto che le vittime dell’ingiustizia umana sono tutte uguali. Quelle di ieri e quelle di oggi. Quelle europee e quelle africane o asiatiche. Ha osato tentare di ricordare che gli uomini sono uguali.

Un’altra vittima prediletta della comunicazione nazionalrazzista è la presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini. Oggetto di una demonizzazione continua, bersaglio di una violenza verbale orribile, verso la quale giustamente ha deciso di reagire legalmente, dopo la strage di Barcellona, viene anche accusata, come simbolo della cosiddetta politica buonista, di esserne in qualche misura responsabile. Si vedano al riguardo, tra i tantissimi, il commento di Azo alla notizia su Barcellona data da ll Giornale, ma anche il tweet di Alessandro Sallusti, che gratuitamente la accosta a tale attentato, come del resto fa quello di Paolo Giordano. Come se non bastasse, viene anche indicata come responsabile delle nefandezze commesse dagli stupratori di Rimini e un sindaco ligure della Lega propone su Facebook che ad uno degli stupratori (Guerlin Butungu, 20 anni, del Congo), di cui pubblica la foto del viso, siano concessi gli arresti domiciliari presso la casa della Boldrini: «magari gli mette il sorriso, che ne pensate?», chiosa il suo post.

Il nazionalrazzismo riscrive la cronaca e la storia e racconta storie

Ecco che la politica nazionalrazzista non soltanto sfrutta la cronaca, come nel caso degli stupratori di Rimini, ma arriva a riscriverla. E compie la stessa operazione con la Storia per incidere sulla percezione del presente e manipolare la visione del futuro: i migranti di oggi, viene detto, vestono abiti firmati e sono pigri, fannulloni e nullafacenti. Sembrerebbe di risentire i discorsi razzisti e xenofobi, sui nostri connazionali emigrati a Nord o ad Ovest, che si facevano in America, Svizzera, Belgio, Germania, Gran Bretagna e Nord Italia. Ma, a parte ciò, sorge un dubbio: saranno per caso dei miliardari eccentrici quelli che scaricano le casse al mercato, stendono l’asfalto delle nostre strade, lavorano sulle impalcature, fanno le badanti, raccolgono frutta e verdura nei nostri campi (spesso vittime di nuove forme di schiavitù) ecc., e che sono inequivocabilmente stranieri?

Secondo il nazionalrazzismo i richiedenti asilo sono pigroni coccolati da un’assurda politica buonista

L’altra mistificazione, l’altra distorsione della realtà operata dalla politica nazionalrazzista, proposta per suscitare indignazione e una competizione sociale al ribasso, è quella di ritrarre in termini idilliaci la condizione dei richiedenti asilo. E di attribuire la colpa di tale trattamento di favore, di tali ingiusti privilegi, alla “politica buonista”. Ciò che si vuole suscitare è una dinamica competitiva tale per cui si vorrebbe togliere all’altro quello che non è dato a noi, invece di pretendere che sia dato anche a noi quello che è concesso all’altro.

Si potrebbe osservare che, teoricamente, non vi sarebbe un granché da lamentarsi se oggi i migranti fossero davvero trattati meglio di quanto accadeva agli emigrati di 40 o 50 anni fa. In fondo, se il mondo va avanti e migliora, perché dolersene? Dovrei forse essere arrabbiato con i miei figli perché sotto certi aspetti la loro vita è più facile della mia? Dovrei prendermela con le generazioni successive alla mia che non si sono dovute sobbarcare un anno di naja? La generazione di mio nonno doveva odiare quella di mio padre che poté beneficiare dello Statuto dei Lavoratori?

Chiunque lavori seriamente con i richiedenti asilo e i rifugiati, chiunque sia capace di ascoltarli, sa che la situazione è l’esatto opposto rispetto a quella raccontata dalla vulgata tipica della politica nazionalrazzista, ben compendiata nelle parole dell’On. Leghista Paolo Grimoldi, prima citate («noi ospitiamo in alberghi, con cellulari, connessione internet, per farli bighellonare tutto il giorno »). I primi non tanto a lamentarsi quanto a soffrire per l’inattività cui il sistema li costringe sono proprio i richiedenti asilo. Come qualunque essere umano cui sia impedito per un tempo indefinito di fare qualsiasi cosa, anch’essi, come minimo, si annoiano, ma, soprattutto, hanno una sensazione di assurdo. Costretti a stare in una sorta di limbo, mentre in realtà vorrebbero lavorare o almeno rendersi utili, poiché fintanto che sono in attesa delle decisioni delle commissioni territoriali deputate a valutare la loro domanda di asilo, gli è sostanzialmente impossibile fare alcunché compresi dei programmi sul loro futuro, restano passivamente in attesa della decisione della commissione: si parla di molti mesi di attesa, nel corso dei quali, fatta salva una situazione minoritaria (per lo più riferita a progetti di accoglienza rientranti nel sistema dello SPRAR), il richiedente asilo si trova a patire l’inattività a volte in termini di insofferenza insopportabile, avendo tempo solo per rimuginare sui propri guai attuali e su quelli vissuti in precedenza. A ciò si aggiunge la beffa di essere denigrato per questa scelta, che, invece, per lui/lei è un’imposizione incomprensibile. Inoltre gli si rinfaccia il fatto di comprarsi uno smartphone, cioè l’unico mezzo che gli consente di mantenere un dialogo con i famigliari.

Il parallelo improprio con il genocidio dei nativi americani proposto dal nazionalrazzismo

Ma una delle più pacchiane mistificazioni della politica nazionalrazzista è l’equiparazione tra la migrazione attuale e l’espansione verso l’Ovest nordamericano dei pionieri a spese dei nativi. Si riscrive la storia. I nativi americani furono scacciati dalle loro terre non da migranti disperatamente più poveri, impotenti e disorientati di loro, ma da pionieri armati, appartenenti ad un’organizzazione statale incredibilmente potente e, soprattutto, supportati dall’esercito degli Stati Uniti, che riuscì in pochi decenni a rinchiudere nelle riserve e a massacrare quasi totalmente i precedenti abitanti del West. Ci sarebbe da chiedersi se chi ha proposto quel parallelo ha mai davvero letto qualcosa sulla storia portata a pietra di paragone oppure se ha guardato almeno un paio di film western.

Andrebbe ricordato che sono i nativi africani e asiatici coloro i quali, come quelli nordamericani citati a sproposito dalla propaganda xenofoba della politica nazionalrazzista, hanno subito svariate forme di invasione. Non sono gli europei i popoli che hanno patito e ancora patiscono qualcosa denominato colonialismo (vetero e neo), ma i popoli che vivono nelle terre da cui partono i migranti. Andrebbe allora anche rammentato che proprio lo sfruttamento colonialista e le svariate forme di ingerenza e di occupazione da parte delle grandi potenze statali e private – soprattutto occidentali e russe – sono tra le cause della migrazione di massa in corso. Come lo sono i cambiamenti climatici.

Del resto, va riconosciuto che, come anche il socialrazzismo, così la politica nazionalrazzista non ha grossi rivali nel campo del negazionismo e neppure, aggiungerei in quello del revisionismo.

Alberto Quattrocolo

[1]  In alcuni precedenti post avevo proposto tale denominazione per quelle organizzazione e quei partiti che, a partire da un’idea esasperatamente rigida di nazione, propongono una politica basata sul rifiuto, sull’esclusione, sulla discriminazione nei confronti dei migranti e, in modo meno esplicito, “di altre minoranze”. A quest’ultimo proposito si consideri il gesto del sindaco di Prevalle che si è rifiutato di celebrare un unione civile tra due omosessuali

[2] Rispetto al falso mito che i miranti portano malattie si legga: http://www.vita.it/it/article/2017/07/25/i-migranti-portano-malattie-no-le-prendono-quando-arrivano-qui/144130/

Nazionalrazzismo

Nazionalrazzismo e socialrazzismo

Le campagna d’odio nazionalrazzista contro l’accoglienza e le politiche di inclusione

In un precedente post avevo descritto il nazionalrazzismo come un’articolata serie di organizzazioni e iniziative politiche che, sotto varie denominazioni, ammettendo apertamente o negando il loro carattere razzista, in nome della difesa di una certa idea di identità nazionale e definendosi difensori dei valori occidentali, contraddicono e minano proprio tali valori, a partire dai principi relativi all’uguaglianza e al rispetto della dignità per tutti gli esseri umani. Infatti, promuovono una reazione conflittuale verso i migranti (inclusi i rifugiati) e verso coloro che si adoperano per la loro accoglienza e integrazione.

In particolare, per poter stimolare e convogliare la rabbia e la frustrazione popolare verso il nemico-migrante, questo movimento svolge senza sosta autentiche campagne di odio nazionalrazzista tese ad intercettare il socialrazzismo. Tali campagne consistono nel:

  • demonizzare anche il sistema di accoglienza e di integrazione, non soltanto denunciandone i limiti (che ci sono, in effetti, e non sono di poco rilievo anche sul piano del rispetto della dignità umana dei migranti), ma anche esaltandoli e ingigantendoli, a costo di mentire spudoratamente, con il racconto della sola parte che più conviene di certi fatti, con lo stravolgimento e con l’invenzione di altri;
  • ignorare a bella posta e tentare di oscurare tutte le situazioni in cui il processo di integrazione funziona davvero. Ad esempio, il nazionalrazzismo non si sofferma mai sui diversi sistemi esistenti, accomunandoli tutti in una descrizione fallimentare e trascurando, così, le riuscite effettive del sistema SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati);
  • fingere di non sapere e fare di tutto perché non sia consapevolizzato il fatto che i problemi maggiori sul piano dell’integrazione non sono legati tanto all’elevato numero dei migranti in sé, quanto al ridotto numero dei Comuni che aderiscono al sistema SPRAR. Ancora adesso, su circa 8.000 comuni italiani, più di 5.500 non ospitano migranti. Se aderissero al programma SPRAR, il Viminale riuscirebbe a rispettare la quota di 3 immigrati su mille cittadini. Il nazionalrazzismo, ovviamente, si guarda bene dal porre in rilievo che i Comuni accoglienti, inevitabilmente, sono sotto stress visto che gli altri se ne infischiano e a loro tocca farsi carico di quasi il triplo di coloro che, se tutti contribuissero lealmente, dovrebbero occuparsi di accogliere e integrare. Per il nazionalrazzismo sarebbe un autogol il riconoscere che siamo 60.000.000 di italiani e andiamo nel panico, anzi in una vera e propria paranoia, se arrivano 100.000 persone, l’equivalente di una circoscrizione torinese. Così come trascura a bella posta il fatto che la mancata solidarietà degli altri membri dell’Unione Europea concorre a creare le difficoltà attuali. Anzi, per il nazionalrazzismo, ovviamente, il menefreghismo dei partner europei è sinonimo di saggezza;
  • denigrare e delegittimare tutte le organizzazioni pubbliche e private che si occupano dei migranti. Così, se viene avviata un’indagine o si compiono degli arresti in tale ambito, il nazionalrazzismo esulta per la chance che gli è offerta di delegittimare tutto il settore integralmente[1]. E, del resto, il sistema di accoglienza è attaccato alla radice, raccontando che esso serve soltanto ad arricchire le organizzazioni che se ne occupano e a viziare i migranti che se ne avvalgono, a spese degli italiani, che faticano a tirare la carretta;
  • iscrivere nella categoria dei traditori tutti coloro che esprimono la loro umanità anche verso i migranti, ancora peggio, nell’ottica nazionalrazzista, se concretamente compiono gesti solidali (si veda la reazione di Matteo Salvini, riferita dal Corriere della Sera, nei confronti della Feltrinelli di Como, “rea” di aver distribuito gratuitamente una guida per i rifugiati – si badi per i rifugiati non per tutti i migranti e men che meno per i clandestini, dunque solo per coloro cui è stato concesso l’asilo, in quanto sottoposti a persecuzioni nel loro Paese d’origine).

La relazione circolare tra socialrazzismo e nazionalrazzismo

L’ultimo aspetto in maniera più evidente permette di collegare il nazionalrazzismo al socialrazzismo. Per quanto sia vero che dal secondo può talvolta scaturire qualche organizzazione che assume caratteri nazionalrazzisti, mi pare certo che, in generale, il nazionalrazzismo si ingegni e si impegni, con un costante e intenso sforzo, a promuovere il socialrazzismo. In effetti, il nazionalrazzismo sa che il socialrazzismo, anche quando è ancora allo stato primordiale, è un fertilissimo campo da cui potranno essere raccolti frutti indispensabili per permettergli di crescere come progetto politico. E a tal fine, mi sembra che il nazionalrazzismo abbia bisogno non soltanto di consensi elettorali, ma ancor prima di un clima culturale favorevole. Quel che serve al nazionalrazzsimo, quindi, è l’abbattimento di alcuni tabù morali e culturali. E c’è una forte convergenza di interessi tra socialrazzismo e nazionalrazzismo su questo punto. Entrambi hanno bisogno che venga eliminata la riprovazione sociale per chi agisce o predica contro i valori e i principi che sono alla base delle moderne società democratiche, quindi anche di quella identità europea (francese, italiana, spagnola, portoghese, greca, belga, ecc.) che, fingendo di non accorgersi del paradosso, i nazionalrazzisti dicono di voler preservare: libertà, uguaglianza, fratellanza. In sintesi:

  • per i socialrazzisti, la messa in minoranza o la riduzione al silenzio di chi sostiene tali valori è fondamentale per poter trovare legittimazione morale e culturale alla violenza intrinseca che fonda la loro forma mentis
  • il nazionalrazzismo ha bisogno dello stesso tipo di cambiamento di sensibilità sociale per poter uscire da una condizione di marginalità politica e avere campo libero nella declinazione della propria propaganda.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Naturalmente a nulla vale l’obiezione logica secondo la quale il fatto che in un determinato settore di attività vi sia della corruzione non significa che il settore in sé sia corrotto e vada abolito: vi sono casi di corruzione e incompetenza nelle forze dell’ordine, nella magistratura, nelle forze armate e nella sanità, ma a nessuno viene in mente di eliminare le forze di polizia, né di chiudere tutte le caserme o tutti i tribunali e gli ospedali

Nazionalrazzismo

Nazionalrazzismo

Si va diffondendo con il socialrazzismo anche il nazionalrazzismo. Li chiamo così, per comodità espositiva. Non so quanto tali termini siano davvero descrittivi ed esplicativi dei fenomeni cui li riferisco, ma penso cha abbiano un certa intrinseca potenzialità evocativa.

Avevo definito socialrazzismo l’atteggiamento di chi, ammettendo o meno di essere razzista, oltre a provare sentimenti fortemente xenofobi, odia i migranti perché li ritiene una minaccia per il Welfare e, dunque, considera complici di tale nemico, quando non principale nemico, i fautori e gli attuatori delle politiche di accoglienza e inclusione. Avevo anche aggiunto che tale forma di razzismo – che si distingue dal razzismo puro e semplice, il quale non si vergogna di rivendicare la propria natura e non sente la necessità di invocare preoccupazioni di difesa dello stato sociale – trova spesso nei social una forma di promozione ed esaltazione della violenza che gli è intrinseca.

Mi permetto di chiamare nazionalrazzismo ciò a cui danno luogo le organizzazioni formali e informali (le prime possono essere anche veri e propri partiti e non solo associazioni o movimenti), che adottano una prospettiva politica, al cui centro vi è l’idea di nazione e che sostanziano larga parte della loro proposta politica in una proposta conflittuale e razzista verso i migranti e tutti coloro che risultano sgraditi per la loro diversità (tra questi figurano anche e sono poste in primo piano le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender).

Nazionalismo e nazionalrazzismo

La nazione, nel suo significato di base, è una comunità di individui che condividono la lingua, il luogo geografico, la storia, le tradizioni, la cultura, l’etnia e un governo. Il nazionalismo, come si può leggere sul Dizionario di Storia della Treccani, è quel «movimento politico e ideologico avente quale programma l’esaltazione e la difesa della nazione». Nel Dizionario di Economia e Finanza sempre della Treccani si aggiunge che si tratta di «un’ideologia, formatasi nel 19° sec., relativa a quelle dottrine e a quei movimenti che sostengono l’affermazione della nazione intesa come collettività omogenea e ritenuta depositaria di valori tradizionali, tipici ed esclusivi del patrimonio culturale e spirituale nazionale». Se già il nazionalismo di per sé contiene una rilevante sfumatura conflittuale – tanto che Charles De Gaulle asseriva: «Le patriotisme, c’est aimer son pays. Le nationalisme, c’est détester celui des autres» -, il nazionalrazzismo si spinge ancora più avanti. Esalta la comunanza di tradizioni, lingua, cultura e di etnia, arrivando, se necessario, a inventarne la sussistenza o a piegarne, nella sua propaganda, l’aspetto al fine di proiettarvi un carattere monolitico. Per gli italiani, infatti, parlare di nazione in senso stretto è un azzardo e in parte un’invenzione. Ciò è ancor più vero per altri popoli, quali, ad esempio, gli statunitensi e gli svizzeri. Ma il nazionalrazzismo di Donald Trump, come quello nostrano, propone, ciononostante, un’idea di comunità intesa come gruppo omogeneo in senso assai rigido. Un gruppo la cui identità si fonda su poche, semplificate ed esasperate caratteristiche (culturali, religiose, tradizionali), fondamentali per differenziare un gruppo di individui dagli altri gruppi e per contrapporli ad essi. Il nazionalrazzismo, dunque, è assai più del nazionalismo. Sorge, infatti, per promuovere e difendere in sede politica (oggi chiudendosi dietro il filo spinato; domani, forse, attaccando) tale visione identitaria, dotandola di un risvolto di superiorità. In linea teorica si potrebbe essere nazionalisti senza per questo disprezzare gli altri popoli. Il nazionalrazzismo, invece, com’è proprio della sua natura fortemente conflittuale, stabilendo che popolo-nazione-cittadinanza sono inscindibili e immutabili, afferma anche che si definiscono non nell’inclusione e nell’integrazione delle differenze, ma nella ferrea esclusione dai confini nazionali di tutti coloro che sono eterogenei rispetto ai tratti caratterizzanti i membri della nazione, in particolare, dal punto di vista etnico e culturale.

Il nazionalrazzismo come forma di socialrazzismo consapevole, politicizzata e organizzata

A quest’idea è strettamente correlato il ragionamento secondo il quale, poco cristianamente, occorre pensare solo a se stessi, al proprio gruppo. Perché, nell’ottica nazionalrazzista, gli altri arrivano secondi e, se ve ne sono, al massimo possono spartirsi gli avanzi: siccome però di avanzi non è previsto che ve ne siano, quando si afferma “prima gli americani” o “prima gli italiani” o “prima i francesi”, in realtà si sta dicendo “solo gli americani”, “solo gli italiani”, ecc. I secondi, gli stranieri, cioè, sono ritenuti non soltanto immeritevoli di solidarietà vera, ma ancor prima sono ritenuti insuscettibili di rispetto della loro umanità. Immeritevoli di essere visti. Meritevoli, però, di essere respinti, scacciati e, se conveniente, imprigionati. In termini generali, meritevoli di essere puniti. Tanto che vengono chiamati clandestini e odiati e condannati in base a tale etichetta. Cioè in virtù di una disposizione normativa che, occorre ricordarlo, sanziona non il comportamento in sé, ma la condizione personale, la quale ex lege diventa giuridicamente illecita (per dirla pane al pane: se un francese si reca in Italia non commette alcuna infrazione, ma se la stessa condotta è posta in essere da un senegalese egli può essere qualificato e sanzionato come clandestino).

Il nazionalrazzismo, in sintesi, può definirsi la forma politicamente organizzata non solo del razzismo tout-court, ma anche, e forse assai di più, del socialrazzismo di cui avevo scritto in un altro post. E, infatti, in termini nazionalisti, si propone come movimento di liberazione di una nazione oppressa, ma, in termini razzisti, inventa tale inesistente oppressione, attribuendola ai migranti e alle politiche di accoglienza e integrazione. Così di fatto, implicitamente, quando non esplicitamente, propone la supremazia della nazione italiana rispetto a quelle cui appartengono i migranti, giungendo, in certi casi perfino ad auspicare, più o meno velatamente, atti potenzialmente forieri di risvolti bellici nei loro riguardi (come l’occupazione delle coste per impedire la partenza delle imbarcazioni cariche di migranti).

Nazionalisti e, soprattutto, razzisti assai più che sovranisti

Il nazionalrazzismo può includere movimenti che vengono definiti sovranisti. Si tenga presente che questo neologismo si riferisce, come spiega ancora la Treccani, alla «posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione». Ma il sovranismo di per sé non significa avversare la migrazione, detestare i migranti e chiamarli tutti con rabbia risentita “clandestini” e criminalizzarli. In fondo, si può dire che l’espressione nazionalrazzismo per chi adotta tale linea politica sia più chiaro e descrittivo di sovranismo. Infatti, rispetto ai partiti e alle organizzazioni che pongono al centro della loro proposta politica la legittimazione e la promozione della xenofobia e dell’odio verso i migranti, sfruttando vecchi pregiudizi e creandone di nuovi, rappresentandosi come difensori autentici, direi che la parola nazionalrazzismo sia più pertinente. L’espressione “sovranista”, invece, mi pare che trascuri o attenui molto una delle più importanti, se non la principale, delle finalità perseguite da quei soggetti politici. Cioè quella di costruire l’immagine di un nemico, cui attribuire la responsabilità di tutte o quasi le ingiustizie della globalizzazione e della crisi, e di individuarlo contemporaneamente all’esterno del gruppo-nazione e all’interno: il migrante e tutti coloro che sostengono, blandamente o con convinzione, la necessità e la giustezza di accoglierlo e includerlo.

La demonizzazione nazionalrazzista del migrante

I primi – siano essi in fuga da condizioni economico-sociali difficilissime o da guerre, terrorismo, persecuzioni o discriminazioni – sono immancabilmente descritti dai nazionalrazzisti come se fossero un blocco monolitico di fannulloni, approfittatori, furbi e criminali. Per tutti vale l’espressione “clandestini”, poiché coloro che ottengono lo status di rifugiato o altra forma di protezione internazionale o umanitaria non sono presi quasi per niente in considerazione dal nazionalrazzismo. Il quale, del resto, si guarda bene dal considerare che i criteri per la concessione dell’asilo sono di una rigidità tale e sottoposti a valutazioni svolte in termini oggettivamente così ri-vittimizzanti che, se con le stesse modalità fossero trattati sistematicamente degli autoctoni vittime di assai meno gravi violenze, si solleverebbe un’ondata di indignazione popolare.

Quindi, i migranti per il nazionalrazzismo sono tutti clandestini – fuggano dalla fame o dalle bombe, da una condanna inflitta da qualche organizzazione estremista e terrorista o da una faida – e non c’è discussione che tenga. Né del resto sono disposti ad interessarsi al fenomeno della tratta, a come essa coinvolga anche delle giovanissime (e da ultimo giovanissimi), né a quello dei minori non accompagnati. Il nazionalrazzismo descrive queste persone come un “tutt’uno clandestino”, cioè come una massa informe di soggetti che violano la legge, che si nascondono, che sono opachi nelle intenzioni e nelle attitudini. Gente che ha qualcosa da nascondere. A tali caratteristiche negative, nell’elenco degli stereotipi nazionalrazzisti, si aggiungono quelle legate alle tradizioni e ai costumi, ma soprattutto l’aspetto religioso. Per il nazionalrazzismo i migranti sono tutti di fede islamica, anche quando si tratta di cristiani. E, in quanto musulmani, sono tutti fondamentalisti e, perciò, potenziali o attuali terroristi. Poco importa, dunque, che una grande fetta dei richiedenti asilo e dei rifugiati siano perseguitati dal sedicente Stato Islamico o da altre analoghe organizzazioni.

Peraltro, il nazionalrazzismo non si lascia scappare un’occasione per svolgere un’imponente e penetrante campagna d’odio verso i migranti ogni volta che la cronaca presenta la notizia di un reato commesso da uno straniero. Invariabilmente il nazionalrazzismo pone in risalto la nazionalità del reo, cioè la sua estraneità alla nazione italiana, e attribuisce la tendenza a delinquere del reo non alla dimensione individuale riguardante quella singola persona, ma ad una caratteristica intrinseca allo straniero. Occorre tenere presente che tale termine si riferisce solo ad africani e asiatici, non certo a statunitensi, canadesi o tedeschi.

Alberto Quattrocolo

socialrazzismo

Conflitti, rabbia e frustrazione sullo sfondo del socialrazzismo

I conflitti sottesi al socialrazzismo e quelli che esso produce sono un problema politico

Nella probabilmente ingenua e certamente parziale prospettiva di chi lavora in un’associazione che si occupa di gestione dei conflitti in vari ambiti relazionali e sociali e che offre supporto psicoterapeutico e psicosociale alle persone e alle famiglie vittime della Crisi e ai rifugiati e richiedenti asilo e ai minori stranieri non accompagnati, mi pare che il socialrazzsimo sia leggibile anche in termini conflittuali. Cioè, come il frutto di conflitti non risolti e come la fonte di nuovi conflitti. Rispetto alla produzione di nuovi conflitti, mi limito ad osservare che è difficile immaginare che un gruppo, di persone, oggetto di aggressioni e soprusi possa rassegnarsi a tale tipologia di trattamento. E del resto, il socialrazzismo sta già spaccando la comunità degli autoctoni, dividendola tra coloro che condividono tali pensieri, sentimenti, atteggiamenti e comportamenti e coloro che li avversano. Tale conflittualità si sviluppa non soltanto sui media – come, per dire, nella polemica tra Roberto Saviano e Matteo Salvini, in relazione alla “minaccia” del segretario della Lega Nord di togliere la scorta a Saviano, se e quando il suo partito sarà al Governo (in realtà, essendo lo Stato italiano una democrazia, per quanto imperfetta, l’attribuzione di tale forma di protezione a magistrati, giornalisti ecc. minacciati dalla criminalità organizzata o da organizzazioni terroriste, è concessa da una commissione tecnica e non è sottoposta a valutazioni discrezionali, legate alla conformità del soggetto da proteggere alle opinioni di chi è al governo).

La dimensione conflittuale generata dal socialrazzismo nella nostra società è segnalata anche dal fatto che vi è chi in sede politica propone, per contrastare il dilagare di un razzismo sempre più violento, l’adozione di norme punitive. Non mi sento di argomentare per dissentire da tale opzione. Tuttavia, sommessamente, rilevo anche che rischia di segnalare una debolezza, una posizione di scacco, non troppo dissimile, sotto un certo aspetto, dall’atteggiamento di chi manda in soffitta lo ius soli o ammorbidisce e perfino ridefinisce i valori e i principi che ne caratterizzano la natura politica per seguire l’onda montante del socialrazzismo e cercare di contenere la temuta perdita dei consensi.

Già altrove in più di un post su questo blog ho scritto che vi è la possibilità di una politica che cerchi anche di gestire i conflitti, ascoltando e facendo sentire comprese le persone, quindi accogliendo le critiche, senza perciò assecondarne i vissuti, ossia senza tradurre le emotività in azioni politiche (legislative o amministrative che siano).

Rabbia e frustrazione alla base del socialrazzismo

Ad esempio, se consideriamo il pensiero e soprattutto il comportamento di coloro che aderiscono al socialrazzismo, possiamo anche chiederci quali tipi di vantaggi immateriali, consapevolmente o meno, vogliono conseguire, agendo la violenza verbale o realizzando le altre forme di prepotenza e di discriminazione che lo concretizzano. Si potrebbe supporre, ad esempio, che il socialrazzista nel porre in essere la violenza verbale sui social o nell’agire un’altra forma di prepotenza, cerchi talvolta di risolvere in termini simbolici una situazione di impotenza, di cercare psicologicamente una via d’uscita da una condizione che gli pare non averne. Tale, infatti, è spesso uno dei vantaggi inconsapevolmente cercati dall’autore di un’aggressione fisica. Un altro è quello di cercare, attraverso la violenza, di fare chiarezza in una situazione confusa. Un terzo, vantaggio solitamente cercato nel passaggio all’atto violento, è quello tentare di ottenere attenzione, considerazione, visibilità, riconoscimento.

Infine, non andrebbe sottovalutato un altro aspetto: talora la violenza è connessa alla frustrazione per la mancata realizzazione di un progetto, di una speranza o di un desiderio. Tanto più il bisogno era prossimo ad essere soddisfatto, tanto più forte è la frustrazione se si frappone un ostacolo. Forse non possiamo escludere che la rabbia, risorsa nutrizionale principale del socialrazzismo, sia di tal natura. È possibile, cioè che anche in tal caso, come accade per altre ipotesi di violenza, la rabbia, invece di indirizzarsi verso la vera fonte dell’impedimento all’appagamento di un bisogno, si indirizzi – come asseriscono Dollard e Miller nella loro teoria della frustrazione – verso il bersaglio più a portata di mano e più indifeso, per quanto innocente o solo parzialmente collegato al reale autore dell’azione frustrante.

Questi ultimi, in fondo, sono soltanto degli spunti tanto modesti quanto inadeguati, come tutto il post, del resto, per cercare di ricordare, soprattutto al sottoscritto, che per affrontare in termini costruttivi un simile fenomeno, occorre cercare di comprenderne i termini. Occorrerebbe, forse, anche riuscire a sospendere il giudizio. Però, quando sono in gioco valori costitutivi, irrinunciabili per la tenuta del consorzio umano (e il razzismo li minaccia tutti radicalmente), non soltanto è difficilissimo riuscirci davvero, ma sorge anche il dubbio che sia giusto.

Alberto Quattrocolo