socialrazzismo

La violenza dei socialrazzisti

Meccanismi di autogiustificazione dei discorsi di odio e delle altre forme di violenza dei socialrazzisti

Nella disponibilità dei socialrazzisti (in un precedente post avevo definito socialrazzisti il comportamento e la mentalità di chi manifesta, anche o soprattutto sui social network, un violento odio per i migranti, percependoli come fonte di un costo che pregiudica il godimento dei diritti sociali da parte degli italiani e come una minaccia sul piano della sicurezza) ad offendere, denigrare, diffamare e calunniare i migranti si possono rinvenire quei meccanismi di autogiustificazione che psicologicamente servono a neutralizzazione la coscienza dell’autore di una violenza (sugli episodi di violenza razzista mi sono soffermato nel post La violenza razzista). Cioè, quelle dinamiche interne che azzerano il sentimento delle proprie responsabilità negli autori di reato, inclusi coloro che commettono crimini violenti (bulli, terroristi, ladri, maltrattanti, stupratori, ecc.). Tali meccanismi di neutralizzazione della coscienza sono:

la colpevolizzazione della vittima. In virtù di tale meccanismo, l’autore della violenza ispirata da socialrazzismo si persuade di non aver fatto nulla di male poiché i migranti, bersaglio delle sue aggressioni, si meritano di essere insultati, offesi, maltrattati e andrebbero anzi scacciati e perfino perseguitati perché sono colpevoli;

la negazione del fatto che la vittima sia una vittima. Ad esempio, lo stupratore o chi commette una molestia sessuale può arrivare a convincersi che la vittima non sia tale perché in realtà sta ricevendo proprio ciò che desidera;

la spersonalizzazione e la deumanizzazione. I migranti non sono considerati dai socialrazzisti come persone, con storie, pensieri, sentimenti, esigenze, ma come una massa informe di entità astratte, prive di sensibilità, di sentimenti umani;

la giustificazione morale. La verbalizzazione o la traduzione in aggressioni fisiche dell’odio verso il migrante, sorge, per i socialrazzisti, dall’adempiere al dovere morale di dover difendere la propria casa, la propria famiglia, la propria identità, i propri diritti e, perfino, la propria sopravvivenza fisica e spirituale;

l’etichettamento eufemistico. I discorsi di odio come le violenze fisiche realizzate e auspicate o sollecitate (dall’invito a ricacciarli in mare, all’esultare per la morte di bambini o donne incinta) dai socialrazzisti sono da essi definiti alla stregua del banale parlare schietto;

il confronto vantaggioso. I socialrazzisti rapportano l’entità del danno derivante dalla loro, ad altri fatti illeciti, giustificando, così, una sfilza di insulti e maledizioni verso la massa dei migranti, in base al paragone con un’azione criminale particolarmente grave commessa da uno straniero;

– la distorsione delle conseguenze. I socialrazzisti affermano che in realtà i discorsi di odio e la messa fisicamente in pratica del loro odio non danneggiano realmente nessuno, non fanno male né al corpo né allo spirito di coloro a danno dei quali sono indirizzati. L’idea di fondo, infatti, che qualifica i socialrazzisti come razzisti senza possibilità di dubbio, è che i migranti abbiano la pelle dura o che siano privi di quelle facoltà che consentono loro di accusare il colpo quando li si offende. «Se sopportano di vivere in certe condizioni, se accettano di morire annegati, se sono disposti a lasciare le loro famiglie è perché sono meno umani di noi». Questo è il ragionamento di fondo che permette di scrivere le peggiori atrocità credendo che non producano conseguenze lesive su di un altro soggetto.

Una sorta di neo-negazionismo dei socialrazzisti

Sullo sfondo del socialrazzismo vi è un atteggiamento mentale in qualche misura simile a quello negazionista relativo alla Shoà. Si tratta di un atteggiamento mentale indispensabile ai socialrazzisti per continuare a sentirsi delle persone dotate di umanità. In tal caso, però, i socialrazzisti negano alla radice che i migranti che sbarcano sulle nostre coste siano delle vittime in fuga dalla violenza e dall’ingiustizia. Tale negazione – qualcosa che probabilmente ha molto a che fare con l’omonimo meccanismo di difesa in ambito psicologico – costituisce di per sé una violenza ancora più profonda, che si potrebbe chiamare neo-negazionismo. Infatti, occorre considerare che il negare a tali persone, in massa, il loro riconoscimento come vittime di persecuzioni, arbitrii, disumanità, terrorismo e guerre, significa arrecare loro una ferita dolorosissima e ancora più traumatica, sotto molti aspetti, dei traumi in sé che hanno subito nella loro patria e durante il peroro migratorio. Ad esempio, il trattamento da schiavi, la sottoposizione a torture, abusi sessuali e stupri, le uccisioni di figli, coniugi e genitori, e le tantissime altre forme di abuso e sfruttamento, di discriminazione e persecuzione, sono considerati dai socialrazzisti dei fatti inconsistenti, immeritevoli di considerazione, addirittura mai avvenuti. Come spiegato da Simona Corrente nell’ambito del Convegno Stand by me, richiamando l’incubo ricorrente ricordato da molti sopravvissuti ai lager nazisti, vi è ben poco di peggio per una vittima del non essere creduta.

L’altro, per certi aspetti ancora più radicale, risvolto negazionista – che meriterebbe assai più attenzione da parte dei media e non solo degli addetti ai lavori, degli studiosi e dei ricercatori – è quello relativo al colonialismo. I socialrazzisti non tengono in alcun conto del fatto incontrovertibile che guerre e massacri, terrorismi, persecuzioni e dispotismi vari, carestie, miseria, malattie e povertà, sono in larghissima parte, direttamente collegato con il colonialismo di ieri e con quello di oggi.

Va da sé che anche questa forma di negazionismo è indispensabile al socialrazzismo. Permette ai socialrazzisti di sentirsi dalla parte della ragione, di definirsi vittime di un’ingiustizia, di nutrire e mostrare odio verso gli appartenenti ai popoli vittime del colonialismo passato e attuale, di disprezzarle e colpevolizzarle, deumanizzandole e riducendole a clandestini.

Alberto Quattrocolo

socialrazzismo

Socialrazzismo

Come tutti, ho l’impressione che il razzismo sia non soltanto in crescita, ma mi pare anche che assuma una nuova fisionomia. Più avanti nel post tenterò di spiegare perché, a mio avviso, nella sua attuale versione, alcuni atteggiamenti e comportamenti razzisti si prestino ad essere denominati socialrazzismo. È, questa, una mentalità razzista che dilaga nell’intero continente, Italia inclusa.

Alcune caratteristiche del razzismo

Alcuni tra gli aspetti salienti del razzismo tumultuosamente crescente mi pare che possano essere i seguenti.

  • Non è riducibile a mera xenofobia, la quale sarebbe sintetizzabile nell’atteggiamento di chi dice: «gli unici di cui ho paura sono quelli che non conosco». È, invece, qualcosa di traducibile in questi termini: «odio quelli di cui ho paura, e questi sono i migranti, degli sconosciuti, che sono sicuro di conoscere».
  • È trasversale ai diversi ceti sociali, ma fa presa più salda ed è più diffuso presso la parte che maggiormente risente del disagio sociale esploso con la crisi economica.
  • Non soltanto è verbalizzato apertamente, ma cerca approvazione e seguito nei discorsi o nelle affermazioni svolte al bar, alla fermata del tram, sulla metro, sotto l’ombrellone, nella coda ad uno sportello, ma, soprattutto e con ancor maggiore violenza verbale, sui social.
  • Si compone e si alimenta di stereotipi e di pregiudizi (e spessissimo di ignoranza) a vari livelli. Pregiudizi e stereotipi negativi, naturalmente.

Pregiudizi e stereotipi alla base del razzismo

Senza dilungarmi troppo sul tema delle generalizzazioni e delle categorizzazioni, direi che questi meccanismi spadroneggiano vigorosamente nei pensieri e nei discorsi razzisti. Il rapporto tra in-group e out-group funziona a pieno regime. E non è facile smontarlo, anzi parrebbe essere un compito sovrumano. Per fare un esempio: se esce la notizia che un migrante (o un italiano di origine straniera) ha rubato, rapinato, stuprato o ucciso, immediatamente dai membri dell’in-group (gli autocotoni) quel crimine è vissuto come rappresentativo della tendenza criminale di tutto il gruppo dei migranti (l’out-group, appunto). Mentre, se un membro dell’in-group (un italiano) commette analoghi delitti, per gli autoctoni (cioè per gli altri membri dell’in-group cui quel criminale appartiene) la generalizzazione non vale. Infatti, i membri dello stesso gruppo sanno che quella condotta non è rappresentativa di qualità intrinseche al gruppo. Gli italiani sanno di non essere tutti dei mafiosi, degli evasori fiscali, dei corrotti o dei cialtroni accoltellatori a tradimento, anche se una parte piccola, per quanto numerosa, di italiani fa parte di organizzazioni criminali di stampa mafioso, evade il fisco, corrompe o è corrotta, e anche se talvolta i governi italiani hanno attaccato a tradimento altri paesi. Presso altri popoli, però, capita di scoprire che sono queste le rappresentazioni mentali che essi hanno degli italiani (che per loro sono un out-group). Un’informazione di carattere negativo sul comportamento di uno o di alcuni italiani è dagli altri popoli attribuita causalmente ad una caratteristica intrinseca, qualificante, di un intero popolo.

Non occorre essere personalmente cattivi per essere razzisti

Un’Europa popolata, presumo al 99%, come gli altri continenti, da persone perbene, di normale bontà e di altrettanto normale altruismo, vede, dunque, proliferare il razzismo. Ciò accade in un’Europa in cui abitano persone normalmente capaci di provare empatia per l’altro, in grado di essere compassionevoli verso la sofferenza del prossimo, anche quando proviene da un altro continente se hanno con costui una relazione di conoscenza non superficiale. Però, alcuni di questi europei, e tra costoro alcuni italiani, in numero costantemente crescente, temo, sospendono ogni capacità empatica quando spostano lo sguardo sulla massa degli esseri umani che attraversano il mare o le montagne per cercare una chance di vita migliore, o appena decente, o per sfuggire a carneficine, persecuzioni, e ad altre inenarrabili forme di violenza e violazione di diritti umani. Dilegua ogni forma di legame umano, ogni sentimento di appartenenza alla stessa specie. E se ne va a ramengo la memoria di un passato davvero recente di emigrazioni verso il nord dello stesso continente o al di là dell’Atlantico[1]. Si dimentica la storia coloniale e si rimuovono dalla memoria le tantissime forme di sfruttamento e i conflitti anche recentissimi posti in atto da governi e organizzazioni occidentali in Africa, Asia e America Latina. Così come sbiadisce il ricordo di un passato distante appena settant’anni. Un passato europeo di diritti negati, di trincee e fili spinati, di bombardamenti aerei, di mine, di rastrellamenti, di fucilazioni, di lotte partigiane e collaborazionismi, di tradimenti, di impiccagioni, di fosse comuni, di torture, di privazioni, di fame e devastazioni, di intolleranze e genocidi.

Il socialrazzismo e lo stato sociale

Scrivevo in apertura che il termine socialrazzismo mi sembra prestarsi a definire il razzismo di questi anni. Infatti, presenta alcune caratteristiche, tutt’altro che inedite nella sostanza ma nuove nelle forme, incluse quelle di trasmissione, che possono essere efficacemente sintetizzate in tale espressione.

Come anticipato, per il socialrazzismo l’accoglienza dei migranti e le politiche di inclusione sono  socialmente punitive per gli autoctoni. Tale convinzione dei socialrazzisti presenta un aspetto inedito rispetto al razzismo di un tempo, in cui il razzismo aveva solo marginalmente un risvolto competitivo sul fronte del Welfare. È vero che i meridionali e gli abitanti del Triveneto emigrati in Piemonte, Lombardia e Liguria, come, in generale, gli italiani emigrati in Germania, Francia, Belgio, Argentina, Stati Uniti, ecc., erano accusati di rubare il lavoro agli autoctoni, di essere portatori di criminalità, devianza, maleducazione, inciviltà e sporcizia, ma non si attribuiva a tali migranti la colpa di un’insufficienza del sistema del Welfare. Del resto, il sistema di Welfare degli anni ’30 o degli anni del secondo dopoguerra era assai ridotto rispetto a quello affermatosi nel corso dei successivi decenni in Europa e in quello che suole chiamarsi Occidente. E per quanto il suo successivo ridimensionamento e la sua sempre più ridotta capacità di far fronte al disagio sociale siano da ascriversi a scelte di politica economica e sociale degli ultimi 20-30 anni, che nulla hanno che fare con l’immigrazione, il socialrazzista, comprensibilmente frustrato e angosciato, al pari di altri milioni di suoi concittadini, per tale riduzione del Welfare, ne ascrive gran parte della colpa al fenomeno migratorio. E non importa che, dati alla mano, si spieghi e si dimostri che non è così. La sicurezza dei socialrazzisti è assoluta e inossidabile. Talmente irremovibile che chiunque dica il contrario viene considerato, nella migliore delle ipotesi, un bugiardo, ma comunque, sempre, un nemico, anzi peggio, un traditore. L’idea socialrazzista è che ogni euro, sterlina o dollaro che si decida di destinare all’accoglienza o all’integrazione, quindi, non sia soltanto uno spreco, ma un ostacolo all’uscita dalla Crisi economica, alla ripresa dell’occupazione e al recupero del benessere perduto. Per essi l’accoglienza dei migranti rappresenta un furto del presente e del futuro. Quindi, un’ingiustizia imperdonabile.

I socialrazzisti si sentono cittadini di serie B e credono che i veri privilegiati siano i migranti.

Tale convinzione dei socialrazzisti di essere vittime di un grave torto, fonda la rappresentazione che essi hanno di sé come di soggetti traditi, discriminati e maltrattati. Non soltanto si sentono dalla parte della ragione (sia nel significato di ciò che è logico, di buon senso, sia nel senso di ciò che è giusto), ma anche non riconosciuti. La percezione, anzi, è talmente forte, che finiscono con il definirsi cittadini di serie B. Mentre i migranti sarebbero trattati dalle istituzioni come soggetti di serie A, privilegiati, sul piano del Welfare e, in generale, in termini di indulgenza rispetto alle illegalità da essi commesse (a partire da quella di essere clandestini). Perciò, come accennavo, i favorevoli, i sostenitori e gli attuatori di una politica di integrazione e anche coloro che pensano che non si possa smettere di salvare persone che stanno annegando, sono considerati dai socialrazzisti non soltanto come irragionevoli, ma come coloro che sottraggono ai legittimi titolari quelle risorse che, per diritto naturale, spetterebbero solo agli autoctoni. Insomma, li vedono e li giudicano come affamatori del popolo. Si tratta, perciò, di una mentalità tutta costruita su una rappresentazione conflittuale esasperata dell’altro da sé (e ciò rende pertinente il tema qui trattato con questo blog)

Il socialrazzismo e la politica

L’atteggiamento socialrazzista presenta, inoltre, una peculiarità sul piano della politica. Di per sé può non costituire un progetto politico determinato, ma di fatto genera o amplia il bacino elettorale di una o più forze politiche specifiche e, in relazione a tale eventualità, riesce a condizionare il dibattito politico, incidendo sulle scelte legislative e/o amministrative anche delle forze lontane o avverse ad ogni razzismo. Non è, peraltro, riducibile esclusivamente all’elettorato tradizionale delle forze di destra e, in particolare, di destra estrema. Parrebbe, infatti, che possano essere socialrazzisti una parte consistente di coloro che non frequentano le urne. Inoltre, ho l’impressione che convinzioni e sentimenti propri del socialrazzismo possano riscontrarsi in molti di coloro che in Italia hanno fin qui votato partiti e movimenti quali Forza Italia, PD, Movimento Cinque Stelle, nonché, forse, anche partiti di sinistra. Mi pare evidente, poi, che proprio ai socialrazzisti attuali o potenziali forze quali la Lega e Fratelli d’Italia rivolgano la loro attenzione.

Infine, credo sia plausibile che il socialrazzismo si coniughi facilmente con una profonda rabbia e un assoluto disprezzo per le istituzioni sovranazionali – Unione Europea, in primo luogo -, e si sviluppi su sentimenti di delusione, di diffidenza e di ostilità verso le istituzioni e i servizi pubblici in generale.

Socialrazzismo come razzismo-(sui)social

Pensando al socialrazzismo che si palesa in maniera sempre più massiccia e pervasiva sui social (ed è anche per questo che l’ho chiamato così), mi pare difficile contestare la sinergia tra due azioni: la prima è la condotta socialrazzista spontanea, la seconda è quella indotta. Indotta da chi persegue, come partito o in altra forma organizzata, una politica tesa a generare, diffondere, radicare e radicalizzare sentimenti di socialrazzismo.

Rispetto agli esempi sul razzismo sulla rete rimando ad un recente articolo apparso su La Repubblica: I razzisti del web, Il mio dialogo con gli intolleranti. Non intendo, infatti, correre il rischio di una promozione involontaria di modalità di comunicazione e di relazione con l’altro incompatibili con il rispetto dell’altrui umanità. Qui mi limito a porre in rilievo che i socialrazzisti, per dirla superficialmente, si sentono assai più social (socievoli e comunicativi sui social e interessati alla tutela dello stato sociale che avvertono come minacciato o già compromesso dalla venuta dei migranti) che razzisti. Anzi, per lo più non si sentono affatto razzisti. E quando a denti stretti ammettono la possibilità di apparire tali, ne ridimensionano la portata, indirizzando reazioni rancorose e violente a chi glielo fa notare e attribuendo la colpa di tali sfumature razziste al bersaglio dei loro attacchi violenti: i migranti. Più dei migranti, forse, i socialrazzisti detestano coloro che non esprimono un dissenso rispetto ai loro pensieri e alle loro azioni. Costoro sono chiamati “buonisti”, nella più blanda delle manifestazioni offensive, ma invariabilmente l’accusa è quella di intelligenza con il nemico.

A questo riguardo, mi pare non troppo azzardato ipotizzare che colei che riveste il ruolo e adempie alla funzione di terza carica dello Stato, la presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, sia da tempo oggetto anche dell’odio socialrazzista. E in tempo di guerra, soltanto i traditori sono più odiati dei nemici. E i socialrazzisti si sentono in guerra. La chiamano perfino guerra di civiltà e definiscono l’immigrazione un’invasione. A poco vale fargli notare che una guerra vera non l’hanno mai vista, né del resto, per fortuna, un’invasione. Mentre tanti dei migranti, che essi chiamano clandestini (grazie anche al fatto che norme inadeguate e applicazioni discutibili negano la protezione internazionale in tanti, troppi casi, come ben sa chiunque lavori in tale ambito) proprio da guerre e invasioni sono messi in fuga. Molti di esse arrivano da terre in cui non fanno più notizia gli attentati terroristici, anche più sanguinosi di quello di Barcellona e degli altri atroci commessi in Europa. Ma per i socialrazzisti anch’essi sono potenziali pericolosissimi attentatori. Ed ecco che su Facebook, su Twitter, nei commenti lasciati sui blog e sui siti dei giornali, per il socialrazzismo tutti i migranti sono musulmani (non badano neppure al fatto che spesso sono, invece, cristiani perseguitati proprio dalla violenza di gruppi islamici fondamentalisti) e tutti i musulmani sono assassini (naturalmente non registrano il fatto che la stragrande maggioranza delle vittime degli attentati del sedicente Stato Islamico son invece proprio musulmani). E, per il socialrazzismo, complici di costoro e corresponsabili delle stragi commesse in Europa sono i sostenitori della “politica buonista”, che pertanto si meriterebbero di essere linciati non solo virtualmente.

Alberto Quattrocolo

[1] Quanto mai pertinente, infatti, è stato il richiamo del nostro Presidente della Repubblica ai fatti di Marcinelle proposto l’8 agosto, cioè il sessantunesimo anniversario del rogo nella miniera di carbone belga (era l’8 agosto del 1956), in cui morirono 262 minatori, di cui 136 italiani, diventando il simbolo dello sfruttamento dell’emigrazione. E, prevedibilmente, è stato attaccato da Matteo Salvini

violenza razzista

La violenza razzista

Sfatiamo alcuni miti: in Italia il razzismo c’era anche prima

Per molti decenni ci siamo illusi che il razzismo e la violenza razzista non fossero un problema italiano. O meglio, al limite, potevamo esserne vittime all’estero, anzi spesso succedeva. Ma ritenevamo di non poterne essere autori. Certo vi erano pregiudizi, emarginazioni e discriminazioni a Torino, Milano e nel resto Nord Italia verso gli immigrati, tantissimi, la gran parte, provenienti dal Mezzogiorno (e un po’ diciamolo, dal Nord Est, tanto che i veneti, nei dialoghi in dialetto tra autoctoni del Nord Ovest, venivano chiamati “i terroni del Nord”), ma nulla di confrontabile con la violenza razzista ai danni degli afroamericani dell’Alabama, della Georgia o di altri Stati ex confederati. Sì, quelli che, come il sottoscritto, erano nati e cresciuti, per dire, in Piemonte, ed erano figli, nipoti e pronipoti di piemontesi, sentivano pronunciare da alcuni parenti discorsi, a volte carichi di rabbia risentita, disprezzo e paura, a volte, edulcorati da un incongruo tono scherzoso che mal celava perfino l’ostilità. Si attribuiva all’immigrazione interna l’aumento della criminalità nelle città del Nord, rimpiangendo i tempi in cui i “terroni” stavano a casa loro e si poteva dormire con le porte di casa aperte. Capitava, in realtà, di sentire in quelle conversazioni affermazioni cariche di una violenza razzista verbale da far concorrenza con i più fanatici sostenitori della segregazione razziale negli States. Affermazioni come quelle che, siccome non si erano mai lavati, quando nel ’43 arrivarono gli americani a Napoli e portarono sapone e cioccolata, i napoletani mangiavano il primo e si lavavano con il secondo. Capitava, anche di sentir dire, sempre in dialetto, da persone, che passavano per essere assolutamente pacifiche e di buon cuore, incapaci di voler male a qualcuno, che i meridionali non solo toglievano il lavoro a lombardi, liguri e piemontesi e portavano la criminalità spicciola e la mafia al Nord, ma anche che erano depositari dei peggiori difetti ravvisabili nella specie umana: privi di senso civico, irresponsabili, retrogradi, ottusi, indiscreti, pettegoli, attaccabrighe, violenti, superstiziosi, rumorosi, vittimisti, evasori, parassitari, incapaci di provvedere a se stessi, voltagabbana, codardi, ladri, pigri, gelosi, furbi, scrocconi, ingrati e mafiosi. Mentre i romani venivano definiti sbruffoni, arroganti, imbelli, menefreghisti, indolenti, sguaiati, raccomandati e corrotti. Ma poi al cinema e in Tv e alla radio, anche quelli che per la loro settentrionalità si giudicavano geneticamente superiori, adoravano l’americano a Roma di Alberto Sordi, non si perdevano un film o uno sketch di Totò, si incantavano e scioglievano per la Loren e la Lollo, ascoltavano Domenico Modugno, Giacomo Rondinella, Peppino di Capri, e così via. E quando la nazionale scendeva il campo…

Infatti, l’idea che radio, televisione, cinema, l’immagine dell’italiano che questi media e altre agenzie veicolavano era quella di italiani tutti uguali nella loro diversità che essi sapevano armonizzare e rispettare. E poi le città crescevano grazie anche all’immigrazione.

“Non siamo noi che siamo razzisti, sono loro che sono napoletani”

Era una battuta di Francesco Paolantoni. E aveva un suo perché. Una parte degli italiani, a ben vedere, era decisamente intrisa di stereotipi e pregiudizi di cui erano oggetto altri italiani. Insomma, come altri popoli (tutti? Forse sì) anche quello italiano era razzista. E continuava ad esserlo anche quando diminuivano o cessavano del tutto i treni carichi di migranti dal Mezzogiorno. Questo modo di sentire, di pensare e, spesso, di agire (non si dovrebbero scordare i cartelli “non si affitta ai meridionali” e altre, anche peggiori, discriminazioni che si verificavano nelle relazioni sociali, lavorative, ecc.) non riguardava soltanto le persone di scarsa cultura. Anche tra i settentrionali che avevano studiato circolava il razzismo. Anche tra quelli che viaggiavano. Sì, tra costoro vi erano quelli che all’estero si vergognavano un po’ di essere italiani, per via di quei loro imbarazzanti connazionali “terrroni”. Ricordiamoci che non soltanto in Austria, Francia, Germania e Gran Bretagna, ma a anche in Marocco, Turchia e Algeria, per dire, spesso ci chiamavano mafiosi. Negli anni ’70 e nei primi ’80, lo ricordo bene, quando si andava all’estero, capitava che qualcuno per strada, in un locale, o in un negozio, se ti riconosceva come italiano, ti appellasse indifferentemente mafioso o BR. Allora, rammento anche questo, gli italiani in vacanza all’estero, si offendevano, pativano e, talora, quelli che magari mai si sarebbero definiti razzisti, dicevano all’interlocutore francese, marocchino o tedesco, che loro, però, non erano di Napoli o Palermo, ma del Nord Italia. Però, la migrazione interna, sia pur a dimensioni ridotte, continuava, e intanto ci si sposava tra settentrionali e meridionali, tra veneti e lombardi, tra friulani e piemontesi, si andava a scuola insieme e, a forza di frequentarsi e relazionarsi, il razzismo verso i meridionali si ridimensionava.

La violenza razzista esiste perché si manifesta

Dunque potevamo illuderci e raccontarci che solo una parte – minoritaria? – dei settentrionali italiani era, forse, solo un pochino, razzista verso la gente del Mezzogiorno, ma, non era razzista davvero. Erano razzisti così, alla buona, all’italiana. Razzisti senza accorgersene e, soprattutto, senza cattiveria, per carità. Ma niente violenza razzista. E, se al cinema o in televisione vedevamo certi film americani (quelli con Sidney Poitier degli anni ’50 e ’60, come Uomo bianco tu vivrai, La parete di fango, La calda notte dell’ispettore Tibbs o Indovina chi viene a cena, o altri successivi, quali Mississippi Burning – Le radici dell’odio) oppure se leggevamo ceri libri che parlavano del razzismo bianco nel Sud degli Stati Uniti (come quelli di Richard Wright), pensavamo: “ Che orrore!”. E subito dopo: “Noi siamo più civili, non potremmo mai comportarci come quei terribili bianchi americani”. E in fondo, se proprio capitava di ricordarsene, ci dicevamo che le leggi razziali del ’38 le aveva volute Mussolini soltanto per fare contento Hitler, ma che neppure il Duce, in realtà, era antisemita. Certo si trattava di balle grosse come palazzi sulla tolleranza e benevolenza come carattere nazionale, quasi fosse di origine genetica (da questo punto di vista Italiani brava gente? di Angelo del Boca andrebbe insegnato a scuola), ma permettevano agli italiani di dormire sonni tranquilli.

Bene, ora che siamo nel 2017, da un pezzo è suonata la sveglia. Possiamo aprire gli occhi, scuoterci e dirci schiettamente che, sì, la violenza razzista c’è anche nel Bel Paese e non soltanto negli USA (è del 12 agosto la notizia che a Chalottesville, in Virginia, un suprematista bianco, ventottenne, si è lanciato con la sua auto contro un corteo antirazzista uccidendo una donna di 32 anni e ferendone altre 30). Infatti, si manifesta. E quando lo fa, la violenza razzista spacca vetrine, saracinesche, bancarelle, ecc.. Ma a volte, troppe volte – e una sola già sarebbe insopportabilmente di troppo – spezza denti, labbra, nasi, ossa. A volta spezza delle vite. Comunque, sempre la violenza razzista spacca qualcosa dentro. Spacca dentro il cuore della vittima e quello di chi alla vittima vuole bene, e spacca qualcosa nel cuore della società. Spezza quei legami, variamente definiti, che tengono insieme un popolo.

Perché solo chi è in malafede o chi è spaventosamente poco accorto può pensare che il razzismo cementi i legami all’interno di una comunità. Ma andiamo per ordine e partiamo dai fatti[1].

Bombe in Sardegna contro centri di migranti abitati e disabitati

Prendiamo degli esempi recenti. Il 27 luglio è stata fatta esplodere una bomba – non una bomba carta, una bomba-bomba, fatta con esplosivo da cava – all’ingresso di un centro di accoglienza per migranti in località “Su babbu Mannu”, nei pressi di Dorgali (Nuoro)[2].

Un’altra bomba, sempre in Sardegna, sempre di notte, era stata fatta esplodere ai danni di “futuro” centro migranti nel novembre 2016, come riportava il Fatto quotidiano.

Quali siano stati i moventi è difficile dirlo con assoluta certezza. Un dissenso verso tali centri? Può darsi. Interessi nascosti di ben altra natura, ad esempio, di natura economica? Forse. Violenza razzista? Credo sia più che lecito supporlo.

 

Calunnie razziste

Proprio a ridosso della notizia sulla bomba presso il centro di prima accoglienza a Dorgali, dove, va messo in rilievo, dormivano 66 persone, cioè 64 ospiti e 2 operatori della Cooperativa “The Others”, è arrivata un’altra notizia. Si è appreso che non c’è stata alcuna aggressione il 19 luglio ai danni del capotreno del convoglio Piacenza – Milano Greco Pirelli, all’ingresso della stazione di Santo Stefano Lodigiano. Il capotreno, riporta il Corriere della Sera, aveva denunciato ai carabinieri di Codogno un accoltellamento da parte di un giovane di origine africana, ma, in realtà, ha confessato che si era procurato da solo il taglio alla mano destra, nel bagno del secondo vagone, con una lama a serramanico lunga 11 centimetri, portata apposta da casa, e poi aveva azionato la leva piombata del vestibolo per simulare la fuga del fantomatico aggressore mentre il treno rallentava essendo ad alcune decine di metri dall’arrivo nella stazione[3].

Un altro caso, avvenuto nel 2011 a Torino, di calunnia razzista, che ha generato una selvaggia violenza razzista, mi pare illuminante. Una sedicenne aveva denunciato uno stupro mai avvenuto da parte di due stranieri. E il corteo organizzato dai familiari per protestare contro la violenza, con la gente del quartiere, ignari della menzogna, era degenerato in un vero e proprio assalto al campo rom, della cascina Cantinassa. Avevano spaccato tutto quel che avevano potuto e poi, con le stesse fiaccole usate per il corteo, avevano dato fuoco alle baracche.

Altre volte il razzismo assume la forma della discriminazione

Una forma subdola di razzismo, non direttamente fisica, ma fa lo stesso tanto male, proprio tanto, a chi la subisce, è quella della discriminazione.

Può verificarsi in una scuola toscana, come riferiva il Giornale, nel maggio 2015, riprendendo una notizia, apparsa su Il Tirreno, relativa a quanto accaduto ad una studentessa senegalese di 14 anni, cui veniva detto che, dato il colore della sua pelle, non poteva prendere voti alti e non sarebbe mai potuta diventare un avvocato.

È accaduto in una scuola per più piccoli a Cagliari. Il primo ottobre del 2016, infatti, dei genitori avevano protestato per l’iscrizione di un etiope e di un egiziano e avevano chiesto che, almeno, fossero loro destinati bagni separati da quelli degli altri. Il Fatto quotidiano spiega che questa forma di apartheid è stata accolta, sia pur con tormentata riluttanza, dalla scuola, l’istituto paritario cattolico gestito dalle suore Mercedarie. Ed ecco che quella scuola, cattolica, richiama senza sforzo la segregazione razziale dominante nel Sud degli Stati Uniti e la cultura e le leggi razziste del regime sudafricano, rispetto ad entrambe le quali eravamo soliti indignarci e inorridirci.

Ma il razzismo può anche palesarsi sul luogo di lavoro, come racconta il Resto del Carlino del 3 agosto di quest’anno. Un giovane, residente a Milano, si è visto rifiutare un’assunzione, già concordata, a causa del colore della pelle, dopo avere inviato via email la copia della carta di identità necessaria a perfezionare il contratto di assunzione. Un altro caso simile, accaduto a Torino, è quello della ragazza italiana il cui impiego già concesso a parole, le è stato rifiutato, poiché il datore di lavoro ha scoperto sulla pagina Facebook della giovane che è fidanzata con un senegalese. Mentre a Verona è stata impedita la partecipazione alla gara “canta Verona” ad una quindicenne, figlia di genitori africani, nata e cresciuta in Italia, perché nera.

Speculazioni politiche e violenza razzista

Ciò che rende ancor più pertinente la calunnia del sopra citato capotreno con il tema del razzismo e della violenza razzista afferisce al fatto che immediatamente in molti, anche ufficialmente, hanno proposto, a partire da questo fatto, discorsi e prese di posizioni stimolanti la xenofobia (la paura dello straniero) e l’ostilità verso lo straniero. Lo ha posto in evidenza anche Alessandro Franzi su Linkiesta, in apertura del suo articolo su questo episodio. Del resto si può facilmente pensare a, quanto aveva scritto Matteo Salvini sulla sua pagina Facebook.

Sono dell’idea – discutibilissima, va da sé – che prendere immediatamente posizione non rispetto al singolo episodio e ai suoi protagonisti, ma per pronunciare giudizi di condanna nei confronti di interi gruppi di persone – definendoli, ad esempio, delinquenti -, equivalga ad assumere un atteggiamento di violenza razzista. Una violenza verbale consistente nell’atto di insultare e diffamare. E, soprattutto concretizza un’azione di stimolo al razzismo. Basta leggere infatti i commenti al post. Ne cito uno a caso: “Capito? Gente che gira con coltelli e manco si sa. Per me si meritava un proiettile , ma sarete talmente buonisti da dire che qualche giorno di carcere va benissimo. Ci vogliono forze armate pesantemente e con queste bestie ci vuole la forza ! Non il buonismo , le bandiere della pace , l amore , la solidarietà , l accoglienza e le vostre stupide fiaccolate !”

Il rischio del giustificazionismo involontario

La violenza razzista colpisce, dunque, anche nel bel Paese. Si possono svolgere ricerche e ragionamenti sul fatto che la xenofobia e la violenza razzista sono a riconducibili a politiche sbagliate, al disagio sociale, alla mancata integrazione, e, a partire da questi dati e osservazioni, si possono progettare politiche locali, nazionali e sovranazionali finalizzate a prevenire le tensioni, a contrastare i pregiudizi. Ma rischia di essere semplicistica, etero/auto-assolutoria, oltre che indirettamente e involontariamente giustificazionista, la tendenza, direi alquanto diffusa, a collegare in termini deterministici la violenza razzista al fenomeno migratorio in atto e alle sue proporzioni.

Da un lato, infatti, andrebbe presa seriamente in considerazione l’aspetto quantitativo del fenomeno migratorio e, quindi, andrebbe seriamente ridimensionato. Si può obiettare che non è una questione di numeri ma di percezioni. Apparentemente, un invito a nozze per le persone che lavorano in associazioni come la nostra, che proprio di emozioni si occupano. Bisogna, però, mi pare, stare attenti al fatto che le emozioni non sorgono spontanee e che le percezioni sono da queste condizionate. Perciò, se è vero, e lo è, che vi sono quartieri difficili, caratterizzati da un’ingombrante mancata integrazione e da una pesantissima assenza dello Stato, è anche vero che la violenza razzista, fisica e verbale, non si concretizza esclusivamente, e forse neanche prevalentemente, in tali realtà urbane.

Dall’altro, non andrebbe sottovalutato un altro aspetto: il razzismo è un fenomeno antico. E più ancora lo è il pensare in termini di stereotipi. Si tratta di capirlo, dunque, non di giustificarlo e men che mai di assecondarlo, sia pure solo in parte.

Tanti anni fa in Sardegna…

Il nutrire stereotipi negativi verso il diverso da sé, infatti, non è certo fenomeno del Ventunesimo secolo. Come non lo è la violenza fisica verso il diverso. Lasciando da parte gli orrori del nazionalsocialismo, l’apartheid sudafricano, la schiavitù, prima, e la segregazione razziale, poi, nel sud degli Stati Uniti e i progrom russi e sovietici. Lasciando da parte tutte le altre storicamente note manifestazioni di disumanità verso le minoranze, gli stranieri, ecc., incluse quelle commesse dagli italiani in Libia, in Africa Orientale e nei Balcani nell’arco del primo, orrendamente sanguinoso, quarantennio del ‘900 (so di ripetermi, ma non sarebbe tempo perso leggere e far leggere ai nostri figli, tra gli altri, i libri di Angelo Del Boca), mi soffermo su un “piccolo” fatto di cui fui testimone diretto nel non tanto lontano 1993[4].

Il fatto che mi capitò di osservare avvenne in Sardegna, dove adempivo all’obbligo della leva in una stazione dell’Arma dei Carabinieri nell’interno. Un giorno d’estate, mentre ero di pattuglia con un collega arrivò una chiamata dalla Centrale Operativa: una telefonata anonima aveva segnalato un’aggressione, un pestaggio. Noi, su una panda 4×4 eravamo di ritorno da un sopralluogo ad un ovile. La strada era poco più grande di un sentiero e piena di buche e massi. Sebbene fossimo relativamente vicini in linea d’aria, arrivammo tardi. Gli aggressori si erano già tranquillamente dileguati. Restava la vittima: un africano di quasi trent’anni. L’avevano insultato, lui aveva tentato di allontanarsi, ma lo avevano seguito e preso a schiaffi, per poi passare ai pugni e, quando era finito bocconi sull’asfalto, erano passati ai calci e agli sputi. Quando aveva finto di essere svenuto, dopo avergli assestato alcuni altri colpi con gli anfibi ai genitali e sui fianchi, se n’erano andati.

Perché lo avevano aggredito e umiliato? Perché era nero. Non aveva fatto nulla per provocarli. Semplicemente era lì, di passaggio, e aveva la pelle diversa dallo loro.

Preso a calci come un barattolo

Il cameriere del bar lì vicino aveva provveduto a portargli una bibita fresca e del ghiaccio, ma non lo aveva fatto accomodare nel locale, per paura di future rappresaglie. Anche se, ci disse, gli aggressori non li aveva visti in faccia, come, del resto, nessuno di coloro che poi uscirono di casa e si avvicinarono. Avevano solo sentito degli schiamazzi e pensato che fosse tutto uno scherzo. E neanche la vittima ricordava bene i loro volti, quando gli chiedemmo di descriverceli. Che io sappia gli aggressori non furono individuati mai, sebbene qualche idea su chi potessero essere alcuni di loro noi carabinieri ce l’avevamo. La vittima ricordava solo che avevano “occhi vuoti”, parlavano in dialetto ed erano giovani. Ma non sapeva dire di che età, né com’erano vestiti. Erano tanti, però. E lo avevano massacrato. Sanguinava dalla bocca, dal naso. Ed era sconvolto. Si scusava con noi, mentre attendevamo con lui l’ambulanza e lo aiutavamo a tamponarsi il sangue, perché non riusciva a smettere di piangere. Rabbia, umiliazione, l’aver avuto la paura di finire ammazzato o storpiato, lo avevano ridotto ad un viluppo tremante di dolore e angoscia: lo avevano preso a calci come se fosse stato un barattolo, disse. E non dava voce solo all’impotenza, bensì al fatto di aver avuto la sensazione che per i suoi picchiatori egli non era un essere umano. Era stato disumanizzato. Prima dal loro sguardo poi dalle loro nocche e dai loro piedi.

Dieci anni dopo in continente…

Dieci anni dopo un altro uomo africano vittima di violenza razzista fu accolto in uno dei nostri servizi gratuiti di ascolto e sostegno psicologico per le vittime di reato. Oltre un mese prima, mentre si trovava in viaggio sulla sua auto, con la figlia di 4 anni, era stato malmenato. Fermatosi, presso un distributore, non aveva ceduto il posto ad un altro automobilista arrivato dietro di lui. Costui riteneva il fatto di essere italiano un incontestabile titolo di priorità nel rifornirsi di carburante. E, sentendosi negato questo “diritto” da uno straniero, lo aveva sbattuto sul cofano, schiaffeggiato sul viso e minacciato: «Se non te ne vai, brutto negro, vado a prendere il cric e ti faccio tanto tanto male». La vittima era risalita in macchina e se n’era andata. Ricordava che l’aggressore italiano era in compagnia di un bambino. Entrambi i minori, nel suo ricordo erano rimasti impietriti e terrorizzati. L’aggredito ci raccontò che, pur essendosi fermato poco dopo sul bordo della provinciale per abbracciare la figlia e rassicurarla sul fatto che quel sangue sul viso e sulla giacca non era niente di che, non riusciva a farla smettere di piangere. Quel pianto silenzioso lo straziava ancora a distanza di settimane.

I vissuti di costui, emersi nei colloqui svolti settimane dopo il fatto, erano quasi del tutto sovrapponibili a quelli dell’uomo che avevo conosciuto in Sardegna.

È lecito supporre che vissuti non troppo dissimili siano quelli del giovane maliano pestato a Catania nel marzo del 2015, della ragazza, e della ragazza di origine marocchina, che, nel 2015, a Bologna, fu presa a calci e insultata con epiteti razzisti dall’autista di un autobus. Non è peregrino osservare che il fatto era accaduto il 25 aprile. Un evento ancora più violento è quello accaduto sempre su un autobus a Camerino, ai danni di uno studente-lavoratore del Camerun, che il controllore ha colpito con una testata sulla faccia dicendogli: « Africa, torna a casa tua, africano, voi non dovete stare qua, negro, non avete mai il biglietto voi negri, tornatevene a casa vostra!».

La deumanizzazione della violenza razzista

Entrambi erano stati trattati come oggetti. Per i loro aggressori non erano esseri umani. E ciò, soprattutto sul lungo periodo, li aveva danneggiati assi più delle botte. Ma, a differenze di altre vittime, l’elemento lacerante erano le ragioni di questa disumanizzazione: l’essere stranieri, l’avere una pelle più scura.

La deumanizzazione dell’altro che consente all’aggressore la violenza non è propria soltanto del razzista, ma anche del ‘ndranghetista, ad esempio, oppure del terrorista del sedicente Stato islamico. Per farla breve, sia gli ‘ndranghetisti che i terroristi dell’IS considerano gli altri non facenti parte del loro gruppo come degli esseri umani, li considerano niente, li nullificano. Per loro l’altro non esiste in quanto soggetto. Perciò, gli si può fare qualunque cosa senza rimorsi né esitazioni. In un post su razzismo e terrorismo avevo già proposto questo aspetto.

Lo stesso atteggiamento disumanizzante degli aggressori sopra citati è rinvenibile in coloro che scrivono il loro razzismo sul web. E non si creda che quei commenti carichi di odio e disprezzo non facciano male a coloro cui sono indirizzati. Non si pensi che quei contenuti non siano vissuti come offensivi, minacciosi e oltraggiosi.

Nel momento in cui si qualificano delle persone come bestie (tacciando di stupidità e buonismo coloro che invece cercano di riconoscere l’umanità nell’altro), si pone in essere della violenza razzista, si fa del male a qualcuno, che è vivo e vero. Un essere umano fatto di carne, ossa, muscoli, cuore e cervello. Si oltraggia la sua persona.

I bambini ci guardano e un giorno potrebbero condannarci o, peggio, imitarci.

Sarebbe il caso allora che noi italiani cominciassimo a guardarci allo specchio. In particolare, dovremmo farlo senza ipocrita indulgenza, ma con senso di responsabilità. Perché è giusto e per banale istinto di sopravvivenza. Infatti: chi discrimina oggi – in teoria, parrebbe ovvio porvi mente – crea le premesse morali, sociali, politiche e culturali per poter essere tranquillamente discriminato domani[5]. Poiché, quando si sdoganano i pregiudizi e l’odio, il razzismo finisce sempre per estendersi ad altri gruppi, che da interni alla maggioranza non discriminata, per qualche caratteristica fin lì irrilevante, diventano oggetto di pregiudizi e ingiustizie. È proprio necessario ricordare che oggi la Storia corre più veloce che in passato e che domani può essere davvero dietro l’angolo? Possibile che occorra ancora porre in evidenza che alla violenza razzista reattivamente può seguire un’altra forma di violenza? Infatti, quando si è oggetto di ostilità, succede che si dia un feedback di analoga natura. Quando non ci si sente trattati come esseri umani, quando non ci si sente riconosciuti come persone, succede che non si riconosca l’umanità altrui. Si può dare tendenzialmente solo ciò che si ha. E se non ci è dato rispetto, abbiamo qualche difficoltà a restituirlo.

Sarebbe auspicabile non lasciare ai nostri figli una società multi-razzista. E, a questo proposito, un ultimo quesito: come ci giudicheranno i nostri figli, i nostri nipoti e i loro bambini? E se, ipotesi ancora più angosciante, si assuefacessero al razzismo e considerassero la violenza razzista come un fatto normale?[6]

Alberto Quattrocolo

[1] Non riporto qui i casi già citati in un altro precedente post su razzismo e terrorismo

[2] Riferisce l’ANSA che “l’esplosione ha divelto completamente la porta e provocato ingenti danni a un’ala della struttura” e che l’onda d’urto avrebbe potuto uccidere i migranti che dormivano a pochi metri dalla porta laterale

[3] È possibile che la calunnia sia da collegarsi ad una situazione di conflittualità interpersonale. E non sarebbe certo la prima volta che una cosa del genere accade. Basti pensare a quelle situazioni in cui, contando sulla solidarietà del pubblico, in virtù di una diffusa sensibilità su certi temi, un soggetto accusa falsamente l’altro, che odia per ragioni tutte personali e interpersonali, di aver compiuto azioni illecite sommamente condannate dalla società: il coniuge che, in lite con il partner (o ex), lo accusa di aver maltrattato i figli o di averli abusati. Lo stalker che accusa la controparte di stalking. Situazioni simili ci è capitato di accoglierle e gestirle nei nostri Servizi di Ascolto del Cittadino e Mediazione dei Conflitti. Ma ciò non toglie che anche nel caso della calunnia confessata dal capotreno, si possa supporre che il razzismo e, in qualche misura, la violenza razzista c’entrino. L’uomo, infatti, si è trafitto la mano con il coltello, allo scopo di far finire un altro in carcere, allo scopo di togliergli la libertà. Insomma si è proposto di procuragli un danno, consapevolmente, senza porre mente al fatto che il bersaglio della sua azione era un essere umano, una persona.

 

[4] Non c’era l’invasione dei migranti dall’Africa e dall’Asia, all’epoca. Si parlava di invasione solo a proposito dell’emigrazione dall’Albania, a seguito dalla caduta del regime comunista, e riguardava soprattutto le coste pugliesi.

[5] Del resto, non occorre saper guardare nel futuro per sapere che il razzismo e la discriminazione non guardano in faccia nessuno e paradossalmente hanno risvolti grottescamente parademocratici. Si pensi, infatti, a quanto succede ai migranti italiani in Australia.

[6] Era del 2014 la notizia del reato di lesioni aggravate dalla finalità dell’odio e della discriminazione razziale commesso da due ragazzini del primo anno delle superiori a Casal di Principi nei confronti di un loro coetaneo di origine africana. Intervenuti i poliziotti per la segnalazione di una lite tra giovani all’esterno della scuola, constatavano che non si trattava di una lite tra adolescenti, ma di un’aggressione, di un atto di violenza razzista. La vittima, che era stata già oggetto di vessazioni e angherie per il colore della sua pelle, era stata colpita violentemente con un casco da motociclista e con una pinza giratubi, riportando una ferita lacero-contusa alla palpebra inferiore e un trauma cranico con ferite lacero contuse alla fronte (prognosi di 30 giorni).