vittime di Piazza San Carlo

Le vittime di Piazza San Carlo

3 giugno 2017: una lunga serata di sangue e terrore

Il 3 giugno vi fu una serata di sangue e terrore in Europa: per un falso allarme in Piazza San Carlo, a Torino, e per un attentato sul London Bridge e nel Borough Market, a Londra

La sera di sabato 3 giugno a Torino, in Piazza San Carlo, veniva trasmesso su maxischermo la finale di Champion Leage, disputata da Juventus e Real Madrid a Cardiff. Verso le 22.15, pochi minuti dopo la fine della partita, tra le 40.000 persone accalcate si era scatenato il panico. La paura che il rumore avvertito – un petardo? – fosse quello di una bomba aveva atterrito alcuni, che si misero a correre e a spingere. La confusione successiva, il timore di essere schiacciati dagli altri e il pensiero che fosse in corso un attacco terroristico si diffusero come un’onda, contagiando repentinamente la folla dei tifosi.

Erika Pioletti, trentottenne di Domodossola, ha perso la vita e altre 1526 persone sono rimaste vittime a livello fisico di schiacciamenti, urti, varie forme di lesione, tra cui,  soprattutto, i tagli provocati dai pezzi di vetro delle bottiglie rotte che coprivano la piazza e, forse, dai sanpietrini)[1].

Il falso allarme in Piazza San Carlo e il vero attacco a Londra

Ma, com’è noto, non vi era stato alcun atto di terrorismo a Torino.

Neanche un’ora dopo, alle 23.08 ora italiana, 22.08, a Londra, a poco più di due mesi dall’attentato a Westminster e a due settimane da quello a Manchester, invece, si era compiuto un vero atto di terrorismo. Sono state 7 le persone uccise dai terroristi e 48, pare, quelle ferite, alcune in modo particolarmente grave[2].

Ma è possibile azzardare l’ipotesi che grosse soddisfazioni ai sostenitori del sedicente Stato Islamico e della sua strategia terroristica siano potute derivare da quanto accaduto nella torinese piazza San Carlo, dove i loro killers non avevano colpito, anzi neppure c’erano.

Infatti, il panico diffusosi a Torino, in quei venti minuti, potrebbe essere considerato come un successo totale per i fautori del terrore: senza alcun “costo” hanno ottenuto il massimo del ricavo.

Mentre i tifosi del calcio, grandi e piccini, presenti nella piazza torinese, correvano e cadevano l’uno addosso all’altro, atterriti e sgomenti, i “tifosi” e, soprattutto, i “giocatori” del terrorismo, se informati degli eventi in corso, avrebbero potuto esultare davvero per quello che, dal loro punto di vista, rappresentava un successo senza precedenti.

È certamente banale ricordare che il terrorismo persegue come primo obiettivo quello di terrorizzare e che per farlo si serve della violenza. Come ci viene continuamente spiegato, la voluta spettacolarizzazione delle uccisioni e la ricerca della massima visibilità mediatica per le loro efferatezze vanno collocate in questa prospettiva. Quindi, la violenza omicida del sedicente Stato islamico non è la ragione del suo esistere. Pare più probabile che le uccisioni siano “soltanto” lo strumento, disumano, dispiegato per conquistare una forma suprema di potere.

Piazza San Carlo e il potere del terrorismo

Però, se il potere è un fenomeno che ha preminenti risvolti relazionali, si può dire che il 3 giugno, nel capoluogo piemontese, il terrorismo dell’Isis abbia affermato concretamente il potere acquisito.

Il terrore serpeggiato a Torino, sabato sera, tra i circa 40.000 presenti, mi pare, cioè, che testimoni assai efficacemente la potenza raggiunta dal sedicente Stato Islamico con la sua “politica” sanguinaria: grazie a tutti gli attentati perpetrati in giro per il mondo dai suoi aderenti, è riuscito a fare agire il terrore in una città, in uno Stato, dove finora non ha avuto ancora l’occasione, o la volontà, di adoperarsi letalmente.

Se si intende il termine potere nella sua accezione di dominio e se si attribuisce a questo un risvolto che rinvia al concetto di controllo, si potrebbe perfino dire, stando su un piano paradossale, che, senza neanche saperlo e volerlo, l’Is ha, indirettamente, controllato la piazza. Cioè vi ha esercitato un’influenza assai più penetrante di quanto non abbiano potuto fare i tutori dell’ordine e della sicurezza pubblica in quella manciata di parossistici minuti.

Almeno in tal senso, mi pare, quindi, che si possa dire che le persone presenti in piazza San Carlo il 3 giugno siano state vittime della violenza terrorista.

Le conseguenze traumatiche

Oggi, a circa due mesi dall’evento, è stata sciolta, senza una relazione finale, la commissione d’indagine del Consiglio Comunale costituita per far luce sulle cause e le responsabilità che hanno portato alla tragedia, sulla quale però sta indagando anche la magistratura torinese. Ma non mi pare pertinente rispetto ai temi trattati su questo blog, soffermarmi sulle possibili responsabilità ipotizzate dagli inquirenti o indicate dalle opposizioni in Consiglio Comunale. Credo piuttosto che abbia senso soffermarsi su di un altro aspetto: per le 40.000 persone presenti e, tra queste, per le oltre 1.500 ferite, l’esperienza di quella sera può essere assimilata a quella di un trauma derivante dal comportamento violento altrui.

In una prospettiva vittimologica, infatti, è difficile dubitare che all’esperienza delle centinaia di persone coinvolte in quell’evento non si possano attribuire aspetti propri della vittimizzazione da atto violento. Mi riferisco non solo alle ferite fisiche, ma anche alla convinzione, presente in molti, che fosse in atto un attacco terroristico e all’angoscia, vissuta da quasi tutti, di essere calpestati, schiacciati o soffocati da altri tifosi intenti a mettersi in salvo. Sono, questi, danni fisici e sofferenze emotive derivanti da azioni lesive o pericolose altrui.

Del resto è assodato che in molti di coloro che hanno vissuto quei momenti si è sviluppato un disturbo da stress post traumatico (PTSD)[3]. E su questo aspetto si è soffermato anche Luca Guglielminetti sul suo blog, con un post che, mi pare meriti davvero di essere letto con attenzione.

Vittimizzazione diretta e indiretta, effettiva e “virtuale”

Si può essere vittime dirette di un atto violento, ma si può esserlo anche indirettamente. Ad esempio, quando a subire una violenza è una persona cui siamo affezionati. Inoltre si può anche pensare che vi sia una forma di vittimizzazione, per così dire “virtuale”.

Erika Pioletti e le altre 1526 persone ferite, così come tutte le altre spaventate e scioccate presenti in Piazza San Carlo, certamente non sono state vittime di uno specifico atto terroristico. Ma, sembra che si possa asserire che siano stati vittimizzate dalla paura del terrorismo, derivante dalla sua, riuscita, azione complessiva. In altre parole, sono state vittime di un’attività terroristica – svolta su scala internazionale, con strumenti e su registri diversi -, che ha suscitato un’emozione, la quale  ha trasformato un gran numero di persone in un folla terrorizzata e pericolosissima. Terrorizzata da un attentato non verificatosi e subito dopo, forse ancora di più, terrorizzata dal panico stesso, che ha scatenato il dannoso e finanche letale fuggi fuggi.

In qualche misura su tale aspetto anche a ridosso dell’evento si era pronunciato anche Vincenzo Villari, primario di psichiatria alle Molinette, intervistato da La Stampa. Infatti alla domanda se vi fosse stata psicosi da terrorismo, egli rispose: «L’obiettivo dei terroristi è proprio quello di diffondere la paura. Anche in situazioni come quella di sabato sera, che non c’entrano con gli attentati. E quando questa dinamica si sviluppa tra migliaia di persone, l’effetto si moltiplica e la folla è difficile da organizzare»[4].

Pur sapendo che la terminologia può rivelarsi ridondante, penso che nell’ipotizzare quanto accaduto sia possibile ricondursi a due tipi di vittimizzazione: la vittimizzazione effettiva e quella che chiamerei “virtuale”. La distinguerei da quella potenziale, perché questa di riferisce alla reazione emotiva e comportamentale di chi teme che un crimine possa essere commesso a suo danno essendo stata sensibilizzata dall’esposizione alla notizia circa uno o più episodi delittuosi. Ma la vittimizzazione potenziale si ferma lì. Mentre in tale caso, non si è temuto che un giorno potesse accadere un attentato, ma si è pensato che fosse proprio in corso. E la convinzione, o anche solo il sospetto, che fosse in esecuzione un attacco terroristico ha prodotto una vittimizzazione effettiva.

Credo sia giusto, quindi, non sottovalutare il legame che sanguinosamente le unisce e non affrettarsi a ritenere quella virtuale meno rilevante o meno degna di attenzione e comprensione di quella effettiva.

Le vittime di Piazza San Carlo vanno riconosciute

Come già ho sostenuto in altri post su questo blog – ad esempio nei seguenti: Chi subisce un’azione violenta non si chiama colpevole ma vittima; Nessuna vittima è più uguale di un’altra; Il rispetto per l’umanità di chi è vittima di una violenza non (è mai stato) procrastinabile -, credo sia importante sottolineare la necessità di non fare graduatorie nelle forme di vittmizzazione e di evitare ogni atteggiamento giudicante verso la vittima. E ciò anche nei riguardi delle vittime di Piazza San Carlo.

Mi preme al riguardo recuperare quanto affermato da Villari nell’intervista sopra citata, rispondendo alla domanda del giornalista, Claudio Laugeri: « C’è qualcosa che ciascuno di noi può fare per evitare di trovarsi in difficoltà? ». «Ben poco», disse lo psichiatra. «La dimensione individuale è davvero secondaria. In situazioni del genere, c’è la necessità di sottrarsi fisicamente alla folla. L’intervento individuale è molto limitato. Bisogna cercare di mantenersi tranquilli e di adottare il comportamento più razionale possibile, resistendo alla pressione generalizzata».

I vissuti di chi c’era

Soffermiamoci allora su alcuni degli aspetti individuali, su cos’hanno vissuto alcuni di coloro che si trovarono in Piazza San Carlo il 3 giugno, su qual è stata la vittimizzazione effettiva da essi patita[5].

Chi ci ha raccontato quanto vissuto quella sera, ha descritto un’esperienza da incubo. Non soltanto la sensazione di essere premuti e soffocati dalla calca, già antecedente alle 22,15, e poi il terrore che ha attivato il sistema nervoso simpatico, facendo scattare il battito cardiaco verso un’accelerazione folle e impennare la pressione sanguigna. Non soltanto la paura di morire o che potessero morire amici, coniugi, fidanzati, genitori o figli. Ma anche qualcos’altro, qualcosa dallo sgradevole sapore onirico. Un’ eccitazione ingestibile e un’impotenza insuperabile. Una sensazione nauseante e violentissima di irrealtà e, contemporaneamente di urto brutale contro l’assurdo che diventa realtà. Uno stordente  sovvertimento di ogni senso comune, di ogni logica. Uno smarrimento di ogni riferimento. Una disperata ricerca di appigli fisici, per non essere schiacciati al suolo, cosparso di vetri, o sulle transenne, o per non perdere compagni, amiche o familiari le cui dita scivolavano via dalla stretta della mano. Il pensare «sto per morire» e subito «non voglio morire». Il tentativo di capire cosa sta accadendo, utilizzando le categorie disponibili per interpretare gli stimoli fisici ricevuti. Così, il rumore di circa 80 mila piedi sull’acciottolato a chi era finito per terra, in alcuni casi, ha fatto pensare ad un treno, ad altri ad un cingolato che stava percorrendo la piazza. Perché nessuno prima di allora aveva mai messo l’orecchio al suolo per sentire il rumore di tante migliaia di piedi che pestano e corrono, mentre il suono del treno o quello di un mezzo con i cingoli era conosciuto, e a quelle cose si è pensato. Nel primo caso restando dentro un limbo trasognato, nel secondo, quello del cingolato, convincendosi che davvero c’erano i terroristi in piazza. E subito il pensiero è andato alla strage del 14 luglio 2016 a Nizza. «Le vetrine tremavano», «I portici tremavano», è stato detto per spiegare perché la mente di molti razionalizzò come vera l’allarme di un attacco terroristico. E così anche frasi come «Si sono sentiti dei colpi», si collocano su questo registro. Come, per alcuni, il vedere sangue ovunque, addosso a sé e agli altri e il non collegarlo immediatamente ai cocci di migliaia di bottiglie che coprivano la piazza. Mentre ad altri, e tra questi chi aveva fatto l’esperienza diretta del G8 di Genova del 2001, molti dei suoni avvertiti e delle cose viste hanno fatto pensare ad un golpe.

La nauseante logica del “mors tua, vita mea”

Si potrebbe dire che interpretiamo quel che percepiamo sulla base delle associazioni con ciò che conosciamo per esperienza diretta o indiretta e con ciò che è più presente alla nostra mente in quell’istante. Ma al di là dei risvolti cognitivi, che lascio agli esperti, vale la pena soffermarsi su un aspetto, peraltro posto in evidenza anche da Guglielminetti: “mors tua, vita mea”. Con espressioni diverse, questo vissuto è stato proposto da più persone. E nel proporlo veniva espressa una rabbia, ancora esausta, provata allora, verso quel nemico, indistinto e incalcolabile, rappresentato dagli altri, letali e soverchianti nel loro essere, oggetti o soggetti, spingenti e calpestanti. Si è rischiato di morire, e di ciò ci si è resi conto. Ma in quei momenti, stando a quanto detto dalle vittime di piazza San Carlo ascoltate, vi era solo la vaga, subito accantonata o trasognata, impressione di poter fare del male o, addirittura, di poter dare la morte ad altri. E questo aspetto si collega ad un altro vissuto, sviluppatosi spesso già pochi minuti di, in altri casi a distanza di alcune ore o il giorno dopo. Mi riferisco alla vergogna.

L’ingombrante sensazione di “sporco”

Si tratta di uno stato emotivo di difficile gestione. Quando proviamo vergogna con noi stessi e/o davanti agli altri, vorremmo sparire, soffocare, liberarci di quel gusto sgradevole che ci strozza la gola. Ebbene, ascoltando, accogliendo e non giudicando alcuni di coloro che la sera del 3 giugno erano in piazza San Carlo, la vergogna è comparsa e si è insediata con radici profonde nei loro animi.

Qualcuna delle vittime di piazza San Carlo ha parlato di tutta l’esperienza vissuta come se si fosse trattata di una sporca vicenda. Perché sporca’ Perché si scopre d aver fatto qualcosa di sporco, o quando si viene scoperti, si può prova vergogna. E per molti l’aver reagito come animali in fuga, cercando solo di salvare se stessi e i propri cari, l’essere stati dominati dal mors tua, vita mea, il ricordare di aver spinto e lottato o il non riuscire a ricordarlo, sono stati motivo di vergogna, e non solo di senso di colpa. Cioè di uno stato d’animo – la vergogna – che è assai difficile non solo da sostenere ma anche da condividere. Più insidioso e ingombrante, sotto certi aspetti, del mero senso di colpa, che, di per sé, potrebbe avere anche qualcosa di eroico.

Vergogna e disagio per aver agito per paura

Per chi ascolta può esservi la tentazione di far osservare a questa o a quella tra le vittime di piazza San Carlo che non c’è da vergognarsi. Ma prima è bene cercare di capire, cioè di sentire, di empatizzare. In alcune persone vi è stata dapprincipio nel raccontare, il tentativo di affascinare con la narrazione, di renderla avventurosa, eroica, senza farle perdere la sua natura realistica. Sincere nell’esporre i fatti, ma avvincenti nei toni e nelle sfumature, parevano comunicare l’orgoglio di chi dopo può dire «Io c’ero».

Questa dimensione, questo atteggiamento, però, nel momento in cui il narratore sentiva la sospensione del giudizio e l’empatia di chi ascoltava, venivano abbandonati progressivamente e, infine, consentivano di verbalizzare un altro aspetto, un altro paio di sfumature della vergogna e del disagio provati: l’aver reagito alla paura, dandole corso, venendo così meno al dovere (morale, sociale?) di restare freddi e controllati, di avere coraggio, con l’aggravante che di fatto non era accaduto nulla di ciò che in piazza si pensava fosse successo. Non vi era stato nessun attacco terroristico.

Alcune delle vittime di piazza San Carlo hanno detto che anche un bel po’ dopo non potevano credere davvero che non vi fosse stato alcun assalto da parte di terroristi.

Evitiamo alle vittime di Piazza San Carlo la vittimizzazione da mancato riconoscimento

Un’ultima considerazione riguarda la rivittimizzazione. Com’è noto, per la vittima di una violenza il non essere riconosciuta come tale può avere conseguenze lesive importantissime. Si pensi, alla donna vittima di violenza in famiglia che da degli interlocutori da cui vorrebbe essere compresa e creduta sente sminuiti i maltrattamenti cui è sottoposta. Oppure si pensi ai richiedenti asilo che hanno patito torture e violenze atroci che non vengono creduti (si veda, nell’ambito del Convegno STAND BY ME: accoglienza, sviluppo locale e buone pratiche di inclusione, tenuto dall’Associazione Me.Dia.Re. a Torino, il 25 e 26 maggio 2017, l’intervento delle dott.sse Corrente e Sacchi e l’intervista di Simona Corrente).

Perciò, il non considerare coloro che in piazza San Carlo hanno fatto le esperienze di cui qui si è scritto equivale a negarne la sofferenza. Significa delegittimarne i vissuti, costringerli a dare concretezza al sentimento di disagio azzittendosi, rinchiudendosi e nascondendosi.

In breve, negare loro attenzione empatica equivale a commettere una violenza, come in tutte le situazioni in cui si svaluta e si giudica la vittima di una violenza. Analogamente, incolpare le vittime di piazza San Carlo per quanto accaduto quella sera non è affatto dissimile dal colpevolizzare la vittima di un’aggressione a scopo di rapina o di stupro per la violenza patita.

Chi ha vissuto questo evento, in pochi minuti, quella sera, ha perso molte cose importanti, difficili da dire, e ancor di più da spiegare e da recuperare o reintegrare. Quindi  cerchiamo di non fargli perdere anche la dignità, biasimandolo per quanto gli è capitato o considerandolo una vittima di rango inferiore rispetto ad altre.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Tra i feriti anche un bambino, Kelvin, di sette anni. Il piccolo, per fortuna, era stato messo in salvo da due ragazzi, Mohammad Guyele e Federico Rappazzo, come riportato da La Stampa.

[2] Come riportò il Post, «un furgone con a bordo tre uomini ha prima investito i pedoni sul marciapiede del London Bridge, uno dei ponti più importanti della città, in pieno centro; poi ha continuato il suo percorso verso il Borough Market, subito a ridosso del London Bridge sulla riva meridionale del Tamigi, un’area grande e molto frequentata di bar, locali e chioschi. Il furgone si è poi fermato, i tre uomini armati di coltelli sono scesi e hanno cominciato ad accoltellare i passanti e i clienti dei locali del Borough Market. Domenica sera lo Stato Islamico (o ISIS) ha rivendicato l’attentato tramite un comunicato diffuso dalla sua agenzia di stampa Amaq».

[3]Sul sito di State of Mind si legge che, secondo il nuovo Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi mentali (DSM-5), perché si abbia il PTSD, è necessario che: la persona sia stata esposta a un trauma, quale la morte reale o una minaccia di morte, o di una grave lesione, sintomi intrusivi correlati all’evento traumatico insorgano dopo l’evento traumatico (ricordi, sogni, flashback); evitamento persistente degli stimoli associati all’evento traumatico che viene messo in atto  dopo l’evento traumatico (ad esempio si evitano i ricordi spiacevoli, così come i pensieri o i sentimenti relativi o strettamente associati all’evento traumatico, ma anche alcune persone, i luoghi, o altre situazioni associate al fatto; alterazioni negative di pensieri ed emozioni associate all’evento traumatico si manifestino dopo l’evento traumatico (ad esempio, la persona può: non ricordare qualche aspetto importante dell’evento traumatico; sviluppare persistenti ed esagerate convinzioni o aspettative negative su se stessi o sugli altri; dare la colpa a se stessi oppure agli altri per quanto accaduto; provare sentimenti persistenti di paura, orrore, rabbia, colpa o vergogna, una marcata riduzione di interesse o partecipazione ad attività significative, sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri o incapacità di provare emozioni positive come felicità, soddisfazione o sentimenti d’amore), marcate alterazioni dell’arousal e della reattività associati all’evento traumatico si manifestino dopo l’evento traumatico (ad esempio un comportamento irritabile o spericolato e autodistruttivo, una certa ipervigilanza, o delle esagerate risposte di allarme, difficoltà relative al sonno).

[4] Con un’altra prospettiva anche Francesco Merlo su Repubblica, a  due giorni di distanza, aveva commentato l’accaduto utilizzando i concetti di terrorismo controllato (quello avvenuto a Londra) e terrorismo annunziato (quanto accaduto a Torino).

 

[5] Tra i Servizi gratuiti che l’Associazione Me.Dia.Re. eroga a Torino, vi sono anche quelli di ascolto e sostegno psicologico per le vittime di reato doloso e colposo e per le persone affettivamente legate alle vittime, ed è in questa cornice che sono state ascoltate alcune delle persone presenti in quella piazza, nei giorni e nelle settimane successivi.

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Razzismo e terrorismo

Un dubbio all’insegna del razzismo: “Se qualche immigrato è felice è perché si compiace di una strage?” 

Massimo Gramellini, sul Corriere della Sera, nella sua rubrica il Caffè del 26 maggio 2017 (è leggibile anche nell’edizione on line), ha scritto che 5 giorni prima, lunedì 22, una guardia giurata, residente a Pioltello, tornato a casa e appresa la notizia della strage di Manchester[1] immediatamente ha collegato tale attentato con quanto aveva osservato un po’ prima passando davanti al bar Marrakech di Via Monza 30: dei festeggiamenti. Il collegamento mentale, forse non poco all’insegna del razzismo e dell’islamofobia, è stato: “stanno festeggiando la strage”. Quindi, racconta Gramellini, ha comunicato questo “fatto” ad un giornalista di Panorama, Carmelo Abbate, che, a sua volta, l’ha comunicato al pubblico di Canale 5, nel corso della trasmissione Mattino 5, mentre una consigliera di Forza Italia rilanciava il “fatto” sui social. I carabinieri, però appurarono che i festeggiamenti nel locale incriminato si erano svolti ben prima della diffusione della notizia sulla strage di Manchester e, con la sindaca Ivonne Cosciotti, hanno smentito la falsa notizia.

Su La Stampa del 26 maggio si riportava che la sindaca è stata poi insultata via mail e sul suo profilo Facebook e che intendeva rivolgersi all’Ordine dei Giornalisti: «Non mi preoccupo di pseudo giornalisti che parlano a vanvera su notizie non vere (e per il quale scriverò a ordine dei giornalisti e tv per programmi che di informazione non hanno nulla), mi preoccupo però che ci siano persone che esprimono una violenza verbale che non escludo si possa trasformare in violenza fisica».

 

Il razzismo dal piano della violenza verbale passa a quello della violenza fisica: Pioltello e Finsbury Park.

Come precisa ancora, nel suo articolo su La Stampa, Chiara Baldi, la violenza fisica si è poi palesata la notte del 25, quando qualcuno ha provato a incendiare il bar Marrakech, di proprietà di Adil, marocchino residente in Italia da 14 anni e da 10 a Pioltello – dove mai prima di allora era stato vittima di razzismo o violenza – , e di sua moglie Elvira, russa.

«Si sta creando un brutto clima a Pioltello ma noi comunque andiamo avanti. Il bar Marrakech è sempre aperto a tutti», dice Adil.

Il quale fin da subito aveva negato che qualcuno nel suo locale stesse festeggiando il sangue versato a Manchester.

Tiziana Panella, durante la puntata di Tagadà del 19 giugno, ha chiesto ai suoi ospiti di commentare l’attacco, verificatosi durante la notte appena trascorsa, da parte di un inglese, Darren Osborne, di 47 anni, padre di 4 figli, che pare essere legato ad ambienti di estrema destra, contro i fedeli che si trovavano davanti alla moschea Muslim Welfare House di Londra[2]. Tra gli ospiti della trasmissione vi erano Stefano Candiani, senatore della Lega Nord, e Davide Piccardo, della Consulta Islamica. Quest’ultimo ha parlato di «una dinamica “azione-reazione” che andrebbe interrotta» e, a tal riguardo, ha posto in rilievo come vi siano «due retoriche, due propagande contrapposte. Una è quella dell’Isis che demonizza in toto il mondo occidentale e cerca di spingere persone disturbate e violente a compiere attentati in Europa. E l’altra è una narrazione, una propaganda islamofobica, molto forte, che individua nell’Islam e nei musulmani il nemico e che, ogni volta che c’è un attentato, punta il dito contro l’Islam in toto, dicendo che è da lì che viene il terrore e che quindi è l’Islam in toto che è qualcosa da sradicare e che non è compatibile con la nostra società. Queste due visioni contrapposte, che, però, secondo me, vivono l’una dell’altra, sono molto pericolose». Piccardo ha concluso il suo ragionamento asserendo che quello della notte del 19 giugno è stato il primo caso in cui la retorica islamofoba ha dato luogo alla violenza e che il suo timore è che non sia anche l’ultimo. In realtà, si è sbagliato: non è stata quella la prima volta che si si sono verificate manifestazioni violente di razzismo [3]. E il suo timore appare condivisibile, cioè si può seriamente dubitare che sia l’ultima.

Poco, più tardi, un esempio di retorica islmamofoba si è verificato proprio nel corso della trasmissione, interessando Davide Piccardo e Stefano Candiani: mentre si discuteva della legge sul cosiddetto Ius soli, il sen. Candiani, che dissentiva dalle posizioni di Piccardo e degli altri ospiti (Renata Polverini, Alessia Rotta e Alfredo d’Attorre), ha affermato di ritenersi fortunato per il fatto che Picardo, seduto accanto a lui, non gli avesse ancora tagliato la gola: «è già buono che non mi ha messo un coltello alla gola fino ad adesso. È già buono!». Il senatore della Lega Nord ripeterà questo concetto poco dopo.

 

…E se non ci fossero state prove dell’innocenza degli avventori del Bar Marrakech?

C’era bisogno di un’indagine dei carabinieri per accertare che al bar Marrakech di Pioltello non fosse radunata un’orda di imprudenti e spudorati sostenitori del sedicente Stato Islamico? E se per caso i festeggiamenti degli avventori e/o dei gestori di quel bar fossero iniziati un minuto, mezz’ora o un’ora dopo la strage? Che cosa se ne sarebbe dovuto dedurre? Cosa si sarebbe dovuto fare? Denunciare proprietari e avventori? Metterli tutti dentro perché non potevano non sapere e, essendo immigrati e almeno alcuni di fede islamica, erano indubbiamente pro Isis e pertanto certamente esultanti per il massacro?[4]

 Non voglio mettere in discussione la condotta dei carabinieri che hanno svolto degli accertamenti su quel che accadeva nel bar Marrakech – è possibile anche interpretare la loro azione come una sorta di “mossa ansiolitica” a beneficio della cittadinanza, un’azione, cioè, tesa a prevenire o a stemperare ansie e tensioni crescenti – , ma porre in evidenza un altro aspetto: non soltanto la guardia giurata, il giornalista di Panorama e la consigliera di Forza Italia, hanno trasformato in comportamenti le ansie, la paranoia e i pregiudizi che eventualmente vivono, bensì anche altre soggetti, inclusi coloro che sui social hanno fatto rimbalzare questa assurdità.

 

Oltre la bufala.

L’ingiusta, ottusa e diffamatoria, accusa ai gestori e agli avventori del Bar Marrakech però non è soltanto una bufala, siamo oltre. Che si tratti di razzismo, mi pare non vi sia da discutere. Che sia anche un razzismo del tutto inconsapevole, come spesso accade, non si può escluderlo. Ma l’impressione è che si tratti di un razzismo associato a qualcos’altro: qualcosa in via di vasta e profonda diffusione. Qualcosa che di razzismo si nutre e che a sua volta alimenta il razzismo.

Anche Michele Serra nella sua Amaca del 27 maggio si è soffermato sul carattere razzista di questo episodio, affermando che, a suo parere, si potrebbero chiedere “i danni agli autori e ai propalatori” della falsa notizia.

Ma, ritengo che limitarsi a rilevare l’irrazionalità o l’ottusità di simili comportamenti – con efficace e mesta ironia posti in evidenza da Gramelliini (che non a caso intitola il pezzo “L’incendio dei cervelli”) – non basti più e non aiuti un granché a capire. Già in molti altri post su questo blog ci si è soffermati sulla spersonalizzazione dell’avversario e sulla tendenza delle parti in conflitto a vedere dell’altra parte solo quello che ne conferma l’immagine negativa coltivata: in effetti, anche in relazione a quanto qui accaduto, mi pare possa rinvenirsi, francamente qualcosa di analogo.

 

Un altro punto a favore della guerra totale perseguita dall’Stato Islamico.

Massimo Gramellini, conclude così la sua riflessione: «Urgono pompieri dell’anima». Nel mio piccolo sono d’accordo con lui. E penso che il problema sia politico. Però, non credo che sia soltanto una questione di fiammiferi di stupidità accesi e lanciati «nella polveriera di quartieri con troppi immigrati, trasformato dai media in un tizzone d’inferno che provoca un incendio vero», come ha scritto Gramellini. Credo che ci sia dell’altro. Lo dico sinteticamente: quanto accaduto a Pioltello – esitato peraltro in un’esplosione intimidatoria ai danni della saracinesca di quel bar – e, il ben più grave attacco davanti alla moschea Muslim Welfare House di Londra costituiscono un altro punto segnato nella macabra, diabolica, colonna delle vittorie delle tenebrose istanze su cui poggia lo Stato Islamico.

 

La demonizzazione dell’altro.

In effetti, il sedicente Stato Islamico, come asseriva Davide Piccardo nella citata trasmissione del 19 giugno su La 7, assolutizza il suo rappresentare come nemici tutti coloro che ad esso non aderiscono, fino a considerarli come non umani: per i suoi aderenti tutti gli altri (in qualsivoglia continente vivano) sono demoni da abbattere fisicamente e psicologicamente. L’Is non soltanto ci spersonalizza, ma ci disumanizza, cioè ci considera e ci tratta come se non fossimo esseri umani, in maniera radicale, completa.

I giovani uccisi a Manchester, come tutte le altre persone uccise (e sarebbe bene ricordare che sono tantissime e, visti i numeri, si può dire che sono in larghissima parte musulmane) vengono da esso considerati non come vittime della crudeltà della lotta (come solitamente sono rappresentate dai belligeranti le vittime civili nel corso di una guerra)  – il che è già di per sé mostruoso e raccapricciante –, ma sono definiti come colpevoli per il solo fatto di essere europei, cristiani… Per il solo fatto di non essere sudditi fedeli dello Stato Islamico.

Una risposta all’insegna della demonizzazione di tutti gli islamici.

Ebbene, mi pare, che Darren Osborne, la guardia giurata di Pioltello e le altre persone citate nel pezzo di Gramellini e su La Stampa, come coloro che in Europa e oltreoceano si vanno convertendo e tentano di convertire gli altri – sui social e altrove – all’odio verso tutti i musulmani, così come chi considera un altro essere umano seduto lì accanto come una non-persona capace di tagliargli la gola solo perché crede chiama la divinità in cui crede Allah, abbiano seguito un percorso cognitivo, emotivo e comportamentale che, nella sua struttura di fondo, sia analogo a quello sviluppato dai terroristi dell’Isis: l’altro, lo straniero, è un nemico. E il nemico è visto come capace di tutto.

Infatti, se il mio nemico festeggia è perché sta celebrando una mia disgrazia. Se è triste è perché sta dolendosi di un mio successo. Il nemico fa così perché mi odia, perché vuole il mio male, perché mi vuole morto, anzi peggio che morto: sottomesso.

Mi pare che Piccardo faccia centro quando dice che le due posizioni sono speculari, perché il tipo di ragionamento sopra esposto è proprio del pensiero, a dir poco paranoico e intriso di una forma tutta particolare e assoluta di razzismo, che arde nelle menti degli assassini del sedicente Stato Islamico.

 

La paranoia è contagiosa. 

Temo, dunque, che non sia soltanto una questione di periferie con troppi immigrati, ma ho l’impressione che si possa ipotizzare un contagio della paranoia, che si comunica da loro (Is) a noi. E per noi, intendo, potenzialmente, il resto dell’umanità, e direi anche che il cosiddetto Occidente è il più esposto al rischio del contagio.

In altri termini, mi sembra che si stia materializzando una frequente componente dell’escalation conflittuale, che assume in tal caso un carattere estremo, assoluto e violentissimo. Si tratta di un fattore a cui, come l’esperienza insegna, è difficilissimo porre rimedio. Mi riferisco alla demonizzazione dell’altro, alla sua percezione spersonalizzata, anzi deumanizzata.

 

“Odio per odio”. Verso tutti!

Personalmente sono dell’idea che del disagio sociale occorra prendersi cura. Che si debba farlo per il solo fatto che c’è e non perché può portare a qualcos’altro. Tuttavia, mi viene anche da pensare che occorra, anzitutto, prevenire l’adozione, qui, in Occidente, di una crescente prospettiva tutta di tipo reattivo, simmetrico: “se tu mi odi, allora ti odio anche io”; “poiché vuoi la mia morte, allora io voglio la tua”; “siccome per te sono il Male, anche tu sei il Male per me”; “se per te io non esisto come persona e sono soltanto un nemico da schiacciare, umiliare terrorizzare e uccidere singolarmente o in massa, allora anche tu per me sei soltanto un nemico da spazzare via singolarmente e in massa”.

 

Un razzismo di natura (anche) reattiva

Questa radicalizzazione, questo razzismo  di natura reattiva (cioè un pensare e sentire, in reazione alla violenza dell’Isis, che noi – cristiani, europei, bianchi – che siamo tutti buoni, dobbiamo metterci contro tutti i musulmani, che sono tutti cattivi), direi che costituisce contemporaneamente una condizione emotiva, una forma di pensiero e una serie di comportamenti che sono oggettivamente complici del terrorismo, cioè della sua finalità di dare luogo ad una guerra santa di portata planetaria[5].

L’odio verso lo straniero richiede una difficile e complessa risposta politica

Pertanto temo sia illusorio pensare che politiche sociali migliori di quelle in corso possano magicamente risolvere la cosa. Sono necessarie, utili, improcrastinabili di per sé. Anzi, se ancora rinviate, la loro mancata realizzazione può contribuire potentemente allo sviluppo di un profondo, inguaribile, odio tra poveri. Un odio che può facilmente colorarsi in senso etnico e religioso.

 

Per non dimenticare: alcuni esempi di violenza all’insegna del più ottuso razzismo.

E’ di ieri, 30 giugno, la notizia della denuncia fatta da un cittadino italiano, di origine bengalese, per essere stato preso a calci e pugni a Tor Bella Monaca. Riporta Repubblica che quattro giovani italiani,  ai quali stava chiedendo informazioni per raggiungere l’abitazione popolare assegnatagli dal Comune, prima gli hanno gridato contro il loro razzismo e poi lo hanno aggredirlo brutalmente. Tra pochi giorni, sarà trascorso un anno da quando, il 5 luglio del 2016, Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, richiedente asilo, è stato ucciso a Fermo, nelle Marche. Era arrivato nel nostro Paese dalla Nigeria meno di un anno prima, insieme a sua moglie, Chimiary. In Nigeria i terroristi di Boko Haram avevano devastato il villaggio, ucciso i genitori di lei e la loro figlia di due anni, solo perché erano cristiani. Stava passeggiando con Chimiary, la moglie 24enne, quando si è trovato a doverla difendere dagli insulti, intrisi di razzismo, provenienti da un ultras quarant’enne del posto. È partito il pestaggio. Colpito più volte alla testa, con calci e pugni e forse anche con un paletto, è stato ridotto in fin di vita. Un altro richiedente asilo è stato ferito molto gravemente a Rimini, il 22 marzo di quest’anno. Anche in tal caso si è trattato di un nigeriano, di 25 anni, cristiano, richiedente asilo. Il 39enne, italiano, di Roma, che lo ha aggredito per “ragioni” razziste e che ha diversi precedenti, lo ha prima preso a pugni e calci e colpito con un coltello all’addome. E, quando il giovane ha tentato di fuggire, l’italiano è salito in auto, lo ha inseguito e investito.

 

Urge una politica che promuova il riconoscimento dell’umanità dell’altro

Dubito, dunque, che politiche più spiccatamente keynesiane possano di per sé far regredire la spirale conflittuale già attivata. L’odio, sorto dalla paura, generata a sua volta dal terrorismo, mi pare, non può essere risolta con politiche sociali di tipo “classico”. Né, del resto, con più efficaci misure di sicurezza e ordine pubblico.

Occorrerebbe associarvi una politica in qualche misura nuova, sperimentale. Una politica, che, su tanti diversi registri, sappia accogliere quella paura, senza rinforzarla o sminuirla (qualcosa che in altri post ho chiamato anche ascolto politico), e che, pur riconoscendo la rabbia, generata dalla paura, riesca a bonificarla, così da poter davvero perseguire la promozione del riconoscimento dell’umanità di tutti, nessuno escluso.

Si tratta di qualcosa di inedito, almeno su larga scala. Certo, molte città – grandi e piccole – vedono la realizzazione di importanti progetti, di mediazione dei conflitti , tesi all’integrazione di rifugiati adulti e minori, o di altro tipo, che si pongono su questo registro. Tuttavia, credo che occorra qualcosa di più. Qualcosa di particolarmente complesso e complicato.

Complicato anche perché una tale politica dovrebbe, in primo luogo, sviluppare al proprio interno i necessari anticorpi. Quelli necessari, cioè, per non essere anch’essa contagiata dall’odio (e dalla paura che lo stimola). Poiché, andrebbe continuamente ricordato, le politiche sono elaborate dai politici. E costoro  sono esseri umani esattamente come tutti gli altri. Dunque, provano le stesse emozioni.

 

La negazione dell’altro come essere umano.

Scrive Luciano Peirone, nel secondo capitolo di La vita ai tempi del terrorismo. Psicologia e fiducia per gestire la paura e fronteggiare il Male (Edizioni Ordine degli Psicologi del Piemonte, Torino, 2017), che, dal punto di vista del terrorista, «l’Altro non esiste, non deve esistere (…). “La Verità è una sola: la mia, la nostra”. “La giustizia è una sola: la mia, la nostra”. “Dio è uno solo: il mio, il nostro”». E aggiunge: «Il Non-Io, il Non-Noi viene irrimediabilmente percepito e valutato quale straniero, nemico, non degno di esistere. Si è in presenza di un bisogno profondo, anzi di una autentica necessità. Il conflitto è del tipo aut aut, o Io o l’Altro, meglio: o Noi o gli Altri. Il terrorista decide unilateralmente. Non c’è trattativa perché la controparte “non c’è”. La negazione (poderoso meccanismo intrapsichico) regna sovrana».

Be’, qualcosa di non sideralmente distante si produce anche nel razzismo, nell’odio, nella rabbia e nella violenza verbale e fisica verso gli stranieri. Soprattutto verso quelli di fede islamica.

L’altro come mero oggetto (del nostro odio)

E’ qualcosa che va diffondendosi in Europa. E arriva a condizionare i leader politici, alcuni dei quali, anzi, se ne fanno orgogliosi e potenti portavoce. Forse, risultano così efficaci in tale ruolo, perché anch’essi ne sono in buona parte intrisi.

Ancora Peirone, nelle sue Annotazioni sulla personalità del terrorista del XXI secolo, scrive: «“L’esistenza di qualcuno diverso da Me/Noi minaccia la Mia/Nostra esistenza: quindi Io lo debbo eliminare, Noi lo dobbiamo eliminare”. “Non mi/ci importa nulla dell’Altro: esso è un mero oggetto del Mio/Nostro odio”. “L’Altro non esiste e va fatto fuori”. “La Mia/Nostra Violenza è inevitabile: per generosità posso/possiamo convertirlo (cambiarlo, trasformarlo, renderlo simile a Me/Noi) oppure per spietatezza debbo/dobbiamo toglierlo di mezzo”». E conclude questo passaggio con la seguente riflessione «La logica terroristica è inoppugnabile, ferrea come le armi».

Rischiamo di contraddire noi stessi e di seppellirci.

Se la facciamo nostra, se anche noi italiani, europei, nordamericani, ecc., ci avviciniamo a questi schemi di pensiero, se, come sembra fare il senatore Candiani, in ogni fedele dell’Islam vediamo un tagliagole, e con tali sentimenti ostili e con un altrettanto ostile approccio ci rapportiamo a tutti coloro che credono in Allah, be’, allora cominciamo pure a scavare le fosse per i nostri figli, perché presto ci toccherà seppellirli. E con loro copriremo di terra anche quei principi e quei valori contro cui si scaglia il sedicente Stato Islamico e  che noi abbiamo ricevuto in eredità dalle generazioni precedenti[6]. Quei valori che tante ingiustizie, sofferenze e vite umane sono costate per essere riconosciuti. E che noi, disapplicandoli, dimostreremo di non avere meritato.

Per concludere, dunque, meritiamocele, le sofferenze, le fatiche, le perdite e le lotte affrontate da  milioni di individui, che, anche loro come noi, mentre erano di passaggio su questa Terra, nel corso dei secoli e fino ad oggi, hanno portato il loro granello di sabbia – come forse avrebbe detto Luciano Bolis – per edificare un mondo più giusto, più umano.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Quel lunedì sera Salman Abedi, britannico di origini libiche, alle 22.33, si è fatto saltare in aria all’Arena, dov’era in corso un concerto della cantante statunitense Ariana Grande, uccidendo 23 persone e ferendone altre 122, soprattutto giovanissime

[2] Osborne si era precipitato con un furgone, da lui noleggiato per 80 sterline alcune ore prima a Cardiff (270 km da Londra), contro un gruppo di persone di fede islamica, fermatesi fuori dalla moschea per aiutare un uomo che era collassato a terra, provocando la morte di una persona (un cinquantunenne di nome Makram Ali) e il ferimento di altre 10. Darren Osborn, bloccato dai presenti, gridava di voler uccidere tutti i musulmani. A salvarlo dalla reazione dei presenti è stato l’intervento di Mohammed Mahmoud, un imam della moschea.

[3] Pensiamo, per stare agli esempi più recenti di razzismo reattivo, agli attacchi ai negozi e alle moschee, nonché alle persone e pensiamo alle risse verificatisi in Corsica nel 2015 e nel 2016 o a quanto emerso nell’indagine a carico dei carabinieri di Aulla, di cui quattro arrestati. Inoltre sempre in tema di violenza e razzismo non andrebbe sottovalutato quanto evidenziato da sindaco di Londra, Sadiq Khan, che (come riporta il Fatto Quotidiano, citando dati pubblicati dalla Polizia Metropolitana ha segnalato come, dopo il 3 giugno, si è passati da 3,5 attacchi di stampo islamofobico al giorno a una media di 20.

[4] Il 26 maggio è giunta la notizia di un attentato in Egitto, 34 morti, uccisi perché coopti. Le polizie di tutto il mondo avrebbero dovuto indagare su tutti coloro che nel mondo stavano festeggiando qualcosa? Analogamente, è possibile che vi fossero persone sorridenti o perfino intente a festeggiare qualcosa riguardante i fatti loro quando veniva diffusa la notizia il 31 maggio di un’autobomba (un camion) fatta esplodere  Zanbaq Square, in una delle aree più sicure di Kabul, dove si trovano diverse ambasciate (tra qui quella tedesca, francese, iraniana e pakistana) uccidendo 80 persone e ferendone 300, o quando il giorno prima i media (l’Ansa, ad esempio) riportavano che a Baghdad nell’arco di 12 ore due attentati avevano ucciso più di 20 persone tra cui molti bambini. E chissà quanta gente il 2 gennaio di quest’anno era felicemente in vacanza mentre si apprendeva che un’autobomba a Baghdad aveva tolto la vita a 39 persone, oppure chissà quante erano beatamente in ferie oppure intenti a trascorrere una serata spensierata all’aperto, mentre arrivavano le informazioni dei 4 attentati di Baghdad della notte tra il 2 e il 3 luglio dell’anno scorso che costarono la vita a 324 persone, tra cui molti bambini e minori (è stata definita la strage dei bambini). Ad esempio, è possibile che, il mattino del giorno dopo, educatori e bimbi di qualche centro estivo stessero festeggiando il compleanno di un compagnuccio. Andrebbero denunciati nel dubbio che in realtà fossero al corrente della strage commessa poche ore prima? Quando il 24 maggio di quest’anno è stata diffusa la notizia di un’imbarcazione ribaltatasi al largo del porto libico di Zuara, soccorsa dalla Guardia Costiera italiana e dall’ong Moas, che hanno rinvenuto 34 cadaveri, tra cui molti bambini, e contato 156 dispersi, è possibile che più di qualche europeo stesse festeggiando in pubblico un’assunzione, la promozione ad un esame universitario o un qualche tipo di progetto andato a buon fine. Non avendo, costoro, esposto cartelli illustranti le ragioni della loro felicità, si sarebbe dovuto verificare che non fossero esultanti per la morte di tanti migranti?

 

[5] Per “comportamenti oggettivamente complici del terrorismo” mi riferisco anche alle condotte poste in evidenza da Gramellini, Serra e Baldi nei loro articoli e ad altre analoghe, o assai più gravi, azioni.

 

[6] Vale la pena ricordare che nel mese di giugno del 1944, a Civitella della Chiana (Arezzo), reparti della divisione Göring in ritirata uccisero 203 civili, tra cui anziani, donne e bambini. Sarebbero stati “colpevoli” di aver aiutato le formazioni partigiane. A nord della Linea Gotica l’operazione Wallenstein (una serie di rastrellamenti) costò la vita a 156 civili e 70 partigiani, mentre furono deportate 1798 persone. Gli alleati poco più di tre settimane prima (il 6 giugno) erano sbarcati in Normandia. E, a proposito del D-Day e del film più premiato dalla critica e dal pubblico su quell’evento – Salvate il soldato Ryan – , come non ricordare una battuta sempre attuale? “Meritatelo”, dice il capitano  John H. Miller (Tom Hanks), colpito a morte dal fuoco tedesco, al soldato James Francis Ryan (Matt Damon). Lo dice, spirando, a colui per la cui salvezza lui e quasi tutti i suoi uomini hanno perso la vita. Tante storie individuali e collettive, svoltesi nel corso dei secoli, sono alla base della nostra Costituzione e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Documenti nei quali è fissata l’uguaglianza di tutti davanti alla legge e la pari dignità per ogni persona. Si tratta di principi antitetici a ciò che è intrinseco ad ogni forma di razzismo. Incompatibili, in realtà, non solo con il terrorismo e  con i disegni di dominio di Daesh, ma anche con certe sub-culture criminali, quali, ad esempio la ‘ndrangheta. Tali alte dichiarazioni sollecitano a tenere sempre presente un fatto: l’altro è un essere umano. Senza questa consapevolezza, che non sta solo sul piano intellettuale, risultano vuote parole quelle dell’art. 1 della suddetta Dichiarazione Universale: « Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. »