Stand by me Accoglienza Migranti

Accoglienza e sviluppo locale: Alfredo Mela

Abbiamo chiesto ad Alfredo Mela – sociologo – di raccontarci il suo impegno e il suo punto di vista sul tema dell’inclusione dei migranti, in attesa del convegno “Stand by me” , a cui parteciperà come coordinatore della tavola rotonda del 25 maggio dedicata ad accoglienza e sviluppo locale. 

Stand by me Accoglienza Migranti

Buone pratiche d’inclusione: Ina Muhameti

Abbiamo chiesto a Ina Muhameti – mediatrice interculturale – di raccontarci il suo impegno e il suo punto di vista sul tema dell’inclusione dei migranti, in attesa del convegno “Stand by me” del 25 e 26 maggio, a cui parteciperà come coordinatrice della tavola rotonda dedicata alle buone pratiche d’inclusione attraverso l’arte e la cultura. 

Stand by me Accoglienza Migranti

Supporto psicologico e inclusione: Marco Raviola

Abbiamo chiesto a Marco Raviola – psicologo e psicoterapeuta – di raccontarci il suo impegno in materia di migrazione e il suo punto di vista sul contributo del supporto psicologico all’inclusione dei migranti, in attesa del convegno “Stand by me” del 25 e 26 maggio, a cui parteciperà come relatore nella tavola rotonda dedicata.

Stand by me Accoglienza Migranti

Accoglienza e sviluppo locale: Maurizio Dematteis

Abbiamo chiesto a Maurizio Dematteis – giornalista, videomaker e ricercatore – di raccontarci il suo impegno e il suo punto di vista sul tema dell’inclusione dei migranti, in attesa del convegno “Stand by me”, a cui parteciperà come relatore nella tavola rotonda del 25 maggio dedicata ad accoglienza e sviluppo locale. 

Chi subisce un’azione violenta non si chiama colpevole ma vittima

È stata una settimana all’insegna della violenza più letale: messa in atto da singoli, da organizzazioni e da Stati. Su La Stampa di ieri ho letto che  Rakhmat Akilov, il presunto autore dell’attacco di Stoccolma di venerdì scorso, avrebbe confessato di essere l’autore della strage a Drottinggatan, commessa in esecuzione di ordini ricevuti da membri del gruppo jihadista in Siria. Non solo avrebbe asserito di aver «realizzato ciò che si era proposto di fare» e di avere prima pianificato l’attacco, con una ricognizione della strada pedonale dove poi ha colpito, ma avrebbe anche dichiarato di aver «investito degli infedeli» per «vendicare i bombardamenti sull’Isis», e per porre «fine ai bombardamenti nel Paese in guerra». Inoltre, secondo Anders Thornberg, il capo dell’intelligence (Säpo), è concreto il rischio di vendette e violenze da parte di militanti dell’estrema destra.

Quindi Rakhmat Akilov direbbe: quelli che ho ucciso e ferito non sono vere vittime, trattandosi di infedeli; ho ricevuto un ordine e l’ho eseguito; c’è una ragione morale alta dietro la mia azione, che non è grave quanto quella messa in atto da altri, poiché stavo vendicando gli attacchi dall’aria sull’Isis e rivendicando la cessazione dei bombardamenti sulla Siria.

Secondo una certa prospettiva social-cognitiva, vi è un aspetto ricorrente nella mente di chi pone in essere il comportamento violento (e non si pensi soltanto alla violenza fisica): il disimpegno morale. Con tale espressione si fa riferimento al fatto che l’autore della violenza prende le distanze dalla responsabilità morale di quanto sta per porre in atto e conserva tale atteggiamento anche dopo averlo compiuto, attivando dentro di sé dei meccanismi di autogiustificazione. In particolare nella prospettiva interazionista di Bandura (Bandura, Barbaranelli, Caprara, & Pastorelli, 1996), vi sono dispositivi cognitivi interni all’individuo, socialmente appresi e costruiti, che liberano l’individuo dai sentimenti di autocondanna. Il disimpegno morale rappresenta un meccanismo cognitivo che permette alla persona di giustificare il proprio comportamento riprovevole, assolvendola da sentimenti di colpa e vergogna.

Questi meccanismi di autoassoluzione, dunque, servono a ridefinire in termini non riprovevoli o addirittura apprezzabili una condotta illecita e, per estensione, un’azione violenta.

Ad esempio, l’autore del comportamento violento ricorre: alla «giustificazione morale» dei fini superiori per oscurare la riprovevolezza della condotta compiuta o da compiere (si pensi alla vendetta legittimata come forma di giustizia che traspare dalle parole di Rakhmat Akilov e che, secondo Anders Thornberg, intenderebbero realizzare i militanti di estrema destra); all’«etichettamento eufemistico» per ridimensionare l’entità e dolorosità delle conseguenze della violenza; al «confronto vantaggioso», consistente nel confrontare la propria azione con condotte altrui considerate moralmente peggiori, così da ridimensionare per contrasto la valenza immorale del proprio comportamento, come quando si dice «se la prendono con me perché ho rubato un motorino mentre altri rubano miliardi», oppure «è più criminale fondare una banca che rapinarla» (questi tre meccanismi riguardano la valutazione dell’azione violenta); al «dislocamento della responsabilità», con il quale la responsabilità della condotta è attribuita ad un fattore esterno, ad esempio, ad un’autorità che l’avrebbe imposta (tipicamente «stavo solo eseguendo un ordine») oppure alle caratteristiche di una particolare situazione (come quando si sostiene che non v’era alternativa all’azione violenta); alla «diffusione della responsabilità», che consiste nel giustificarsi dicendosi, «ma sì, lo fanno tutti», perciò, si sostiene che si tratta di colpe che, per il fatto di essere di tutti, in definitiva non sono di nessuno; alla «distorsione delle conseguenze», che vale ad ignorare o a minimizzare la portata delle conseguenze dell’azione violenta, attraverso una non considerazione degli effetti di un’azione (in questi secondi tre meccanismi proposti il disimpegno morale opera sulla relazione causa-effetto, distorcendolo); alla «deumanizzazione» con cui si attribuisce alla o alle vittime un’assenza di sensibilità o sentimenti umani, così da bloccare sul nascere lo svilupparsi l’empatia, ovvero quel di senso interiore d’angoscia vicaria di fronte alla loro sofferenza che impedirebbe l’azione o, una volta commessa, porterebbe l’autore a soffrirne (appunto, vicariamente); alla «attribuzione di colpa alla vittima», che serve per convincerci che l’offesa arrecata o che si intende arrecare alla vittima è da lei pienamente meritata. Gli ultimi due atteggiamenti riguardano la cosiddetta “rivalutazione della vittima”, cioè la sua valutazione in negativo, e su di essi, sia pure con una terminologia mutuata dagli sviluppi criminologici e vittimologici, mi ero già soffermato in altri post rispetto a fatti e notizie di politica interna (“Psiconani ed ebetini, gufi e rottami, rosiconi e alessitimici, infami e bamboline: l’autolegittimazione delle aggressioni verbali nel conflitto politico”;  “Raggi, Renzi, Grillo, Salvini, Meloni, Berlusconi, Bersani, D’Alema, Fini, Boldrini…. La personalizzazione della politica e la spersonalizzazione dell’avversario negli attacchi ad personam”; “Mattarella aveva denunciato i rischi della violenza verbale nella lotta politica”; “Le aggressioni a Roberto Speranza e ad Osvaldo Napoli: la radicalizzazione del conflitto dal vertice alla base e ritorno“)

In sintesi, nelle poche frasi che avrebbe pronunciato Rakhmat Akilov, secondo quanto riferito da La Stampa, si potrebbero rinvenire alcuni dei meccanismi sopra riportati.

Ma va ricordato che questi, in realtà, vennero presi in considerazione, in ambito teorico e di ricerca, in primo luogo non per spiegare i comportamenti dei terroristi, ma soprattutto per indagare il bullismo (si veda però: Bandura A., Mechanisms of moral disengagement, in Reich W.  Origins of terrorism: Psychologies, ideologies, theologies, states of mind, 1990). Ciononostante, mi sono venuti subito in mente. E, istantaneamente, mi sono ricordato di quanto accaduto il 23 febbraio a Follonica, quando, nel retro di un supermercato, due addetti sorpresero due donne che frugavano tra i rifiuti e i prodotti fallati riposti in una gabbia e, dopo averle rinchiuse in quella sorta di gabbia metallica, le avevano filmate e derise per la loro reazione disperata soprattutto quella delle due, che urlava, tenendosi la mano probabilmente schiacciata. Come si sa i due, di 25 e 35 anni, sono indagati per sequestro di persona: l’art. 655 del codice penale definisce con tale espressione la condotta di chi privi della libertà personale qualsiasi altro individuo. E la libertà di movimento è la libertà personale. Il giorno dopo il leader della Lega, Matteo Salvini, pubblicò su facebook e su twitter il post «Io sto con i LAVORATORI (li contatterò già oggi per offrire loro tutto il nostro sostegno, anche legale) e non con le ROM “FRUGATRICI”. Ma quanto urla questa disgraziata??? #ruspa e CONDIVIDI!».

In sostanza, si potrebbe ipotizzare che per il leader della Lega quelle donne non erano vittime come tutte le altre – ROM FRUGATRICI, scrive, infatti, non donne o persone (si potrebbe pensare alla deumanizzazione sopra citata?) -, se l’erano cercata (potrebbe rinvenirsi in ciò un’attribuzione di colpa alla vittima?), si lamentavano eccessivamente, in particolare colei che urlava di più (si può trovare una certa rassomiglianza con il citato meccanismo della distorsione delle conseguenze?). Quel pomeriggio, in diretta telefonica con la conduttrice Tiziana Panella della trasmissione Tagadà, Salvini affermò ancora: «Non sono due poverette che passavano lì per caso. Possiamo discutere sulla opportunità di pubblicare un video del genere e sul fatto che dovessero intervenire subito le forze dell’ordine. Questi due ragazzi, che possono aver fatto una bravata, non possono rischiare il posto». E aggiunse: «quando blocchi queste ladre, queste cominciano a urlare come forsennate, perché fa parte della tecnica delle ladre. Quindi, i due vanno licenziati perché ridevano del fatto che queste molestassero per l’ennesima volta?».

Si potrebbe ravvisarere, in tali parole, i meccanismi della giustificazione morale (poiché, secondo Salvini, i due addetti al supermercato stavano bloccando delle ladre), del confronto vantaggioso (rinvenibile nell’affermare che “quelle” rubano, anche se non è in alcun modo vero che stavano rubando) e dell’etichettamento eufemistico (i due, secondo Salvini, avrebbero soltanto riso e non sequestrato le donne, e la loro sarebbe una bravata)?

In effetti, parrebbe che, dal punto di vista di Matteo Salvini, le due donne non siano state vittime di un abuso, di una violenza, insomma non possano essere considerate in alcun modo come vittime. Anzi, semmai sarebbero colpevoli (ladre, anche se non stavano rubando nel supermercato, ma frugando tra scarti e rifiuti).

Ovviamente, sarebbe pazzesco, oltre che offensivo e immorale, equiparare le parole pronunciate e scritte dal segretario della Lega Nord con la portata delle parole e dell’azione posta in essere dal terrorista che ha colpito a Stoccolma, o di chi ha fatto una carneficina prima nella chiesa copta di San Giorgio a Tanta e poi nella cattedrale di Alessandria, nel giorno della domenica delle palme, o ancor prima a Londra sul ponte di Westminster.

Ciò che si vuole porre in rilievo è che, troppo spesso, per ragioni diversissime, e del tutto in buona fede, confondiamo le cose. Vestiamo la vittima di una violenza con i panni del colpevole. E non ce ne rendiamo conto. Se lo facessimo per dare luogo alla violenza, infatti, saremmo naturalmente i principali artifici di quell’azione. Ma, più spesso, adottiamo tale atteggiamento nell’osservare e commentare la condotta altrui. E, in tale posizione, attiviamo, senza avvedercene, meccanismi simili nella loro essenza a quelli dispiegati dall’autore della violenza. E, magari, lo facciamo per difendere un principio o dei valori, mentre siamo impegnati in una stressante e appassionata lotta politica. Com’è possibile che sia accaduto al leader della Lega.

Così è toccato allo stesso Salvini trovarsi ad essere vittima di un comportamento palesemente ingiusto e violento (mi riferisco alle reazioni tese ad impedirgli di parlare a  Napoli), ma accompagnato da dichiarazioni e atteggiamenti che richiamavano da vicino i meccanismi di disimpegno morale, con l’intento di giustificare la violazione del diritto di manifestare.

Ancora un ultimo spunto: il 6 aprile, il governo italiano concludendo un accordo di riparazione, ha riconosciuto il proprio torto nei confronti di sei cittadini per quanto da essi subito nella caserma di Bolzaneto il 21 e 22 luglio 2001, ai margini del G8 di Genova (verserà 45 mila euro ciascuno per danni morali e materiali e spese processuali). Costoro, insieme ad altri circa 60, che non hanno accettato l’accordo, avevano fatto ricorso alla Corte europea dei diritti umani, sostenendo che lo Stato italiano aveva violato il loro diritto a non essere sottoposti a maltrattamenti e tortura e avevano denunciato l’inadeguatezza dell’indagine penale italiana sui fatti di Bolzaneto.

Si può supporre con una certa facilità che per gli autori di quelle e delle altre violenze commesse al G8 di Genova non vi fosse alcuna empatia verso i corpi e per la psiche delle persone che essi violavano e sconvolgevano. Si può pensare che per coloro che direttamente commisero quegli atti e per coloro che li appoggiarono, autorizzarono, approvarono, ecc., vi fossero dei meccanismi di giustificazione, di disimpegno morale. Certo anche in tal caso, come in quello dei bagni di sangue sopra citati, fa stare male il pensarlo.

In conclusione, ad integrazione dei meccanismi definiti da Bandura, si può porre mente al fatto che una potente risorsa auto-assolutoria è fornita dal conflitto. Il conflitto, non solo quello bellico, può “legittimare” la violenza sulla base della logica reattiva: nella versione del conflitto che ciascuna parte racconta a se stessa e agli altri si tratta sempre di reagire ad un’ingiustizia perpetrata dalla controparte, e il torto eventualmente commesso non sarà mai tanto grave quanto il torto subito o che si intende prevenire. In pratica, ogni parte dice “Dio è con me”.

Chiunque abbia seguito le notizie di questi giorni sa quali sono gli argomenti posti a fondamento del lancio, alle 4,40 di domenica mattina, la domenica delle palme, di 59 missili Tomahawk contro la base militare siriana di Al-Shayrat, nella provincia di Homs, cioè la base sospettata di essere coinvolta nel raid con armi chimiche effettuato martedì 4 aprile su Khan Sheikhun, provocando la morte di oltre 70 persone, di cui molti bambini.

Riesce difficile pensare al fianco di chi Dio possa trovarsi a proprio agio, da qualche tempo in qua, in Siria e in tanti, troppi, altri posti.

Non mi sfugge, tuttavia, che soffriamo parecchio e almeno un po’ ci rendiamo anche conto del paradosso della colpevolizzazione della vittima quando siamo noi a subirla (quando le vittime della violenza siamo noi), mentre dei suddetti meccanismi mentali tendenzialmente non siamo consapevoli quando è la nostra mente a dispiegarli. Cioè: spesso, ci crediamo proprio alla nostra buona ragione nel colpevolizzare la vittima di una qualche forma di violenza. E magari ci arrabbiamo molto se qualcuno ci fa notare quanto siamo, in effetti, scollati dalla realtà.

 

Alberto Quattrocolo

“L’ascolto politico” come possibile ponte tra la testa e la pancia dei cittadini e della politica

«Il sentimento è forse un sacco di patate, tanto al chilo, che si possa misurarlo? Sono una macchina, io? Tra poco mi sentirò dire che a usare i miei sentimenti rischio di consumarli», ribatte il dottor Aziz, uno dei protagonisti di Passaggio in India (di Edward M. Forster), al suo amico Fielding, che lo aveva invitato ad avere un atteggiamento più razionale. Con questa e con altre espressioni, Aziz cerca di far capire sia la portata dei suoi vissuti sia come questi, dal suo punto di vista, siano rigorosamente razionali. In termini assai diversi questa battuta ne ricorda un’altra celebre di Massimo Troisi in Pensavo che fosse amore invece era un calesse (M. Troisi, 1991): «Ma perché siete tutti così sinceri con me? Che cosa vi ho fatto di male, io?».

Entrambe le citazioni rinviano al fatto che quando si cerca di fare cambiare idea a qualcuno e, soprattutto, si tenta di persuaderlo sul carattere inappropriato o disfunzionale dei suoi sentimenti o delle sue emozioni, occorre tenere presente la possibilità che si risenta e che opponga resistenza.

Un’altra citazione, invece, può essere utilizzata a proposito dell’atteggiamento opposto, cioè quello di chi cerca di alimentare la fiamma di sentimenti conflittuali che ancora non si sono accesi. Nel Giulio Cesare di Shakespeare è Cassio che, rivolgendosi, a Bruto tenta questa impresa: «Poiché non puoi vedere te stesso  meglio che di riflesso, io, tuo specchio, modestamente ti farò scoprire ciò che ancora non consci di te stesso». L’operazione gli riuscirà, ma, come osserva lo stesso Cassio, Bruto è già sull’orlo della risoluzione verso cui si tenta di sospingerlo.

Si potrebbe dire che l’atteggiamento di Fielding verso Aziz in Passaggio in India e quello di Cassio verso Bruto siano assimilabili a due ipotetiche modalità opposte di porsi, in termini di comunicazione, della politica verso una porzione della popolazione particolarmente arrabbiata, delusa, spaventata, disperata o angosciata. In particolare, rispettivamente: “parlare alla testa” e “parlare alla pancia”.

Nei post precedenti si sono formulate delle ipotesi circa due possibilità della politica (quella che parla alla pancia e quella che parla alla testa) di rapportarsi con i cittadini, mettendo in luce come da entrambe potrebbe derivare una dinamica conflittuale proprio tra la politica e i cittadini. La suggestione di partenza, come annotato in chiusura o in apertura di quegli articoli, era fornita da alcune pellicole cinematografiche: Alba Fatale (di William A. Wellman, 1943), Tutti gli uomini del re (Robert Rossen, 1949), Mezzogiorno di fuoco (di Fred Zinnemann, del 1952), Johnny Guitar (Nicholas Ray, 1954) e La campana ha suonato (Allan Dwan, 1954), …E l’uomo creò Satana (Stanley Kramer, 1960), Mystic River (Clint Eastwood, 2003) e, La giusta distanza (Carlo Mazzacurati, 2007).

L’elemento comune di queste pellicole, molto diverse tra di loro, ovviamente, mi pare possa rinvenirsi in una sorta di duplice esplorazione: da un lato, quella delle implicazioni dannose, quando non catastrofiche derivanti dall’assecondare o sfruttare il malcontento, la rabbia, l’impazienza, i pregiudizi e i timori diffusi in una comunità. Ciò è più evidente in alcune pellicole che costituiscono metafore piuttosto palesi della “caccia alle streghe” sviluppatasi negli USA nel secondo dopoguerra (Johnny Guitar e La campana ha suonato), ma è rinvenibile anche in film assai distanti dalla denuncia del maccartismo (Alba fatale, Mystic River e La giusta distanza). I pericoli derivanti dal cavalcare la tigre dell’emotività però sono delineati anche in altre due opere (Tutti gli uomini del re, Mezzogiorno di fuoco), sia pure in termini assai diversi, in riferimento a situazioni in cui, pur non producendosi la figura del capro espiatorio, si perviene comunque ad una disgregazione insanabile del legame sociale oltre che del rapporto di fiducia tra istituzioni e cittadini; dall’altro, quella delle difficoltà vissute da chi conserva un atteggiamento razionale e riflessivo nel relazionarsi con individui e soprattutto con gruppi, formali e non, dominati da sentimenti forti e per lo più dolorosi e angosciosi. Le criticità nell’accogliere la rabbia impaziente di questi soggetti ha, infatti, in quasi tutte le opere citate, a prescindere dai finali variamente pessimistici, conseguenze nefaste per la comunità intera e, ancor di più, per chi  viene da essa calunniato (Alba fatale, Johnny Guitar e La campana ha suonato), isolato (Mezzogiorno di fuoco e La campana ha suonato), perseguito e condannato ingiustamente (… E l’uomo creò Satana e La Giusta distanza), infine giustiziato pur essendo innocente (Alba fatale, Johnny Guitar e Mystic River).

In breve, si potrebbe osservare che le pellicole citate, in realtà, si guardano dal condannare gli stati emotivi ed affettivi (anzi, è per merito dei vari sceneggiatori, registi ed interpreti se lo spettatore riesce senza fatica a capire le ragioni e comprendere i vissuti di chi poi nella trama si prevede che assuma comportamenti intolleranti, violenti o demagogici), ma ne illustrano le potenzialità distruttive derivanti dalla impossibilità di essere accolte e trasformate in pensieri, parole e dialoghi, invece che direttamente in azioni.

«Il contatto emozionale è garante del significato. Infatti perdere il contatto emozionale significa deprivare di senso l’esperienza, la possibilità di produrre pensiero autentico, di comprendere», afferma Blandino nelle Capacità Relazionali (Blandino G.,1996). E, recuperando suggestioni bioniane (Bion W. R., 1962, 1963 e 1965) – in virtù della quali la funzione del contenitore sarebbe quella di un’accoglienza empatica dei contenuti emotivi grezzi (non ancora pensati) altrui che aiuti a tradurli in pensiero e a renderli quindi anche verbalizzabili -, si potrebbe dire che il modo di rapportarsi del partito che parla alla pancia, cioè che, rilevando gli stati emotivi più dirompenti presenti in una popolazione, li fa propri e li rilancia sulla scena della politica, è quello del contenitore talmente elastico da non esistere (in altri termini su tale aspetto mi ero già soffermato in Una certa circolarità tra un inadeguato ascolto dei vissuti dei cittadini da parte della politica e il condizionamento di tali vissuti sulle decisioni politiche). Si può immaginare un sacchetto di plastica che invaso dall’acqua (il contenuto) si apre e la lascia defluire fuori. Mentre, il modo di porsi della politica che parla alla testa sarebbe quello di un contenitore troppo stretto o rigido rispetti ai contenuti emotivi di una determinata popolazione, sicché tali contenuti o non possono entrare nel contenitore o, se vengono accolti, finiscono danneggiati.

A questo punto, occorre precisare che, ovviamente, formulare ipotesi dai risvolti negativi ha senso se poi si propone anche un’opzione costruttiva. Senza pretendere di avere la capacità di individuare proposte creative, originali e ancor meno risolutive, si vuole qui suggerire che tra le due ipotesi prefigurate (parlare alla testa o parlare alla pancia) se ne dà una terza: quella dell’“ascolto”. Vale a dire una modalità di porsi in relazione con l’altro che si colloca anche al centro di ciò che altrove su questo blog ho definito la prospettiva del Political Conflict Management, cioè: ascoltare gli interlocutori per procurare una gestione efficace dei conflitti di rilevanza politica, inclusi quelli di cui si è protagonisti o rispetto ai quali non si è del tutto esterni. Si tratta, in effetti, di una modalità di prevenzione e di gestione dei conflitti fondata non su come si vorrebbe che questi si sviluppassero per poterli risolvere, ma su come effettivamente si sviluppano.

Come già evidenziato in altri articoli, tutte le forme di A.D.R. (Alternative Dispute Resolution) – arbitrato, conciliazione, mediazione-negoziazione -, infatti, sottolineano l’importanza dell’ascolto delle parti. Tra di esse, però, accenti diversi sono posti in ordine al tipo di ascolto da proporre, a seconda che sia esclusivamente o maggiormente attento alla dimensione cognitiva (gli interessi) ovvero a quella emotiva.

L’ipotesi qui sviluppata è che l’ascolto non possa essere riservato alle ragioni della ragione, dovendosi estendere anche alle “ragioni del cuore” (che, come diceva Blaise Pascal, ha regole che la ragione non conosce) o, se si preferisce, della pancia, senza che ciò significhi farsi portare via dalle emozioni e dei sentimenti altrui, come quando si arriva a colludere con esse e/o ad esserne condizionati.

Tuttavia, come ben sa chi ci ha provato almeno una volta, ascoltare davvero un individuo o, ancor di più, un gruppo o una massa di persone, può essere un’attività particolarmente stressante, specialmente se ciò accade in un in una cornice politica, cioè in una situazione assai diversa dal setting configurabile in un servizio di tipo psicologico, consulenziale, di sostegno, ecc.

Probabilmente, però, anche l’ascolto politico”, al pari di quello declinato in altri contesti relazionali, si rivela più agevolmente realizzabile, se messo in atto da un numero congruo di risorse umane, che siano dotate di una preparazione teorico-pratico-esperienziale, adeguata agli scopi specifici e fondata su una pratica effettiva e consolidata e su un’elaborazione approfondita.

Ascoltare, infatti, non è sinonimo di parlare, ma, assai spesso, si confonde l’attività di ascolto con un’altra: cioè quella del confronto, anche dialettico con l’altro. Certamente cercare di persuadere l’altro che le sue reazioni, idee o percezioni sono errate presuppone una previa, superficiale o profonda, comprensione di tali idee o percezioni, ma ribattere immediatamente ad esse, senza avere esplicitamente espresso di averle intese e – perché no? – senza avere manifestato di aver sentito i vissuti che le accompagnano, non necessariamente significa saper comunicare che si è ascoltato. Piuttosto, parrebbe che in tali circostanze si tenda più a dissuadere, oppure a persuadere, che a capire.

Tale atteggiamento non solo può rivelarsi inefficace ai fini del disinnesco di un conflitto, ma anche risultare involontariamente efficace nell’innescarlo. Anche qui giunge in aiuto l’Arte: “Or tu chi se’ che vuo’ sedere a scranna, Per giudicar di lungi mille miglia, Con la veduta corta di una spanna” (Paradiso, IXI, 79). Tali, infatti, potrebbero essere il vissuto e la reazione della cittadinanza che si sentisse giudicata negativamente per i sentimenti, le opinioni, le idee e le richieste di cui è portatrice.

In un’ottica di Political Conflict Management, dunque, occorrerebbe che il politico riuscisse ad ascoltare davvero (e, quindi, a farlo in modo neurale), in primo luogo, gli interlocutori critici verso la sua azione politica, amministrativa o legislativa. E per ascoltare si intende qui non solo lasciare esprimere le opinioni, ma soprattutto accogliere i timori, le ansie, le angosce, le preoccupazioni, le insoddisfazioni, le frustrazioni e riconoscere anche la rabbia e il risentimento di cui si è eventualmente oggetto.

Si potrebbe obiettare che ciò non vale a far superare quei vissuti negativi. Certamente. Però, l’obiettivo dell’ascolto non dovrebbe essere far cambiare le idee o gli stati d’animo dell’altro, ma farlo sentire ascoltato e non giudicato e contrastato. Rispettato e non delegittimato. Considerato e non manipolato. Compreso e non meccanicamente assecondato.

Dire ai nostri interlocutori che ci è parso di sentire della rabbia, della sfiducia e del rancore da parte loro nei nostri confronti, se non altro vale a comunicare che tali emozioni e sentimenti non ci spaventano, non sono tabù e, se reali, siamo in grado di riconoscerli e accoglierli, anziché essere propensi a respingerli per la loro scomodità.

Del resto, non tanto marginalmente, si può rilevare che riconoscere la rabbia o la delusione, la paura o la frustrazione non equivale ad accrescerle né ad essere collusivi con esse, ma, semmai, serve a contenerle, specie nella misura in cui dovessero in parte essere frutto più di percezioni che di un esame obiettivo della realtà. Mentre il non riconoscere quelle emozioni e quei sentimenti non solo non serve a risolverli o a “farli passare”, ma porta ad accrescerli e a radicarli ancora di più.

In breve, l’ambito di ricaduta dell’ascolto è la relazione. Se questa è preservata su un fronte – quello del politico che guarda ai cittadini -, in virtù dell’avvenuto riconoscimento, quale frutto dell’ascolto, allora tendenzialmente lo è anche sull’altro fronte – quello dei cittadini che guardano al politico.

In altre parole, il rispetto e la fiducia sarebbero reciproci e sussisterebbero, pur nel permanere di una eventuale disparità di vedute. E, se queste divergenze fossero gestite all’interno di una condizione relazionale come quella sopra descritta, allora, il controllo non sarebbe in mano ai rapporti di forza, al ricatto delle emozioni e delle possibilità di influenzamento di queste sulla condotta delle parti, come prospettato nella serie dei post sul tema, avviata con La politica che parla (soprattutto) alla pancia.

Riassumendo: l’ascolto politico, qui delineato soltanto nelle sue linee generali, non consisterebbe nel tentare di convincere, e neppure nel lasciarsi convincere, ma nello sforzarsi di comprendere e di far sentire compreso l’interlocutore. Non sarebbe un fine, pertanto, ma un mezzo. O, se si preferisce, sarebbe da intendersi contemporaneamente come una fase e come un approccio, trasversale a diverse fasi, del rapporto politica-comunità, la cui valenza principale sarebbe, quindi, prevalentemente collocabile sul registro relazionale. Il che la renderebbe potenzialmente utile per l’avvio e per l’accompagnamento di dibattiti e confronti concentrati sul merito dei problemi e delle diverse possibili soluzioni, liberandoli, così, da influenze ed aspettative emotive esasperate (irrealistiche, ricattatorie, vendicative, demonizzanti, idealizzanti, ecc.).

 

Alberto Quattrocolo

Il blog “POLITICA E CONFLITTO” è on line

L’Associazione ha attivato sul proprio sito il blog “POLITICA E CONFLITTO”, uno spazio di riflessione, confronto e condivisione su fatti, notizie e fenomeni di attualità, considerati nella prospettiva della mediazione dei conflitti e degli orientamenti teorico-pratici sviluppati da Me.Dia.Re. nei suoi progetti, servizi e formazioni.

L’intenzione è di gestirlo il più possibile con spirito neutrale e non giudicante, per porre in rilievo la possibilità che alcuni degli aspetti relazionali, emotivi e affettivi con cui più o meno tutti ci confrontiamo ed esperiamo nel quotidiano incidano anche sulla qualità dei dibattiti svolti nell’opinione pubblica, inclusi quelli su temi politici.

Sono già usciti più di 40 post (oltre a quelli che definiscono gli “spunti concettuali” e a quanto scritto sulla ratio e le regole) su eventi di vario genere, ma in prevalenza sulla politica e le sue vicissitudini attuali, con commenti proposti dal punto di vista della gestione dei conflitti, della criminologia, della vittimologia, ecc.

Ad esempio, recentemente, sono usciti dei post sul tema della politica che parla solo (o prevalentemente) o alla pancia o alla testa dei cittadini. Mentre altri precedenti, nell’ambito del conflitto politico, riguardavano temi quali: lo sviluppo di rappresentazioni demoniache della parte opposta (La verità è nell’occhio di chi guarda” e di chi commenta); lo sdoganamento culturale della scorrettezza politica come mezzo per procurarsi consenso (La politica della scorrettezza politica); la tendenza, diffusa e trasversale, a rappresentare l’altro come il Male, come un pericolo per la democrazia e come una minaccia per il bene dei cittadini perbene (Dalle fiamme del conflitto politico può levarsi una puzza di “fascismo involontario”?). Inoltre, potete trovare anche qualcosa sul bullismo.

A volte lo spunto è esplicitamente fornito da notizie su specifici fatti (dichiarazioni, polemiche, provvedimenti normativi…), in altri casi, invece, da film, romanzi… Ma la premessa comune è il pensiero che, se “le cose della politica” sono in realtà “le cose di tutti” e le cose di tutti sono anche cose della politica, allora la qualità del confronto è importante per la vita di una comunità e dei singoli che la compongono.

Ringraziamo, a questo proposito, le persone che ormai ci seguono anche su Facebook, dove non mancano i commenti – lunghi e brevi, negativi e positivi, interessati e liquidatori: sono tutti benvenuti, perché ci aiutano a riflettere, a considerare nuovi punti di vista e prospettive!

L’invito che vi rivolgiamo è quindi di venire a trovarci sul nostro nuovo blog, postare i vostri commenti e le vostre riflessioni sul tema, così da trasformare questo spazio virtuale in uno spazio vivace di confronto dialettico, improntata al rispetto reciproco nella comunicazione e al riconoscimento dell’altro nella sua diversità di idee, valori, bisogni, interessi, appartenenze.

Al via CUORE MATTO, lo sportello di sostegno psicologico per chi soffre di problemi sentimentali

L’Associazione Me.Dia.Re offre presso la sede di Torino, in via Buniva 9bis/D, uno spazio d’ascolto gratuito della durata di tre colloqui dedicato a tutti coloro che, per diverse ragioni, non sono riusciti a costruire una relazione sentimentale piena e soddisfacente.

Se vivi un momento di crisi nella coppia, se da tempo la tua vita sentimentale non ti soddisfa, se hai dubbi, incertezze, preoccupazione sulla qualità del tuo legame con il partner, se vivi un momento di noia e distanza nella relazione, se hai alle spalle un fallimento relazionale che ancora ti fa soffrire, se senti il desiderio di un rapporto d’amore che nella tua vita non si è mai realizzato, se ti senti solo, ma temi che sia ormai troppo tardi per legarti affettivamente, se ti chiedi come mai ti è successo tutto questo…

Vienici a trovare! Troverai uno psicologo-psicoterapeuta pronto ad ascoltarti e forse ad aiutarti a capirti un po’ di più.

Per chi fosse interessato ad approfondire ulteriormente la tematica individuata, gli psicologi dell’Associazione Me.Dia.Re  offrono un ciclo aggiuntivo di 10 colloqui al prezzo calmierato di 40 euro ciascuno.

Per prenotarsi, contattare il numero 338.1166438