Archivio per mese: Aprile, 2017
La rete come arena ma anche come “cloaca”
Sempre più spesso si levano voci e proteste contro l’uso del web e, in particolare, dei social come piazza virtuale in cui sfogare pubblicamente con un linguaggio triviale, offensivo, arrogante, talora anche razzista e sessista – a volte in modo anonimo, ma non sempre – emozioni e sentimenti ingombranti, come: rabbia, disperazione, angoscia, paura, ansia, invidia, frustrazione, senso di emarginazione, invidia, delusione, senso d’ingiustizia, di abbandono e di tradimento.
Perché ciò accade? Probabilmente le cause sono tante e complesse. Presumibilmente vi figurano le crescenti diseguaglianze, l’insicurezza e il disagio sociale, l’insuperata crisi economica, la crescente sfiducia non soltanto verso la politica ma anche verso molte altre istituzioni, l’ansia per l’oggi e la paura del domani, ecc. Mi pare, tuttavia, che vi sia anche il propagarsi ai cittadini comuni (iscritti, militanti, elettori, simpatizzanti) dell’elevata intensità dello scontro tra esponenti politici. Sicché anche tra i primi si direbbe proporsi con una certa frequenza non tanto il confronto tra opinioni, proposte, programmi, valori, ecc., quanto l’escalation del conflitto, con le sue caratteristiche di innalzamento continuo dei toni polemici, con lo spostamento dell’oggetto della discussione dal merito delle questioni alle caratteristiche personali dei litiganti, con la costruzione dell’immagine dell’avversario come nemico demoniaco, da umiliare ed eliminare.
A ben vedere, probabilmente, quel che accade sul web, da questo punto di vista, dunque, potrebbe essere considerato nuovo ma non radicalmente originale.
Non si può certo dire che sia un fenomeno inedito il manifestarsi al livello dei cittadini comuni di una conflittualità politica esasperata, faziosa, talora ottusa nelle sue più rigide contrapposizioni, perfino disumanizzanti. Ciononostante, credo che sarebbe miope il non vedere come la rete non solo costituisca un potente mezzo di partecipazione al dibattito pubblico, ma anche come rappresenti una straordinaria occasione per elevarne la qualità.
Infatti, se nella rete sede trovano spazio anche forme di confronto scorrette, offensive e addirittura penalmente illecite, ciò, benché in parte possa essere considerato fisiologico, intrinseco alla natura umana e al modo di dispiegarsi degli umani conflitti, in parte può essere compensato e corretto, a mio avviso, proprio dalla base. Da tutti noi.
Già in un altro post mi sono soffermato sul tema della violenza verbale. Qui, mi permetto di aggiungere un’ulteriore considerazione: così come abbiamo imparato a non gettare l’immondizia per terra, potremmo essere in grado di avere cura anche di questo ambiente comune, evitando di cospargerlo di rifiuti.
Infatti, anche la rete è frequentata dalle persone, per scopi e usi diversi e, come ci irrita e ci disgusta colui che fa i suoi bisogni sul marciapiede o sull’aiuola, così risulta sgradevole colui che evacua nella vie di questa città virtuale. Naturalmente, ancor di più ci infastidisce, se ci getta addosso il suo flusso di bile.
Certo ci sono, e ci saranno sempre, nei nostri paesi e nelle nostre città dei vandali, dei maleducati, delle persone prive di senso civico e che se ne infischiano dell’ambiente e degli altri, ma non rappresentano ormai che una piccola minoranza. La maggior parte di noi ha imparato che sporcare la via e la piazza e lordare la nostra cucina o la nostra camera da letto sono, infine, la stessa cosa.
Non è tutto perfetto, certi luoghi sono più sporchi di altri (e non mi pare il caso di entrare sul tema della gestione dei rifiuti urbani, perché riguarda ben altri registri), ma, in generale, credo che siamo diventati un po’ più responsabili. Siamo stati educati dai genitori, dagli insegnanti, dai vicini, ecc. Siamo stati aiutati dall’esempio e dalla disapprovazione altrui a non disseminare le strade di involucri mentre scartavamo pacchetti.
Quindi, senza attendere gli insegnanti, senza aspettare né l’altolà né l’esempio virtuoso dei genitori, potremmo già iniziare noi a rispettare noi stessi, a rispettarci l’un l’altro e a rispettare questo virtuale spazio comune e potremmo assumerci la responsabilità di far notare, con gentilezza, a chi getta la spazzatura dal suo dispositivo-balcone nella via di un sito web o di una pagina Facebook che la cosa non ci è gradita.
Infine, alla questione che potrebbe porsi sul dove potremmo scaricare allora i nostri rifiuti, cioè dove dare voce alla rabbia, si potrebbe rispondere di farlo sempre in rete, e neppure in appositi siti, ma di farlo in maniera tale da non imbrattare né l’ambiente né il prossimo. In fondo, quando siamo arrabbiati non ci mettiamo sistematicamente a spaccare o lordare le cose che ci stanno attorno né ad offendere i passanti o a strattonare e malmenare chi non la pensa come noi. Per lo più usiamo la parola.
Appunto, anche sul web si potrebbe provare ad usare la parola e non la parolaccia. Tanto per vedere l’effetto che fa. La mia opinione personale è che, per sfogare la rabbia, è assai più liberatorio dell’insultare e diffamare. Appaga di più scrivere, ad esempio, «contesto quel provvedimento perché sento uccisa la mia fiducia», piuttosto che «brutta carogna, fai schifo». Nel primo caso esprimo il mio dissenso e do voce a ciò che provo, con un numero di caratteri che va bene anche per un tweet, nel secondo caso sembro deprivato della capacità di pensare oltre che di esprimermi e la mia rabbia risulta soltanto irrazionale, pregiudiziale e molesta.
In fondo, è il primo dei due modi quello per litigare che insegniamo ai nostri figli e che ci aspettiamo gli insegnino gli altri loro educatori.
Non si tratta, dunque, di soffocare il conflitto, sia esso politico o di altra natura, né di imbavagliare le emozioni e i vissuti che lo sottendono e che esso sprigiona, ma di richiamarci a quel basilare senso di responsabilità che ci permette di vivere in mezzo agli altri, sia pur litigando, ma senza fare risse e duelli tutti i giorni.
Alberto Quattrocolo
Nessuna vittima è più uguale di un’altra
Rispetto alla vittima di un’ingiustizia, di una violenza, siamo spesso portati all’idealizzazione, ma quando non ci è possibile idealizzarla come martire, come eroica o, almeno, come vicina o simpatica, a volte fatichiamo un bel po’ ad essere empatici con la sua sofferenza.
Pare quasi che rispetto alle vittime prevalgano due tipi di atteggiamenti: da un lato, vi sarebbero le vere vittime, cui vanno comprensione e a volte anche ammirazione; dall’altro, le pseudo-vittime, oppure le non-del-tutto-vittime, cioè “quelle che, un po’, ciò che gli è accaduto se lo sono cercato” e “quelle che, in fondo, gli sta bene”.
Così, per alcuni le vittime dell’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle sono vittime a pieno titolo, mentre per altri no. Per alcuni le vittime delle foibe sono vittime a lettere cubitali, per altri, invece, andrebbero dimenticate o trascurate. L’elenco degli esempi potrebbe continuare a lungo.
A livello teorico, però, sappiamo che la vittima è tale anche se non ne condividiamo o perfino se ne disapproviamo le idee, i valori, i pensieri e i comportamenti. Infatti, in teoria sappiamo che è una vittima anche chi è fatto oggetto di violenza a causa dell’immoralità reale o presunta della sua condotta.
Chi commette violenza ai danni di altri, come già affermato in altri post (Chi subisce un’azione violenta non si chiama colpevole ma vittima; La criminalizzazione dell’avversario; Il rispetto per l’umanità di chi è vittima di una violenza non (è mai stato) procrastinabile), può auto-assolversi, giustificarsi, facilitarsi nella realizzazione dell’azione violenta, colpevolizzando la vittima. Ad esempio: il partner violento a volte giustifica i propri pugni e calci incolpando l’altro di essere irritante, disordinato o infedele; il genitore che maltratta i propri figli si auto-assolve adducendone il carattere indisciplinato, ribelle o capriccioso; il ladro o il rapinatore spesso si giustificano in virtù del fatto che la vittima è più ricca di loro; gli autori di un pestaggio di gruppo ai danni di una o più persone, le ritengono “colpevoli” di essere diverse (tifose di un’altra squadra, appartenenti ad un’altra religione…); i partecipanti ad un linciaggio fisico o mediatico, si legittimano in virtù della presunta o acclarata colpevolezza dell’oggetto della loro furia; chi sfregia con l’acido l’ex partner lo considera imperdonabile per il fatto non volerne più sapere di quel rapporto.
In sostanza, citando John Le Carré (La Casa Russia) che, a sua volta, citava, parafrasandola, La fattoria degli animali («tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri»), di George Orwell, potremmo dire che: le vittime sono tutte uguali e nessuna è più uguale di un’altra.
Se non accettassimo questa premessa e proponessimo una classifica delle vittime escludendo dal novero coloro che per qualche ragione non ci piacciono, staremmo proponendo una prospettiva alquanto pericolosa, perché discriminante ed orientata ad una sorta di “rivittimizzazione” sociale.
Spendo alcune righe per dare un minimo di sostanza all’espressione “rivittimizzazione” sopra impiegata e per collegarla al più ampio processo di vittimizzazione, definibile come quella sequenza di fasi, che si producono a partire dall’evento lesivo e segnano un modo di percepirsi e di comportarsi della vittima. Sin dagli anni ’70, Emilio C. Viano, aveva distinto quattro fasi. Le propongo in termini sintetici e perciò riduttivi. La prima è la fase del danno: il soggetto percepisce di aver subito un evento lesivo. Non necessariamente avverte da subito che si tratta di un danno ingiusto e si riconosce come vittima. Può addirittura non riconoscersi mai come tale (ad esempio, dice a se stessa: “ me lo meritavo…”, “non è poi così grave…”, “sono io la causa di ciò che mi è stato fatto”, “era destino”, “prima o poi doveva capitarmi”), non solo per una questione personologica, ma anche se la cultura o la sottocultura cui appartiene o il contesto relazionale in cui è inserita la portano ad assumere tale modalità di rapportarsi al fatto dannoso. La seconda è la fase della percezione di essere vittima: la vittima assume la consapevolezza di essere tale, realizzando che il danno subito è ingiusto. È uno stadio decisivo in moltissimi casi per la perseguibilità dell’autore del fatto lesivo, che, altrimenti, e non di rado, resta impunito proprio grazie al silenzio e alla passività della vittima. Questa fase è l’esito di una “riorganizzazione” delle funzioni psicologiche primarie della vittima, però non è acquisita definitivamente e può essere influenzata da numerosi fattori, incluso lo stress sofferto. Il terzo stadio è il riconoscimento altrui: la vittima avverte il bisogno di portare uno o più altri soggetti al “riconoscimento” della sua condizione di vittima, vale a dire della portata e della natura ingiusta danno patito, sia per trovare conferma esplicita della propria auto-percezione, sia per chiedere la punizione dell’autore. La quarta fase è il riconoscimento ufficiale, l’ufficializzazione della condizione di vittima da parte delle agenzie di controllo sociale. Le ultime due fasi incidono molto sulla possibilità che la persona regredisca dalla fase in cui realizza di aver subito un danno ingiusto a quella in cui riconosce soltanto che quel che è successo le fa male ma non anche che è ingiusto: così, se il contesto relazionale più prossimo, l’ambiente sociale o le istituzioni non prestano fede alla sua narrazione, oppure minimizzano il danno o ne negano o attenuano la sua natura ingiusta, ciò, oltre ad ingenerare un dolore profondissimo nella persona, facendola sentire respinta, isolata, biasimata, in breve, rivittimizzata (si pensi: al minore abusato sessualmente, che con grande fatica comunica ad altri l’abuso e non viene creduto, concretizzando così la speranza del suo abusante e convalidando la sua scelta nella selezione di quella vittima; alla donna stuprata cui viene proposta dalla società la assurda teoria della “vis grata puellae”, che recupera un’espressione dell’”Ars amatoria” di Ovidio per affermare che si tratterebbe di una violenza gradita alla fanciulla), può anche influenzarla fino al punto di convincerla che quel che le è successo è davvero da attribuirsi al fato oppure che è perfino giusto. Non pochi tra coloro che vengono accolti nei nostri servizi gratuiti di tipo vittimologico (cioè quelli di sostegno psicologico per: vittime di reato in generale e persone affettivamente legate alle vittime, donne vittime di violenza e i loro bambini e rifugiati e richiedenti asilo adulti e minori) si sono dovuti misurare con tali aspetti, sentendosi, a volte, in colpa e a disagio addirittura per l’ascolto che stavano ricevendo. Non raramente, infatti, oltre agli altri aspetti traumatici, angoscianti e dolorosi, si rileva presso costoro anche come la delegittimazione si possa insinuare nella persona, che, allora, spesso si vergogna a dare voce alla sofferenza provata.
In definitiva, una società che accordasse riconoscimento (quindi, rispetto, attenzione concreta, prossimità sul piano umano e sostegno) soltanto alle vittime ritenute meritevoli, magari per interessi politici o per ragioni di strategia politica, approverebbe ufficialmente criteri discriminatori. Criteri, cioè, che in realtà non sarebbero forse dissimili da quelli spesso già presenti nella pubblica opinione, ma che, almeno per ora, direi che non sono ufficialmente legittimati.
Se ciò accadesse, si darebbe luogo a qualcosa di inquietante: da un lato, ne deriverebbero messaggi potenti, a cavallo tra l’ufficiale e l’ufficioso, di legittimazione o, almeno, di tolleranza della violenza rivolta ad alcune categorie o ad alcuni gruppi di persone, evocando logiche proprie di regimi indifferenti ai diritti umani; dall’altro, si danneggerebbero anche le vittime “gradite”.
Infatti, il sentirsi oggetto di attenzione e vicinanza empatica solo perché si rientra nelle ipotesi di vittimizzazione ufficialmente definibili come tali, in virtù di una catalogazione gradita alla cultura e al pensiero dominanti o alla supposta “pancia dell’elettorato”, significherebbe, in realtà, sperimentare un vissuto tutt’altro che comodo e confortevole: in tali situazioni, cioè, si verrebbe riconosciuti non perché si è patito un danno ingiusto e per l’umana sofferenza provata, ma in quanto si costituisce un argomento a favore di un determinato programma o pensiero politico. Si verrebbe riconosciuti, dunque, non come esseri umani ma come esempi di una casistica proponibile utilmente a fini di propaganda.
In tale malaugurata ipotesi, l’attenzione verso la vittima “più uguale” non sarebbe incondizionata né fine a se stessa, come dovrebbe sempre essere, bensì condizionata e strumentale alla realizzazione di obiettivi altri, il cui perseguimento, a dispetto delle intenzioni anche nobili e delle dichiarazioni di principio, metterebbe in secondo piano la dignità, la sofferenza, i bisogni emotivi e relazionali di tutte le vittime di violenza (anche di quelle “più uguali”), negando, così, la loro umanità.
Alberto Quattrocolo
Niente prigionieri
Mentre si completa lo spoglio delle urne in Francia e si apre l’ultima settimana della campagna per le primarie del PD in Italia, mi viene in mente una celebre scena di Lawrence d’Arabia (David Lean, 1962), in cui il protagonista (T. E. Lawrence, interpretato da Peter O’Toole) lancia i suoi uomini all’attacco di una colonna dell’esercito turco in rotta, dando poi luogo ad un massacro spaventoso e inutile. Il suo braccio destro e amico, lo Sceriffo Alì, lo prega di lasciare incolume quella colonna nemica e di puntare senza indugi verso il loro vero obiettivo, Damasco. Lawrence non gli dà retta e dà l’ordine di attaccare al grido “no prisoners”, e l’esortazione viene ripetuta dai suoi uomini, mentre cavalli e cavalieri si lanciano verso la colonna turca.
Poste le dovute differenze, anche nei conflitti che si svolgono in politica, quando si arroventano, si direbbe che il grido più volte lanciato sia “niente prigionieri” e che, come nel film di David Lean, non vi sia alcuna riluttanza a continuare a colpire (delegittimare) gli avversari anche quando sono stati sconfitti.
In un altro post si è già posto in rilievo che sembrano sussistere ferite non sanate derivanti dal referendum costituzionale. Qui, mi pare sia il caso di tornare ad annotare quel che si rilevava in chiusura di quel post: nessun “onore delle armi” è stato concesso non soltanto agli esponenti politici, ai costituzionalisti, ecc., sostenitori del SI, ma neppure al complessivo 40% di cittadini-elettori che ha espresso quel voto, cioè 13 milioni 432mila persone.
Ciò che continua a svolgersi, dunque, come dinamica relazionale, è un aspetto ricorrente del conflitto: anche quando l’avversario è a terra, continuo a colpirlo.
Perché?
Forse, perché sono un sadico? No. Più probabilmente perché: sono ancora arrabbiato; sono ancora offeso; ho avuto paura che si affermasse una riforma per me inadeguata o, peggio, pericolosa e un po’, forse, ce l’ho ancora, questa paura. E, ancora: perché il nemico può sembrare morto o moribondo, ma c’è il rischio che sia solo svenuto e non voglio che si rialzi e torni alla carica; perché voglia farla finita con questo conflitto e con questo avversario.
Inoltre, un rilevante disincentivo al Fair Play del vincitore verso lo sconfitto, spesso è costituito dalla forza, dalla potenza del legame conflittuale. Questo può avere molti significati e risvolti, ma per brevità se ne considerano qui fugacemente solo due: quello della inappagabile sete di vendetta e quello dell’identità conflittuale su cui un gruppo (politico o di altra natura) è costituito.
La prima si può collegare alla necessità di vendicare un’offesa alla dignità per perseguire un altro più profondo e drammatico fine: tornare (o continuare) ad essere attori di primo piano sulla scena politica grazie alla visibilità della lotta vittoriosamente condotta contro chi ha cercato di oscurarci nella percezione degli altri.
L’altro aspetto rinvia a quelle situazioni in cui l’identità di un soggetto (individuale o collettivo) si è strutturata prevalentemente intorno all’essere antitetico rispetto ad altri. Come si può recedere da un conflitto o tentarne la de-escalation, se si pensa di esistere solo in funzione del proprio essere, radicalmente, ontologicamente, diversi dal nemico? Per continuare ad esistere, superando il conflitto, occorrerebbe aggiornare profondamente la propria identità, altrimenti occorrerebbe proseguire il conflitto, pur avendo vinto tutte le battaglie, anche a costo di inventarsi dei nemici anche solo potenziali.
Il problema, nel caso di un referendum che ha “spaccato” il Paese, è che ci sono un bel po’ di altre persone di cui tenere conto, oltre ai singoli esponenti politici, alle loro preoccupazioni e alla loro rabbia, ai loro rancori e alla ragione del loro esistere come soggetti politici.
E squalificare, anche involontariamente, le scelte fatte da 13 milioni di elettori – ma fossero anche solo 13 mila poco cambierebbe in linea di principio – non aiuta a ricucire il Paese. Sempreché questo sia un obiettivo ritenuto degno di essere perseguito.
Quei 13 milioni, se li voglio considerare schierati contro di me, infatti, sono un avversario che grazie alla mia vittoria potrò al massimo ridurre al silenzio; ma si tratterebbe di un silenzio apparente, prossimo a riprendere voce, magari rabbiosa, al prossimo giro di boa.
Diceva Gandhi che finché c’è un perdente la guerra non è mai finita.
Infatti, l’escalation del conflitto politico non soltanto è di forte ostacolo all’auto-contenimento delle spinte e delle istanze aggressivo-difensivo-distruttive ancora presenti al termine di una battaglia conclusa, ma è anche un fecondo generatore di fiumi carsici di rancore o, almeno, di desiderio di ripicca, rivincita e rivalsa.
Il mio delegittimare il punto di vista dell’elettorato sconfitto, peraltro, non agevola una conversione di quei cittadini alle mie idee, né facilita in essi il raggiungimento della consapevolezza sull’errore commesso nell’urna, se questi sono i miei intenti. Può semplicemente indurli a tenere i loro pensieri per sé, soprattutto se, rivendicando ad alta voce il loro voto, temono di porsi fuori dal pensiero dominante.
Ma tale prosecuzione, magari sotterranea, delle ostilità è ben altra cosa dal costruire ponti. E può alimentare nei leader sconfitti, insieme al naturale, e democraticamente necessario, desiderio di rivincita, un sentimento di biasimo verso quell’elettorato che si è espresso contro di loro. Cioè: il leader battuto alle urne non potendo esprimere il suo disappunto verso chi ha votato in difformità dalle sue aspettative, può finire con il proiettare questa rabbia impotente verso chi persevera nel delegittimare la sua tesi sconfitta e coloro che l’avevano approvata e votata.
Anche in tal caso, il conflitto non produce le riflessioni critiche radicali che forse ci si aspetterebbe, e ancor meno quelle revisionistiche che i vincitori o taluni osservatori vorrebbero udire. Si pensi all’intervista rilasciata Renzi ad Ezio Mauro su La Repubblica del 14 gennaio e ai commenti che ne sono seguiti.
In realtà, l’affermazione, spesso proposta dai leader sconfitti, di non essere riusciti a farsi capire dal Paese, può essere, da alcuni interpretata come un’analisi autocritica corretta circa il proprio stile comunicativo e, da altri come un implicito giudizio contemporaneamente autoassolutorio e di condanna di un elettorato che non è stato capace di guardare alla sostanza giusta della proposta politica, un elettorato, cioè, che sarebbe reo di essersi fermato all’involucro in cui essa era confezionata. Questa seconda interpretazione è quella che di solito viene rinfacciata dal vincitore allo sconfitto, quando questi spiega la propria sconfitta elettorale in termini di un problema di comunicazione. E, in verità, si potrebbe sostenere che il denunciare da parte del vincitore la pochezza di tale analisi costituisce una semplice, ma efficace, mossa sul piano conflittuale, poiché apparentemente consente di mantenere la “luna di miele” con la maggioranza degli elettori, dicendo indirettamente ad essi che sono stati saggi a votare per lui e non per l’altro.
In conclusione: tutto quanto sopra proposto è naturalmente riconducibile alle più frequenti dinamiche conflittuali, rinvenibili anche in sede politica, però, in un’ottica di Political Conflict Management, sarebbe opportuno accogliere e riconoscere tali aspetti relazionali e i vissuti ad essi associati, precisando che ciò non implica in alcun modo il chiedere alle parti di convertirsi ad un atteggiamento superficialmente pacifista. Infatti, ammesso che teoricamente abbia qualche senso proporre un simile invito, il farlo, in realtà, potrebbe voler dire non far sentire riconosciuti i suoi destinatari, soprattutto se costoro si sentono impegnati a lottare per ciò in cui credono.
Semmai, per citare May Sarton, si potrebbe considerare che a volte, quando siamo nelle spire del conflitto, potrebbe essere necessario o conveniente per la nostra causa tentare di pensare come farebbe un eroe generoso, così da riuscire a comportarci e ad essere riconosciuti come esseri umani appena passibili.
Ad esempio, potrebbe non essere sterile considerare che certe affermazioni, indipendentemente dall’intenzione di chi le pronuncia, possono riuscire svalutanti all’orecchio di chi le sente. Specie se costui ha l’animo acceso e sensibilizzato dal conflitto in corso. Così, se è un dato di realtà il fatto che la maggioranza schiacciante dei giovani nel referendum costituzionale ha votato in un modo, il proporre tale dato, lasciando intendere che il voto espresso da quella parte anagrafica di elettorato abbia una maggiore qualità, può essere recepito dalla parte più anziana dell’elettorato in termini squalificanti. Come se il voto da essa dato fosse scadente, in quanto correlato ad una ridotta capacità di analisi dovuta all’età.
In sostanza, in tali situazioni, potrebbe avere una qualche utilità tentare di ascoltare e fare sentire ascoltati anche coloro che non hanno votato per noi o come noi. E, nel farlo tenere, conto anche della sensibilità o suscettibilità del cittadino-votante finito in minoranza.
Considerare simili aspetti, e assumere atteggiamenti politici coerenti con tale attenzione, non equivale a collocarsi sul registro di uno stucchevole “politicamente corretto” di facciata, ma significa perseguire il tentativo di ascoltare e riconoscere gli interlocutori, cioè le persone. Tutte.
Poiché, in fondo, si potrebbe supporre che, quel che vale per la libertà valga anche per il rispetto della dignità. Se non è tutelata quella di tutti non lo è, in realtà, quella di nessuno.
L’esperienza quotidiana e quella storico-politica insegnano che queste e altre attenzioni rivestono una certa efficacia anche come prevenzione dei rischi autodistruttivi di una esasperata conflittualità.
Infatti, per restare con le citazioni in ambito USA, si rammenti quel che disse Dwight David Eisenhower, generale d’armata e poi Presidente degli Stati Uniti (dal 1953 al 1961): «In realtà sono convinto che la gente desideri talmente tanto la pace che un giorno ai governi converrà lasciargliela godere». Il che non vale solo per le guerre, ma anche per quella conflittualità politica fisicamente non così violenta, ma connotata da messaggi costantemente intrisi di reciproche denigrazioni.
Alberto Quattrocolo
Buone pratiche d’inclusione: Vanessa Marotta
Abbiamo chiesto a Vanessa Marotta dell’Associazione LVIA di raccontarci il suo impegno e il suo punto di vista sul tema dell’inclusione dei migranti, in attesa del convegno “Stand by me”, cui parteciperà come relatrice della tavola rotonda del 26 maggio dedicata alle buone pratiche d’inclusione nel settore dell’arte e della cultura.
Il rispetto per l’umanità di chi è vittima di una violenza non (è mai stato) procrastinabile
È dura guardare la vittima di una violenza negli occhi. È un’esperienza forte per chiunque, a volte addirittura insostenibile.
Alcune settimane fa, il papà di un tredicenne picchiato da dei bulli ha deciso di pubblicare su Facebook le foto del volto tumefatto di suo figlio, per dire che bisogna fermare la violenza e che quanto successo a suo figlio non dovrà accadere più a nessuno.
«Non c’è privacy che tenga, e neanche la vergogna. Vergogna ne deve provare chi fa questi gesti, e non chi li subisce», ha spiegato alla Rai il papà dell’adolescente. «Questa denuncia pubblica è stata fatta perché mi interessava coinvolgere l’opinione pubblica. Non bisogna pensare che queste cose accadono solo agli altri o che non accadono, purtroppo sono cose che succedono e unico modo per combatterle sensibilizzare le persone sull’argomento, per questo ho pubblicato anche la foto in maniera molto cruda».
Uno dei vissuti più ricorrenti delle vittime di violenza (delle diverse forme di violenza) è quello della disumanizzazione. Ci si sente come se l’aggressore ci avesse trattato come un oggetto, come un pezzo di carne senza vita. E, tale percezione, spesso corrisponde davvero all’atteggiamento mentale dell’aggressore, che, infatti, azzera ogni capacità empatica nei confronti della vittima mentre la colpisce proprio per poterla colpire.
Fredric Wertham (1895-1981), psichiatra, nato a Monaco, ma emigrato negli USA nel 1922, dove divenne perito dei tribunali e un ascoltato consulente del Congresso, aveva sviluppato il concetto di “deumanizzazione”, spiegando che per l’aggressore degradare la vittima, svilirla, “deumanizzarla” facilita la commissione del reato, poiché gli consente di razionalizzare il suo operato e di mettere in campo maggiori “tecniche di neutralizzazione” e di disimpegno morale, quali: “non potevo fare altro”, “mi ha provocato”, “dovevo tenere fede alla parola data ad altri”, “ci sono cose più gravi rispetto a questa” (sono aspetti, questi, studiati e catalogati dal criminologo Matza, riguardanti l’eliminazione o la riduzione della responsabilità e della colpa, giustificando l’atto illecito, rendendolo meno grave o escludendone del tutto la rimproverabilità)
La vittima, dunque, si sente deumanizzata dall’autore della violenza, ma talvolta lo è anche da parte di altri. Da molti altri: dagli indifferenti, dai sodali o dai simpatizzanti dell’aggressore, da coloro che pensano che in fondo se l’era cercata, che “la sta facendo un po’ lunga”, che accadono cose anche più gravi, che poteva andarle peggio…
Sono atteggiamenti, questi, perfettamente accostabili a quelli dell’autore della violenza, il quale, spesso proprio su tale forma di pseudo o reale consenso trova un rinforzo o uno stimolo per aggredire. Non gli occorre, infatti, un grande sforzo per deumanizzare la vittima se altri vi hanno già provveduto o sono pronti a farlo.
La prima impressione che ebbi apprendendo la notizia sopra riportata fu che il papà di quell’adolescente – incidentalmente non andrebbe scordato che anche il genitore, il coniuge, il fratello, e in generale la persona affettivamente legata alla vittima è anch’essa una vittima di quella violenza – stava cercando proprio di riumanizzare suo figlio non soltanto agli occhi dei suoi aggressori ma anche, e forse ancor di più, davanti agli occhi del resto dei consociati, affinché la vittimizzazione subita non fosse ridotta ad una nota di cronaca, ad un fatto astratto, spersonalizzante e spersonalizzato, suscettibile di essere banalizzato, commentato con sufficienza o con distratta indignazione.
Qualche volta questa intuizione, questo sentirci vicini, nella vita di tutti i giorni si verifica. Qualche volta anche l’aggressore può avere dei momenti così e a volte, quindi, s’incrina quell’armatura mentale, emotiva, che ha la funzione di neutralizzare la consapevolezza di quel che sta per fare.
Tanto per fare un esempio cinematografico e alleggerire il discorso, si può ricordare una sequenza dei Soliti ignoti (Mario Monicelli, 1958). Peppe er Patnera (Vittorio Gassman), per poter con i suoi complici rubare i preziosi del banco dei pegni, attraverso un foro da effettuare nell’alloggio accanto, corteggia Nicoletta (Carla Gravina), la domestica delle proprietarie di quell’appartamento, così da poterle sottrarre le chiavi d’ingresso. Ma, mentre sono sul tram, dopo avergliele prese di nascosto dalla borsetta, rimane colpito dalla reazione di lei, che crede di averle smarrite e teme i guai che ne seguiranno. Egli sente l’ansia della ragazza, si fa, allora, passare la sua borsetta, vi rimette dentro le chiavi di nascosto e finge di averle trovate. La reazione della ragazza, dunque, lo ha costretto a realizzare che lei non è solo un “mezzo” per raggiungere il bottino, è una persona, è umana e ha delle reazioni umane.
Questa “intuizione” è mancata ai bulli che hanno aggredito quell’adolescente della provincia di Napoli. Chissà perché.
Nell’ambito di questo blog, è sensato ricordare che all’umanizzazione della vittima, però, spesso si oppone un aspetto relazionale, che interessa il rapporto tra essa e il suo aggressore o i fiancheggiatori e sostenitori (anche silenziosi di questo): la radicalizzazione del conflitto.
L’escalation del conflitto, infatti, può portare a danneggiare, offendere o denigrare l’altro, grazie anche ad una sorta di bilanciamento dei costi e dei benefici che favorisce il trattamento spersonalizzante e disumanizzante dell’interlocutore ridotto al livello di nemico: il beneficio perseguito può essere la realizzazione di un radicale miglioramento della situazione famigliare, lavorativa o politica (a seconda degli ambiti in cui si sviluppa il conflitto) o la risoluzione di una o più ingiustizie, però, accade, poi, poco alla volta, che inavvertitamente tale obiettivo si sposti oltre l’orizzonte e che la meta nitidamente stagliata sia quella dell’abbattimento, dell’umiliazione o dell’eliminazione del nemico, identificato con il male assoluto.
Anche nell’ escalation del conflitto politico, il costo accettato inizialmente in termini di sacrifici dei propri valori e principi, è assai limitato, circoscritto semmai a poche scivolate prevedibili e irrilevanti sul piano dei toni aggressivi, ma con il progredire e l’impennarsi del conflitto il raggio dei costi accettabili si estende e include anche aggressioni sul piano verbale, morale e psicologico, dal carattere sempre più violento, e poco importa chi ci va di mezzo o se le accuse scagliate e le polemiche avviate sono grossolane, imprecise e perfino ingiuste e infondate. In fondo, infatti, si pensa che contro un nemico diabolico non si sarà mai veramente ingiusti.
Inoltre, nel fuoco del conflitto, non si distingue più un granché tra nemici e neutrali, specie se questi ultimi esercitano attivamente la loro neutralità, tentando di richiamare le parti alla ragionevolezza e alla correttezza dei comportamenti.
Così, eufemisticamente, a chi le segnala si propongono le umane sofferenze provocate per eccesso nell’attacco o nella difesa come trascurabili incidenti di un percorso molto più vasto, benefico, virtuoso e importante, come effetti collaterali della più nobile delle lotte.
In altre parole, in tali situazioni si mette sotto sedativo la consapevolezza che le ingiustizie commesse hanno a lungo termine un costo ben più pericoloso e corrosivo di quello calcolato dapprincipio.
«C’era come una febbre in tutto il Paese, una febbre di vergogna, di indegnità, di fame. Eravamo una democrazia, sì, ma lacerata da conflitti interni», con queste parole il personaggio interpretato da Burt Lancaster in Vincitori e vinti (Stanley Kramer, 1961), Ernst Janning, alto membro della magistratura nel Terzo Reich e processato per crimini contro l’umanità comincia la sua dichiarazione spontanea nel processo di Norimberga. «Soprattutto c’era la paura, paura del presente, paura del domani, paura dei nostri vicini di casa, e paura di noi stessi. Solo quando comprenderete questo comprenderete quello che Hitler significava per noi. Perché egli ci disse ‘Sollevate la testa! Siate fieri d’essere tedeschi! Ci sono dei demoni tra di noi: comunisti, liberali, ebrei, zingari! Una volta che questi demoni saranno distrutti la vostra sofferenza sarà distrutta!’. Era la vecchia, vecchia storia, dell’agnello sacrificale. Ma dov’erano quelli di noi che capivano meglio, che capivano che quelle parole erano menzogne, e peggio che menzogne? Perché restammo in silenzio? Perché collaborammo? Perché amavamo la nostra patria. Che differenza fa se alcuni estremisti politici perdono i diritti civili? Che differenza fa se alcune minoranze etniche perdono i diritti civili? È solo una fase passeggera, solo una tendenza momentanea che verrà messa da parte prima o poi. Hitler stesso verrà messo da parte, prima o poi… Poi un giorno ci guardammo intorno… Quel che doveva essere una fase passeggera era divenuto un sistema di vita».
Nel discorso di questo personaggio c’è qualcosa di disturbante, di inquietante, di attuale, ancora oggi, forse di più oggi che non anche solo qualche decennio fa. Poiché come osserva poi il giudice Dan Haywood, interpretato da Spencer Tracy: «Se tutti i capi del Terzo Reich fossero stati dei sadici, dei maniaci, allora i loro misfatti non avrebbero più significato morale di un terremoto o di qualsiasi catastrofe naturale, ma questo processo ha dimostrato che in tempi di crisi nazionale le persone normali, e perfino quelle capaci ed eccezionali, possono indurre se stessi a condurre dei crimini così grandi e odiosi da sfidare qualsiasi immaginazione».
Quando ci autorizziamo alla violenza, quando alziamo l’asticella dei comportamenti aggressivi leciti o tollerabili e ci gettiamo nell’escalation del conflitto, rischiamo di trasformarci proprio in ciò che intendevamo guarire, risolvere, estirpare: cinismo, indifferenza, egoismo, individualismo, faziosità, menzogna, tradimento, disonestà, immoralità, abuso, sopraffazione, illegalità.
Però, non soltanto ce ne accorgiamo, ma a chi ce lo fa notare indirizziamo il più ostile risentimento. Lo odiamo perché l’invito all’auto-osservazione risuona alla nostre orecchie come un giudizio negativo su di noi e favorevole alla controparte (se mi critichi, mi dai torto; se non mi dai ragione, su tutto mi dai torto), oppure lo intendiamo come una richiesta di cessare la guerra giusta, santa, in cui siamo impegnati. E lo odiamo perché non vogliamo ammettere che non si può colpire l’avversario sotto la cintura, raccontarci che se lo è meritato e poi ritenerci e dirci che noi, a differenza sua, siamo persone perbene.
Ha scritto Johan Huizinga in Homo ludens: «E’ un ideale umano di ogni epoca quello di combattere con onore per una causa che sia buona. Questo ideale sin dall’inizio è violato nella sua cruda realtà. La volontà di vincere è sempre più forte dell’autodominio imposto dal senso d’onore. Per quanto la civiltà umana ponga dei limiti alla violenza a cui si sentono portati i gruppi, tuttavia la necessità di vincere domina a tal punto i combattenti che la malizia umana ottiene sempre libero gioco e si permette tutto ciò che può inventare l’intelletto».
Non oso mettere in discussione le sue parole, dato che trovano costantemente conferma, ma ciò non significa a mio avviso, che sia priva di senso, né che sia inutile dare una faccia e una voce alle vittime della violenza, si tratti di quella del bullo, dell’ex partner respinto che sfigura l’altro con l’acido o di quella commessa per amore di patria o di parte.
La riumanizzazione è fondamentale per la vittima, anche per aiutarla ad andare avanti, è fondamentale per tenere insieme i legami sociali, e forse lo è anche per evitare che certi momenti della Storia possano ripetersi con appena qualche irrilevante esteriore variante.
Alberto Quattrocolo
Supporto psicologico e inclusione: Alberto Quattrocolo
Abbiamo chiesto ad Alberto Quattrocolo – presidente dell’associazione Me.Dia.Re. – di raccontarci il suo impegno in materia di migrazione e il suo punto di vista sul contributo del supporto psicologico all’inclusione dei migranti, in attesa del convegno “Stand by me” del 25 e 26 maggio.
Buone pratiche d’inclusione: Edoardo Montenegro
Abbiamo chiesto a Edoardo Montenegro – co-fondatore di TwLetteratura – di raccontarci il suo impegno e il suo punto di vista sul tema dell’inclusione dei migranti, in attesa del convegno “Stand by me”, cui parteciperà come relatore della tavola rotonda del 26 maggio dedicata alle buone pratiche d’inclusione nel settore dell’arte e della cultura.
C’è in giro un virus di cui non si parla (abbastanza)
Ho aggiunto «abbastanza» nel titolo, mettendolo tra parentesi, perché non è vero che del virus più avanti specificato non se ne parli, ma mi pare proprio che non se ne parli a sufficienza.
Perché?
Probabilmente perché si attivano dei meccanismi di difesa di tipo psicologico e, verosimilmente, connessi con questi, se ne attivano altri di tipo sociale, culturale, morale e politico. Il principio e l’ideale della libertà di espressione e il timore di entrarvi in rotta di collisione, o di porsi al di fuori di ciò che, correttamente o no, si ritiene essere il pensiero dominante, cui si aggiunge forse la presenza di non trascurabili interessi economici e politici, potrebbero essere forti fattori di dissuasione dalla messa in campo di più radicali e unanimi mezzi di contrasto a questo virus.
Un virus che si diffonde ad una velocità impressionante e che sembra mietere vittime con l’efficacia propria delle epidemie non adeguatamente contrastate. Come in tutte le epidemie, del resto, chi ne viene contagiato diventa a sua volta vettore di contagio. Però, nel caso di questo virus la particolarità sta nel fatto che il contagiato per danneggiare altri esseri umani deve svolgere un ruolo attivo. Anzi, direi, per lo più consapevolmente attivo.
Messa in questi termini la questione, certo potrebbe evocare lo scenario di un film di fantascienza o di un horror, come L’invasione degli ultracorpi (1956) e La notte dei morti viventi (1968) con i relativi epigoni e remake cinematografici e televisivi. Ma, a parer mio, senza evocare visioni apocalittiche (e se l’ho fatto, me ne scuso e mi spiego: l’intenzione era quella, un po’ furbetta, di destare curiosità e attenzione), la diffusione della violenza verbale che circola nel web, in particolare sui social, è accostabile ad un fenomeno contagioso.
Un fenomeno rispetto al quale pare difficilissimo farne rilevare, anche a coloro che usano la rete, il duplice risvolto dannoso.
Quello del danno diretto, che è patito dalle persone bersaglio delle parole svalutanti, offensive, denigratorie e diffamatorie. E quello del danno indiretto, consistente nell’esempio (negativo) che stimola l’emulazione e rinforza la slatentizzazione ad agire pubblicamente – ma al riparo da conseguenze sanzionatorie – i meno nobili impulsi sommariamente vendicativi, sadici o persecutori.
Sarebbe, importante, ritengo, però, abbandonare l’atteggiamento che anche nelle precedenti righe io ho seguito, cioè quello del giudizio, per affrontare tale “virus” con strumenti diversi. In particolare, direi che l’approccio dovrebbe essere quello di voler tentare di comprendere anche sul piano emotivo e psicologico cosa c’è sotto questo fenomeno, visto che sembra riprodursi su una scala fino a qualche tempo fa impensabile e con una complessità e stratificazione di significati e implicazioni inedite. Sembra, ad esempio, potersi superficialmente ravvisare qualcosa di molto simile a dinamiche di gruppo e sociali da sempre conosciute coniugate con aspetti indagati da diverse anche moderne o più recenti discipline (in un precedente post mi ero già soffermato su questo tema, sia pure con un’altra prospettiva, citando alcune analisi condotte sul tema di questa forma di violenza e prendendo spunto dalla denuncia del presidente Mattarella, nel suo discorso di fine anno, riguardo all’odio e alla violenza verbale nella lotta politica).
Contrastare questo “virus” con le armi del giudizio (morale, etico, religioso…), calato dall’alto e proposto da agenzie ufficiali, pertanto, può essere utile a livello di denuncia, ma mi pare dubitabile che significhi incedere efficacemente sui sintomi e sulla cause.
Rispetto ai primi, però, potrebbe avere una, sia pur limitata, utilità l’assunzione di un atteggiamento attivo da parte di coloro che non sono stati ancora contagiati: cioè, interrompere l’apparente passività tipica delle cosiddette maggioranze silenziose.
Infatti, potremmo avere qualche difficoltà ad assolverci dalle nostre responsabilità di consociati, se ci dicessimo o continuassimo a dirci, che noi siamo a posto con noi stessi, in quanto non prendiamo parte sul web all’invettiva offensiva, alla calunnia, alla diffamazione o all’ingiuria. Certamente, il non farlo è già qualcosa, ma non basta.
Ormai, penso, tocca a chi non si è fatto contagiare da questa forma virale e a chi ne è guarito, farsi anticorpo educato e rispettoso contro il virus della violenza. Cioè, credo che non basti più astenersene ma che occorra esprimere con garbo e fermezza quando si leggono parole violente che, pur riconoscendo e rispettando la rabbia, l’indignazione, la disperazione e la stanchezza o la frustrazione si disapprovano le espressioni con le quali a questi stati d’animo si dà voce. Sarebbe necessario, cioè, in questa prospettiva, non rifiutare o biasimare le emozioni (ci mancherebbe altro), ma la forma con cui sono proposte. Non isolare, pertanto, il commentatore arrabbiato, ma respingere le sue parole se sono violente (offensive, infanganti, minacciose, ecc.).
Occorre un certo coraggio, anche fisico, per accorrere personalmente in difesa della vittima di un pestaggio mentre i suoi aggressori la colpiscono, ma per frapporsi tra la vittima di una violenza virtuale e coloro che la colpiscono non occorre una particolare audacia. Basta autorizzarsi a dare voce in termini rispettosi alla propria disapprovazione
Ho l’impressione, inoltre, che se si vuole evitare una crescente censura organizzata sulla rete, se si è preoccupati per le implicazioni che comporterebbe e se si è, quindi, contrari ad essa come lo si è alla violenza sul web (che è non meno liberticida), allora direi che occorrebbe legittimarsi a censurare quest’ultima personalmente, rifiutandola con parole ovviamente rispettose ma esplicite.
La mia è una proposta, certamente non così nuova, di impiego di un farmaco a disposizione di tutti noi, il cui costo è quantificabile nei termini di un paio di minuti del nostro tempo e che potrebbe funzionare, come insegna la Storia, anche quella del nostro Paese.
Per impiegare e diffondere questo vaccino, però, non occorre attendere o sollecitare l’esempio dei politici. Cioè, si può ed è opportuno chiederlo, ma attendere passivamente il loro intervento unanime, mi parrebbe un ipocrita e ingenuo alibi, proposto a sostegno della propria inazione, nonché della propria omissione di soccorso rispetto alle vittime della violenza sul web.
Un alibi che ritengo ingenuo perché trascurerebbe il dato spettacolare del protagonismo ricorrente nella violenza sui social proprio da parte di non pochissimi esponenti politici, sia come autori diretti di tali condotte che come mandanti. Oppure come firmatari di masse di metaforiche licenze di offendere e denigrare, con il loro essere tolleranti e benevolenti verso i più brutali sostenitori delle loro ragioni politiche (anche a tali aspetti, sia pure con prospettive diverse, avevo già dedicato due post, il 28 e il 31 gennaio).
Ancora un’annotazione: ho l’impressione che l’efficacia antivirale dell’approccio qui ipotizzato sarebbe accresciuta notevolmente se la disapprovazione del linguaggio violento fosse indirizzata a coloro di cui si condividono le istanze, le ragioni di fondo, le appartenenze o simpatie politiche, ecc. Il dissociarsi dalla violenza di chi, almeno nominalmente, milita dalla nostra parte non significa affatto indebolire lo schieramento delle forze impegnate in una determinata lotta, ma al contrario, tentando di ri-orientarne le modalità, vuol dire supportare una forma di lotta per le proprie idee e la propria parte politica non solo più corretta ma, in ultima analisi, davvero più efficace.
E mi pare che tutto ciò potrebbe avere un effetto concretamente più significativo di un proliferare di convegni, di dichiarazioni di principio e di condanna, di pubblicità-progresso o di formazioni nelle scuole (ripeto: non che credo che non servano, ma dubito che da soli tali strumenti bastino).
A proposito di scuole e di giovani. Forse non le ricerche in materia, ma il banale (e, invero, fallibile) buon senso suggeriscono che la violenza verbale degli adulti sui social difficilmente rappresenta un efficace mezzo di contrasto a quel terribile fenomeno che è il bullismo.
In chiusura credo si possa dire che esprimere il proprio dissenso dalla violenza aiuti a superare in parte il senso d’impotenza e di vittimizzazione da cui capita di sentirsi sopraffatti quando si è in presenza di manifestazioni di prevaricazione e di abuso. E, almeno rispetto al tema fin qui trattato, se Dio, come accade nella Genesi, ci dicesse «Caino, dov’è Abele, tuo fratello?», potremmo rispondere con serenità che è qui, vicino a noi, e che stiamo vegliando su di lui.
Alberto Quattrocolo.
La criminalizzazione dell’avversario
L’esperienza di Ilaria Capua (sospettata di avere commesso crimini abominevoli, punibili con l’ergastolo, e poi riconosciuta del tutto innocente), da essa raccontata in diverse occasioni, nonché in un libro appena uscito e nell’intervista condotta il 9 aprile da Giovanni Minoli nel suo programma Faccia a faccia, in onda su La 7, non è un caso isolato. La storia degli scontri politici a tutte le latitudini, anche in ordinamenti democratico-liberali, caratterizzati cioè dalla separazione dei poteri, è punteggiata di vicende in cui esponenti politici, accusati di aver commesso dei reati e poi rivelatisi innocenti, sono stati criminalizzati dai loro avversari.
Di fatto, questa demonizzazione è una forma di vittimizzazione, poichè la criminalizzazione (anche sui social media o proprio a partire da quelli) può produrre contemporaneamente un danno primario e un danno secondario.
Il danno primario è quello che in tutte le vittime di un reato deriva immediatamente e direttamente dal fatto lesivo, ed è fisico (le conseguenze fisiche clinicamente accertabili), materiale (i danni alle cose o quelli economicamente valutabili) e psicologico (che spesso dura assai più del danno fisico o materiale). Quest’ultimo, in particolare, consisterebbe in: senso di insicurezza, di vergogna, d’impotenza, di colpa e di inadeguatezza, una caduta dell’umore… E può dare luogo a patologie vere e proprie. Anche per il diffamato o il calunniato le conseguenze possono essere gravi: si pensi alle vicissitudini giudiziarie di Enzo Tortora e alla sua morte provocata dalla malattia sviluppatasi a seguito dell’ingiusta accusa, della altrettanto ingiusta detenzione e della spietata e diffusa diffamazione di cui fu oggetto (Massimo Giusio in Giusio M., Quattrocolo A., 2014).
Oltre ai pregiudizi fisici, materiali e psicologici, la vittima di un reato affronta un possibile ulteriore tipo di danno, quello secondario (psicologico, ma che può avere pesantissime ricadute sul corpo), derivante da atteggiamenti di svalorizzazione, incomprensione e complessiva mancanza di tutela da parte delle agenzie di controllo sociale formale. Un esempio di “rivittimizzazione processuale”, nel caso dei reati sessuali, si ha quando l’interrogatorio della vittima è caratterizzato dal tentativo di colpevolizzarla e delegittimarla moralmente.
In realtà, un aspetto centrale del danno primario e del danno secondario è il mancato riconoscimento della vittima come essere umano. Il vissuto di chi subisce una violenza (fisica, psicologica, ecc.), infatti, è quello di non essere stato considerato come un essere umano (mi ha trattato peggio di un cane, si sente dire da molte vittime nei nostri servizi gratuiti di ascolto e sostegno psicologico per le vittime di reato doloso e colposo e per i loro famigliari, per le donne vittime di violenza e per richiedenti asilo, rifugiati e titolari di protezione internazionale). Un aspetto fondamentale, però, per l’elaborazione e il superamento del danno primario, nonché per supportare le possibilità di autotutela della vittima, è proprio quello del riconoscimento da parte degli altri e delle istituzioni della natura ingiusta del danno inflittole (si pensi al giovane vittima di bullismo, alla vittima di violenza domestica o al minore vittima di maltrattamenti o abusi sessuali, che faticano a “legittimarsi” il passo decisivo della denuncia).
Nel caso di chi è indagato o accusato ingiustamente di un crimine, il paradosso è che proprio l’iter giudiziario produce un danno alla persona e le nega quel riconoscimento. Ma, se si tratta di una personalità pubblica, in certa misura, il riconoscimento dell’ingiustizia patita (la falsa o gravemente errata accusa) è ancor di più intaccato, anzi, talvolta, negato in maniera drammatica, dai media e dai commenti sui social.
L’emarginazione sociale procurata dalla campagna di screditamento, lo stigma, il biasimo e il disprezzo collettivo sollecitati mediante i media, infatti, possono produrre nell’interessato una solitudine, un’amarezza, un dolore e un senso di isolamento e accerchiamento, che si aggiungono agli stress, alle ansie e alle sofferenze legate al traumatico rapporto con la giustizia.
Del resto, lo scopo di una campagna criminalizzante è far sì che quell’individuo sia considerato dai cittadini come un appestato, come un soggetto spregevole da evitare. Pertanto, sebbene tale demonizzazione non sia intesa ad autorizzare moralmente e socialmente in maniera diretta il compimento di atti violenti a loro danno (sul piano fisico e morale, per esempio in termini di offese alla reputazione), nondimeno favorisce un clima culturale in cui quel tipo di atti non verrebbero inequivocabilmente e incondizionatamente condannati, cioè favorisce il diffondersi di un sentimento in base al quale potrebbe essere se non moralmente lecito, facilmente perdonabile offendere senza tanti riguardi questo o quell’individuo o gruppo, non essendo meritevoli di alcun riguardo.
Sotto questo punto di vista, la criminalizzazione dell’avversario politico coinvolto in indagini giudiziarie, presenta non poche affinità con la cosiddetta legittimazione culturale e sociale della vittimizzazione. Ad esempio, certe rappresentazioni presenti in una società relative a determinati gruppi o categorie di persone, riducendone o annullandone l’umanità, favoriscono la commissione di reati nei loro confronti, poiché riducono le possibilità di empatia nei loro riguardi e, quindi, l’attivazione di freni inibitori ad essa correlati in chi commette abusi e violenze (si pensi alla violenza contro chi appartiene ad una minoranza disprezzata o derisa). Però, normalmente, questa legittimazione sociale è una ulteriore perversione degli stereotipi negativi e dei pregiudizi esistenti nella società, mentre la criminalizzazione dell’avversario politico, attraverso le dichiarazioni sui social media, le interviste, i dibattiti nei talkshow, può sviluppare il disprezzo o l’odio di tutti i cittadini nei confronti di determinate persone, e delle forze politiche cui appartengono o sono vicine, e sfrutta vecchi stereotipi e pregiudizi o ne crea altri ad hoc. E, così facendo, dà luogo ad uno sfondo di potenziale legittimazione alla violenza verbale (che è anche morale e può essere perfino violenza psicologica) nei riguardi del soggetto criminalizzato. Il quale, infatti, viene spersonalizzato e deumanizzato.
Si pensi, ad esempio, alla straordinaria quantità di commenti offensivi e denigratori (anche se non vengono tutti querelati – sarebbe impossibile farlo – costituiscono in ogni caso concretizzazione di almeno una fattispecie penale sanzionata dal nostro codice sotto la definizione di diffamazione) indirizzati alle personalità pubbliche interessate da vicende giudiziarie e poi, magari, scagionate.
Più in particolare, rispetto al caso di Ilaria Capua, i politici di altri partiti o movimenti, i commentatori e i cittadini comuni che l’hanno infangata e offesa potrebbero non avere in alcun modo pensato all’impatto che le loro parole avrebbero avuto su di lei e su coloro che l’amano, cioè non l’avrebbero riconosciuta come un essere umano simile a loro, proprio poiché circolava una legittimazione di fondo ad aggredirla. Infatti, poteva non essere considerata in alcun modo come ipotetica vittima di una falsa accusa, dandosi per acquisita la certezza della sua colpevolezza: ecco, dunque, rispuntare la colpevolizzazione della vittima come meccanismo mentale di neutralizzazione della consapevolezza circa il danno che si va a fare o che si è fatto.
Un effetto non secondario della gogna mediatica (anche nel senso dei social media), che tanto ricorre nel conflitto politico (si veda al riguardo i post su questo blog del 7, 8 e 15 febbraio 2017) con notevole trasversalità (non occorre qui citare l’esperienza di Stefano Graziano, gli attacchi di cui fu oggetto la sindaca di Roma, Virginia Raggi, né quelli legati al caso, per fortuna velocemente risolto, che in quell’inchiesta riguardava gli sms di Luigi di Maio), dunque, potrebbe essere una forma di legittimazione morale, culturale e politica ad aggredire l’indagato o l’imputato (a volte anche la persona offesa da un reato), senza alcun riguardo per la sua umanità e trascurando radicalmente il fatto che è presunto non colpevole e non presunto reo.
Spesso, però, a supporto di un atteggiamento colpevolista e criminalizzante si richiama il principio della responsabilità politica, considerandolo come un aspetto disgiunto dalla responsabilità penale, il cui acclaramento spetta, invece, alla magistratura ed è sottoposta alla presunzione di non colpevolezza.
In effetti, quello della responsabilità politica, in generale, non è un argomento di poco conto. Però, se si vuole evitare di dare luogo alla colpevolizzazione di una possibile vittima di un’accusa ingiusta (penalmente e sotto altri aspetti) ed essere rispettosi della sua umanità a livello elementare, cioè onde non incappare in qualcosa di simile alla criminalizzazione spietata dell’altro, occorrerebbe considerare le implicazioni derivanti dal fondare le accuse di inadeguato comportamento politico soltanto su fatti appresi dall’unica fonte delle ipotesi accusatorie formulate nell’iter giurisdizionale. Inoltre, sarebbe bene accorgersi del fatto che si può correre il rischio di avvalersi consapevolmente della teoria della responsabilità politica mentre inconsapevolmente si sta attivando qualcosa di simile a quei meccanismi di disimpegno morale messi in atto dai delinquenti per non sentirsi responsabili delle azioni delittuose e dei loro effetti (Bandura A., Social foundations of thought and action: A social cognitive theory, 1986). In particolare: la giustificazione morale, consistente nel richiamarsi ad un ideale superiore (la lotta alla disonestà, alla corruzione e all’illegalità) per giustificare gli insulti e le offese alla reputazione o le illazioni sull’immoralità dell’indagato e dei suoi compagni di partito; l’etichettamento eufemistico, che in tal caso non consiste nell’uso di termini quali “bombe intelligenti” o “pulizia etnica”, ma, ad esempio, “pulizia morale”; il confronto vantaggioso, con cui il reo trasforma comportamenti lesivi in azioni morali e che, in tal caso, si può riassumere nel minimizzare il danno all’immagine dell’indagato ponendo sull’altro piatto della bilancia la portata devastante e la quantità di vittime indirette provocate dall’illegalità diffusa nel mondo degli affari e della politica («tanto è più oltraggioso l’operato confrontato, tanto è più probabile che la nostra condotta deplorabile appaia irrilevante o addirittura benevola», sottolinea Bandura); la diffusione della responsabilità per cui “se tutti sono responsabili allora nessuno è responsabile”, come accade quando a ledere la dignità di una persona sono una pletora di individui; la non considerazione o distorsione delle conseguenze, cosicché i soggetti danneggianti possono autoassolversi dicendo, ad esempio, che quell’indagato è ricco e può pagarsi le cure psicologiche o psichiatriche; la deumanizzazione della vittima, che agisce sulla capacità empatica del danneggiante e consiste nel “degradare” l’accusato dal suo stato di essere umano, e l’attribuzione di colpa, in virtù della quale un espediente utile per trovare una giustificazione alla propria azione diffamatoria o ingiuriosa è quella di prendersela con l’avversario che ne è oggetto, sostenendo che se lo merita.
In conclusione, mi pare che si possa osservare che quanto sopra proposto sia un aspetto, una conseguenza, dell’escalation del conflitto politico, tante volte presa in considerazione su questo blog.
Alberto Quattrocolo