Potrebbe esserci “un condizionamento emotivo reciproco” tra i cittadini e i politici che parlano alla loro pancia”?

L’ipotesi proposta è che dal rapporto tra politico (soggetto o partito) “che parla per lo più alla pancia” e cittadini potrebbe prodursi una situazione nella quale il potere effettivo  finisca con l’essere prevalentemente in mano all’esasperazione e all’estremizzazione emotiva.

Infatti, un’ipotetica acquisizione del consenso maggioritario derivante dal proporsi come diretti traslatori sul piano politico-istituzionale della paura, della rabbia, dello scontento e della sfiducia dei cittadini, mi pare, che potrebbe influenzare contemporaneamente sia il piano legislativo e amministrativo che il rapporto stabilito con l’elettorato: se una parte consistente dei cittadini fossero ipernutriti nel corso della propaganda elettorale da una comunicazione prevalentemente emotiva e, dunque condita di espliciti, o impliciti e perfino involontari, messaggi sulla percorribilità di una radicale semplificazione dei problemi e delle soluzioni, allora, poi, la loro attesa potrebbe essere quella di risultati precisamente corrispondenti a quelli immaginati. Così, se si comunicasse prima delle elezioni a tambur battente che la rabbia, la frustrazione e la paura dei cittadini trovano la causa principale nei guai della comunità dovuti all’indecisione, all’irresolutezza, all’incapacità o all’immoralità della leadership precedente, pur inviando anche messaggi espliciti tesi a ridimensionare aspettative fantastiche in caso di vittoria elettorale (si veda anche il post su Grillo e Renzi rivendicano...), le attese degli elettori, dopo lo spoglio delle urne, potrebbero essere poco aderenti al piano di realtà.

Del resto perché dovrebbero esserlo? Se gli è stato spiegato, e se ormai credono profondamente anche loro, che la causa dei disagi e delle ingiustizie è tutta riconducibile alle colpe dei “cattivi” e/o degli “incapaci” che hanno governato finora, con l’arrivo dei “buoni” e/o dei “capaci” sarebbe logico prevedere la rapida risoluzione dei problemi e delle sofferenze della società.

Consapevole del carattere cogente di tali aspettative, il partito che avesse vinto le elezioni parlando alla pancia, allora, potrebbe essere: indotto, da un lato, ad un’attività legislativa e amministrativa che invera la “legge di Grossman: “i problemi più complessi hanno soluzioni semplici, facilmente comprensibili e sbagliate” (Arthur Bloch). Quindi, potrebbe trovarsi costretto ad un’attività contraddistinta da un’ottusa coerenza con gli slogan elettorali e le rappresentazioni drastiche del suo elettorato, volontariamente o involontariamente suscitate durante la campagna, sulla sua successiva azione di governo; dall’altro, a giocare in difesa, non potendosi mai permettere di dire che nella campagna elettorale è stato troppo tranchant e che in fondo ha promesso troppo, ammettendo quel che, in generale, capita ad ogni essere umano, cioè di non riuscire nei fatti ad essere all’altezza della propria eloquenza. Infatti, al di là delle note caratteriali favorevoli o meno a tale tipo di manifestazione di onestà (scusarsi per l’errore), a disincentivarla vi sarebbe presumibilmente l’azione comunicativa di almeno qualcuno degli altri partiti usciti sconfitti dalla tornata elettorale. Costoro, si può ancora ipotizzare, avrebbero gioco facile sia nel rinfacciare la difformità tra le promesse fatte e quelle mantenute – potendo, così, sottolineare la validità delle critiche rivolte nella campagna al carattere irrealistico del programma poi, invece, premiato dagli elettori -, sia nel seguire l’esempio comunicativo del vincitore, cioè a loro volta prospettare soluzioni facilmente intellegibili e non implicanti complesse spiegazioni. Non ci vuole, poi, molto, in effetti, nei momenti di disperazione diffusa, stando all’opposizione, ad apparire rassicuranti: potrebbe bastare proporsi come immuni da dubbi e confermare all’elettorato la sua irresponsabilità rispetto ai problemi dell’epoca o del momento.

Nelle condizioni fin qui immaginate, alla nuova leadership di governo, per tentare di preservare l’immagine velatamente eroica e mitica costruita nel periodo pre-elettorale agendo con e sulle emozioni dell’elettorato, rimarrebbe ancora l’argomento duplice, provvisoriamente efficace, sebbene tante volte veritiero, della portata insospettabile dei relati guasti compiuti dalla precedente amministrazione e della resistenza disperata, ma subdola e sotterranea, dell’establishment al cambiamento.

Però, tale argomento a lungo andare cozzerebbe con un ostacolo: se il cittadino non si rendesse conto del rapporto di forte identificazione instauratosi e di avere fatto proprie le categorie, gli schemi, le interpretazioni della realtà, talora gli slogan, del rappresentante, idealizzato come proprio fedele interprete, si aspetterebbe che costui agisse effettivamente sul piano della politica le emozioni di cui si era fatto traslatore nella campagna elettorale (emozioni, che magari aveva alimentato e in qualche occasione forse anche insinuato). E, se una volta al governo (di una città, di una regione o dello stato) la realtà inibisse l’attuazione del programma politico percepito dall’elettorato (che può non essere sovrapponibile a quello messo nero su bianco, ma contano le percezioni), il cittadino, difficilmente diverrebbe consapevole della sua eccessiva idealizzazione. Infatti potrebbe evitare di mettere in discussione tale dimensione psicologica e preservare la giustezza dei sentimenti e delle emozioni precedentemente provate, rappresentandosi come portatore di un’innocenza tradita dal politico rivelatosi a conti fatti uguale a tutti gli altri. Sarebbe alquanto difficile, cioè, che quel cittadino, nella condizione qui prefigurata, realizzasse di avere posto in essere i perfetti presupposti emotivi e relazionali di quell’eccesso di fiducia,  che sono prodromici a far sì che possa poi percepirsi vittima di un abuso di fiducia da parte del politico non appena l’azione di questo, dovendosi misurare con la realtà, non gli appaia più all’altezza dei risultati attesi.

Naturalmente al di là del tono profetico con il quale mi sono espresso in questo e nei due post precedenti – La politica che parla (soprattutto) alla pancia e La politica che non parla (o parla poco) alla pancia ma (soprattutto) alla testa -, ritengo che il principio del beneficio d’inventario e quello della presunzione della buona fede dovrebbero applicarsi anche riguardo al politico che parlando alla pancia ottenesse la maggioranza dei consensi.

Non credo, però, che nella dinamica dell’escalation del conflitto politico tali criteri siano facilmente dispiegati dalle parti. Per lo più anzi si annacquano fino ad essere affogati. Infatti, se non sono stati, in ipotesi, rispettati dalla minoranza prima delle elezioni, quando al governo vi erano altri leader o altre forze politiche, difficilmente sarebbero applicati da parte di costoro, una volta che siano finiti all’opposizione. E, in tal modo, se i ragionamenti fin qui fatti tengono, il cerchio si chiude. Cioè, in conclusione e ricapitolando: l’escalation del conflitto politico pre-elettorale avrebbe impedito l’ascolto politico tra i leader e i partiti in campo e tra questi e i cittadini, non agevolando o addirittura ostacolando la capacità di pensare di (quasi) tutti: i politici al governo, quelli all’opposizione, i nuovi o i vecchi vincitori, quelli che vanno o che restano all’opposizione, i cittadini-elettori.

Ultima annotazione: mentre in altri post vi era un riferimento esplicito ad affermazioni proposte da politici italiani (La campagna di ascolto lanciata da Renzi offre l’occasione per ribadire che l’ascolto politico non è un’azione di seduzione politica), la suggestione alla base di questo proviene soprattutto dal cinema: due trasparenti metafore anti-maccartiste, Johnny Guitar (Nicholas Ray, 1954) e La campana ha suonato (Allan Dwan, 1954), Mystic River (Clint Eastwood, 2003) e, in qualche misura, La giusta distanza (Carlo Mazzacurati, 2007).

 

Alberto Quattrocolo

La politica che non parla (o parla poco) alla pancia ma (soprattutto) alla testa

Blaise Pascal in uno dei suoi Pensieri propone “due eccessi: escludere la ragione, non ammettere che la ragione”. Da sempre uno dei compiti della politica consiste nel prestare attenzione alla pancia dei cittadini. In senso buono, cioè virtuoso, tale attenzione consiste nel tenere presente e tentare di soddisfare: da un lato, i bisogni materiali delle persone, quindi quello di avere abbastanza di cui sfamarsi in modo sano ed equilibrato, di avere un tetto sulla testa, ecc.; dall’altro, esigenze e aspetti aventi una natura prevalentemente emotiva, morale e relazionale, senza trascurare quelli che si chiamano i diritti civili, i bisogni culturali, ecc.

In senso meno virtuoso, viene in mente l’espressione di Giovenale (satira X), secondo la quale il popolo “due sole cose ansiosamente desidera: pane e giochi circensi”(panem et circences).

Quest’ultima formula è stata poi usata per definire criticamente quella tipologia di azione politica volta ad attrarre e mantenere il consenso popolare attraverso l’organizzazione di spettacoli e attività ludiche collettive, così da distrarre l’attenzione del popolo dai problemi della cosa pubblica, così da conservarne il controllo e la gestione alla sola élite al comando.

Domenico Starnone sulla rubrica “Parole” di Internazionale, in particolare sul numero 1192 (17/23 febbraio 2017) aveva scritto un articolo dal titolo “La via del colon” in cui osservava che quei politici che sanno parlare alla pancia e facendolo riuscirebbero, secondo alcuni, a dire cose nuove e giuste, in realtà starebbero chiedendo di mandare in letargo la «vecchia e desueta ragione» per poter veicolare con maggiore efficacia le loro proposte.

Ho l’impressione, però, che anche il rivolgersi alla sola ragione non sia soltanto un eccesso, come affermato nel citato pensiero di Pascal, ma anche un modo di porsi in rapporto alla cittadinanza che, involontariamente, può incastrare la dinamica relazionale sul piano prettamente emotivo, per così dire: irrazionale.

Innanzitutto, però, si può pensare ad una delle cause per le quali, per ipotesi, una forza politica trascurerebbe, o più probabilmente, potrebbe dare l’impressione di trascurare, questa componente del rapporto con la cittadinanza.

La prima delle possibili cause di tale eventuale atteggiamento, mi pare, potrebbe risiedere nel fatto che quella forza politica sia, in realtà, in conflitto con le emozioni e i sentimenti circolanti (rabbia, paura, sfiducia, insoddisfazione, senso di abbandono, ecc.) e, soprattutto, con i valori che parrebbero essere implicati, considerandoli perfino disvalori.

In tal caso, pertanto, il conflitto – anche non dichiarato – sarebbe collocabile sul piano politico-culturale-emotivo. Cioè, i valori implicitamente o esplicitamente evocati dagli stati d’animo sarebbero considerati da quella forza politica disvalori da contrastare e sradicare, mentre gli stati d’animo sarebbero giudicati come pericolosi e, in quanto tali, da arginare e sedare.

Naturalmente la forza politica in questione, pur in conflitto, potrebbe guardarsi dal reagire in maniera troppo esplicitamente combattiva contro la popolazione pervasa di quegli stati d’animo, preferendo eluderne le emozioni scomode e rivolgersi a quella porzione di cittadinanza cercando portarla a concentrarsi su altri temi.

Un’altra opzione possibile è che quella parte politica ribatta criticamente sul piano dei valori e delle azioni politiche direttamente o indirettamente richieste, pur dichiarando di comprendere gli stati d’animo.

La terza alternative potrebbe consistere nel negare a quei sentimenti presenti in una parte (minoritaria o maggioritaria di una popolazione) diritto di cittadinanza in virtù della loro mancata corrispondenza con i dati di realtà, affermando, ad esempio, che non trovano conferma nelle statistiche, nelle analisi e negli studi ufficiali.

L’ultima possibilità potrebbe essere quella di non accusare il colpo, di ignorare o almeno dare poco spazio a bella posta, alla rabbia, alle paure, allo scontento, ecc. e di evidenziare e rilanciare, anche mediaticamente, i sentimenti positivi e favorevoli o “le iniziative dal basso” che ne sono testimonianza concreta e simbolica.

Poiché non si può fare a meno di comunicare e di meta-comunicare, tutte queste alternative avrebbero delle implicazioni e, aggiungerei, dei costi.

La prima delle precedenti modalità relazionali ipotizzate, infatti, comunica implicitamente o che non sono stati rilevati, per distrazione, quei sentimenti e quelle emozioni, oppure che non sono meritevoli di attenzione. Difficilmente la cittadinanza attraversata da tali scomodi vissuti potrebbe sentirsi ascoltata, in tal caso. E verosimilmente potrebbe essere indotta a ritenere che tale atteggiamento elusivo riveli un’arrogante forma di superiorità, riconducibile, nella rappresentazione mentale che potrebbe costituirsi, all’appartenenza dei politici in questione alla schiera dei privilegiati. In sintesi: “non ci capite e non ci volete capire perché  ve ne state ben pasciuti al caldo e al sicuro”.

La seconda opzione prefigurata (dichiarare di comprendere la pancia ma di disapprovare la tipologia di valori e di azioni legislative e amministrative cui quei vissuti nel caso di specie rinvierebbero) potrebbe essere efficace, se i vissuti non fossero troppo radicati e troppo profondamente disturbanti, ma anche in tal più favorevole caso è dubitabile che funzionerebbe. Apparirebbe probabile, infatti, che sul piano della relazione il messaggio principalmente ricevuto sia quello del giudizio negativo in termini morali ancor prima che politici. Difficilmente, quando ci si sente giudicati negativamente sul piano morale per le emozioni che si provano, si è disponibili a mettersi in discussione. Anzi, più frequentemente ci si convince sempre di più della correttezza delle azioni che si vorrebbe fossero intraprese e si ricambia colui che ci giudica giudicandolo negativamente a nostra volta. In tal caso, nuovamente, il pensiero (giudicante) di quella popolazione sarebbe all’insegna del “non ve ne frega niente e vi permettete di giudicarci, perché il problema non è vostro ma nostro, ma se i ruoli fossero inverti sareste molto più intolleranti e reattivi di noi”.

La terza alternativa (prospettare i dati ufficiali che segnalano un miglioramento della situazione sociale cui si ricollegherebbero quegli inappropriati o esagerati vissuti di disagio), dal punto di vista relazionale, incontrerebbe l’ostacolo di quello che, ai cittadini in questione, apparirebbe come un tentativo di disinformazione ufficiale. Infatti, se ho la percezione che la situazione sia grave e pericolosa, è alquanto improbabile che la presentazione da parte di qualche agenzia governativa o internazionale di analisi che disconfermano la mia percezione mi rassicuri, avendo io sempre sulla pelle o davanti agli occhi ciò che ritengo essere dei veri stimoli informativi di contenuto opposto a quelli. In una simile situazione, rispetto al politico che proponendo quei dati non ascolta “la sua pancia”, il pensiero del cittadino arrabbiato, turbato o in ansia potrebbe essere condensato nei seguenti termini: “i tuoi dati sono falsi e me li spacci per veri per prendermi in giro e disinteressarti della mia condizione”.

La quarta alternativa (dare spazio agli esempi e alle voci di coloro che hanno trovato o che stanno cercando rimedi individuali o collettivi al disagio e non a coloro che non lo hanno fatto), potrebbe lusingare una parte della popolazione e offendere l’altra (magari la più numerosa) nell’esatta misura con la quale si dichiara di apprezzare la prima. Infatti, in termini comunicativi, la forza politica che adottasse tale tipo di comunicazione, sia pur involontariamente, potrebbe trovarsi ad essere fraintesa, come se trasmettesse un implicito giudizio negativo nei confronti di quella parte della popolazione che non ha reagito come quella parte della cittadinanza il cui comportamento risulterebbe maggiormente apprezzabile. Anche in tal caso, in termini liquidatori il vissuto relazionale della popolazione interessata da vissuti scomodi e dolorosi potrebbe essere sintetizzata così: “il tuo citare esempi che giudichi virtuosi equivale a stigmatizzare come viziosi tutti gli altri e, soprattutto, è una forma ipocrita di sordità intenzionale ai problemi della gente comune, sicché sei solo teso a giustificare la tua inazione e il tuo disinteresse

L’elemento comune, dunque, alle implicazioni relazionali sopra prefigurate in ordine ai possibili atteggiamenti di politici che non prestano attenzione “alla pancia” del cittadino è riassumibile negli ulteriori vissuti sgradevoli che quelle modalità relazionali possono provocare. Vale a dire: sentirsi etichettati come vittimisti, intolleranti, collerici e/o fobici; sentirsi trattare alla stregua di bambini capricciosi e incontentabili o come adulti puerilmente egoisti, lagnosi e incapaci di reagire. Tutto ciò, oltre alla sensazione di essere giudicati sul piano morale e abbandonati a livello materiale, psicologico e relazionale, può suscitare un’escalation dei sentimenti negativi verso la forza politica in questione e verso le situazioni (fatti, processi, istituzioni o gruppi di persone) ritenute causative dei problemi patiti, nonché un progressivo avvicinamento alle forze politiche che si propongono come sintoniche con tali vissuti di disagio.

Nell’ipotesi qui contemplata, in conclusione, non andrebbe sottovalutata un’ulteriore sotto-ipotesi: che le sensazioni e i sentimenti di tradimento, distanza e abbandono da parte della politica (o di una sua porzione) provocati nel cittadino dalla mancata accoglienza del suo disagio, siano in effetti il sintomo visibile di una difficoltà che è però (anche) nella sfera della politica e, in particolare, quella di gestire il conflitto della “propria pancia” con la “pancia” della cittadinanza.

Anche nel caso di questo post la suggestione di fondo è stata prevalentemente cinematografica: Mezzogiorno di fuoco (di Fred Zinnemann, del 1952), Alba Fatale (di William A. Wellman, 1943, tratto dall’omonimo romanzo di Walter Van Tilburg Clark), meno universalmente conosciuto ma scelto nel ‘98 per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti, e Salvate la tigre (di John J. Avildsen, 1973), che procurò l’Oscar come migliore attore protagonista a Jack Lemmon.

Alberto Quattrocolo

La politica che parla (soprattutto) alla pancia

Una considerazione preliminare: chi avesse voglia di leggere questo post non proprio breve, magari avendone letti già altri sul blog, potrebbe essere indotto a supporre che, scrivendolo, avessi in mente uno o più leader, partiti o movimenti politici italiani o stranieri. Non è così. Il discorso svolto in questo articolo, come in altri successivi che avranno sempre nel titolo il riferimento alla pancia, è di carattere generale e astratto. Anche se, confesso, uno spunto non indifferente deriva dall’avere rivisto recentemente la prima versione cinematografica, quella del ’49, di Tutti gli uomini del re, di Robert Rossen, tratta dall’omonimo romanzo di Robert Penn Warren (premiato con il Pulitzer), vincitrice di tre Oscar come miglior film, miglior attore protagonista (Broderick Crawford) e miglior attrice non protagonista (Mercedes McCambridge), e poi rifatta con minor successo commerciale e critico, a dispetto del cast (Sean Penn, Jude Law, Kate Winslet, Anthony Hopkins, James Gandolfini) e del budget, nel 2006, da Steve Zaillian.

L’argomento centrale, presentato  con una prospettiva parzialmente diversa in almeno un altro post, è che l’esponente politico che sente la mia indignazione, la mia frustrazione, la mia stanchezza, la mia rabbia o la mia paura di cittadino e le fa proprie rilanciandole, però, con il megafono, in realtà, forse non mi sta ascoltando davvero.

Perché affermo che si può ipotizzare che non lo stia facendo?

Per diverse ragioni, La prima è questa: sta, certamente, rilevando i miei stati d’animo ma non mi sta aiutando a trasformarli in pensiero e quindi a contenere, bonificare e superare la loro portata disgregante. Psichicamente parlando non attenua la sofferenza ma semmai la potenzia. Se lo fa involontariamente allora si pone come il medico che di fronte al paziente sofferente si trova a soffrire con la stessa intensità, cioè non sperimenta una forma attenuata di identificazione che gli consente di comprendere, essere umanamente vicino, proporre ipotesi diagnostiche appropriate e tentare di curare, ma una forma di identificazione totale. Quel medico, infatti, che dovesse provare una simile esperienza emotiva, sarebbe completamente fuso con il paziente dal punto di vista psicologico e farebbe bene ad accorgersene prima di combinare qualche guaio dal punto di vista relazionale, se non anche sul piano strettamente clinico.

Quando nel linguaggio mediatico o in altre sedi si usa l’espressione “parlare alla pancia” da parte della politica, ci si riferisce all’azione comunicativa di questa intesa a proporsi come portavoce per lo più assecondante di vissuti assai sgradevoli da sperimentare: rabbia, paura, angoscia, ansia, indignazione, amarezza, risentimento, diffidenza, impotenza, frustrazione, dolore… Non si usa solitamente quell’espressione in riferimento ad emozioni o sentimenti quali la gioia, la soddisfazione, l’amore, l’appagamento, il senso di solidarietà e di fratellanza, la fiducia, ecc. E per questa ragione mi è venuto in mente il parallelo con il medico che ha a che fare con un paziente angosciato e dolorante.

Tornando al politico eccessivamente vicino ai vissuti dei cittadini tanto da farli propri e manifestarli con la stessa, o con ancor maggiore, intensità di comportamenti, potrebbe avere senso anche formulare l’ipotesi che, in realtà, “ci stia mettendo del suo”: cioè che, psicologicamente parlando, stia effettuando inconsapevolmente delle proiezioni di parti del suo mondo interno. Ma su questa eventualità tornerò più avanti.

Se, invece, l’identificazione del politico con il cittadino arrabbiato o impaurito è solo dichiarata ma non anche realmente vissuta e se, comunque, è posta in essere in piena consapevolezza, non è ozioso chiedersi se tale politico, preso dal conflitto e teso a far fuori politicamente l’avversario, isolandolo dall’elettorato, non stia tentando di strumentalizzare le emozioni altrui per i propri fini competitivo-conflittuali. Ad esempio, se mi lamento con un mio superiore del comportamento di un altro dirigente dell’azienda in cui lavoriamo e quello si mette a dare voce alla mia rabbia con manifestazioni anche più accese delle mie e inizia, a nome e per conto mio, una battaglia aspra per la defenestrazione di quel dirigente, occorrerebbe essere certi che le sue azioni non siano in realtà tese a perseguire un avanzamento nella gerarchia aziendale attraverso l’eliminazione di un competitore scomodo.

Spesso gli osservatori della politica per professione fanno constatare, senza denunciare troppa sorpresa, che questo atteggiamento di chi parla alla pancia dell’elettorato è posto in essere proprio soprattutto da chi sta all’opposizione e ambisce a diventare maggioranza di governo, annotando anche che, però, è adottato spesso anche dalle forze politiche di governo intente a conservare o aumentare i consensi.

Non si può negare, comunque, che il parlare alla pancia dal punto di vista della ricerca del consenso funzioni per lo più assai bene. Ma per quanto tempo, con quali costi e con quali esiti?

Le prime considerazioni che mi vengono in mente sono le seguenti.

In primo luogo, a trattare l’altro in termini infantilizzanti a lungo andare c’è poco da guadagnare. Infatti, se ti poni nei miei confronti con la volontà e nella prospettiva di essere soltanto colui che mi dà voce e non anche il mio interlocutore contenitivo dei miei vissuti, finisci con l’essere dapprima anche il mio “portapensiero”, poi per essere il cervello che pensa al posto del mio e infine il corpo che agisce per me le mie emozioni. Ma siccome senza l’attività cerebrale “la pancia” continua ad essere il mio vero dittatore, avendo io perso o non consolidato l’abitudine a ragionare in termini complessi e problematici, nel momento in cui le tue azioni non saranno più corrispondenti alle mie emozioni, il mio risentimento e la mia collera verso di te saranno di particolare intensità.

Dice Wilhelm Reich: «Lasciate che il redentore volti la schiena alla folla, lasciate che il pastore abbandoni anche per un solo giorno il suo gregge e la pecora si trasformerà in un lupo ululante e lo sbranerà».

Reich non dice “l’uomo”, ma la pecora. Non dice “le persone”, ma la folla. Se io parlo alla pancia e aspiro a manipolare l’emotività dei cittadini, non sto fornendo loro delle parole in termini di maternage, ma per impedire o ostacolare i loro processi di pensiero, poiché dell’incombenza del ragionare pretendo di occuparmi interamente io. Per questo la pecora, appena mi distraggo e allento questo tipo di legame, mi sbrana.

Infatti, rischi di essere un legame assai strano, questo, tra il rappresentante che si rivolge solo o prevalentemente all’emotività della cittadinanza e rappresentato che trova nel primo il verbalizzatore e il microfono dei suoi stati d’animo. Potrebbe richiamare da vicino quello tra i fan adolescenti e il loro idolo o quello implicato nella più accesa e scomposta tifoseria sportiva.

In ogni caso, andrebbe presa in considerazione l’ipotesi che non assomigli un granché a quello tra persone adulte e normalmente consapevoli di sé, che si riconoscono e rispettano reciprocamente come tali, e che presenti molte similitudini con quello tra soggetti che consapevolmente o no si usano l’un l’altro. Il che, peraltro, spesso avviene tra il soggetto idealizzato e coloro che lo idealizzano.

In secondo luogo, al di là del rischio cannibalico sopra esposto, mi pare che ve ne sia un altro di più significativa rilevanza politico-sociale: più sopra richiamavo la funzione del maternage. È noto, infatti (Bion W. R.), che la mamma e il papà – come, su altri fronti relazionali, il leader – hanno proprio la funzione di aiutare il bambino – nel caso del leader, il gruppo – a pensare, cioè a trasformare le esperienze emotive in pensieri lucidi. Il che vuol dire essere consapevoli della responsabilità derivante dal proprio ruolo, che è diverso da quello dell’altro. Rappresentante e rappresentato non stanno sullo stesso piano, infatti. Poiché uno è delegato dall’altro ad occuparsi di cose straordinarie e ordinarie che l’altro non ha il potere, le competenze, il tempo e, per lo più, neanche la voglia di gestirsi da sé. Quindi, tale ovvia asimmetria implica, mi pare, che sui temi che interessano gli ambiti della delega a rappresentare, il rappresentante dovrebbe assolvere anche, se non innanzitutto, alla funzione di tipo contenitivo-elaborativo.

Il compito del politico, rispetto ai vissuti emotivi dei cittadini, cioè, secondo una certa espressione, rispetto alla loro pancia, dovrebbe essere quello di aiutare l’assimilazione di ciò che serve per il bene comune così da permettere l’espulsione di ciò che non serve. Ma, se il politico non aiuta verbalizzare e neppure a pensare, il processo trasformativo di cui sopra non è agevolato e, invece, di liberare la pancia la fa ingolfare.

Uscendo da questa metafora poco poetica, mi pare che il rischio di un ipotetico rivolgersi continuamente alle emozioni dei cittadini non per accoglierle e riconoscerle, ma per accentuarle, significhi creare le premesse di una certa confusione, cioè palesare la tendenza a porsi sullo stesso piano dei cittadini. Il che equivale a dire, dal punto di vista relazionale, nel rapporto tra politico e cittadino, un abdicare da parte del primo ad uno degli aspetti, asimmetrici, intrinseci al ruolo.

Non si può escludere, però, che tale esito sia dia, a dispetto delle osservazioni sulla programmatica strumentalità del parlare alla pancia quale cinico metodo finalizzato al facile successo elettorale, anche in altre situazioni: cioè, quando il politico rivolto principalmente all’emotività della popolazione cui si rivolge è del tutto in buona fede.

Infatti, è possibile che qualche cittadino indignato, preoccupato e arrabbiato per come stanne le cose della politica, decida di dedicarvisi attivamente da protagonista, per combattere contro le ingiustizie presenti, e che, sapendo che le sue emozioni sono condivise da molti altri cittadini, li chiami a convergere su di lui, facendosene alfiere o portavoce. Fin qui, nulla di strano.

Ciò che, invece, può creare qualche rischio è che poi ponga in atto il suo essere conflittuale con le altre forze politiche, rivolgendosi al suo elettorato di riferimento (di cui magari cerca di allargare la cerchia) con le stesse modalità cui si proponeva quando era semplice cittadino. In tal caso, infatti, salterebbero le differenze di ruolo. Che ci sono e sono irrinunciabili, per quanto, si aspiri a ridurre il più possibile l’asimmetria tra rappresentante e rappresentato e a tentare di stabilire un rapporto da pari a pari.

Infatti, talora, si è portati a credere che tale asimmetria equivalga a distanza, magari siderale. A mio parere non è così. La distanza incolmabile si crea quando si è troppo vicini (quando “io sono te”) e ci si dichiara fieramente appiattiti sull’altro o si nega di esserlo, perché in entrambi i casi il dolore dell’uno diventa il dolore del secondo e non c’è nessuno che lo contenga. Se, riprendendo il parallelo di cui sopra, dico al mio medico che ho male ad un ginocchio e quello comincia a lamentarsi e a zoppicare, non mi sento supportato e preso in carico, ma a disagio e, se sono consapevole di tale mio stato d’animo, mi scuso ed esco sommessamente dallo studio, percependomi un po’ più solo di prima, finché non trovo un altro professionista. Se non mi accorgo di quanto sta accadendo, è anche peggio, perché inconsciamente tale dinamica relazionale produrrà dei risultati non favorevoli. Ugualmente mi sentirei abbandonato e lasciato solo se il medico, perché troppo coinvolto, assumesse, per proteggersi emotivamente, un atteggiamento freddo e distaccato, non mi guardasse neppure in faccia e si concentrasse solo sul ginocchio e non anche sull’intera mia persona che si appoggia su quell’arto. In questo secondo caso, come nel primo, per lo più non riuscirei a pensare e ad esporre tutte le esperienze che mi hanno portato a chiedere aiuto, potendo così dare luogo nella relazione (in realtà non tanto) terapeutica ad omissioni di informazioni potenzialmente foriere di errori diagnostici e/o terapeutici. In entrambe le ipotesi estreme (troppa vicinanza palesata o troppa vicinanza negata) si potrebbe verificare un’assenza di compliance tale per cui la cura non riuscirebbe: ad esempio, ritenendo che si sia allarmato troppo o non fidandomi del suo fare distaccato, non seguirei correttamente la terapia, magari azzeccatissima, che quel medico mi ha prescritto.

Analogamente: se ti delego in nome e per conto mio a combattere le mie battaglie politiche , che so essere anche quelle in cui tu credi, e tu ti rivolgi a me con la stesso stato d’animo che ho io, tra di noi non c’è empatia, anzi sono io che mi trovo a farti da specchio, cioè sono io ad essere chiamato da te per farti sentire riconosciuto e supportato e, magari, per darti conferme “narcisistiche”, mentre tu prelevi da me benzina emotiva per il nostro conflitto, ma non mi aiuti a stare dentro il dolore che questo conflitto e le sue cause mi procurano. Di più: non mi dai la possibilità di relazionarmi con te da pari a pari, perché mi costringi nel ruolo della vittima dell’ingiustizia, incasellandomi lì dentro, senza darmi l’occasione, nel rapporto con te, di essere tridimensionale, cioè una persona complessa e completa: riprendendo ancora una volta il precedente esempio di dirti  qualcosa sull’imprudenza che ha causato la mia sopravvenuta zoppia e sulle attese non realistiche che ho rispetto alla cura e che sono correlate al mio bisogno di essere fisicamente super-performante anche a ottant’anni suonati.

In conclusione, non si può escludere che il parlare alla pancia della politica sia frutto di una condizione politica conflittuale, nella quale, come per lo più accade nell’escalation, non c’è posto per le sfumature e per la complessità, e che tale mono-dimensionalità interessi, influenzandola negativamente in termini di autenticità, anche il rapporto tra rappresentanti e rappresentati.

 

Alberto Quattrocolo

“La verità è nell’occhio di chi guarda” e di chi commenta.

«Esiste una verità che abbia meno di due facce? », si chiede uno dei personaggi di un grande, e un po’ sui generis, western diretto da Henry Hathaway nel 1954, Il prigioniero della miniera (Garden of Evil). Mentre il titolo del post rinvia ad una celebre battuta pronunciata da Kevin Spacey in Mezzanotte nel giardino del bene e del male (Midnight in the Garden of Good and Evil, 1997), di Clint Eastwood.

Lunedì 20 marzo la Sindaca Virginia Raggi ha scritto sulla sua pagina Facebook che avendo voluto dare seguito ai consigli dei medici ha deciso «di staccare un po’ dopo sette mesi di lavoro senza pausa». Aggiunge anche di aver visto pubblicate delle foto «rubate» di lei e suo figlio in viaggio, allo scopo di fare sciacallaggio, cioè per puro spirito polemico.

Molti commenti sono all’insegna della solidarietà e del sostegno, altri, invece, critici, accusatori e polemici, tendono a deridere, schernire, minimizzare, canzonare.

Riguardo all’indicazione medica rivolta alla Raggi, forse correlata con il malore avuto il 24 febbraio, mi viene in mente quanto scritto quel giorno sul blog de L’Espresso da Mauro Munafò sulla «solita immondizia travestita da battaglia politica: battute sulla “donna che non regge la pressione”, teorie più o meno ironiche sul tentativo della prima cittadina di evitare l’incontro, sospetti sul fatto che sia una scusa come quella dello studente che non vuole andare a scuola. Tra le cose che più mi danno fastidio nel “dibattito” politico ci sono le insinuazioni e le costruzioni sulla salute altrui.»

Su l’imbeccata.it Franco Bechis il 15 febbraio ha dedicato un commento a quanto accaduto a Luigi di Maio dal titolo #Siamotutticolpevoli sul caso Di Maio. Che insegna molto. Tra le altre cose, scrive: «Nei confronti del M5s c’è una ostilità di fondo, e si vede che non si aspettava altro che cogliere al balzo quel moncone di sms di Di Maio per puntarglielo addosso».

Credo che in questo passaggio Bechis abbia messo in evidenza un aspetto terribilmente ricorrente nell’escalation del conflitto e non solo di quello che si propone in ambito politico.

Nell’esperienza ormai quindicinale dei nostri Servizi gratuiti di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, così come nella realizzazione dei progetti e servizi di mediazione familiare, penale, sanitaria, ecc., ci è stato possibile constatare come l’escalation del conflitto porti proprio ad esiti di questo tipo in ordine alla lettura che le parti reciprocamente danno, e propongono ai terzi, delle caratteristiche, dei comportamenti e degli atteggiamenti altrui. Già in un altro post su questo blog mi ero soffermato sull’errore fondamentale di attribuzione (Ross, L., 1977) e sull’errore definitivo di attribuzione (Pettigrew, T. F., 1979), ma qui in particolare sembra non meno pertinente evidenziare un altro aspetto dell’escalation conflittuale: il fatto che, mentre le parti tendono a polarizzarsi in maniera sempre più rigida e definitiva, modificano anche pesantemente la percezione dell’altro, non considerandolo più come un individuo con caratteristiche simili alle proprie, ma come una pura minaccia. L’escalation, quindi può portare gli attori a de-umanizzarsi reciprocamente: l’avversario è perfino percepito e giudicato come membro di un gruppo portatore di valori negativi e pericolosi, che costituiscono una potenziale aggressione e, comunque, una minaccia per la propria individualità e per la propria serenità o per i propri principi. Cioè, ci si distanzia in maniera crescente dall’altro reale, fino a idealizzarlo come “l’immagine del nemico” (Arielli E., Scotto G., 1998).

Ciò contribuisce a spiegare come possa accadere che, anche allorché le parti sono convinte, parlando con altri, di essere assolutamente aderenti alla verità obiettiva, in realtà, per lo più stanno proponendo i fatti per come loro li hanno visti, percepiti e interpretati.

Così, ad esempio rispetto al voto sulla decadenza del senatore Augusto Minzolini, i commenti più facilmente rinvenibili sul web sono all’insegna del “palese” complotto tra Forza Italia e PD, cioè di un “voto di scambio” all’insegna del:” tu mi salvi Lotti e io ti salvo Minzolini”. Non tutti, però, Enrico Mentana sulla sua pagina Facebook  il 17 marzo ha scritto «C’è una cosa però che mi sento di escludere: la partecipazione di molti di quei senatori (tra cui quelli che conosco come miei colleghi sciaguratamente consegnati alla politica) a un disegno di “voto di scambio” rispetto alla votazione del giorno prima su Lotti, o di prova tecnica di un’alleanza con Forza Italia. Sarebbe facilissimo esporli al pubblico ludibrio per raccogliere un applauso o un like: ma non sarebbe onesto da parte mia, perché so che non è così. Capita che qualcuno ragioni e poi scelga secondo coscienza, magari in modo opposto a noi. Non per questo va linciato. Resta la questione di fondo, che è la stessa di 25 anni fa: quando non c’è la politica prevalgono le pulsioni» (il grassetto, ovviamente, è mio, anche più avanti). Alle sue parole, pochi minuti dopo, ha fatto seguito un commento all’insegna del più totale scetticismo, il cui autore si diceva assolutamente certo del contrario di quanto affermato da Mentana e proponeva la sua verità come qualcosa di evidente a tutti e che, pertanto, avrebbe dovuto essere evidente anche per il direttore.

Seguono una replica di Mentana, un’altra risposta dello stesso cittadino, che conclude, parrebbe con tono amareggiato, «prendiamo atto che uno dei giornalisti più stimati e stimabili di questo paese “sente” di dover escludere l’evidenza dei fatti». Ancora Mentana: «Conosco Massimo Mucchetti, conosco Rosaria Capacchione e altri di quei senatori. L’ultima cosa che farebbero è giocarsi la reputazione per un “voto di scambio”. La Capacchione vive scortata da dieci anni per la sua attività di cronista antimafia. Voi che dal vostro pc o smartphone pretendete di conoscere la verità come me lo spiegate? ».

Dal punto di vista che ha senso prendere in considerazione su questo blog, Mentana si è misurato con quanto si evidenziava più sopra. Nel momento in cui questo o quel soggetto (individuo o gruppo) è per me un nemico, qualsiasi cosa faccia, gli attribuisco sempre le peggiori intenzioni. E nulla riesce a farmi cambiare idea. Anzi, se qualcuno ci prova, tale tentativo mi risuona come una provocazione, come una sfida al senso comune (“com’è possibile che qualcuno non veda ciò che è spettacolarmente chiaro?”, mi chiedo, sconcertato o irritato), un insulto alla mai intelligenza o come una messa in discussione della mia capacità di vedere e dire la verità, quando non mi fa sorgere il dubbio o la certezza che qualcuno sia in realtà non imparziale come dichiara di essere, ma schierato con il mio nemico.

A questo riguardo propongo un esempio tratto dall’esperienza pratica, modificandone i dati in modo tale che nessuno, neppure gli interessati, possano individuare il caso concreto. Tempo fa, all’interno di uno dei servizi sopra citati, nell’ambito di un colloquio individuale (i nostri percorsi di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, si articolano in diversi colloqui individuali, che possono precedere e seguire l’incontro o gli incontri di confronto tra gli attori del conflitto e che sono condotti da un team di professionisti), il signore che, con un collega, stavo ascoltando si diceva assolutamente certo della colpevolezza di un’altra persona, riguardo ad un evento tragico occorso ad un membro della sua famiglia. Il conflitto, infatti, scaturiva proprio dalle accuse che quello aveva rivolto al secondo, essendo convinto della sua responsabilità per il lutto insopportabile che  lui e la sua famiglia stavano vivendo. In sede giurisdizionale, dopo un lungo iter, la colpa non era stata ravvisata, ma quell’uomo non solo era profondamente convinto che fosse indiscutibile la responsabilità colposa dell’altro, ma lo riteneva anche un pusillanime bugiardo, contento solo di averla fatta franca, grazie ad una giustizia ingiusta. Secondo lui, infatti, se colui che riteneva colpevole di omicidio colposo fosse stato in possesso della minima traccia di sentimento umano, avrebbe ammesso la propria colpa. A conferma di tale convinzione portava la prova della mancata partecipazione di quello al funerale della vittima. Nel secondo o terzo colloquio individuale disse inoltre quanto si sentisse dolorosamente tradito anche da quel membro della sua famiglia, che non aveva la sua stessa granitica certezza e che aveva prospettato l’ipotesi che la mancata partecipazione del presunto assassino al funerale non fosse da ascriversi al suo sapersi colpevole, ma ad una forma di riguardo nei loro confronti.

Quando ascoltammo colui che era stato accusato di aver provocato quella morte, ci raccontò che qualche mese prima si era recato in tribunale proprio per quella vicenda e che il suo accusatore, entrato in un ufficio qualche istante prima di lui, gli aveva tenuto la porta aperta. Quel gesto, ci disse, era stata la più sadica manifestazione di odio che gli fosse mai accaduto di patire. Non lo aveva interpretato come un gesto, magari automatico, di banale buona educazione, ma come espressione del desiderio di assicurarsi che egli entrasse nella gabbia dei leoni per poter assistere con gioia al momento in cui sarebbe stato sbranato. Per lui, il famigliare della vittima era un persecutore spietato. Dapprima aveva pensato che fosse incapace di accettare il lutto, poi aveva creduto che fosse tormentato da dei sensi di colpa per un rapporto non felice con la persona deceduta, scusandone ancora la collera, ma, infine, era giunto alla conclusione che costui non cercava soltanto un capro espiatorio su cui riversarli, ma che era sotto tutti gli aspetti un uomo profondamente malvagio, capace solo di proiettargli addosso tutto il marciume che si portava dentro la sua anima nera.

Il fatto che uno dei due fosse noto per le sue attività filantropiche lo rendeva agli occhi dell’altro ancor più detestabile, come fosse stata una prova della sua doppiezza, l’indizio di un’ipocrisia tanto inguaribile quanto insopportabile a vedersi.

Quando si incontrarono, dopo diversi colloqui individuali in cui diedero voce alla rabbia, al dolore e all’angoscia che li corrodevano, entrambi ebbero la possibilità di esprimere l’uno al cospetto dell’altro queste loro interpretazioni sui rispettivi comportamenti e caratteri: interpretazioni che essi ancora vivevano come certezze inossidabili.

Non si erano rivolti, infatti, ad uno dei nostri servizi per cercare una ricomposizione del loro conflitto, anzi la sola prospettiva li avrebbe fatti inorridire, offendere e indignare. Avevano deciso di avvalersene perché entrambi si sentivano terribilmente soli e avevano bisogno di poter parlare con qualcuno di esterno, di essere compresi e di non essere giudicati per i sentimenti ingombranti che provavano. Non a caso i nostri servizi sono denominati, proposti e declinati, in primo luogo, come di Ascolto e, in secondo luogo e solo eventualmente, di Mediazione (e tale termine, che nel linguaggio comune e in molto paradigmi teorici mediativi evoca i concetti di reciproche concessioni, di compromesso e di accordo, in realtà, nell’orientamento teorico cui l’Associazione si ispira e nella metodologia conseguentemente applicata potrebbe essere tranquillamente sostituito, per spiegarlo a fini didattici, dalla più neutra parola “confronto”).

Com’è facile intuire a questo punto, le loro letture sui moventi e i sentimenti dell’altro si rivelarono entrambe clamorosamente sbagliate. Ed entrambi, poco alla volta, se ne resero conto, perché, nel frattempo, tutti e due, sentendosi compresi da coloro (i mediatori) che li avevano ascoltati senza giudicarli, erano riusciti, a loro volta, a sentire e riconoscere l’umanità dell’altro. Si credettero, perché, pur essendosi già ripetutamente incontrati in passato, si guardarono davvero per la prima volta, e cadde loro dagli occhi lo spesso e scuro velo dell’odio. Per ciascuno dei due l’altro, infatti, non era più un nemico. Così, entrambi si tennero reciprocamente la porta aperta ai fini dell’accesso ad un’altra verità. Si dissero frasi come: “non sono più così sicuro che tu sia colpevole, ma sento che stai malissimo”, “sebbene sia stato dichiarato innocente, ancora non so se ho fatto davvero di tutto per evitare la morte del tuo caro ed è per questo senso di colpa che non sono venuto al funerale”.

Henry Wadsworth Longfellow disse: “Se potessimo leggere la storia segreta dei nostri nemici, noi troveremmo nella vita di ciascuno dispiaceri e sofferenze tali da disarmare tutta la nostra ostilità”. Questo fu ciò che avvenne tra quei due uomini. Certo non tutto il dolore fu superato, ma ad essi fu possibile piangere insieme la persona che non c’era più.

Razionalmente sarebbe facile osservare che, in fondo, questa capacità dell’essere umano si declina quotidianamente ed è ciò che ha fatto sì che, pur con tutti i nostri difetti e pulsioni distruttive, non ci siamo ancora massacrati tutti vicendevolmente.

In fondo, tornando al genere western da cui si è partiti, vi è una battuta pronunciata in un altro cult del filone, L’occhio caldo del cielo (The Last Sunset), di poco successivo al titolo menzionato all’inizio del post (è del 1961): “non si può continuare ad odiare a morte un uomo dopo averlo conosciuto”. A pronunciarla è lo sceriffo Stribling, interpretato da Rock Hudson, che accanitamente aveva inseguito l’omicida O’Malley (Kirk Douglas) per consegnarlo alla giustizia affinché non potesse “mai più fare del male ad una donna”. Lo riteneva colpevole della morte della sorella. Infatti, O’Malley era stato accusato di avere ucciso in un duello scorretto il marito di una donna che aveva sedotto, con ciò, secondo Stribling, cognato di quell’uomo, provocando anche la morte della moglie, “suicidatasi per amore”.

Non è peregrino osservare che il regista Robert Aldrich anche in altri celebri film si era soffermato sui temi del conflitto interpersonale e delle pulsioni distruttive (Che fine ha fatto Baby Jane, Piano piano, dolce Carlotta, ad esempio) e che la sceneggiatura era di Dalton Trumbo, il più celebrato e pagato sceneggiatore hollywoodiano fino alla metà degli anni ’40, poi inserito sulla lista nera di McCarthy per le sue pregresse simpatie comuniste: aveva provato sulla propria pelle, finendo anche in carcere, quanto l’escalation conflittuale in politica può indurre la gran parte di una comunità a sviluppare un odio e una paranoia persecutoria di portata così distruttiva da fare scempio anche dei valori che si vorrebbero difendere proprio attraverso le persecuzioni (si ricorderà che in quegli anni circa il 71% degli americani era favorevole a programmi di schedatura dei comunisti e ad altri provvedimenti ancora più drasticamente antidemocratici, tanto profondi e diffusi erano la paura e la rabbia per il “pericolo rosso”).

Tornando ai recenti fatti citati in apertura, non stupisce più di tanto quindi che, anche quando interviene un fatto (un provvedimento dell’autorità giudiziaria, ad esempio) che disconferma la visone negativa che si era formata e veicolata sui media di questo o di quell’avversario politico, a tale fatto non si presti la minima attenzione. E allorché proprio non si può evitare di farlo, spesso si proporre una frettolosa ammissione di errore, corredata subito, però, da nuove inappellabili condanne nei confronti di altri atti compiuti dal nemico. Perché, in fondo, si sa che il nemico ha sempre torto, anche quando, per caso o per sbaglio, ha ragione.

Se questo aspetto intrinseco alla dinamica conflittuale è di difficile, ma non impossibile, gestione nei rapporti tra esponenti politici (come sostenuto in un articolo sul blog dedicato agli spunti teorici), che non raramente hanno atteggiamenti programmaticamente strumentali, presi come sono dalla logica competitiva, non si dovrebbe trascurare però la possibilità che noi, cittadini comuni, si possa ogni tanto prendere fiato, contare fino a dieci e dirci: “Oggi faccio qualcosa di nuovo: parto dalla presunzione di buona fede nell’ascoltare gli argomenti della parte politica che non mi piace”.

Chissà, forse potremmo scoprire di aver avuto effettivamente ragione a pensare male e, in un certo senso di non aver fatto neanche peccato, oppure potremmo realizzare che, per fare un ultima citazione western  – da Nessuna pietà per Ulzana (Ulzana’s Raid), cioè ancora un film di Robert Aldrich, ma più tardo, cioè del ’72 e a pronunciarla è Burt Lancaster – “la ragione non è mai tutta da una parte sola”.

 

Alberto Quattrocolo

La politica della scorrettezza politica

Per alcuni anni pare esservi stata una forma di pensiero che, nutrendosi soprattutto inizialmente di un’ispirazione liberal e radical come movimento di idee sorto nelle università americane, dagli anni ottanta in poi, si é gradualmente affermata fino a diventare prevalente, se non dominante, riverberandosi anche sul piano normativo: si tratta della correttezza politica. Tale forma di pensiero ha inciso sulle forme della comunicazione, abolendo certe espressioni ed introducendone altre rispetto all’atto comunicativo di indicare determinate categorie di persone. Così, ad esempio, non si usano più termini come nullafacenti, minorati o negri, che sono stati sostituiti rispettivamente da disoccupati, diversamente abili e afroamericani. Il principio di fondo di tale linea di opinione e di atteggiamento sociale è che tutti gli esseri umani, proprio tutti, siano meritevoli di esseri rispettati proprio in quanto esseri umani. Ciò implica, soprattutto, prevenire l’adozione di una comunicazione che, nella forma e nella sostanza, risenta del pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona.

La correttezza politica, com’è naturale, per qualunque opinione o movimento, è stata fatta oggetto di critiche, e a tale forma di pensiero se n’è affiancata un’altra, che richiamandosi alle contestazioni indirizzate a  quella e utilizzando l’espressione da essa coniata per definire ciò che andrebbe disapprovato, si è proposta come alternativa e originale: la scorrettezza politica. Anch’essa al pari della prima ambisce ad essere dominante.

Al di fuori dell’ambito della satira e, in generale, delle diverse forme di manifestazione culturale e dello spettacolo, dove spesso si perseguono finalità provocatorie e dissacranti, mi pare si possa dire che, reagendo alle prescrizione del politicamente corretto, spesso inteso come equivalente di ipocrisia, la scorrettezza politica proclami il principio della libertà di manifestazione del pensiero. Rifiutando l’omologazione, la scorrettezza politica aspira a dire le cose come stanno, senza edulcorarle, senza ammorbidirle, rivendicando, soprattutto, il diritto di abbattere nuovi e meno nuovi totem e di smontare i tabù.

Apparentemente il contrasto tra i due atteggiamenti si potrebbe dire facilmente componibile. Se, da un lato, nel politicamente corretto il principio tutelato è quello del rispetto della dignità altrui e, dall’altro, per l’atteggiamento politicamente scorretto, è quello della libertà di espressione, allora il punto di equilibrio parrebbe a portata di mano: ad esempio, ci si potrebbe richiamare al criterio per il quale la libertà dell’uno finisce là dove inizia quella dell’altro. Più in generale, si potrebbe concludere con un po’ di filosofia spicciola che sono indispensabili l’uno e l’altro tipo di pensiero e di atteggiamento. Tuttavia, il tema mi pare non solo al di là della mia portata ma anche degli orizzonti del blog dell’associazione. Suppongo che sia più opportuno limitare lo sguardo alle connessioni con lo sviluppo del conflitto.

Entrambe le forme di pensiero, infatti, si prestano ad entrare efficacemente nell’arena del conflitto, anche e, sotto certi aspetti, in primis in quello che ha rilevanza politica, dove sia il richiamo al rispetto della correttezza politica che la rivendicazione del diritto di parlare in modo politicamente scorretto finiscono spesso per essere esasperati e, in fin dei conti, stravolti. La correttezza politica può, ad esempio, essere invocata per emarginare, azzittire, reprimere, condannare e delegittimare le idee, le opinioni e i programmi dell’avversario. Ad esempio, si pensi a quando nel dibattito pubblico gli scambi comunicativi, sempre più irrorati dall’aggressività, sono all’insegna della scomunica delle tesi altrui, che vengono liquidate come espressive di un pensiero moralmente, eticamente o socialmente inaccettabile (ad esempio, ciò è accaduto nel caso degli scontri sui temi della sicurezza urbana, dei diritti civili, della giustizia, dell’immigrazione, del mercato del lavoro…); mentre la scorrettezza politica può essere tirata in ballo per nobilitare anche le più spregiative e a volte triviali forme di comunicazione disumanizzante.

In questa dialettica tra armi contrapposte, mi pare, però, che la seconda arma, quella del politicamente scorretto, abbia in generale maggiori chances di successo dal punto di vista offensivo per il confliggente che se ne serve. Infatti, l’escalation del conflitto, di per sé, è già caratterizzata dall’abbandono di una comunicazione rispettosa dell’altrui sensibilità e dall’approdo ad una comunicazione aggressiva, caratterizzata da attacchi ad personam, colpi bassi, spersonalizzazione e perfino deumanizzazione dell’avversario, trasformato in un nemico, quando non in un mostro. Dunque, la scorrettezza politica ne costituisce un ingrediente naturale. Svolgere un’operazione comunicativo-culturale (parallela allo specifico conflitto politico disputato) per rendere socialmente accettabile la scorrettezza politica, significa, perciò, assai spesso tentare di procurarsi un alibi morale all’impiego di mezzi conflittuali particolarmente aggressivi: la squalificazione, l’umiliazione, la delegittimazione e la deumanizzazione dell’avversario (si pensi a quando si insulta l’avversario chiamandolo despota, sciacallo, corrotto, ladro, eversivo, mafioso, golpista, assassino, ecc.) o di una particolare categorie di persone che l’avversario afferma che dev’essere invece trattata in un certo modo (si pensi alla qualificazione dei giudici come mentalmente disturbati e antropologicamente diversi; alla definizione di clandestini affibbiata a dei richiedenti asilo, cioè – tanto per chiarire a beneficio di eventuali lettori “non addetti ai lavori” -, a coloro che stanno esercitando un diritto fondamentale previsto dall’ordinamento italiano oltre che da quello internazionale e pertanto non sono illegalmente presenti sul territorio nazionale).

Lo sdoganamento culturale della scorrettezza politica a fini conflittuali è un mezzo facile, e non così originale, per procurarsi immediati e cospicui vantaggi bellici anche sul piano dell’acquisizione del consenso da parte di quote non trascurabili di pubblico. Poiché, è vero che il politicamente scorretto, elevato per ragioni conflittuali a principio, a filosofia di vita, a codice comunicativo moralmente superiore alla correttezza politica, in virtù della sua asserita autenticità, in realtà, autorizza e sollecita la slatentizzazione e l’esplicitazione di quelle pulsioni aggressive che   nel nostro percorso di crescita abbiamo imparato a gestire, ma è anche vero che chi propone un allentamento dei freni inibitori beneficia di una certa popolarità. Infatti, quando siamo surriscaldati ci risulta assai più gradito il messaggio di chi ci esorta a dire quel che pensiamo senza sforzarci di considerare la sensibilità altrui, rispetto a chi ci chiede di contare fino a dieci prima di parlare.

Tuttavia, potrebbe non essere superfluo riflettere sul fatto che oltre al ruolo di commentatori politicamente scorretti delle caratteristiche e dei comportamenti altrui, può toccarci in sorte di essere oggetto di analoghi commenti. Nella vita capita di essere, infatti, non solo aggressori ma anche aggrediti. E, se il nostro aggressore può contare sulla tolleranza o perfino sull’approvazione sociale per il male che ci vuole infliggere, si riducono vistosamente le nostre possibilità di essere tutelati dalla comunità.

Un tempo alcune società applicavano la messa al bando, una punizione consistente nel privare il soggetto condannato di ogni possibilità di beneficiare della solidarietà altrui e di appellarsi alla tutela del gruppo in caso di crimini commessi a suo danno. Perciò, chiunque era libero di danneggiare il soggetto messo al bando, anche letalmente, senza incorrere in alcuna forma di sanzione o di biasimo.

Il dominio del politicamente scorretto rischierebbe di portarci proprio lì: di essere tutti suscettibili di venire messi al bando dal punto di vista sociale e culturale e, quindi, abolita ogni forma di vergogna a fare da deterrente morale, di essere resi ancora più vulnerabili di quanto già non si sia rispetto alla violenza (diretta o indiretta). E questo ci riguarda tutti, poiché chiunque di noi possiede almeno una caratteristica (fisica, psicologica, culturale, sociale, di ruolo, ecc.) che lo pone ai margini o decisamente fuori dal gruppo dominante. Sicché non occorre una fantasia apocalittica per preoccuparsi delle conseguenze di un’applicazione distorta, a fini conflittuali, del principio ispiratore della scorrettezza politica.

In altre parole, una società dominata dalla correttezza politica può risultare soffocante e soffocata (anche nelle sue potenzialità creative), ma una società sintonizzata prevalentemente sulla scorrettezza politica potrebbe essere un incubo, ammantato di apparente libertà di espressione, di facoltà di trasgredire, ma in realtà regolata dalla disciplina violenta e oscurantista della legge del più forte.

Infatti, quando il politicamente scorretto diventa il pensiero dominante e alza l’asticella dell’offesa e della discriminazione consentita, si stabiliscono in realtà soltanto altri parametri di correttezza politica che vanno a sostituire i precedenti: in particolare, quelli favorevoli alla visione e agli interessi di chi ha vinto o sta prevalendo nella disputa. E difficilmente ciò rappresenta qualcosa di diverso da una regressione.

Se si vuole pensare in termini un po’ esasperati e catastrofici agli effetti del trionfo di una scorrettezza politica ante-litteram andata al potere, si possono considerare gli esempi storici del fascismo, del nazionalsocialismo e dei diversi totalitarismi di marca comunista, i programmi purtroppo realizzati di “pulizia etnica, culturale o politica”, oppure le società governate nel segno dell’integralismo religioso e l’ulteriore esasperazione rappresentata dallo Stato Islamico. Come disse Giacomo Matteotti nel suo ultimo discorso alla Camera il 30 maggio 1924: «Voi volete ricacciarci indietro!».

Pensando in termini assai meno drammatici, direi quasi minimalisti, si può, ad esempio, ipotizzare che sia stato ridicolizzato come “buonismo”, in primis dalla parte politica vincitrice (e, in vero, in seguito un po’ da tutti), essendo ritenuto sostanzialmente dissonante con il suo modo di intendere la comunicazione politica, un atteggiamento teso al riconoscimento dell’altro, all’attenzione ai suoi argomenti e alle sue ragioni e quindi orientato a evidenziare la naturale e crescente complessità dei problemi. In tal modo, una modalità relazionale non autoreferenziale ma propensa all’ascolto dell’altro, potrebbe essere stata definitivamente delegittimata e distorta, grazie anche all’invenzione e alla diffusione della suddetta denominazione  squalificante, cioè, in definitiva, proprio con l’arma della scorrettezza politica promossa a valore, da impiegarsi in una o più contese elettorali esasperatamente conflittuali.

Ciò che oggi si liquida sbrigativamente come buonismo, in effetti, non era l’idealizzante, ingenua e pervicacemente ottimistica visione della realtà che evoca quella parola, ma la consapevolezza, anche scomoda, se si vuole, che l’avversario ha le sue ragioni, che ha il diritto di dirle senza essere preso in giro, denigrato o insultato e, ancor prima, che la convivenza in una famiglia o in qualsiasi altra comunità di piccole o grandi dimensioni è resa possibile proprio dalla quotidiana applicazione del principio “non fare ad altri quello che non vorresti venisse fatto a te stesso”. È la cosiddetta regola d’oro o della reciprocità, antropologicamente considerata come universalmente valida, pur con le ovvie varianti, tanto che le sue radici sono esplicitate, ad esempio, nella filosofia greca antica, nell’ebraismo, nel confucianesimo, nel cristianesimo, nel buddismo e nell’islam.

La degradazione a buonismo delle tesi altrui nell’ambito del dibattito politico, dunque, si rivela di particolare efficacia comunicativa, in un’ottica conflittuale, poiché permette di mettere in ridicolo e togliere credibilità agli argomenti su cui quelle tesi poggiano, senza dover svolgere grossi sforzi di confutazione. Inoltre, se, imbarazzando l’interlocutore con l’accusa di “buonismo”, lo si induce, se non a vergognarsi a dover negare di esserlo, è possibile anche che si apra la via ad un “cattivismo” di fatto se non di nome, particolarmente comodo quando, nel dibattito, si vuole lusingare la rabbia o l’odio dell’audience verso questo o quel bersaglio (un leader o portavoce di un partito o movimento, una sindaca, un gruppo professionale, un ceto sociale, ecc.)?  

In parte, almeno, parrebbe di sì, visto che, in nome della schiettezza, si sdogana anche la possibilità di dare voce e talora attuazione concreta anche ai più pesanti pregiudizi, approfittando della loro diffusione e della loro forza. Una forza legata al fatto che di essi non siamo consapevoli, poiché siamo convinti che i loro contenuti, in realtà falsi, siano la verità.

In conclusione, la scorrettezza politica adottata come arma nel conflitto politico, appare pericolosa tanto quanto se non di più della correttezza politica, poiché da istanza libertaria, al limite anche trasgressiva, può finire con l’essere strumentalizzata ai fini della discriminazione e della repressione.

Alberto Quattrocolo

Parafrasando Lincoln, chi si prenderà cura delle ferite non sanate del referendum costituzionale?

Si avvicinano le elezioni amministrative, le primarie del PD e, sembra, anche quelle del centrodestra. Inoltre si intravvede all’orizzonte la sagoma delle elezioni politiche, che si voti prima della scadenza naturale della legislatura o in seguito ad essa.

Cosa succederà dopo ciascuno di questi momenti di competizione elettorale? Impossibile dirlo. Però, viene in mente la conclusione del secondo discorso inaugurale di Abraham Lincoln, pronunciato mentre tuonavano i cannoni delle armate federali e confederate sulle postazioni, porti o città del nemico e mentre giovani e meno giovani, in uniforme blu o grigia, si sparavano e si infilzavano con le baionette. Ed erano tutti americani. Suonava così quel suo discorso: «Con malanimo verso nessuno, con carità per tutti; con fermezza nel giusto — per quel che Dio ci consente di conoscere il giusto — battiamoci ancora per terminare l’opera intrapresa; per sanare le ferite del Paese; per provvedere a chi è morto in battaglia, e alla sua vedova, e a suo figlio; per fare tutto ciò che può servire a raggiungere e consolidare una giusta e durevole pace tra di noi, e con tutte le nazioni».

Prima del 4 dicembre 2016 (il giorno della consultazione referendaria), molte voci si erano levate contro Matteo Renzi, allora Presidente del Consiglio, impegnato in prima persona nella campagna referendaria, rimproverandogli di aver spaccato il Paese. Lo affermarono, ad esempio, Massimo D’Alema, all’epoca ancora iscritto al PD, così come Arturo Scotto a nome del Gruppo Sinistra Italiana e lo sostenne, con preoccupazione, anche Pierluigi Bersani, anch’egli ancora dentro il PD.

In effetti, un referendum non può che spaccare o, per meglio dire, dividere gli elettori. In realtà, è così per ogni consultazione elettorale, anche per quelle basate su un sistema proporzionale. Ma nel caso di un referendum quest’aspetto è, inevitabilmente, esaltato. Chi vince prende tutto e chi è sconfitto perde tutto. Si tratta, cioè, di un gioco a somma zero, in cui la minoranza degli elettori, a differenza di quanto accade in altre consultazioni elettorali, non trova un sia pur minimo spazio di rappresentanza per le opinioni espresse nell’urna e respinte dalla maggioranza. La modifica o la mancata modifica all’ordinamento giuridico (nel caso di referendum abrogativo di una legge ordinaria come in quello del referendum confermativo di una modifica della Costituzione) valgono anche per chi ha votato difformemente dalla maggioranza e, si può dire, che per quel punto di vista, pertanto, non c’è più posto; mentre nel caso delle elezioni – strumento di democrazia indiretta -, la minoranza continua ad agire, interagire ed esprimersi e, così, sia pure come opposizione, può concorrere all’attività legislativa.

Ma, ovviamente, non consisteva in ciò l’accusa, o la preoccupazione, sull’aspetto divisivo del Referendum costituzionale cui davano voce i politici citati e molti altri. La questione era più profonda e investiva molteplici tematiche e registri, inclusa quella dell’opportunità del referendum stesso, che non sono di competenza di questo Blog.

Pertinente, invece, con il tema Politica e Conflitto nei termini proposti su questo spazio virtuale, è la duplice possibilità delle parti politiche e delle organizzazioni civili impegnate in politica (come nel caso del Referendum costituzionale del 4 dicembre scorso) di, dapprima, contenere gli aspetti più profondamente divisivi e, poi, di cercare di recuperarli, di ricomporli. E, perché no, di sanarli.

Sul piano degli aspetti laceranti innescati dalla comunicazione conflittuale, innumerevoli sono state le prese di posizione e le dichiarazioni che potrebbero avere contribuito a scavare profonde divaricazioni. Si prenda questa conclusione di un’intervista di Massimo D’Alema del 14 ottobre 2016 a Massimo Turci: «La dirigenza pubblica sarà asservita al potere politico, riducendo le garanzie dei cittadini secondo uno schema già collaudato nel rapporto stato e regioni. La riforma costituzionale dà al governo un potere enorme, non è vero che non tocca i poteri del governo. Si riduce lo spazio della sovranità popolare: questa riforma piace a Marchionne e alla Confindustria, ma non corrisponde all’interesse dei cittadini italiani. Berlusconi non sta facendo campagna per il no, Confalonieri è per il sì. Questo referendum taglia in due il paese: da una parte il potere, dall’altra i cittadini».

Si tratta di parole che, all’orecchio di chi era intenzionato a votare SI, ma non si sentiva particolarmente innamorato dei poteri o delle organizzazioni citate o evocate, potevano suonare come di biasimo, come una sorta di messa in guardia dal compiere un atto di tradimento verso i propri valori e interessi.

Un effetto non tanto diverso potevano procurare ai cittadini contrari alla “riforma Boschi” alcuni discorsi di Matteo Renzi come questo, riportato tra gli altri dal Fatto Quotidiano: «Se vince il No, vince la casta mentre se vince il Sì i politici perdono la sedia» o la definizione di “accozzaglia” da lui data al fronte del NO. Anche il frequente riferirsi, da parte dei promotori del SI, alla mancata realizzazione delle riforme qualificandola come una colpa della leadership politica dei decenni precedenti, potrebbe aver dato luogo a reazioni non volute e non previste nell’elettorato.

In simili affermazioni, per quanto supportate da alcuni dati di realtà, poteva essere percepita, anche quando non era esplicitamente pronunciata, un’accusa delegittimante nei confronti di un nutrito gruppo di esponenti politici, non pochi dei quali ancora attivamente presenti sulla scena politica e supportati da un certo seguito da parte di cittadini. A quei politici, ancor prima che sul piano della ferita all’orgoglio, ovvero al naturale narcisismo presente in ogni uomo, le dichiarazioni di quella natura (ad esempio, voi non ci siete riusciti, mentre noi sì) possono riuscire sgradevoli sul piano relazionale: in particolare, in termini di mancato riconoscimento sia dell’impegno speso a suo tempo su tale fronte che delle difficoltà all’epoca incontrate. E, chiunque, se esposto al rischio di perdere la faccia per via degli attacchi di un altro, può reagire cercando di riaffermare la propria dignità. Ciò può indurre l’interessato ad attaccare a testa bassa e senza tanti riguardi chi ritiene lo stia svalutando. In particolare, per costui diventa possibile fare appello ai terzi – una parte dell’elettorato – chiamandolo a raccolta tanto sul piano di certi valori e ideali da sempre profondamente sentiti, quanto sul piano della vis polemica contro chi viene rappresentato come una minaccia alla tutela o all’attuazione proprio di quei valori e di quegli ideali.

In tal modo, comunicazioni all’insegna della delegittimazione, volutamente perseguita o accidentale, di una parte della attuale o della precedente leadership politica, possono aver dato luogo, in una porzione dell’elettorato ad un vissuto di svalutazione dei propri punti di riferimento valoriali.

In generale, si potrebbe riconoscere che, fino alla consultazione, la campagna referendaria è stata assai spesso giocata sul registro della delegittimazione di chi aveva un pensiero diverso, con scambi pesantissimi di accuse e talvolta anche di offese. E con effetti assai dolorosi: si pensi all’ANPI e alla già citata divisione interna al PD, che probabilmente ha alimentato l’escalation del conflitto interno a quel partito, con gli esiti che oggi si possono materialmente constatare.

Ma, si dirà, ormai il dibattito sulla riforma costituzionale è acqua passata.

Forse non del tutto, però. Infatti, le parole sono pietre – come intitolava Carlo Levi nel 1955 il suo libro (Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia) – anche nel senso che colpiscono e possono lasciare un segno positivo o negativo (una cicatrice). E, ciò detto, le parole divisive non si sono fermate dopo la notte del 4 dicembre. Quindi, non soltanto le parti politiche e i cittadini possono ricordare le parole per essi offensive udite durante la campagna sul referendum costituzionale confermativo (non quelle dette, di queste conserviamo per lo più ricordi sbiaditi e “… comunque, avevamo ragione!”, siamo soliti pensare), ma avvertire ancora continue irritazioni che impediscono la cicatrizzazione.

Non sembra, infatti, che i vincitori del Referendum, come spesso capita ai vincitori delle consultazioni popolari, abbiano inteso, sotto questo profilo, sanare le ferite del Paese.

Poco prima delle parole sopra riportate, Abraham Lincoln, rieletto Presidente degli Stati Uniti, in relazione alla Guerra di Secessione in corso aveva affermato: «Ognuno dei contendenti leggeva la stessa Bibbia, e pregava lo stesso Dio; ciascuno invocava il Suo aiuto contro l’altro. Può sembrare strano che degli uomini osassero chiedere come giusta disposizione divina, di poter rubare per sé il pane guadagnato dal sudore degli altri: ma non giudichiamo, per non essere giudicati. Le preghiere dell’uno e dell’altro non potevano essere esaudite — a entrambe non si poteva ugualmente rispondere».

Lincoln, dunque, esprimeva senza reticenze la sua convinzione circa l’impossibilità che Dio potesse esaudire le preghiere, le richieste di aiuto, rivoltegli dal nemico, cioè dalla Confederazione, dal Sud schiavista, ma aggiungeva: non giudichiamo per non essere giudicati.

Nelle dichiarazioni post referendarie di esponenti politici, giornalisti, opinionisti, leader di movimenti e associazioni che si erano schierati per il NO, ottenendo uno schiacciante 59,11% dei consensi, vale a dire 19.419.000, è alquanto raro rinvenire un atteggiamento di riconciliazione o, ancora prima, un atteggiamento di riconoscimento della dignità di coloro che votarono a favore della riforma. Non si può dire, infatti, che abbiano intasato i media comunicazioni come: «sono contento che abbia prevalso la mia tesi nel voto del 4 dicembre, ma riconosco che anche tu, favorevole al SI, avevi le tue ragioni». Ancor meno mi pare che siano stati molti i messaggi sul genere del seguente: «conservo il mio giudizio negativo sulla riforma costituzionale, riconoscendo che i principi, gli ideali e i valori di chi ha votato SI per quella proposta di riforma, così com’era scritta, meritano di essere rispettati e non banalizzati, considerati e non ridicolizzati, riconosciuti e non svalutati».

Se avesse vinto il SI, quale atteggiamento avrebbero avuto i vincitori verso gli sconfitti? I fautori del NO e, tra questi, soprattutto, gli oppositori di Renzi, prima del 4 dicembre, avevano più volte affermato che una vittoria del SI avrebbe permesso all’allora premier di spadroneggiare senza riguardi per nessuno, facendo polvere dell’opposizione (in primis di quella interna al suo partito).

Forse, allora, è possibile ipotizzare che sia talmente radicata la convinzione che esattamente quello sarebbe stato l’atteggiamento del principale promotore del SI, da far sì che i sostenitori del NO, ancora oggi, fatichino a rispettare le idee, le opinioni e la sensibilità del 40% dei votanti, quasi volessero, ribadendo la forza numerica dei quel circa 60%, ulteriormente indebolire il nemico vinto, onde evitare che si rialzi.

Se tale ipotesi corrispondesse alla realtà, ne conseguirebbe che l’atteggiamento politico dei vincitori della consultazione, potrebbe dirsi influenzato da logiche conflittuali normali, che però li rendono poco sensibili all’opportunità di dare, sul piano relazionale, una concreta attuazione proprio a quei valori in nome dei quali sostenevano convintamente la necessità di votare NO.

 

Alberto Quattrocolo

Dalle fiamme del conflitto politico può levarsi una puzza di “fascismo involontario”?

Interrogarsi sulla tenuta della democrazia, a mio parere, in Italia come all’estero, non è mai un esercizio futile, per chiunque l’abbia a cuore e intenda preservarla, ma, tanto per essere chiari, alla domanda contenuta nel titolo di questo post rispondo subito così: per ora, direi di no. Il che non significa che non possa aver avvertito in alcuni fatti, comportamenti o proposte di natura politica la presenza di aspetti echeggianti quell’esperienza storica (tanto per dire, la gestione da parte delle forze dell’ordine e di chi le comandava del G8 di Genova del luglio 2001, mi sembra rientrarvi a pieno titolo). Mi mancano, però, gli strumenti per poterci scrivere sopra con un minimo di competenza.

Quel che, invece, mi pare pertinente con gli aspetti considerati in questo blog, è un altro punto, strettamente correlato alla dinamica dell’escalation conflittuale in ambito politico (più volte presa in considerazione in altri post e sintetizzata in un articolo ad hoc). In particolare, ogni volta che una forza politica o un esponente politico si pone nella dialettica con i suoi avversari sul terreno della più totale squalificazione e della più completa delegittimazione sul piano della loro democraticità, mi pare che, sia pur involontariamente, ponga in essere un comportamento suscettibile di avere implicazioni antidemocratiche, le quali, se assecondate, a lungo andare potrebbero, in effetti, arrivare a procurare qualche similitudine con il fascismo.

Atteggiamenti polemici radicali tra i politici, che l’Italia repubblicana aveva conosciuto nei non pochi momenti di forte tensione e aspra contrapposizione ideologica ai tempi della “Guerra Fredda”, sono entrati senza difficoltà anche nella Seconda Repubblica: si ricorderà il livello di delegittimazione reciproca che contraddistinse il rapporto tra centro-destra e centrosinistra dal ’94 in poi (gli uni definivano gli altri piduisti, illiberali, fascisti-post-fascisti, mafiosi, garantisti a senso unico, razzisti, maschilisti, omofobi, ecc.; gli altri definivano i primi comunisti-post-comunisti, giustizialisti, illiberali, antidemocratici, totalitari, animati dall’odio…). Non sarebbe inutile, forse, recuperare alcune esternazioni dei diversi leader degli anni passati, riportate dai media: si veda, ad esempio, su il Giornale.it, l’articolo Quel vizietto cronico dei razzisti di sinistra: disprezzo per il rivale e, sul giornale online Diritto di critica, Elenco ragionato degli insulti di Berlusconi agli elettori di sinistra (e ai gay).

Questa dinamica contrassegnata da costanti accuse all’altro di essere intrinsecamente antitetico alla democrazia liberale e ai suoi valori, naturalmente poneva non pochi problemi nei momenti in cui le varie forze si trovavano portate dalle circostanze a dover convergere su singoli provvedimenti, a cooperare su specifiche iniziative o, addirittura, a collaborare stabilmente per periodi più o meni lunghi, sostenendo governi “di coalizione” o “tecnici”. Di questo aspetto, del resto, ci siamo già occupati in un altro post, in particolare al terz’ultimo capoverso.

Ma quella tendenza alla qualificazione dell’altro come “pericolo per la democrazia” non si può dire che abbia subito un’interruzione con la comparsa e poi con l’affermazione elettorale del Movimento 5 Stelle. Anzi, la delegittimazione è stata una costante pressoché irrinunciabile del modo di porsi dei politici pentastellati nei confronti di tutti gli altri partiti e dei loro esponenti, nonché, reciprocamente, di questi ultimi nei confronti di quel movimento.

Il confronto tra le forze in campo, infatti, molto spesso non è all’insegna del “Noi siamo, o sare(m)mo, più bravi a governare di voi”, ma del “Voi siete indegni di governare, anzi perfino di rappresentare”.

In ciò, mi pare che ci siano aspetti anti-democratici. Non intendo affermare, tuttavia, che vi siano nei partiti oggi in campo aspirazioni autoritarie e liberticide (ho già esplicitato che non mi sogno di pensarlo), ma che il pensiero (inconscio?) che precede queste prese di posizione nei confronti degli avversari pare intriso di una tendenza ad aggredire, screditare e, in definitiva, a silenziare politicamente l’altro.

L’utilizzo di espressioni nobilitanti per definire se stessi e sprezzanti per definire l’altro si verifica anche nella vita di tutti i giorni, allorquando il conflitto fa capolino e sterza verso un’escalation all’insegna della mostruosizzazione reciproca. Accade nelle liti di vicinato, sul luogo di lavoro, in famiglia, ecc. A volte, la guerra di parole è seguita dal passaggio alle vie di fatto. E, in effetti, questa transizione si verifica talora anche nelle aule parlamentari e consiliari. Ma, a parte, la traduzione sul piano fisico della violenza verbale, resta il fatto che la guerra verbale esercitata nell’ambito del confronto politico, specie se protratta per lunghi periodi di tempo, produce un effetto di non scarso rilievo sul piano delle rappresentazioni mentali che si veicolano all’opinione pubblica: l’avversario diventa un nemico, e non solo un nemico della mia parte politica e del mio elettorato, ma della collettività tutta, perché è corrotto, perché è populista… In definitiva perché è antidemocratico.

E nel ritrarlo come nemico non ho nemmeno bisogno di argomentare più di tanto. Mi basta prendere spunto da qualche dato di realtà, per poi procedere con l’affondo ai danni dell’altro e, contestualmente, pervenire alla glorificazione della mia parte e della mia persona.

Si pensi, ad esempio, a quando nell’incontro del 2013, visibile in streaming tra Pierluigi Bersani ed Enrico Letta, del Partito Democratico, da un lato, e, dall’altro, Roberta Lombardi e Vito Crimi, del Movimento 5 Stelle, la Lombardi, dopo aver ascoltato l’introduzione di Bersani, dichiarò: «Io l’ho ascoltata e mi sembrava di stare a sentire una puntata di Ballarò, francamente. Sono vent’anni che noi ascoltiamo queste parole. E noi non incontriamo le parti sociali, perché noi siamo quelle parti sociali, quei cittadini, quei lavoratori, qui cassaintegrati, quegli studenti fuori sede, quei disoccupati che vivono tutti i giorni la realtà di questo Paese….». Per quanto il tono di voce fosse pacato, di fatto, la portavoce dei Cinque Stelle annullò ogni dignità politica dei suoi interlocutori e affermò come unica valevole quella del proprio Movimento. Che ne fosse conscia o meno, dalle sue parole poteva tranquillamente farsi derivare, senza forzature, una conclusione di questo tipo: «Solo il Movimento Cinque Stelle ha il diritto di rappresentare il popolo, perché è il popolo e, essendolo, lo rappresenta tutto (e per questo, ad esempio, non ha bisogno di stare a sentire le parti sociali)». Se in qualche misura veniva evocata dalle sue affermazioni, la celebre battuta di Alberto Sordi, nelle vesti del Marchese del Grillo, nell’omonimo film di Mario Monicelli («Mi dispiace, ma io so’ io e voi non siete un c…o»), vi è una certa differenza, perché, quella era, appunto, una battuta, mentre le parole della Lombardi, e le altre assai simili spesso scritte e pronunciate da Beppe Grillo (ad esempio, il 17 maggio 2014, a Torino, nel Vinciamonoi Tour: «I primi giorni che andremo a governare questo Paese abbiamo il dovere e abbiamo il diritto di fare un processo pubblico a questa gente qua. Abbiamo la rete e gli faremo un processo pubblico. La Digos è tutta con noi la DIA è tutta con noi, i carabinieri sono con noi. Noi facciamo un appello: basta, non ce la fanno neanche più loro a scortare quella gente lì al supermercato o ai festival rock») e dai politici pentastellati, non erano proposte per fare ridere il pubblico cinematografico.

Analogamente, allorché si definisce il Movimento 5 Stelle un algoritmo, come fece Renzi, parlando con Ezio Mauro, nella sua prima intervista successiva al referendum costituzionale, il 17 gennaio (Renzi: “Sinistra, governo e banche: così riparto dai miei errori. Il M5s è solo un algoritmo”), si nega alla radice ogni legittimità a quell’organizzazione politica. Volontariamente o meno, per i portavoce, i militanti e gli elettori cinque stelle è come se si equiparasse l’organizzazione politica in cui credono e in cui si riconoscono ad una sorta di versione all’amatriciana della Spectre.

Anche in occasione dell’apertura della tre giorni al Lingotto di Torino, che segna l’inizio della sua campagna congressuale, Matteo Renzi ha affermato che «Il Pd in Italia è l’unica alternativa al doppio modello: partito azienda da una parte, partito algoritmo dall’altra. Chi spara contro questa comunità in questo momento indebolisce l’argine della tenuta democratica di questo Paese».

Berlusconi si è posto e ancora si pone, rispetto al Movimento 5 Stelle, su una linea non dissimile: nel presentare a Milano “l’Albero delle libertà”, il nome del programma di Forza Italia in vista delle prossime elezioni politiche, ha descritto il Movimento 5 Stelle come «governato da un dittatore» e «fatto di sottoposti, incapaci, di pauperisti e di giustizialisti».

È noto che il conflitto, qualsiasi sia l’ambito in cui si propone, scatena, quando ne siamo protagonisti, i nostri lati peggiori e che, si potrebbe anche dire, risveglia o slatentizza il “fascista” che dorme, sonnecchia o sta in silente attesa dentro di noi: interrompiamo l’interlocutore e non gli restituiamo la parola finché il fiato ce lo consente, ne denigriamo e distorciamo le opinioni, riformuliamo le sue tesi per ridicolizzarle, produciamo massime e sentenze lapidarie ma siamo avari di dimostrazioni (citando Beaumarchais, «provare che ho ragione significherebbe riconoscere che posso avere torto»), se concediamo attenzione ai suoi discorsi, lo facciamo non per ragionarvi su, ma per prepararci a ribattere efficacemente, per smentirli e smontarli e, quando l’escalation del conflitto si spinge oltre, arriviamo ad azzittire, insultare, minacciare, maltrattare…

Quando il conflitto si esaspera, l’altro, il nostro nemico, ci è insopportabile, vorremmo che sparisse dalla scena per sempre.

Il fatto, dunque, che dinamiche simili possano in qualche misura proporsi anche nell’ambito del confronto tra le forze politiche, non dovrebbe essere particolarmente sconvolgente. Infatti, non lo è. Fa drizzare le antenne, però, la tendenza, diffusa e trasversale, a rappresentare l’altro come il Male e come un pericolo per la democrazia, una minaccia per il bene dei cittadini perbene. Infatti, una volta che si sia ridotto l’avversario al ruolo di minoranza, a seguito di consultazioni elettorali, magari anche solo di quelle amministrative, potrebbe sorgere un quesito non trascurabile, da un certo punto di vista psicologico (o psicologico-politico): perché lasciare al Male la possibilità di riprendersi?

Provo ad immaginare, a seguito del precedente interrogativo, l’avvio di un botta e risposta di questo tipo: “Perché esiste la Costituzione”. “Ok, ma basta la carta costituzionale a frenare la spinta ad eliminare il Male, cioè il nemico della Costituzione stessa?”. “Sì, basta, ed è bastato. Ci sono stati, ad esempio, al governo, prima Berlusconi, che giudicava antidemocratici quelli di centrosinistra, e poi il centrosinistra, che giudicava antidemocratico il centrodestra. Inoltre, noi siamo quelli dalla parte del Bene e, in quanto tali, siamo capaci di sopportare l’esistenza del Male”. “Sarà, ma è un po’ poco. Infatti potrebbe essere fortina la tentazione di far fuori una volta per sempre il Male, cioè di levare dalla faccia della Terra, o almeno dalla faccia dell’Italia, le forze che sono democratiche solo a parole ma antidemocratiche di fatto, anche a costo di qualche provvisorio sacrificio delle prerogative costituzionali”. “In oltre settant’anni di Repubblica non è mai accaduto”. “Be’, più o meno, visto che la democrazia dell’alternanza, in realtà, si è avuta in Italia ben un lustro dopo la caduta del Muro di Berlino”.

Mi fermo qui, perché credo che il concetto sia chiaro.

Infine, può presentare risvolti antidemocratici un certo richiamo al consenso popolare: il popolo sta dalla mia parte, mi dico, magari perché ho vinto un’elezione o ha avuto una certa percentuale di voti, e, siccome il popolo ha sempre ragione, io ho ragione; io sono dalla parte della verità e, se tu mi contraddici, sei contro il popolo, sei contro la democrazia. Vox populi, però, non è vox dei: e se lo si vuol far passare, tale messaggio, allora, sì, che c’è un problema democratico. In tal caso, come notava tra gli altri Giovanni Sartori (Democrazia. Cosa è, 1993), vox populi può facilmente diventare vox diaboli.

Certamente, è normale che chi viene sostenuto dalla maggioranza degli elettori sia propenso a ringraziare coloro che hanno votato a suo favore, nonché ad ingraziarseli e a sollecitarli a tenere alta la guardia dalle lusinghe e dalle perorazioni dell’avversario sconfitto. Ma la democrazia è governo del popolo soltanto nel senso che è presso quello che il potere politico trova la fonte della  legittimità, e non significa che il popolo ha sempre ragione ed è sempre dalla parte della verità. Anzi, la democrazia pone proprio il principio che la maggioranza degli aventi diritti al voto ha l’inalienabile diritto di sbagliare (Sartori, 1993).

Siccome tale diritto ce l’ho anche io, qui l’ho esercitato; spero, però, di averlo fatto senza offendere nessuno, avendo inteso, in realtà, porre soprattutto in rilievo quanto l’escalation conflittuale può portarci tutti, anche i politici, ad affermazioni assai lontane dai valori, dagli ideali e dai principi cui più siamo attaccati e in nome dei quali, magari, ci impegniamo ogni giorno, affrontando anche stress, fatiche e rinunce.

 

Alberto Quattrocolo

 

 

Carnage politico

Nel 2011 fu distribuito nelle sale cinematografiche Carnage, un film diretto da Roman Polański, tratto dall’opera teatrale Il dio del massacro di Yasmina Reza e sceneggiato da lei e dal regista. La trama vede due coppie di genitori, apparentemente animati dalle migliori intenzioni conciliative, incontrarsi presso la casa di famiglia di una di esse, per risolvere il contrasto tra i rispettivi figli undicenni (uno dei due aveva colpito al volto l’altro con un bastone), e finire col dare luogo ad una sorta di carneficina emotiva da cui non si salva nessuno. Infatti, Yasmina Reza e Roman Polanski, con l’apporto fondamentale di un cast composto Jodie Foster, Kate Winslet, Micheal C. Reilly e Christoph Waltz, pongono in evidenza come basti poco a dissolvere le buone maniere e a far emergere aspetti più intrinsecamente e visceralmente personali, che danno luogo ad un crescendo di accuse, squalifiche e recriminazioni culminanti con il grido “nostro figlio ha fatto bene a spaccare la faccia a quello stronzetto di vostro figlio”.

La prospettiva polanskiana, come sa chi ne segue la cinematografia, è spesso all’insegna di un amaro e dissacrante pessimismo circa la natura umana ed egli più volte si è soffermato sulla tensione tra le pulsioni (spesso distruttive) e la civilizzazione, mettendo in mostra l’irruzione delle prime a discapito delle istanze della seconda (in fondo già, ad esempio, Repulsione o Cul-de-sac, possono essere visti anche attraverso tale chiave di lettura). Perciò, lo sviluppo della trama e il suo finale sorprendono poco, da questo punto di vista, mentre potrebbe essere più sorprendente il fatto che dinamiche relazionali non tanto dissimili da quelle descritte nel film siano rinvenibili anche nell’ambito della dialettica politica. La sorpresa, però, ammesso che abbia senso ipotizzarla, è per l’appunto solo teorica, poiché soltanto chi fosse propenso ad una totale idealizzazione potrebbe stupirsi del fatto che i rapporti in ambito politico, inclusi quelli di natura conflittuale, siano permeati di ciò che, spesso con spirito giudicante, suole definirsi personalismo.

Infatti, che le vicende politiche siano influenzate anche dalle personalità dei soggetti che vi partecipano in posizioni apicali non soltanto è un fatto probabilmente da sempre riscontrabile (si potrebbe dare un’occhiata con questa lente anche solo ai più drammatici fatti storico-politici per rispolverare l’incidenza avuta dalle personalità di capi, re, imperatori, presidenti, leader religiosi o sindacali, ammiragli e generali nel concorrere a determinare il corso degli eventi), ma anche insopprimibile.

Ciò che può stupire il cittadino, e forse a volte lo amareggia, lo delude o addirittura lo disgusta, dunque, non è tanto il coinvolgimento personale del politico di prima o di ultima fila, quanto, nel caso di conflitti politici portati all’esasperazione, il vedere prevalere istanze prevalentemente o esclusivamente di parte e personali rispetto all’interesse e al bene comuni.

Ciò, però, si correla con una delle caratteristiche del conflitto e della sua escalation: la tendenza degli attori del conflitto ad interpretare le proprie condotte e strategie, finalità e aspirazioni, i propri desideri e bisogni come congruenti e coerenti con gli ideali professati.

Ciò non vale solo per i politici, ma presumibilmente per tutti noi. Nessuno, si potrebbe osservare, è disponibile ad ammettere di impegnarsi in una relazione conflittuale per conseguire un mero vantaggio egoistico ed egocentrico. Infatti, nelle situazioni conflittuali, per lo più ci accade non soltanto di rivestire le nostre azioni di significati alti, ma anche di compiere un’inconsapevole identificazione tra l’ideale perseguito o il valore (etico, sociale, culturale, morale, religioso o politico) affermato e la nostra persona. E in tali casi, dato il rilievo nobile o, almeno, apprezzabile, della nostra battaglia, capita che confondiamo i mezzi con i fini. Cioè, succede che, mentre perseguiamo quelle che riteniamo essere le giuste aspirazioni a migliorare il mondo, ci troviamo a venire a patti con la nostra coscienza rispetto ai modi e ai mezzi con cui ci battiamo contro l’altro.

Se ciò è in qualche misura vero, la propensione a giustificare con alti princìpi le nostre condotte aggressive viene declinata nelle situazioni in cui la posta in gioco è per noi importantissima: cioè allorquando si tratta di tutelare o far fruttare investimenti significativi, quando la dedizione alla causa ha implicato sacrifici e rinunce rilevanti, quando è a rischio la concretizzazione di progetti e di sogni, di attese e di speranze, quando temiamo che vengano sacrificate vanamente le risorse messe in campo in termini di tempo, di lavoro, di denaro, di energie, ecc. Anzi, sul tema della passaggio all’atto violento, tra le più citate vi è la teoria della frustrazione, elaborata da Dollard e Miller (1939), secondo la quale l’individuo diventerebbe aggressivo quando trova degli ostacoli sul suo cammino che impediscono il raggiungimento degli obiettivi che si è prefissato, e la sua aggressività subirebbe un incremento esponenziale in funzione dell’avvicinamento alla meta (cioè, quanto più l’individuo sta per raggiungere il suo obiettivo e viene interrotto in tale  proposito, tanto più aumenterebbe la sua aggressività), portandolo a prendersela con il soggetto responsabile della frustrazione oppure con un bersaglio innocente o persino con se stesso (in molti casi, si osserva, l’aggressività viene repressa e non arriva a manifestarsi all’esterno, restando dentro l’individuo, sotto forma di risentimento o di sogni, mentre in altri casi viene controllata sul momento e rinviata).

C’entra tutto ciò con il “carnage politico” che dà il titolo a questo post?

C’entra, se si pone attenzione al fatto che l’obiettivo prefissato, di cui si parla nella teoria della frustrazione, può consistere nell’appagamento non soltanto di un desiderio o di un’esigenza di tipo materiale, ma anche di un bisogno di natura immateriale. Ad esempio, a scatenare l’aggressività del singolo o di un gruppo può essere la frustrazione derivante dall’azione altrui che impedisce di raggiungere l’obiettivo di sentirsi riconosciuti, apprezzati, stimati, ben voluti, amati o adorati; oppure potrebbe esservi una reazione aggressiva conseguente all’ostacolo al raggiungimento di uno status particolare (il che poi spesso si collega con il sentirsi riconosciuti, apprezzati, stimati, ben voluti…).

Gli obiettivi citati e i corrispondenti bisogni riguardano, verosimilmente, tutti gli esseri umani (tutti, credo, abbiamo bisogno di sentirci riconosciuti, considerati, rispettati, apprezzati, stimati, ben voluti e amati), e sarebbe logico supporre che siano attribuibili anche a quegli esseri umani che si occupano attivamente di politica, e che la reazione aggressiva, generato da una frustrazione, sia rinvenibile non soltanto nei loro sentimenti e comportamenti individuali, ma anche nei vissuti e nelle reazioni del gruppo (partito, movimento o schieramento che sia).

Si pensi, tanto per fare alcuni esempi, alla reazioni di Luigi Di Maio, intervistato da Giovanni Floris, nella trasmissione Dimartedì del 7 marzo, o a quella di Alessandro Di Battista, intervistato sempre da Floris nella puntata del 24 gennaio o a quella di Matteo Renzi, intervistato il 3 marzo da Tommaso Cerno, direttore di L’Espresso, e da Lilli Gruber, nel programma condotto da quest’ultima, Otto e Mezzo.

Ciò che accomuna tali interviste è il fatto che oggetto di molte domande fossero le indagini giudiziarie in corso (in particolare, quella che vede tra gli indagati Virginia Raggi e quella sul caso Consip, che coinvolge anche il Ministro Luca Lotti e Tiziano Renzi, il padre dell’ex premier), ma vi è anche un altro aspetto trasversale al modo di reagire dei tre politici intervistati a certe domande, che essi potevano interpretare come intrise delle polemiche abitualmente proposte dagli avversari politici: in tutti tali casi, si è manifestata sullo schermo una certa reazione emotiva – disagio, fastidio, irritazione, offesa o indignazione – e successivamente una dichiarazione di contrattacco, prevalentemente all’insegna della rabbia,  tesa alla delegittimazione dell’avversario. Infatti, con toni, forme e ragionamenti diversi, Di Maio, Di Battista e Renzi, nel replicare, hanno proposto un attacco squalificante verso la o le controparti politiche (rappresentate anche da media considerati politicamente avversi) e, in particolare, verso quelle da cui sapevano provenire il pensiero delegittimante e svalutante sotteso alla domanda posta dall’intervistatore.

La teoria della frustrazione, che ha l’indubbio merito di essere semplice e vicina al senso comune, è stata, in realtà, molto discussa, poiché si è osservato che la frustrazione non sfocia sempre nell’aggressività e che non tutti i comportamenti aggressivi sono provocati da una frustrazione.

Però, è vero, che spesso il conflitto sorge in conseguenza dell’azione di un soggetto che impedisce all’altro di soddisfare una propria esigenza, la quale può essere di natura relazionale. Naturalmente, conflitto e aggressività non sono sinonimi. Non sempre, dunque, la frustrazione produce una condotta aggressiva, ma qualche volta, sì, come manifestazione di una condizione conflittuale innescatasi per effetto dell’impedimento alla soddisfazione di un bisogno. E quando la risposta conflittuale assume le forme dell’aggressione (verbale o fisica), a farlo succedere concorre il fatto che mettiamo la sordina ai nostri propositi e alle nostre consuetudini di tolleranza, comprensione e benevolenza. Ciò, perlopiù, si verifica quando l’azione ci nega la soddisfazione di esigenze per noi fondamentali, come individui e/o come rappresentanti di una comunità, incluse quelli legate a come vorremmo essere percepiti e valutati sul piano della credibilità, dell’onestà, della coerenza e dell’affidabilità.

E, se in tali ragionamenti vi è un che di plausibilità, è possibile supporre che essi si possano proporre, come abbiamo tentato di fare, anche a ciò che abbiamo definito il carnage politico. Se così è, allora ciò forse può contribuire ad interpretare l’apparente perdita di capacità di vedere oltre se stessi che talora accompagna le modalità di stare in conflitto dei protagonisti della politica, in particolare, quando assumono atteggiamenti che, agli occhi dei cittadini, di fatto, ne corrodono la credibilità e l’apprezzamento, ossia intaccano proprio quei “beni” che essi, attaccando e difendendosi, tentano di conservare o alimentare per sé e di far perdere alla controparte.

Quest’ultimo aspetto appare anche nel film di Polański, quando nelle liti tra le due coppie emergono le tensioni interne ad esse e quando si manifesta una sorta di conflittuale solidarietà maschile tra i due mariti contro le loro mogli. Anche in politica, infatti, accade che si faccia provvisoriamente comunella col nemico, se per un attimo c’è qualcosa che unisce a lui nella contrapposizione ad un altro partito.

Le chiavi di lettura fin qui proposte, ovviamente, si inseriscono in una prospettiva che non vuole essere superficialmente giudicante, ma che è tesa a proporre in termini realistici, o almeno non troppo idealistici, delle possibilità di prevenzione e di contenimento degli effetti più deleteri del conflitto in ambito politico.

Alberto Quattrocolo

La scissione nel PD e “la sindrome da alienazione genitoriale” nella base

Con l’entrata in vigore della Legge 54/2006, è stato introdotto, come modalità ordinaria, l’istituto dell’affido condiviso dei figli minori tra i due coniugi, con il quale si afferma il principio della bigenitorialità, cioè del diritto del figlio ad un rapporto stabile e completo con entrambi i genitori, anche laddove vi sia la disgregazione del legame sentimentale e talvolta anche giuridico tra i genitori conviventi. A tale diritto del figlio corrisponde quindi un dovere dei genitori, sulla base di un principio: essere genitori è un impegno nei confronti dei figli che non può essere influenzato da un’eventuale separazione.

Di conseguenza l’affidamento del figlio ad un solo genitore è previsto solo quando l’interesse del minore potrebbe risultare pregiudicato da un affidamento condiviso (Hayne e Buzzi, 2012).

Fino al 2005, è stato l’affidamento esclusivo dei figli minori alla madre la tipologia ampiamente prevalente. Per dire, nel 2005, i figli minori sono stati affidati alla madre nell’80,7% delle separazioni e nell’82,7% dei divorzi.

Nel 2015 le separazioni con figli in affido condiviso sono state circa l’89% contro l’8,9% di quelle con figli affidati esclusivamente alla madre (gli affidamenti concessi al padre continuano ad essere perciò assai pochi).

Perché, su questo blog proponiamo simili informazioni?

Perché, abbiamo l’impressone che si possa azzardare un parallelo tra quanto sta accadendo tra PD e MDP e il caso di una separazione conflittuale di una coppia con figli.

Riguardo a quest’ultima situazione è stato osservato che, a prescindere dell’età dei figli coinvolti, per aiutarli ad affrontare la separazione, occorre, tra le altre cose, che i genitori sappiano: rassicurarli del fatto di non essere responsabili della rottura; aiutarli a sentirsi liberi di amare a frequentare entrambi; collaborare, ascoltarsi e rispettarsi (Foti e Targher, 2014).

Non è la separazione in sé, ma il basso grado di conflittualità tra i genitori separati che permette di preservare la serenità dei figli (Francescato, 2009). Tuttavia chi lavora in tale ambito sa che i comportamenti inadeguati dei genitori non sono rari e danneggiano notevolmente i figli (Berger e Gravillon, 2007).

Si direbbe che i comportamenti conflittuali e dannosi che talora i genitori pongono in essere presentino delle similitudini rispetto a quelli realizzati da chi è rimasto e chi è uscito dal PD.

Un modo di agire scorretto del genitore è quello di manifestare al figlio la sua rabbia verso il coniuge, poiché, così facendo ne intacca il legame di fiducia con l’altro genitore (Berto e Scalari, 2016), e demolire, agli occhi dei figli, l’immagine dell’altro e la storia familiare pregressa significa procurare un danno. Un figlio, infatti, ha bisogno di pensare che c’è stato qualcosa di buono, un tempo, nel matrimonio dei suoi genitori e che c’è stato un momento in cui si amavano, si stimavano ed erano attratti uno dall’altra.

Potrebbe darsi che un militante o un ex militante del PD possa vivere sentimenti non del tutto dissimili. Cioè che anche per lui, come per il bambino non sia piacevole sentirsi dire da qualcuno dei suoi rappresentanti che gli altri, in cui riponeva fiducia e con cui almeno un po’ si identificava, sono persone indegne.

Sempre in relazione alle separazioni conflittuali, accade che alcuni genitori danneggino i figli considerandoli come una proprietà su cui hanno dei diritti. Volendosi appropriare di tutto quello che è posseduto dall’antagonista, ambiscono anche all’esclusivo possesso del figlio, comes se ciò rappresentasse il massimo trofeo. E tale tiro alla fune è sempre condotto in nome di ideali socialmente apprezzati e condivisi: tutelare il figlio dalla cattiva influenza di un genitore inaffidabile, far rispettare pienamente i diritti del minore, garantirgli un equo tenore di vita, ecc.

Per arrivare a tale possesso pieno, spesso i genitori utilizzano i figli come dei pegni emotivi, ad esempio, affermando che essi, in realtà, non vogliono trascorrere del tempo con l’altro genitore (Haynes e Buzzi, 2012). La verità, però, è che non ci sono bambini che vogliono stare con un solo genitore: ci sono, purtroppo, figli costretti a prediligere un genitore per accattivarselo, per sentirsi protetti e amati. Infatti, il figlio che non vuole frequentare uno dei due genitori, in realtà, sta comunicando che non ne può più di stare in mezzo alle tensioni tra mamma e papà, cioè «dà le dimissioni da figlio attraverso le sceneggiate che fa per andare a trovare il genitore sconfessato» (Berto e Scalari, 2016).

Da tali comportamenti può derivare anche la sindrome da alienazione genitoriale, che si manifesta con otto sintomi principali (Baker, 2010). Vediamoli e riflettiamo sulla possibilità che qualcosa di analogo si sviluppi anche tra gli iscritti e i militanti del Partito Democratico e tra coloro che si sentono invece più affini al Articolo 1 – Movimento Democratico e Progressista :

1)         La messa in atto di una campagna di denigrazione contro l’altro genitore rende il bambino ossessionato dall’odio nei confronti di quello, sicché si comporta come se non ci fosse mai stato un rapporto significativo, un passato di esperienze positive.

Rispetto a quanto si legge sui social da parte di chi commenta la scissione, può riscontrarsi frequentemente tale tipo di reazione, che si sostanzia in una netta svalutazione anche dell’operato precedentemente messo in atto dal politico successivamente detestato.

2)         Motivazioni deboli, futili e assurde della svalutazione dell’altro genitore.

Anche su tale fronte, stando ai commenti sui social, non si può dire che manchino degli esempi di denigrazioni del nuovo avversario (Bersani o Renzi, per dire) basate su argomenti inconsistenti.

3)         La mancanza di ambivalenza del bambino: un genitore diventa completamente positivo, l’altro completamente negativo.

Si tratta probabilmente dell’aspetto più evidente della cosiddetta scissione avvenuta a livello della base. Sia nelle interviste fatte dai media tradizionali, e proposte in diversi servizi televisivi e radiofonici, che nelle affermazioni apparse sui social media, è di solare evidenza l’assenza di sfumature nel ritrarre il politico che non si considera più come proprio rappresentante.

4)         I bambini sono categorici nel sostenere che la decisione di rifiutare l’altro genitore sia scaturita da loro. Questi bambini non hanno più neanche bisogno che il genitore alienante inculchi in loro le proprie opinioni, poiché hanno già adottato essi stesse quelle opinioni.

Forse, è questo un aspetto un po’ meno rinvenibile, ma non si può certo definire assente, sempre stando a quanto si può riscontrare con le rudimentali forme di rilevazione suddette. E, d’altra parte, su tale aspetto si tornerà più avanti rispetto al rimpallo di accuse circa la colpa della scissione nel PD.

5)         L’assenza di senso di colpa nel rapporto con il genitore alienato.

Il rappresentante politico “alienato” – cioè Renzi per i sostenitori della bontà della scissione, e D’Alema, Rossi o  Bersani per i sostenitori dell’ex premier -, in effetti, è oggetto di comunicazioni da parte della base che sono connotate da un tale astio che risulta difficile rinvenirvi tracce di senso di colpa in chi le scrive o dice.

6)         Un appoggio istintivo del bambino al genitore alienante, poiché con esso si è schierato ed è irremovibile nella sue convinzioni.

Non pare che si possa riscontrare esattamente lo stesso livello di adesione acritica a qualsiasi cosa faccia o dica il rappresentante “alienante”, cioè quello verso il quale si è conservata o spostata la fiducia, ma parrebbe esservi una sospensione della capacità di essere autonomi nelle valutazioni del proprio leader maggiore di quanto non avvenga normalmente.

7)         I bambini muovono spesso accuse all’altro genitore utilizzando delle espressioni, il linguaggio e i pensieri mutuati interamente dal genitore alienante.

In effetti, fa impressione rilevare come le espressioni usate dai politici in lite vengano riproposte quasi alla lettera tra gli appartenenti alla base.

8)         Il  bambino denigra, disprezza e respinge non soltanto il genitore alienato, ma anche tutti i suoi familiari.

Non si può certo dire, infatti, che gli “antirenziani”, anche quelli rimasti iscritti al PD, invero, abbiano un atteggiamento tenero verso i “renziani”, così come si sprecano gli insulti ai danni di tutti gli “antirenziani”, siano essi fuoriusciti o sostenitori degli altri candidati alle primarie.

 

Però, se tali atteggiamenti mentali e tali comportamenti tangibili sono ipoteticamente presenti e percepibili presso l’elettorato del PD e i sostenitori di MDP, quali sono i comportamenti dei leader che, sempre in ipotesi, li hanno influenzati?

In primo luogo, viene in mente che gli ex partner democratici si rinfacciano l’un l’altro le colpe della frattura prodottasi nel contenitore politico comune. Per certi versi, è un po’ come se entrambi dicessero: ho fatto di tutto per tenere unita la famiglia (il partito), è l’altro che ha voluto la frattura. Per coloro che sono usciti dal Partito Democratico, addirittura la tesi più volte enunciata è che la scissione, in realtà, si era già consumata nella base e che l’allora segretario, Matteo Renzi, non ha saputo o voluto curarsene. Conservando il parallelo con la coppia genitoriale che vive una separazione imbevuta di conflittualità rovente e profonda, tali asserzioni ricordano quelle del genitore che rinfaccia all’altro di non essersi saputo prendere cura del figlio e, condividendo questo pensiero con il figlio stesso, attribuisce a tali mancanze dell’ex convivente la ragione della scelta separativa. In tal modo, però, quel genitore sviluppa anche un gigantesco senso di colpa nel figlio.

Roberto Speranza, intervistato da Maria Latella su SKYTG24, ha attribuito al suo ex segretario ogni responsabilità, senza sfumature, di quanto verificatosi: «Noi abbiamo provato fino in fondo. Ho creduto fino all’ultimo istante che si potesse evitare la rottura (…). Renzi passerà alla storia come il segretario che ha distrutto il Partito Democratico».

A tali accuse, Renzi, ospite di Fabio Fazio, nella trasmissione di Rai Tre, Che tempo che fa del 26 febbraio, ha ribattuto dicendo «A me dispiace molto. Era un disegno già scritto, ideato e prodotto da Massimo D’ Alema».

Fosse anche vero – e, secondo molti commenti sui social e secondo il parere di osservatori di professione, vi sarebbe un quid di verità -, la dichiarazione di Renzi, di fatto, costituisce anche una svalutazione, certamente non voluta, verso coloro che hanno scelto di uscire dal PD e verso coloro che hanno approvato tale decisione. Entrambi, infatti, da quelle parole sono ridotti al rango di soggetti facilmente manipolabili.

Del resto, Pierluigi Bersani, il giorno successivo, in un incontro pubblico a Modena, ha risposto a Renzi in maniera del tutto simmetrica: «Non sia così umile Renzi. Il regista è lui, la disgregazione del partito ha un regista che si chiama Renzi». Anche in tal caso, coloro che sono rimasti nel PD o che intendono continuare a votare per esso e magari anche per Renzi alle primarie in arrivo, possono avere l’impressione di essere considerati da Bersani come burattini, consapevoli o inconsapevoli di essere manovrati dall’ex premier. Inoltre, potrebbero limitarsi ad una lettura superficiale delle dichiarazioni di Bersani e osservare polemicamente: ma come sarebbe che il regista è Renzi? Bersani non aveva detto che la scissione era già avvenuta nella base?

In ogni caso, al di là di tali accuse cospirative, resta il fatto che l’elettorato, gli iscritti e i militanti di quell’area sono interessati da una sollecitazione che non si limita al mero corteggiamento ma assume la forma di un invito al rancore, al disprezzo, all’odio degli ex compagni di partito. Un atteggiamento, in effetti, che nell’ambito della conflittualità interpersonale si riscontra nelle liti tra amanti, amici o fratelli che si sentono traditi.

Si è soffermato, ad esempio, su tale aspetto Tommaso Labate sul Corriere della Sera del 27 febbraio, a pagina 6, con un articolo dal titolo “Tra colpi bassi, battutacce e ripicche. Un partito trasformato in insultificio”.

Quando la relazione tra genitori separati assume tale piega, essa procura nei figli una drammatica scissione sul piano di una impossibile doppia lealtà esclusiva, con effetti quali quelli sopra descritti. Se volgiamo lo sguardo alla base elettorale e ai militanti dell’area politica attualmente attraversata da simili spaccature conflittuali, è possibile rinvenirvi anche il propagarsi del conflitto in basso e in senso orizzontale. Cioè: il conflitto, sviluppatosi orizzontalmente tra i politici, si diffonde dal vertice alla base, dove si allunga contemporaneamente lungo tre linee, che sono quella orizzontale, quella verticale e quella obliqua.

La prima è quella che vede il conflitto svilupparsi tra militanti ed elettori, che polemizzano tra di loro; la linea verticale è doppia, poiché vi è quella che segna il conseguimento del risultato auspicato da entrambi le fazioni politiche e che vede i militanti arrabbiarsi con quei politici cui si sentivano più vicini, a cui rimproverano il fallimento della relazione (così i renziani si arrabbiano con il segretario dimissionario, lo accusano di aver provocato la scissione e diventano ex renziani, dando forse un po’ di soddisfazione a Speranza, Bersani, D’Alema, Rossi ecc., ; mentre i bersaniani, per dire, si arrabbiano con quest’ultimo per la sua scelta di uscire dal PD e diventano ex bersaniani, procurando, magari, altrettanta soddisfazione ai renziani), e vi è l’altra che vede la rabbia dei militanti tradursi in una sfiducia generalizzata verso tutti, con relativo allontanamento dal PD e dal MDP; la linea obliqua è quella dei militanti pro-Renzi o pro-Bersani rancorosi rispettivamente verso Bersani (e gli altri fuoriusciti) o verso Renzi (e gli altri esponenti rimasti nel PD).

Appare non difficile prevedere che la rabbia della base verso il vertice possa essere ricambiata con la moneta (del vertice) del disprezzo, ma soprattutto che alimenti ulteriormente il fuoco del conflitto in corso.

Dunque, come quasi sempre avviene, anche in tal caso l’escalation conflittuale porta le parti a dare il peggio di sé: impegnate nello sforzo di prevalere sull’altro, vengono meno, senza accorgersene, anche ai valori e ai principi identitari (tolleranza, rispetto per l’altro e accettazione della sua diversità, disponibilità a difendere il diritto altrui ad esprimere idee ed opinioni dalle proprie, lotta al pregiudizio e allo stereotipo).

E, questo, sì, che può rendere incandescente una delle due linee verticali del conflitto di cui si scriveva prima. Non è insolito, infatti, che nelle situazioni conflittuali più le parti cercano di stimolare il consenso e la solidarietà di un pubblico ad esse vicino per legami, affetti, frequentazioni (amici, parenti, colleghi, ecc.), più risultano all’occhio di tale pubblico sgradevoli. In particolare, i loro tentativi di portare dalla propria parte i terzi, possono farle apparire a costoro ciniche e manipolative, rigide e ostinate, egoiste ed egocentriche, ottuse e rancorose, inacidite e puerili, autoreferenziali e vittimiste, bugiarde e deboli, inguaribilmente faziose e vendicative. In breve, quando ci troviamo in tali situazioni relazionali, finiamo con l’alienarci proprio le simpatie di molti di coloro di cui cerchiamo la vicinanza, la comprensione e la solidarietà.

Quando si sviluppa tale dinamica con il “pubblico” (nel caso di quanto accade a sinistra il pubblico, ovviamente, è quella parte dell’elettorato), cioè, quando, come detto, si compie un’estensione del conflitto in corso, le parti sperimentano un surplus di rabbia verso la controparte. Quindi, si stimola ulteriormente l’escalation conflittuale, producendo un continuo rilancio delle delegittimazioni.

Ciò può generare due conseguenze di rilievo:

  • un inarrestabile depauperamento del confronto sul piano dei contenuti, accompagnato da una reciproca attribuzione alla controparte di essere la causa di ogni male;
  • un’esaltazione degli aspetti etero e autodistruttivi del conflitto “a sinistra” che si ripercuote nella dialettica già esasperata con le altre forze politiche.

In conclusione, non soltanto per restare insieme occorre trovare punti di accordo e rispettarsi, ma anche per separarsi, sia quando si è genitori che quando si è politici. Poiché, i politici, come i genitori, tra le altre funzioni, hanno anche quella di tipo educativo: essere d’esempio.

Si tratta a volte di un peso e di una responsabilità psicologicamente soverchianti per i genitori, ed è lecito supporre che sia un compito di non facile assolvimento anche per i politici, ma, in entrambi i casi, fa parte del gioco, se si vuole tentare di giocare dignitosamente.

L’onestà potrebbe essere un rimedio per alcune situazioni di impotenza del potere politico?

Da sempre la politica è anche ricerca, acquisizione e gestione del potere. Ad ispirare rapporti di alleanza o convergenza tra partiti o tra questi e forze sociali, quindi, vi è anche tale istanza. Però, l’esperienza dimostra che la ricerca del potere, realizzata talora attraverso la costruzione di estese alleanze tra partiti non integratisi realmente ma associati solo al fine di vincere le competizioni elettorali e poi di governare, produce nel medio o lungo periodo situazioni concrete di inadeguatezza nell’assolvimento dei difficilissimi compiti di governo. La ricerca del potere, cioè, a volte, procura risultati condizionati da una sorta di impotenza di fatto, non esclusivamente attribuibile al carattere complesso dei problemi concreti da affrontare.

Lo si è potuto constatare nel caso di talune esperienze di governo nazionale e, secondo alcuni critici del Movimento 5 Stelle, lo si riscontrerebbe anche nel caso dell’amministrazione di Roma.

I più duri detrattori di tale esperienza di governo cittadino cinque stelle si concentrano su alcuni aspetti negativi dell’azione svolta dalla giunta Raggi, attribuendoli ad una incapacità personale della sindaca capitolina e/o al carattere dilettantesco o severamente dirigistico dello stesso Movimento (come esempio tra i tanti vi è quanto scritto da Claudio Giua in un post, sul Blog dell’Huffington Post, dal titolo Roma, più che le patate bollenti contano gli errori politici).

In realtà, è possibile contemplare anche l’ipotesi che il parziale scontento dei cittadini romani, come l’insoddisfazione dei cittadini di altre città o quella generale degli italiani, sia riconducibile non solo alle difficoltà oggettive oppure agli errori commessi dai diversi amministratori, locali o nazionali, ma anche a qualcosa che attiene alla dinamica conflittuale in ambito politico e al suo intrecciarsi con la dialettica tra potere e impotenza.

In sede di campagna elettorale, infatti, soprattutto quando connotata da una notevole dose di delegittimazione dell’altro e da radicale svalutazione dell’altrui operato, si possono suscitare, volontariamente o meno, tali e tante aspettative in ordine al proprio potere di risolvere presto e positivamente i problemi e i disagi, da creare scontento non appena per quel particolare elettorato sia trascorso invano il termine di riscossione di quel credito di fiducia concesso nella cabina elettorale. Infatti, decorso quel tempo (che non è prefissato, né è facilmente prevedibile, essendo correlato a molte altre variabili, tanto che a volte dura pochi mesi, mentre in altri casi dura anni, lustri e perfino decenni), subentra una crescente dose di perplessità, la quale è suscettibile di divenire presto o tardi percezione di tradimento e, quindi, sentimento di sfiducia.

E ciò, può intaccare significativamente l’azione governativa, condizionandone l’esecuzione dei programmi originari, in virtù del tentativo, a volte affannoso, di preservare il consenso originariamente riscosso.

Così, commentando un’importante decisione della sindaca della Capitale, sempre sul blog dell’Huffington Post, Federico Mento ha scritto un post (Lo stadio della politica mimetica), in cui svolge un ragionamento che, nelle sue parole, riguarda «la politica di qualsivoglia orientamento». In particolare, Mento afferma che «a orientare la presa di decisione» non è più l’ideologia, ma la ricerca «del mero consenso» o il tentativo di «danneggiare l’avversario, anche nel caso in cui quest’ultimo abbia argomentazioni condivisibili». A suo avviso gli scontri in politica «mimano “ideologie”, mentre nella realtà nascondono la pochezza di un dibattito pubblico vuoto, davvero misero».

Utilizzando i termini proposti da Mento, potrebbe anche osservarsi, allora, che forse alla base di una politica «che preferisce procedere per mimesi, raccogliere consenso, piuttosto che costruirlo pazientemente nella società», vi è anche il conflitto politico: cioè le modalità con cui si sviluppa la sua escalation e, in taluni casi, il fatto che vi partecipino dei partiti o degli esponenti politici la cui identità politica è fondata quasi solo sull’essere sempre protagonisti di conflitti.

Perciò, uno dei fattori concausali delle situazioni in cui la politica si rivela inadeguata rispetto ai compiti che le sono affidati, potrebbe essere proprio quello di farsi condizionare, nell’assunzione delle decisioni, non soltanto da ragionamenti centrati sul tornaconto elettorale, ma, forse ancor prima e più profondamente, dalla ricerca di un consenso presso gli elettori fondato sulla loro reale o supposta avversione verso i partiti o gli esponenti politici concorrenti, così da screditarli e delegittimarli una volta di più. Cioè, da un lato, faccio questo, e non faccio quello, per enfatizzare, agli occhi dei miei elettori e spero anche degli elettori dei miei avversari, quanto io sia di gran lunga il migliore amministratore possibile, mentre gli altri sono i peggiori possibili; dall’altro, per rimediare alle percezioni di scontento dei miei elettori rispetto a quanto finora ho realizzato (scontento, che le mie controparti politiche hanno prontamente cavalcato) reagisco a tali attacchi, tentando di ri-sedurre l’elettorato: cioè, lo accontento su alcune richieste, a prescindere dai costi che ne deriveranno, e lo lusingo con promesse altisonanti ma poi di non facile realizzazione.

Qualcosa di simile, forse, potrebbe rilevarsi rispetto all’esperienza fin qui rappresentata dalla leadership di Matteo Renzi, prima come segretario del Partito Democratico poi come premier. Tanto elevate erano le aspettative di risultati immediatamente tangibili, generate, forse anche inavvertitamente, dal suo modo di porsi nella dialettica politica con gli altri partiti e con i precedenti leader del suo partito, che i primi successi lo hanno visto essere salutato come soggetto particolarmente dotato di reali capacità di azione, ma a tale periodo di luna di miele, anche con non pochi media, è in non molto tempo subentrata una sorta di luna di fiele con quasi tutti i media.

Ciò si è verificato a dispetto degli sforzi suoi e dei suoi sostenitori nella maggioranza governativa di cercare di porre in evidenza, da un lato, la complessità enorme e la lontana origine dei problemi italiani e, dall’altro, gli effetti benefici delle azioni realizzate dal governo.

Non del tutto remoto, allora, appare il rischio che un’analoga dialettica tra aspettative suscitate e delusioni successive possa verificarsi anche a sinistra del PD.

L’altalena tra speranze e frustrazioni, infatti, non interessa esclusivamente chi ha funzioni dirette di governo, ma può interessare anche coloro che si collocano all’opposizione o che si propongono di appoggiare il governo ma con occhio critico, come nel caso del gruppo parlamentare dell’Articolo 1 – Movimento democratico e progressista. Anche per loro l’ambizione esplicitata di esercitare un certo potere di condizionamento sulla politica del governo, data la fermezza con cui è stata espressa, potrebbe procurare nell’elettorato di cui intendono recuperare la fiducia, qualcosa capace, invece, di comprometterla seriamente: cioè, un’oscillazione tra sopravvalutazione e delusione.

Infatti, quando subentra in noi la delusione, anche la nostra sfiducia non tarda ad arrivare e presto si estende inclemente su tutti i fatti concernenti il soggetto da noi percepito come deludente. Quindi, se l’azione del governo Gentiloni non dovesse corrispondere a quei cambiamenti di marcia, di cui si è creata l’attesa nell’elettorato di sinistra (a partire da quello che si sarebbe scisso dal PD ancor prima della scissione ufficiale e della costituzione del nuovo gruppo parlamentare), questi elettori potrebbero considerare i politici in questione (da Speranza a  Bersani, da Rossi a Errani, da D’Alema a Gotor, ecc.), come ininfluenti o peggio inconcludenti, ascrivendo l’approvazione di singoli provvedimenti proposti o sostenuti da MDP ad una piccola svolta nella politica governativa, verificatasi del tutto autonomamente dalla loro azione politica. Ad esempio, quando interviene la sfiducia del paziente verso il medico, il parziale miglioramento sopravvenuto spesso non è attribuito dal malato all’efficacia dell’azione terapeutica di cui si era dubitato, ma è considerato come un fatto che sarebbe accaduto comunque, per un iter normale della malattia, per altri farmaci assunti ad insaputa del professionista, ecc.

In conclusione, se le precedenti considerazione posseggono almeno un velo di plausibilità, la questione pratica più rilevante è: come se ne esce?

Va da sé che sarebbe opportuno che, anche in politica, come negli altri ambiti della vita, ci si astenesse tanto dal prendere decisioni finalizzate prevalentemente a mettere in difficoltà i concorrenti, quanto dal promettere o dal lasciar credere di poter fare più di quanto si è certi di poter mantenere. Però, una volta, che tali aspettative si sono generate, potrebbe non essere del tutto astruso evitare di preservare la fiducia dei cittadini con il rilancio di altre promesse o con l’attribuzione dell’insufficienza dei risultati raggiunti all’azione ostruzionistica o svalutativa delle controparti politiche, assumendo, invece, un atteggiamento onesto.

Infatti, è possibile che, prima che nella indisponibilità alla corruzione e nella volontà di contrastarla, l’onestà si radichi nell’attitudine alla sincerità, per scomoda che sia la sua messa in pratica.

E certamente, spesso, è scomoda davvero la messa in pratica anche di tale forma di onestà, quella comunemente chiamata “intellettuale”. Poiché, a prescindere dalle caratteristiche psicologiche e morali dei suoi attori, ciò che l’escalation del conflitto fortemente inibisce è la disponibilità ad ammettere schiettamente gli errori commessi. Quindi, ciò che in primo luogo il conflitto sopprime è la verità.

Tuttavia, va considerato che, dopo 12 anni di esperienza in materia di ascolto e mediazione dei conflitti in sanità, possiamo tranquillamene affermare che determinante per il recupero della “sacra alleanza tra medico e paziente” è l’ammissione dell’errore: che si tratti di quello tecnico-professionale o di quello relazionale commesso dal primo, ovvero di quello di giudizio commesso dal secondo (o di entrambi).

Del resto anche la storia e la cronaca politica presentano degli esempi di assunzione di responsabilità per gli errori commessi.

Sembrerà poco pertinente, ma anche l’approvazione unanime, avvenuta il 1° marzo, da parte della Camera dei Deputati, di disposizioni in favore degli orfani di crimini domestici può essere interpretata anche come un’assunzione di responsabilità, peraltro pesantissima, da parte del Legislatore, nella misura in cui, riformandola, di fatto, riconosce i molti limiti della precedente disciplina penale e civile di tali situazioni criminose e, quindi, ne ammette l’insufficiente tutela che contemplava per i figli di persone uccise dai partner.

Il sentimento prevalente, però, in coloro che hanno un minimo di sensibilità riguardo a tali vicende – e che magari sono delusi dall’attività complessiva di questa legislatura -, presumibilmente non è di riprovazione, ma di approvazione e, magari, anche di apprezzamento per la votazione unanime data al succitato ddl.

Dunque, il partito o il singolo politico, per sottrarsi al capestro delle inibizioni (di matrice conflittuale) al riconoscimento degli errori compiuti, deve, sì, fare appello a dosi notevoli di coraggio, ma anche ad istanze auto-conservative: infatti, un leader che con trasparente onestà ammettesse di aver sbagliato, ad esempio, nell’aver lasciato sperare troppo sui benefici derivanti dalla sua opera, e riconoscesse la fisiologia della delusione generata, potrebbe avere oltre alla soddisfazione di aver agito virtuosamente,  forse, anche quella di aver recuperato un po’ di credibilità, specie se il suo sentimento di vergogna non è stato artificialmente esibito, ma autenticamente vissuto.     

 

Alberto Quattrocolo