Archivio per mese: Febbraio, 2017
Segnali di fumo: aspetti psicosociali e dinamiche di gruppo nel fenomeno del bullismo
Adolescenza e preadolescenza sono oggetti sociali reperibili nel paradigma di riferimento occidentale. Nelle culture tradizionali, i minorenni, dal secondo settenario di età in su, sono considerati adulti. Nel periodo che va dalla pubertà in avanti, tuttavia, i minori ex lege vanno incontro a compiti evolutivi che prevedono un processo di cambiamento connesso alla gestione pulsionale della sessualità e dell’aggressività. In un range che va dai 12 ai 18 anni le ragazze possono maturare sessualmente due anni prima dei ragazzi. I ritardi nella maturazione e l’insoddisfazione corporea scatenano sentimenti di frustrazione e invidia. Le modificazioni fisiologiche, psicologiche e sociali sono sovente accompagnate da un clima tempestoso caratterizzato da inquietudine, turbamento, incertezza, impotenza e senso d’inferiorità. I temi principali intorno cui si svolge il processo di transizione dall’infanzia alla vita adulta riguardano la ricerca di una definizione di sé, la critica delle proprie appartenenze ed il conseguente conflitto di separazione dalle figure genitoriali. Modificazioni corporee e psicologiche presuppongono esperienze e funzioni da integrare dentro di sé, a cui si sommano le pressioni che dall’esterno chiedono una risposta soggettiva. Il nuovo ambiente, quello scolastico, pone il minore di fronte a delle necessità di adattamento e descrizione di sé. Fuori da casa le regole domestiche lasciano il posto alle regole degli insegnanti, dei giardinetti, del web. Tutto questo genera angoscia in quanto il nuovo spaventa e i bisogni sono contrastanti e simultanei, come ad esempio la necessità di un affiancamento, di una guida, e il desiderio di sperimentarsi come individui separati ed autodeterminati. Tale idiosincrasia, così cogente a quell’età, non è invero specifica degli adolescenti, ma presente in forma diversa in ogni processo psicologico d’individuazione, che comporta un confronto critico tra il proprio idem e il proprio autos1. Gli adolescenti cercano sia protezione sia individualità attraverso meccanismi di omologazione e differenziazione. L’assegnazione dei ruoli extra-familiari ed il potere vanno negoziati all’interno del gruppo dei pari. Generalmente per i cuccioli di uomo la distribuzione dei ruoli avviene secondo il sistema del rango, il quale è sancito da combattimenti rituali. L’impulso, nella competizione, è salvare prestigio e dignità. Il coraggio e il rispetto sono valori da difendere poiché reputati adattativi per il percorso di crescita. L’immagine di sé e l’autostima sono nodi centrali e la gara per le femmine e i maschi è una delle poste in gioco. La vittoria morale è intimidire l’altro: mostrare i muscoli per evitare lo scontro, come accade con le corna esibite dai cervi. Per i maschi l’autocontrollo e la stabilità emotiva sono strumenti di adattamento particolarmente apprezzati. Per le femmine l’aggressività è culturalmente meno accettata. Le femmine talvolta desiderano assistere alle vie di fatto poiché esse restituiscono l’appetibilità del maschio in gara; talvolta quindi provocano i maschi allo scontro. Per le femmine la posizione nel gruppo è anche stabilita in base a criteri di bellezza, attraenza e popolarità. L’attenzione può statisticamente essere rivolta al peso o ai contrassegni esteriori dello sviluppo sessuale (menarca, crescita del seno). Da un punto di vista etologico le cose stanno pressoché come scrive Michel Houellebecq2:
”Praticamente tutte le società animali si reggono su un sistema di dominazione basato sulla forza relativa dei suoi membri. Tale sistema è caratterizzato da una rigida gerarchia; il maschio più forte del gruppo è detto animale alpha; a questi segue il secondo come forza, l’animale beta, e così di seguito fino al più debole e quindi ultimo della catena gerarchica, l’animale omega. In genere le posizioni gerarchiche vengono sancite da combattimenti rituali; gli animali di rango inferiore tentano di migliorare il proprio status provocando gli animali di rango superiore, sapendo che in caso di vittoria miglioreranno la propria posizione. A un alto rango si accompagnano vari privilegi: nutrirsi per primo, copulare con le femmine del gruppo. Comunque l’animale più debole ha la possibilità di evitare il combattimento adottando una posizione di sottomissione (assunzione di stazione supina, presentazione dell’ano). (…) La brutalità e la dominazione, comuni nelle società animali, già presso gli scimpanzé si accompagnano ad atti di crudeltà gratuiti compiuti contro l’animale più debole. Questa tendenza raggiunge il proprio culmine nelle società umane primitive e nelle società create tra i bambini e i preadolescenti. Più tardi appare la pietà, o identificazione con la sofferenza altrui; essa viene rapidamente codificata in forma di legge morale”.
In circostanze di emergenza e in assenza di figure adulte di riferimento, tuttavia, questo dispositivo può degenerare e deragliare in logiche di gruppo prevaricanti e sadiche. Per alcuni volatili come i polli vige l’ordine di beccata, un sistema di regole che insegna ai membri del gruppo che certi individui van temuti mentre da altri si può esigere rispetto. I giovani sapiens usano allo stesso fine sfottò, dispetti e comportamenti vessatori come il saltino o la caccia al primino. Per l’ordine gerarchico è determinante il coraggio, la forza fisica, l’energia e la sicurezza. Dal momento che esiste sempre il rischio che le cose sfuggano di mano, allo scontro il gruppo preferisce il rito; oppure la speranza è che, nel caso di scontro, qualcuno intervenga dall’esterno: un amico protettivo, un adulto che separi i due contendenti, un po’ come succede per i cani che, quando si azzuffano, sperano in cuor loro che l’uomo li divida dallo scoppio delle ostilità3; se ciò sistematicamente non avviene e i minori percepiscono l’abbandono o la presenza di adulti poco credibili e poco contenitivi, l’organizzazione dei pari entra in uno stato di allerta e il livello di angoscia sale. Come cani forti al guinzaglio di padroni deboli, che diventano tanto più aggressivi quanto più spaventati dalla propria e dall’altrui aggressività, così i ragazzi lasciati a se stessi non conoscono il limite dello scontro e un senso di insufficienza e onnipotenza a un tempo li invade. In tali circostanze si assiste solitamente all’emergere del fenomeno del capro espiatorio. Per i maschi prendere e dare botte è rappresentativo del sapersi difendere da soli e un rito d’iniziazione al mondo dei grandi. L’enfasi sul tema dell’aggressività e del pericolo viene data per impressionare, cercare approvazione nella costante confusione tra incoscienza e coraggio. L’identità di genere, inoltre, è in fase di costruzione pertanto è instabile, sentita come fragile, da distinguere, difendere o ostentare ed esibire. I preadolescenti fanno a botte per salire di livello nel gruppo dei pari e anche per differenziarsi dalle ragazze. Comportamenti spesso rischiosi di messa alla prova di se stessi segnano una transizione simbolica tra la fanciullezza e l’età adulta attraverso riti di passaggio non sempre codificati dalla comunità adulta ma più spesso ordinati dal caso o per contagio via rete, com’è successo per il fenomeno del balconing e del knock-out.
Avere un ruolo, occupare un posto sono bisogni fondamentali per un ragazzo: dare un’impronta personale, affermarsi, esternare l’Io è quel che conta, non soltanto confondersi col mondo, e forse ancor meno adattarsi unicamente ad esso. Secondo la teoria dell’interazionismo simbolico4 l’identità è data dall’interiorizzazione dell’altro significativo, originata dal rispecchiamento con le figure genitoriali. Il processo di negoziazione di un ruolo fuori dall’ambiente domestico ha come esito possibilità eterogenee. A scuola ad esempio incontriamo i primi della classe, gli ultimi, e in mezzo altri di cui può essere difficile ricordarsi. Ci sono ragazzi che per essere visti sentono di dover fare cose plateali, talvolta a proprio danno, nel terrore di essere dimenticati. C’è poi chi vive un vuoto di ruolo, si sente ai margini, senza un posto da occupare e sceglie così di assumere un’identità in base a quelle restanti o che gli altri vogliono per lui. Si può osservare in questi casi l’emersione di comportamenti compensativi tesi a costruire un’immagine di sé potente e grandiosa tramite l’esibizionismo: una strategia per definire il proprio sé con azioni spettacolari che testimonino il proprio valore, che possano stupire e procacciare follower e like. I ragazzi più deprivati spesso hanno urgenza di scegliere ruoli compensativi come quelli del buffone e del delinquente, pertanto questi ruoli sono quelli che vengono scelti per primi, anche se a prima vista sembrano invece gli ultimi rimasti nel gruppo dei pari. Si tratta di escamotage di adattamento oltre che sintomi di un disagio interiore. Nel ruolo del delinquente ci si sente forti e sicuri ma è un ruolo parziale ed immaturo, dà potenza, vantaggi pratici, a spese di empatia, inserimento sociale e maturazione della personalità. La prepotenza ed i modi da strada sembrano la via più facile per supplire allo scarso inserimento sociale ed alla carenza di modelli. Si assumono i ruoli che permettono di sopravvivere. Il delinquente tende a presentarsi intimidendo, auto-promuovendosi. De Amicis a proposito di Franti scrive:
“E’ malvagio. Quando uno piange, egli ride. Provoca tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male. Non teme nulla, ride in faccia al maestro, ruba quando può, nega con una faccia invetriata, è sempre in lite con qualcheduno. Egli odia la scuola, odia i compagni, odia il maestro”5.
Il ruolo nel gruppo del buffone, del saltimbanco, prevede altresì un fare dimostrativo per colmare deficit reali o percepiti. Tale messa in scena, nel senso in cui ne parla Erving Goffman, è tesa a salvaguardare l’immagine di sé dalla svalorizzazione degli altri. Il potere che il delinquente ottiene sottomettendo l’altro gli serve per avere l’illusione del controllo delle proprie parti fragili, vissuti umilianti ed esperienze d’inferiorità. Per il buffone farle grosse per far ridere è un atto nichilistico di banalizzazione di tutto, e tanto meglio se il clamore dello scherno riesce a spese di un individuo che sta più in basso nella catena gerarchica dei pari.
Il signore delle mosche descrive con metaforica perizia la configurazione dei ruoli all’interno di un’organizzazione d’emergenza tra preadolescenti in preda all’angoscia di sopravvivenza e in assenza di una figura adulta. Il gruppo infatti è una lancia a due punte: da un lato il gruppo è sopravvivenza, dall’altro esso è anche il branco contro la preda, maggioranza che si scaglia contro una minoranza con attacchi verbali e non, ripetuti, sistematici. Il pericolo genera ottusità e slatentizza condotte di sopravvivenza ancestrali. Nel romanzo di Golding appare la conchiglia quale simbolo di convivenza, ma sfortunatamente non ha presa sul gruppo in stato di crisi e profonda inquietudine. La conchiglia che ordina i turni di parola e di silenzio dei membri del gruppo non è considerata adattativa. Non c’è tempo per ascoltare e ascoltarsi, non si può pensare come un grande e serve tirare avanti. Il fumo del fuoco invece è il richiamo affinché gli adulti giungano in soccorso e salvino i piccoli dal rumore dei loro incubi. La turbolenza stessa, i gesti eclatanti dei ragazzi sono segnali di fumo per chiedere aiuto ad adulti distanti. Il gruppo dei pari tende a non reggere i membri percepiti come fragili, i cosiddetti anelli deboli, perché è esso stesso fragile, i suoi componenti non riescono a sostenere la fragilità in loro stessi, la giudicano, si squagliano se vi prendono contatto perché ancora troppo rovente da maneggiare, di conseguenza non la sopportano in chi a loro avviso la incarna nel gruppo. Si colpisce nell’altro quel che non si tollera in se stessi. C’è una scena nel libro in cui un maialino infilzato durante una battuta di caccia si getta nel mare proprio come accade al personaggio di Piggy (o Bombolo), asmatico occhialuto e sovrappeso, prototipo della vittima e centro della derisione collettiva; egli riveste suo malgrado un ruolo fondamentale affinché tutti si sentano allegri e normali.6 Ma nell’allegria regna isterismo e nell’eccitamento il panico7: qualcosa è stato tralasciato, qualcosa sottotraccia avverte che ci si è ingannati. ‘’Che idea, pensare che la Bestia fosse qualcosa che si potesse cacciare ed uccidere8’’. Succede infatti che presto il branco si stufi di ridere della preda agonizzante. Si è scaricata l’angoscia, si sono esternalizzati i sentimenti inaccettabili, si è ridato un ordine al caos, ma qualcosa non torna dentro di sé. Il codice di attacco-fuga, sia esso diretto verso il dentro o verso il fuori, contro il soggetto sacrificale o contro la Bestia nella foresta, risulta essere un dispositivo di emergenza primitivo, costoso, sintomo di un gruppo che non funziona, in assunto di base9, in cui circola angoscia ed è assente la creatività per il problem solving. Il bullismo è endogeno, colpisce un membro all’interno del gruppo nel tentativo improprio di difendersi da paure disgreganti di fusione e regressione proiettandole addosso ad un feticcio, la vittima. Non è un caso infatti che alla vittima spesso venga cambiato il nome e assegnato un nomignolo, un soprannome, come se ciò facesse parte del cerimoniale preparatorio di vestizione (o svestizione d’umanità?) della vittima e dell’opera di trasfigurazione del reale per mano di un immaginario gruppale profondamente perturbato. In una delle ultime pagine un militare chiede a Ralph, il protagonista, l’ex leader in fuga dal branco: ‘’Ci sono degli adulti, dei grandi con voi?’’. Gli adolescenti possono reagire diversamente ad un mondo che non riescono a decifrare: disincanto, disinteresse, cinismo, evasione negli stupefacenti, atto violento ingiustificato, radicalismo identitario, ecc. Nel bullismo, come nel carnevale, inoltre, è inscenata una pièce. Il dramma è antico e ha qualcosa di catartico, forse l’esorcizzazione della paura di annientamento e l’angoscia del diventare adulti. La maschera del bullo protegge dalla vergogna e dalla coscienza. Il copione prevede che sulla scena vi siano istigatori, vittime, complici, fiancheggiatori, attendenti, detrattori, sabotatori, fomentatori, adulti collusivi o distratti, l’amico forte, il gregario, gli spettatori. Il bullismo è intenzionale, persistente, asimmetrico, fisico, verbale, diretto e indiretto: specialmente quello femminile, più orientato ad escludere, deridere, sparlare, diffondere false voci. La prepotenza presente nel bullismo lo differenzia da altre forme di condotte devianti, esso è pertanto diverso dal vandalismo e dal teppismo. La gang ha una mentalità deviante, non per forza il bullismo. Il bullismo prevede la sottomissione e l’omertà e lascia dei profondi segni psicologici nelle vittime; può indurre fobia scolare, stress da somatizzazione, ritiro sociale,dispersione scolastica e così via fino ad esiti infausti. Il bullismo tramite le prese in giro, l’indifferenza e il giudizio agisce negativamente sul sistema dell’autostima e induce infatti fantasie autodistruttive.
Il bullismo omofobico si caratterizza per le umiliazioni di carattere sessuale, si basa su stereotipi di genere, squilibrio di potere e sottoculture maschilistiche, tali per cui, al fine di differenziarsi dal femminile o dal maschile dentro di sé, vi si rinuncia denigrandolo fuori da sé. Gli insulti contro maschi effemminati o femmine mascoline rivelano quanto l’immagine sessuale a quell’età sia avvertita come qualcosa di caduco, da preservare esternalizzando sull’altro le proprie angosce, il quale vien percepito come più debole e quindi minaccioso nella paura che in lui ci si possa identificare, che ci possa infettare psicologicamente. Tale atteggiamento proiettivo spesso è transitorio e, in seguito ad esperienze di vita fortificanti, può, una volta esaurita la sua funzione rassicurante, consolatoria e perversa, scomparire; la logica perversa consiste nel far pagare il conto delle proprie fragilità a qualcun altro anziché farsene carico. La crescita psicologica tuttavia richiede, per lo sviluppo di una personalità matura ed una vita psichica completa, che la persona svolga, prima o poi e a modo suo, un lavoro di integrazione degli opposti: maschile-femminile, grande-piccolo, interiore-sociale, materiale-spirituale, ecc., pegno uno squilibrio unilaterale della coscienza.
Il cyber-bullsimo consiste nel creare e diffondere in rete riprese video e materiale compromettente atto a produrre un danno sociale nella vittima10. I persecutori spesso sono protetti dall’anonimato o da false identità e ciò può in alcuni casi condurre al meccanismo di diffusione della responsabilità, tipico dei fenomeni di massa. Intimidazione, commenti molesti, discriminazione (per sesso o razza), denigrazione, inganno, esclusione e stalking informatico possono indurre l’internauta-bersaglio al disinvestimento sul proprio progetto di vita, alla depressione e al suicidio. Esistono virtualmente tanti tipi di users quanti sono i ruoli disponibili in un gruppo di pari allargato: troll, hater, anticonformisti, vedette, disturbatori, provocatori, etici, lamentosi, promoter, timidi, sbruffoni, ecc. Gli utenti talvolta aggiungono gli istigatori su Facebook per tenerli d’occhio. Rimanere collegati al web coi fomentatori sembra essere, per alcuni, una necessità. Il virtuale, infatti, ‘buca il monitor’ ed entra nel reale giacché le conseguenze del virtuale sono reali. Capita per di più che realtà e immaginazione vengano invertite e la seconda sia percepita come più reale della prima, come dentro a un sogno diurno in cui la realtà è la chat, il videogame, il social network. Nell’età postmoderna gli attori sociali possono condividere porzioni sensibilmente diverse di realtà11.
Per fugare il rischio di trattare il fenomeno in maniera astorica e tipologica, è doveroso ricordare che le nuove generazioni oggi vivono all’interno di un ambiente sociale liquido, interconnesso, iridescente12, mutevole, attraversate da uno spaesamento continuo. Le società contemporanee sono sempre più multiculturali e digitalizzate e il pericolo dell’ideologia assolutista o nichilista è continuo. Il bullismo esiste in tutte le classi sociali: alte e basse. Furti, prepotenze, pettegolezzo13, giochi intorno alla preda si verificano in un quadro di urgenza e trascuratezza emotiva e materiale trasversale e relativo. Il bullismo è quindi un dispositivo ‘democratico’, ma non ‘ad accensione casuale’. É possibile infatti individuare una certa specificità della vittima. Essere sovrappeso, essere portatore d’handicap, portare gli occhiali, ad esempio, possono essere fattori stigmatizzanti, differenze che diventano diversità. Ritengo tuttavia più prudente parlare di svantaggio sociale percepito che di vera e propria personalità sottomessa, sebbene fattori come scarsa autostima, influenzabilità, atteggiamenti dipendenti, apparire timorosi, irresponsabili e la tendenza alla passività e all’inibizione possono essere predisponenti al ruolo di vittima e celare a volte vulnerabilità di tipo psicologico come ansia e depressione sottostanti. La percezione dell’altro come qualcuno mal equipaggiato di risorse adeguate all’inserimento sociale lo espone al rischio di vittimizzazione, come tigri senza denti14 nella giungla. Nel dramma del bullismo si può inoltre assistere a rivalità e vendette tra vittime: vittime che mettono altre vittime al loro posto. Giovanni Verga nella sua nota novella descrive magistralmente un esempio di tale dinamica:
”Un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti (…), si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto gli altri, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre (…) Anche con me fanno così! (…) per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava (…) Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano. Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: -To’, bestia! (…) Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! (…)- Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi, così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso- (…)- se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere.)15.
L’obiettivo è uno: non essere più vittima16. Ragazzini deprivati e spaventati, perciò più pericolosi, appaiono come mostri giganti agli occhi di altri ragazzini solo di poco più piccoli. ”Dirlo ai genitori non posso, scappare manco, come la faccio finita con questa storia?” pensa il bullizzato, che non vede l’ora che l’incubo finisca. Se per uscirne fuori occorre mettere un altro nel suo ruolo, potrebbe farlo e spesso lo fa. Egli cerca di migliorare la propria condizione sociale, comprensibilmente. Le vittime possono quindi scagliarsi contro altre vittime, come accade nel film Fucking Åmål, in cui una ragazzina disabile aizza i bulli contro una ragazzina lesbica. Le vittime cercano le soluzioni che hanno intorno: se c’è bisogno di avere qualcuno di fianco cui sentirsi superiore, un completamento per sentirsi in posizione ‘up’, nella situazione di chi ha potere ed è più forte, lo troveranno. Se costui manca, manca il polo dell’umiliato e offeso (l’amico sfigato), colui che tiene su il rapporto vittima-carnefice. In situazioni di emergenza si attivano logiche di sopravvivenza del genere mors tua vita mea e si imita chi sembra forte e scaltro. L’identificazione con l’aggressore infatti è il meccanismo di difesa inconscio e adattativo che può essere sotteso al fenomeno degli ex bullizzati che diventano bulli e può portare a comportamenti violenti ed erratici, come vediamo in Elephant di Gus Van Sant, pellicola che ricostruisce il massacro della Columbine High School17. E. A. Poe nel racconto Hop frog ci parla di un disabile, un giullare nano, uno sciancato di cui ridere, la vittima di corte dagli occhi saettanti rancore e vendetta18, autore di un macabro scherzo contro i suoi detrattori. Il decorso della vittimizzazione può seguire tante vie, dal suicidio al massacro19.
Un’istituzione scolastica miope ed evitante può contribuire a colpevolizzare la vittima e alimentare il fenomeno del bullismo trasformando gli afflitti in oggetti su cui sfogare frustrazioni personali, familiari e sociali. Sul rapporto con gli adulti e l’istituzione Galimberti scrive: ”Una società che fa a meno dei propri giovani segna il primo passo verso la propria dissoluzione”20. Politiche di prevenzione, sensibilizzazione e intervento possono condurre all’attivazione di figure professionali intermedie come pair operator ed educatori di strada che costituiscono un ponte molto importante tra il mondo dei piccoli e quello dei grandi. Vigili di prossimità e insegnanti di sostegno sono di grande aiuto. Dispositivi come il ‘Teatro dell’oppresso’ e il lavoro nell’età evolutiva sono in grado di esplicitare e interrompere dinamiche disfunzionali. Credo che le agenzie adulte, di fronte a fatti di cronaca nera, se avessero potuto, avrebbero fatto diversamente; a volte però, per comodità, paura o negligenza, esse non sono da argine al fenomeno. Il bullismo è un reato21, la denuncia è il primo passo per interrompere il circuito di omertà su cui esso si avvita; il secondo è portare ad una presa di coscienza delle cause promuovendo la circolarità della comunicazione tra tutte le parti in gioco; il terzo è pensare a strategie diverse per riorganizzare un ambiente di lavoro più funzionale per tutti. Nel gruppo tutto è amplificato, nulla si perde, e per questo fa paura. Prepotenze, sottogruppi, transfert svalutanti sui conduttori visti come autorità da contestare, atteggiamenti parificanti, buffoneria, temi edipici, esperienze adultizzanti e ludicità sospetta sono alcune delle criticità da mettere in conto nel lavoro di gruppo con adolescenti. Il gruppo può infatti essere una fonte d’aiuto, contenere ansie, rispecchiare risorse, infondere speranza, criticare modelli, universalizzare il disagio. Il gruppo è in grado di promuovere la socializzazione, lo scambio, la reciprocità e la conoscenza di sé; attraverso il gruppo è possibile esplorare e supportare le potenzialità di ciascuno ed elaborare le esperienze conflittuali al suo interno, legando così i compagni di viaggio ad esperienze emozionali alternative. Nei riflessi del gruppo è possibile scoprire che il mondo è anche altro e che non si è obbligati a stare in un’immagine rigida di sé. La figura dello psicologo, nella clinica personale e di gruppo, è sempre più chiamata a rispondere e ad interrogarsi sul rapporto coi giovani adulti, confrontandosi sia con la carenza sia con il conflitto, con la deprivazione oltreché con la complessità.
In conclusione tengo a precisare che, nello svolgimento indubbiamente parziale del tema trattato, ho attinto dalla mia esperienza professionale presentando letture e film ritenuti da me, arbitrariamente, utili ad ampliare e ad approfondire il discorso. Le analogie utilizzate pertanto, come quelle con la sociologia animale o il determinismo verista, non pretendono di essere griglie di lettura, ma soltanto strumenti di lavoro che, come tutte le analogie, colgono gli elementi in comune tra una cosa e un’altra, trascurando inevitabilmente gli elementi che in comune non sono.
Appendice
L’autore che, in ambito internazionale, ha studiato più a lungo il bullismo, a partire dagli anni ’70 in Norvegia, è stato Dan Olweus. Egli descrive così il fenomeno: ”Uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni. Un’azione viene definita offensiva quando una persona infligge intenzionalmente o arreca un danno o un disagio a un’altra”. Elementi qualificanti l’azione di bullismo sono: intenzionalità (l’intenzione di arrecare un danno all’altro), persistenza (carattere di continuità nel tempo), disequilibrio (relazione di tipo asimmetrico tra i partner in cui la vittima è in una posizione di impotenza per numero o condizione fisica). Successive ricerche compiute negli anni ’80 in stati come Giappone, Canada e Paesi bassi indicano inoltre che: i maschi sarebbero più esposti al fenomeno del bullismo; le femmine sarebbero più inclini ad agire modalità di prevaricazione più sottili, raffinate e indirette; il bullo è tendenzialmente più grande della vittima; la dinamica dei ruoli avrebbe carattere di stabilità, nonostante il bullismo diminuisca man mano che si avanza nel percorso scolastico, presumibilmente a causa dell’evolversi di capacità sociali, cognitive e morali negli individui coinvolti. Si evidenziano a tal proposito il ruolo dell’istigatore, o bullo passivo; l’aiutante o sostenitore del bullo; il bullo vero e proprio, caratterizzato da un modello di comportamento reattivo aggressivo associato alla forza fisica; la vittima passiva e sottomessa; la vittima prevaricatrice; il difensore della vittima; l’indifferente o outsider; l’adulto. Nel quadro del bullismo il copione dell’adulto sovente è imbevuto della logica del senso comune, tale per cui ‘non è il caso d’intervenire perché si tratta di scuola di vita alla quale è sbagliato sottrarre i ragazzi’. Altre volte egli non interviene perché il fenomeno è sottostimato o nascosto per ragioni diverse da ambo le parti (bulli e vittime). Gli adulti hanno invece il potere di fare qualcosa per contrastare il fenomeno del bullismo: porre confini chiari tra i comportamenti ammessi e quelli non tollerati; stabilire e applicare sanzioni stabili; coinvolgersi affettivamente nella relazione con i ragazzi; essere autorevoli; promuovere una mentalità antibullismo attraverso politiche di prevenzione come supervisionare gli spazi, allestire dibattiti con i genitori, proporre role-play, sensibilizzare al supporto reciproco tra coetanei. Di recente in Finlandia sta prendendo piede un programma indirizzato ai genitori denominato KiVa per eliminare il bullismo dalle scuole; esso è orientato a riconoscere il fenomeno, ne illustra le diverse forme e i sintomi indicando inoltre un protocollo di azioni antibullismo da compiere sia casa sia a scuola.
Articolo a cura di Enrico Tuninetti, la riproduzione parziale o totale dello stesso è autorizzata citando l’autore medesimo.
Bibliografia
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Gasca G., Lo psicodramma analitico, 2003, Franco Angeli, Milano
Galimberti U., L’ospite inquietante, il nichilismo e i giovani, 2007, Feltrinelli, Milano
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Filmografia
Brooker C., Black mirror, terzo episodio della terza stagione: Shut up and dance, diretto da James Watkins, sesto episodio della terza serie: Hated in Nation, diretto da James Hawes, UK, 2011.
Chan-wook P., Old boy, Sud Corea, 2003
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Van Sant G., Elephant, U.S.A, 2003
Siti internet
You tube: Domenico Quirico intervistato da Monica Mondo a #SOUL.
Note
1 Diego Napolitani, Individualità e gruppalità
2 Michel Houellebecq, Le particelle elementari
5 E. De Amicis, Cuore
6 Il ridere-di è sadismo. Nel film di Pasolini Salò o le 120 giornate di Sodoma assistiamo a giochi di potere basati sulla logica eccitazione-umiliazione, soggetti esposti al pubblico ludibrio e corpi che urlano dinnanzi a corpi che ridono.
7 ‘‘Volare leggeri è una cosa gioiosa, volare senza barra di comando è angosciante” (Zygmut Bauman, Amore liquido)
8 William Golding , Il signore delle mosche,
9 Sul tema degli assunti di base si veda Wilfred R. Bion, Esperienze nei gruppi
10 L’episodio Shut up and dance, diretto da James Watkins, della serie televisiva Black Mirror, tratta di un caso di cyber-bullismo evidenziando come la paura di un ‘danno digitale permanente’ porti i protagonisti alle azioni più estreme; il sesto episodio della stessa stagione, Hated in Nation, mette in luce i possibili effetti del pestaggio mediatico su larga scala. Il filo conduttore di tutti gli episodi della serie presenta un futuro distopico in cui prevale appunto il danno, più che l’utilità, del virtuale sul reale.
11 Sul tema del post moderno ricordiamo Addio ai confini del mondo di Paolo Cianconi.
12 “Quando non c’è niente che duri, è la rapidità del cambiamento a redimerti” (Z. Bauman, ibidem).
13 Si veda in merito il film Old boy di P. Chan-wook.
14 Cit. da una conversazione con Roberto Vaio
15 Giovanni Verga, Vita dei campi
16 “A volte i carnefici lo sono per obbligo, per non diventare a loro volta vittime (…) si uniformando alle regole del Male per necessità, per sopravvivere”. (Domenico Quirico intervistato da Monica Mondo a #SOUL).
17 Si tratta di una strage in ambito scolastico avvenuta il 20 aprile 1999 negli Stati Uniti d’America.
18 Rispetto al proposito della vendetta come automatismo ed al confronto costruttivo con l’adulto si veda Gran Torino di C. Eastwood.
19 Ricordiamo il massacro al Virginia Polytechnic Institute del 16 aprile 2007 in cui morirono 33 persone incluso il killer: Seung-Hui Cho.
20 U.Galimberti, L’ospite inquietante, il nichilismo e i giovani
21 Il fenomeno del bullismo può essere configurato, in realtà, entro molteplici reati, a seconda di come si esprime il comportamento. Ad esempio: percosse, lesioni, danneggiamento alle cose, ingiuria, diffamazione, ecc.
Enrico Tuninetti
L’indagine sulla Raggi e il conflitto politico. Può il conflitto politico generare una “politica difensiva” come il contenzioso in sanità ha stimolato la “medicina difensiva”?
Vi sono dei periodi in cui quasi ogni settimana compaiono notizie su indagini, arresti, condanne o assoluzioni per reati attribuiti ad esponenti politici.
In questo periodo desta particolare attenzione mediatica l’attività svolta dalla Procura di Roma e che interessa anche la Sindaca di Roma, Virginia Raggi.
A parere di chi scrive non tanto le indagini giudiziarie in sé, ma la loro “valorizzazione” all’interno della competizione tra le parti politiche per accrescere il loro consenso e diminuire quelle delle altre, possono produrre conseguenze particolari, associabili mentalmente al fenomeno della medicina difensiva.
Partiamo, allora, da questa.
A partire dagli anni ’90 una nutrite serie di sentenze della Corte di Cassazione, sui casi di responsabilità professionale del personale sanitario (quella che sui media è spesso proposta come “malasanità”), ha reso estremamente arduo per l’operatore e per la struttura sanitaria, in sede di giudizio civile, provare di essere immuni da colpe in caso di richieste di risarcimento per danni che sarebbero stati provocati involontariamente all’interno del percorso di cura.
Accanto a tale evoluzione giurisprudenziale, in termini economici e giuridici, si sono verificati i seguenti fenomeni: una rapida e voluminosa proliferazione delle cause per questi fatti, una vertiginosa crescita nell’ammontare dei danni liquidati (data l’estensione del concetto di danni da parte della giurisprudenza civile, di merito e di legittimità); un abbandono del settore da parte di molte delle imprese assicurative che storicamente vi operavano; un’incredibile crescita dei premi assicurativi e un innalzamento rilevante delle franchigie, fino ad indurre le Aziende Sanitarie e le Regioni ad orientarsi verso l’“autoassicurazione”.
In termini sociali, gli aspetti salienti di tale situazione del contenzioso per “errori medici” sono: una crisi di fiducia dei cittadini verso la Medicina (non come scienza, ma come pratica clinica quotidiana); una crescente tendenza ad entrare in contatto con i servizi della sanità nutrendo diffidenza, pregiudizi, aspettative negative e sentimenti ostili; un vissuto di “vittimizzazione” in capo ai professionisti sanitari, i quali, accusati direttamente di “malasanità” o per il solo fatto di appartenere alla stessa categoria professionale dei sospettati, si sentono viepiù vittime, attuali o potenziali, di “malagiustizia”, o meglio di un sistema che produce, a loro avviso, effetti paradossali e controproducenti.
Tanto per risolvere da subito un ipotetico dubbio, eventualmente sorto nella mente del lettore che non dovesse essere particolarmente ferrato sullo specifico fenomeno del contenzioso per responsabilità professionale in ambito sanitario, si deve precisare che: il suo proliferare e la maggiore tendenza dei tribunali civili dagli anni ’90 in poi a condannare al risarcimento dei danni non sono correlati ad un peggioramento delle prestazioni. Cioè, non è che oggi si sbagli di più che negli anni ’80 o, per dire, negli anni ’30 del Novecento. È che, accanto a molteplici progressi nella scienza e nella pratica della Medicina (che però hanno anche avuto rilevanti ricadute relazionali), all’allungamento della vita con correlato aumento delle malattie croniche, ad un cambiamento di mentalità, che ci ha portato da sentirci titolari del diritto alla cura a ritenerci titolari del diritto alla guarigione (e forse all’immunità dalla malattia e dalla morte), vi sono stati anche importanti innovazioni nella giurisprudenza civile. Qui, per rimediare ad una situazione di squilibrio e di difficoltà probatoria in capo al paziente insoddisfatto della prestazione, sono cambiati i parametri di valutazione del fatto, sicché si è passati da un criterio garantista, che da sempre dominava nell’interpretazione giudiziaria di tali vicende, ad un criterio efficientista, cioè, di fatto una presunzione di colpevolezza a carico del medico e dell’organizzazione. Si pensi che, secondo un’indagine condotta nel 2011 dalla “Commissione d’inchiesta della Camera dei Deputati sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali”, nelle 80 procure selezionate, su 901 casi di processi penali (dove vige il principio di presunzione di non colpevolezza) contro medici o infermieri per lesioni colpose ai danni dei loro pazienti vi sono state solo 2 condanne, mentre non vi è stata nessuna condanna per omicidio colposo rispetto ai 736 procedimenti penali avviati contro il personale sanitario. Nello stesso arco temporale, le condanne al risarcimento dei danni pronunciate contro professionisti e strutture sanitarie in sede civile per lesioni e omicidi colposi (dove non vige il principio di non colpevolezza e dove la Cassazione ha di fatto introdotto l’inversione dell’onere della prova, che quindi grava sull’accusato e non sul suo accusatore) sono state ben più dello 0,22%: infatti, sono state pari al 63%.
La pratica della “medicina difensiva” è una conseguenza perversa di tale complesso fenomeno e, secondo la definizione data dal Congresso degli Stati Uniti, è un comportamento posto in essere dal medico quando: prescrive esami, visite o procedure (medicina difensiva positiva, cioè commissiva), oppure evita pazienti o percorsi ritenuti a rischio (medicina difensiva negativa, cioè omissiva), al fine principale di limitare la sua possibile esposizione ad un procedimento legale. Quindi commette “medicina difensiva” tanto il professionista che svolge e richiede esami e procedure in eccesso, non necessarie per la cura del paziente, quanto quello che evita di accettare pazienti in condizioni cliniche molto difficili, oppure non attua procedure che ritiene necessarie ma che presentano un elevata rischiosità, esponendolo alla possibilità di azioni legali.
I danni derivanti dal verificarsi di queste due forme di medicina difensiva sono: per la medicina difensiva commissiva, l’aumento esponenziale ed ingiustificato dei costi del trattamento sanitario e, talvolta, addirittura un peggioramento della situazione iniziale del paziente; nell’altro caso, una diminuzione o una preclusione, senza reale motivo, delle possibilità di cura del paziente.
Ciò premesso, è possibile che il conflitto in ambito politico produca nel suo variegato campo un fenomeno analogo a quello della medicina difensiva? In particolare, si può ipotizzare che come la pratica negativa della medicina difensiva è generata dalla tendenza del conflitto interno alla relazione terapeutica ad assumere, nella sua escalation, le forme del contenzioso legale, così la politica difensiva possa inverarsi come frutto dell’escalation del conflitto politico.
Tale ipotesi, però, se sensata, si affaccia su un terreno minato, su un discorso a fortissimo rischio di equivoci. Pertanto, anche qui, è bene fare chiarezza per quanto possibile.
Che vi sia tanta, troppa corruzione, chi scrive lo ritiene fuor di dubbio (e, del resto, fosse anche poca, sarebbe comunque troppa). E che la corruzione sia un male costosissimo per il popolo italiano non mi sembra da mettere in forse. Analogamente non s’intende discutere il fatto che i procedimenti giurisdizionali siano doverosi e necessari, oltre che utili (su questi punti si veda tra le altre la relazione del Primo Presidente della Corte di Cassazione, dott. Giovanni Canzio, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017, soprattutto nelle pagine 20, 21 e 22). Ben vengano, pertanto, le indagini giudiziarie, così come le inchieste svolte dai giornalisti e le attività di quanti si adoperano per contrastare il fenomeno, impegnandosi sul fronte dell’informazione o in altri campi: quello legislativo e amministrativo, oppure in campo culturale, educativo o sociale (per citare solo uno tra i tanti meritevoli esempi, si pensi all’Associazione SULLEREGOLE).
Il preoccupato dubbio di chi scrive, dunque, non riguarda tali aspetti, né ha a che fare con la legittima indignazione dell’opinione pubblica per gli sprechi, le ingiustizie sociali e le distorsioni del sistema democratico, derivanti dalle illegalità perpetrate da appartenenti al personale politico.
La preoccupazione riguarda, invece, un altro aspetto: le possibili conseguenze derivanti dall’impiego delle indagini della magistratura da parte delle forze politiche come arma per colpire l’avversario.
L’utilizzo delle vicende giudiziarie che riguardano persone del partito avversario non è una novità. A voler essere restrittivi è almeno da Mani Pulite che assistiamo a tale dinamica tra le parti politiche, come lettori di giornali e di libri, o come spettatori di telegiornali, di talkshow politici e di spettacoli teatrali o televisivi. Si ricordi la ventennale polemica tra centrodestra e centrosinistra, si ripensi alle accuse di giustizialismo o di garantismo partigiano che si sono scambiate le parti in campo.
Ma, venendo all’attualità, il tema è stato portato in evidenza anche nella trasmissione Otto e Mezzo del 31 gennaio, dove il Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, il filosofo Massimo Cacciari e Lilli Gruber hanno esplicitato il tema della paura potenzialmente paralizzante dell’avviso di garanzia. Cantone, infatti, ha ripreso un passo del discorso del Presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, nella sua relazione inaugurale dell’anno giudiziario 2017. Vale la pena riportare alla lettera le parole di Pajno: « Si modificano i rapporti tra giudice amministrativo e amministrazione: l’amministrazione ha paura di decidere; tende a difendersi più che a fare». Il Presidente del CdS colloca tale fenomeno all’interno di un discorso più ampio, che riguarda «Il confine mobile tra legislatore, amministrazione e giudice». Ma, dal punto di vista di ciò che interessa discutere in questo blog, sono importanti anche le riflessioni di Cantone, che, citando il Presidente del Consiglio di Stato, ha rilevato, censurandole, «una fuga dalle responsabilità da parte di un pezzo del Paese – di burocrazia del Paese», «la paura dell’avviso di garanzia» e «la paura di scegliere». L’accenno di interlocuzione della conduttrice di Otto e Mezzo, «però la paura di certi amministratori di scegliere, perché poi temono di essere indagati o condannati», è interrotto discretamente da Cantone, che osserva: «è comprensibile, ma così fermiamo il Paese».
Appunto, è comprensibile, ma ha un costo insostenibile socialmente ed economicamente. Come è intollerabile la medicina difensiva, pur essendo umanamente comprensibile la paura che vi è alla base.
Il Presidente dell’ANAC, in effetti, anch’egli comprensibilmente, nell’ambito del dibattito, a tal punto ha affermato: «La magistratura avvia un’indagine… quello non significa nulla. Cioè quello non deve avere nessun effetto nei confronti dell’amministratore o del burocrate. Certo, se si avvia un’indagine per fatti di mafia è un po’ diverso, ma se si avvia un’indagine per abuso d’ufficio, bisogna consentire alla magistratura di fare le indagini con tranquillità, senza che questo abbia effetto sull’amministrazione». «Ma non è più così da molti anni», ha detto la Gruber. E Cacciari ha ricordato che «da Tangentopoli in poi, la paura di muovere qualcosa nella pubblica amministrazione è andata via via crescendo», poi si è soffermato sull’iperproduzione normativa e sulla sua «illeggibilità».
Insomma, Cantone dice che «la magistratura dev’essere anche sgravata da una serie di preoccupazioni», cioè quelle sulle ricadute politiche dei suoi atti, che però Lilli Gruber e Massimo Cacciari ricordano essere un dato di realtà.
In effetti, proprio perché si riferiscono a registri diversi e perché sono complementari i loro ragionamenti, non si può dare torto a Cantone e nemmeno a Cacciari o alla Gruber.
Guai, infatti, se nello sviluppo della sua azione, la magistratura si facesse condizionare da attenzioni politiche (fin troppo spesso, forse, è stata accusata di “giustizia ad orologeria” da chi era destinatario di un avviso di garanzia, o di altro provvedimento giudiziario, e dai suoi compagni di partito). Il concetto espresso da Cantone, però, ai fini di questo Blog, potrebbe integrarsi ancor di più con le osservazioni di Cacciari e della Gruber, se, inteso su un altro piano della comunicazione, quello dell’appello, venisse tradotto con parole come: politici, per favore, lasciate la magistratura fuori dal conflitto politico. Il che, forse, corrisponderebbe, grosso modo, anche alle osservazioni proposte ad inizio trasmissione da Raffaele Cantone in relazione al ruolo svolto dall’ANAC rispetto alle vicende capitoline.
In realtà, è una delle caratteristiche del conflitto – e, direi, anche del conflitto politico – quella di vedere tutto ciò che accade in una prospettiva di tipo conflittuale: quanto mi avvantaggia o mi penalizza questo o quella indagine giudiziaria nelle mie battaglie in corso o venture contro il nemico?
Pare essere questo l’aspetto centrale all’interno del tema “politica e conflitto”: non tanto le indagini in sé, quanto la strumentalizzazione conflittuale di queste in sede di conflitto politico.
Naturalmente non si vuole in alcun modo sostenere la necessità o l’opportunità di imbavagliare il politico prima che commenti un fatto di cronaca giudiziaria riguardante questo o quell’altro esponente, ma porre in rilievo come l’esasperazione dei toni (la demonizzazione immediata, ad esempio) su tali argomenti comporti un prezzo che rischiamo di pagare tutti.
Alberto Quattrocolo
Polemiche vecchie e nuove tra politici (M5S, PD, FORZA ITALIA) e giornali e tra giornalisti: un’ulteriore manifestazione dell’escalation del conflitto politico
La radicalizzazione del conflitto politico, che nella sua forma più visibile si manifesta continuamente nelle interviste, negli scambi sui social, nei talkshow, com’è noto, non è confinata alla sfera dei rapporti tra esponenti politici, ma include anche quelli tra questi e i commentatori di varia professionalità, cultura e provenienza che si esprimono sui media e soprattutto quelli tra politici e giornalisti: anche a tale livello, in effetti, pare che non vi siano cenni rilevanti di un auto-contenimento, ma anzi che vi siano frequenti manifestazioni della tendenza alla delegittimazione reciproca.
Del fatto che tale modalità di espressione del conflitto politico non raramente si estenda ai rapporti con la stampa si può rinvenire un esempio nel botta e risposta tra il garante del M5S, Beppe Grillo, e Repubblica. Ma non è di molto tempo fa la polemica sorta nell’ambito della Leopolda, che ha coinvolto soprattutto Renzi e il Fatto Quotidiano, a proposito della Top 11 delle “balle contro il governo”.
Tali polemiche, che ne richiamano alla memoria altre (ad esempio, quelle tra la stampa e Silvio Berlusconi, nonché quelle di Massimo D’Alema con alcune testate o alcuni giornalisti; e rispetto a quest’ultimo viene in mente anche l’intervista da lui rilasciata ad Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, in cui, giudicando fallimentare l’azione del governo presieduto da Matteo Renzi, commenta criticamente anche l’atteggiamento del «sistema dell’informazione» nei confronti di quell’esecutivo, definendolo «di favore al di là di ogni ragionevole limite» ), si caratterizzano, al pari di molte delle precedenti, per le accuse mosse, su un fronte, dall’esponente politico ai giornalisti e/o ai giornali di svolgere la loro professione con superficialità, con atteggiamento pregiudizialmente avverso o con vera e propria faziosità e, sul fronte opposto, per quelle della stampa ai politici di non sapere e di non volere accettare la critica, palesando un atteggiamento poco o per nulla democratico.
Non è un fenomeno recente, quello della conflittualità tra stampa e politica, anzi, risale a ben prima del ’94. E non può certo dirsi un fenomeno solo italiano. Perfino il cinema vi ha dedicato numerosissime pellicole.
Oggi, con l’affermarsi di un nuovo media (la rete), una delle peculiarità di questo settore del conflitto politico è rappresentata dal fatto che si pongono in contrapposizione anche l’attendibilità dei giornali e quella del web. Si ricorderà, infatti, la proposta avanzata sul Blog delle Stelle circa l’istituzione di «una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media», in risposta a quanto detto da Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust, in un’intervista sul Financial Times in ordine alla creazione di un network europeo anti-bufale, dichiarazione, peraltro, già commentata da Beppe Grillo.
Nell’ottica del presente Blog questo aspetto del dibattito in ambito politico appare interessante nella misura in cui anche tale dialettica tra politica e media – di per sé preziosa e potenzialmente assai nutriente per il formarsi della conoscenza e, in generale, per il processo di sviluppo dell’opinione pubblica – finisce assai spesso per assumere contorni riconducibili ad un’estremizzazione delle prese di posizione. In sintesi, si sviluppa un meccanismo di delegittimazione continua tra le parti, spesso accompagnata da una nutrita serie di acuminati attacchi personali, sfocianti in accuse sul piano dell’etica e della morale.
In breve, allorché tale conflitto si esaspera, ciò che si produce consiste nella propensione di ciascuna parte (politici e giornalisti) ad interpretare il comportamento altrui sulla scorta della rabbia e del risentimento che inducono ad una radicale demonizzazione della controparte. Infatti, nel commentare o rispondere alle dichiarazioni degli altri, si nega ogni profilo di verità nel punto di vista altrui, connotandolo come intriso di inguaribile malafede e totale falsità. E spesso si pone in essere il tentativo di screditare la controparte su molteplici piani – si pensi al caso (o al metodo) Boffo.
In un certo senso, inevitabilmente, il conflitto tra politici e giornalisti, allora, si politicizza. E ciò interessa: da un lato, i rapporti tra le forze politiche e i giornali dichiaratamente schierati e quelli che si propongono come privi di ogni spirito di parte; dall’altro, il confronto tra giornalisti di testate diverse. Per fare un esempio, riguardo a quest’ultima forma di “politicizzazione” si prenda in considerazione la discussione del 24 gennaio tra Marco Travaglio (Direttore del Fatto Quotidiano), Alessandro Sallusti (Direttore del Giornale) e Elisabetta Gualmini (vicepresidente e assessore al welfare della Regione Emilia Romagna, professore ordinario di Scienza della politica alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna e Presidente della Fondazione di ricerca “Istituto Carlo Cattaneo”) nell’ambito della trasmissione Otto e Mezzo di Lilli Gruber. Una discussione, infatti, particolarmente accesa allorché gli ospiti della Gruber sono stati chiamati a commentare la notizia sull’avviso di garanzia ricevuto dalla sindaca di Roma, Virginia Raggi. Nell’ambito della prima metà circa di tale dibattito televisivo, la discussione, in effetti, più che sulla notizia in sé, pareva imperniata su un altro livello della relazione tra i presenti: la messa in dubbio dell’obiettività del Fatto Quotidiano e del suo direttore rispetto alle vicende giudiziarie riguardanti esponenti politici, a partire da quella relativa alla sindaca capitolina. Travaglio, infatti, si è trovato, da un lato, a esporre e sostenere il suo punto di vista sull’invito a comparire inviato dalla Procura di Roma alla Raggi e, dall’altro, a proporre numerose argomentazioni e “prove a discarico” rispetto all’accusa, relativamente implicita, di parzialità (cioè di essere “garantista” rispetto al M5S e rigoroso, o “giustizialista”, nei confronti degli altri partiti), mossagli dagli altri due ospiti.
Infatti, nella concitazione di un dibattito contrassegnato da ragionamenti continuamente interrotti, ha ricordato anche alcune inchieste sue e dei suoi collaboratori del Fatto per ribadire la sua credibilità («Se fosse vero che c’è stata la svolta garantista mia …», «Sono stato accusato di aver scritto il falso 150 volte… e in tutti i processi penali non sono mai stato condannato», «è Renzi che usa due pesi e due misure»). Inoltre ha indirizzato messaggi analoghi a quelli da lui percepiti sulla sua obiettività di giornalista ad Alessandro Sallusti («non sai nulla», «non conoscete i fatti», «siete voi doppiopesisti») e alla prof.ssa Gualmini («sei una dirigente di partito… non sarai mica un’analista indipendente»).
In realtà, in quella trasmissione, in cui Sallusti ha esplicitato che non si era in un’aula giudiziaria, con l’approvazione di Lilli Gruber, e subito dopo ha svolto un’osservazione che richiamava un’analogia con la situazione da dibattimento processuale («sembra che stai facendo l’avvocato dei Cinquestelle»), sono stati davvero molteplici i piani relazionali e i temi contemporaneamente messi in gioco. Senza drammatizzare (si trattava di un talkshow in prima serata e non di un incontro tra leader di due Stati in guerra), si può comunque annotare che la complessità delle questioni esplicite e implicite e l’eterogeneità dei livelli che Lilli Gruber, come conduttrice, era chiamata a gestire, in questa prima parte della trasmissione, apparivano davvero consistenti.
Leggendo i commenti sulla pagina citata di La Repubblica, o quelle del Fatto quotidiano come sul Blog di Grillo o su altri blog, tale complessità sembra rinvenibile anche nella partecipazione dei privati cittadini a tali polemiche tra stampa e politici e tra giornalisti. Tra i moltissimi commenti che si possono passare in rassegna (accanto a quelli che si riducono alla dimensione della più esacerbata violenza verbale) spiccano quelli di coloro che, entrati nel conflitto e schieratisi da una parte o dall’altra, si sono richiamati a valori e principi di non poca portata (la libertà di espressione, la libertà di stampa, la democrazia, ecc.) nel sostenere la loro posizione.
Sullo sfondo il tema, a volte esplicitato, più spesso lasciato tra le righe, che più interessa in una prospettiva di Political Conflict Management, è quello della verità. Si tratta, infatti, di un aspetto che entra sistematicamente negli scambi tra le parti in conflitto e nelle narrazioni proposte da queste ai terzi.
Ci limitiamo ad annotare, a questo punto, che normalmente ogni parte ribatte all’altra affermando la veridicità delle sue dichiarazioni, negandola a quelle della controparte, e spiega ai terzi che ancor prima della giustizia è la verità che sta dalla sua.
Se nella realizzazione di un’attività professionale di mediazione il problema delle diverse “verità delle parti” va gestito con gli strumenti propri di quel setting, per il cittadino che non abbia voglia di svolgere un esercizio di conflict management, ma che sia soltanto interessato a conoscere, il poter capire chi tra politici e giornalisti stia dicendo la verità riguardo ad un determinato tema ha un altro e diverso rilievo.
Se non ci riesce, infatti, può derivargliene una sensazione di smarrimento, di disorientamento e, infine, perché no?, di rifiuto. Oppure può consapevolmente o inconsapevolmente risolvere questa interna tensione, creata dal dubbio, optando per una scelta predeterminata: la verità è quella sostenuta dal politico o dal giornalista che si colloca nel campo politico in cui mi riconosco (che può anche essere quello dell’astensionismo) o a cui va la mia simpatia.
In realtà, assai spesso, si ha l’impressione che anche nel caso dell’escalation del conflitto tra politica e stampa (o tra stampa e stampa) – al pari di quanto avviene in quello tra politici e nei conflitti che si sviluppano negli altri ambiti relazionali, sociali e istituzionali -, le parti espongano le loro argomentazioni, le loro verità, non solo per persuadere i dubbiosi e coloro che la pensano diversamente, ma anche per rinforzare il legame di fiducia – l’alleanza – con i simpatizzanti, i militanti e gli elettori, rinvigorendone l’ostilità verso l’avversario. E ciò può essere considerato particolarmente funzionale nei momenti in cui il vertice sente un rilassamento nell’impegno della base, o percepisce un calo nella motivazione alla contrapposizione radicale da parte dei militanti e degli elettori, oppure registra l’emergere di dissapori e contrasti interni al gruppo dirigente. Talora, le più “grosse sparate” contro l’avversario, infatti, ci servono proprio a serrare le fila dei nostri, ci servono ad elettrizzarli. Con buona pace del bisogno di verità dei terzi. Perché, in fondo, pensiamo in quelle situazioni, la verità ultima e la giustizia sono dalla mia parte, perciò anche se esagero un po’, che differenza fa?
Alberto Quattrocolo