Scissioni e separazioni, fuoriuscite e difficoltà di integrazione nei partiti e negli schieramenti. Come nelle separazioni coniugali c’è un problema di patti espliciti ed impliciti nel PD?

Scrive Massimo Recalcati su La Repubblica di oggi «che la scissione del Pd non ha il carattere improvviso del trauma, quanto piuttosto, come spesso accade nelle separazioni della vita individuale e di quella collettiva, quello di un lento logoramento che non è stato trattato nei tempi giusti. La scissione in corso non è il prodotto di una frattura violenta, ma di un processo che ha origini lontane legate addirittura, per alcuni, all’atto stesso di fondazione del partito diviso in due anime tra loro culturalmente inconciliabili: quella cattolica sociale e quella socialista-comunista».

Poco più avanti aggiunge: «In realtà la psicoanalisi insegna a leggere il dramma della separazione anche da tutt’altra prospettiva. Per esempio, quella dell’impossibilità della separazione. Questo vale per i legami familiari, quelli amorosi e anche quelli gruppali e istituzionali. In molti casi restare insieme, non separarsi, è il vero problema che può ostacolare un progetto di crescita e di autonomia. Il legame che si è leso, che ha perso forza generativa, si trasforma allora in un laccio mortale. Io credo, come molti elettori del Pd, che anche la separazione in corso può non essere solo una sciagura, una maledizione da tamponare ad ogni costo, ma diventare un’occasione (certamente dolorosa e angosciante) per ritrovare le ragioni di una convivenza possibile e non avvelenata da continue aggressioni intestine. Se per un verso l’azione politica degna di questo nome mira sempre alla mediazione tra le parti, essa dà prova di maturità anche quando deve prendere atto di una differenza che è divenuta insormontabile».

Le considerazioni di Recalcati rivestono particolare interesse nella prospettiva di questo blog, perché implicitamente riconoscono il conflitto come una condizione naturale, perché si soffermano sul tema del legame conflittuale e, infine, perché propongono una certa nozione di mediazione: «Laddove l’opera di mediazione (che entrambi i fronti rivendicano, in questo caso specifico, di avere esercitato) incontra una barriera, un limite invalicabile, cosa resta da fare?»

In realtà, se intendiamo la mediazione come processo di gestione, anzi di aiuto alla gestione del conflitto, come, ad esempio, accade per la mediazione familiare, il permanere di un legame conflittuale non segna necessariamente il fallimento definitivo dell’attività mediativa, ma ne costituisce il presupposto, la condizione che ne fa apparire probabile l’utilità della sua reale attivazione o della sua prosecuzione, in presenza di un bisogno riconosciuto come tale da almeno qualcuna delle parti in gioco. La mediazione (in termini di intervento professionale svolto da un terzo), infatti, è anche intesa e operativamente declinata proprio come strumento per la gestione di un conflitto che le parti fino a quel momento non sono riuscite a governare. Si propone perciò la mediazione familiare proprio in relazione a vicende separative che interessano coppie che mantengono, sì, un legame, ma di tipo conflittuale.

Quel che sta accadendo nel campo del PD e della sinistra da alcune settimane, sotto questo profilo, non pare troppo diverso da quanto accaduto in più di una fase in seno al centrodestra: si pensi, ad esempio, alle separazioni tra Berlusconi, Casini e Fini e a quando si verificò il passaggio dal Popolo della Libertà (che aveva messo insieme diverse anime del centro destra, tra cui Forza Italia e Alleanza Nazionale) a Forza Italia con la nascita del Nuovo Centro Destra. E, se nel campo del centro destra, pur in presenza di processi e tentativi di integrazione delle diverse forze e prospettive, rimangono per ora presenti non pochi distinguo e non trascurabili distanze, per quanto riguarda il Movimento Cinque Stelle, che sembra essere attraversato da tensioni paragonabili a quelle in corso nel PD, è facile rammentare che anch’esso ha vissuto separazioni di rilievo: quella che ha coinvolto il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, costituisce soltanto l’esempio più noto.

Tornando al caso del PD, preso in esame dal prof. Massimo Recalcati, per ora si direbbe che l’interruzione della «convivenza forzata», per usare le parole dello psicoanalista, rischi ancora «di alimentare una pulsione di morte», che gli attori non abbiano ancora cessato la «ruminazione su se stessi» e che la differenza tra «scissione esterna» e «scissione interna» sia ancora di là da venire.

Quanta fretta hai!, si potrebbe osservare, è appena successo!

In effetti, è vero, è appena successo. E quindi molte delle parole pronunciate ieri da Enrico Rossi, Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema, ad esempio, ospiti di tre diverse trasmissioni andate in onda in prima serata (Rossi era ospite di Lilli Gruber ad Otto e Mezzo, D’Alema di Bianca Berlinguer a Carta bianca, Bersani di Giovanni Floris su Di martedì), alcune tra le frasi scritte da Renzi sul suo Blog ieri e le affermazioni pronunciate da Michele Emiliano all’ultima Direzione del PD, andrebbero interpretate come influenzate dalla recente esperienza stressante e dolorosa della scissione (non verificatasi poi nel caso del presidente della Regione Puglia).

Tuttavia, non sarebbe del tutto infondata l’impressione che tale condizione di conflittualità permanente sia in realtà suscettibile di permanere a lungo, anche molto a lungo, e di procurare ricadute di non poco conto sulla base.

Infatti: riguardo agli “strappi” tra i leader, può essere di qualche utilità svolgere un parallelo con le separazioni coniugali?

Forse. Proviamoci, allora.

Bohannan (1973) e Kaslow (1981) rispetto alla separazione della coppia prevedevano alcuni stadi da attraversare. Bohannan definiva “divorzio emotivo” il primo stadio. E forse si può rinvenire qualcosa di simile anche nelle vicende interne ai partiti. In tale fase, infatti, vi è un’oscillazione tra aggressività e riappacificazione che si propone all’interno di una relazione deteriorata e che sfocia poi nella cronicizzazione del conflitto, cioè in una sorta di punto di non ritorno, da cui matura la certezza dell’impossibilità di restare insieme, almeno in capo ad un membro della coppia. Kaslow a tale riguardo considera come prima fase quella dell’alienazione: si profilano incompatibilità insanabili e si verifica un allontanamento progressivo, che poi sfocerà nella separazione anche fisica e legale, implicando una positiva elaborazione di sentimenti di perdita, delusione, ecc., che però, specie nella fase del contenzioso legale, non sempre avviene, dando luogo, invece, al dolore, alla rabbia, alla denigrazione e svalutazione dell’altro.

Guardando a ciò che sta accadendo nel PD, gli atteggiamenti di denigrazione e svalutazione reciproci non sono né infrequenti né difficili da rilevare, sebbene coloro che li mettono atto possano non considerarli come tali, per risentirsene, invece, quando ne sono fatti oggetto. Si pensi al presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, che in relazione all’Assemblea del PD di domenica scorsa ha parlato di bastonatura organizzata in danno suo e degli altri (tra cui Emiliano, Speranza, Bersani, D’Alema, si può supporre), e che in un post della sua pagina Fb scrive: «Bene…piano piano tutto si chiarisce. Lo scontro sarà tra Renzi e Emiliano. Uno spettacolo senza contenuti, una giostra populista, né di destra né di sinistra. Chi accetta questo gioco non può rappresentare gli interessi dei ceti popolari e si destina all’irrilevanza. Ecco perché io ne sto fuori e mi impegno a costruire una forza politica nuova, seria, coerente, non subalterna, autenticamente di sinistra».

Oppure alla ancora più recente polemica tra Roberto Giachetti e Massimo D’Alema.

Per ora si può dire che, metaforicamente parlando, dunque, si è ben lontani dal “divorzio psichico” di cui parla Bohannan. Cioè, la dialettica tra fuoriusciti e maggioranza interna del PD parrebbe essere tutt’altro che prossima alla fase in cui si supera il conflitto, rielaborando il cambiamento intervenuto nei rapporti: una fase sostanzialmente coincidente con una particolare declinazione del compimento del processo di separazione richiamato da Recalcati e che si traduce nell’approdo alla capacità di accordarsi sul prosieguo dei rapporti mutati, comprendendo le cause del fallimento del precedente rapporto, assumendosene le responsabilità e smettendo di attribuirne la colpa alla controparte.

Del resto anche i rapporti tra il Movimento Cinque Stelle e suoi ex membri paiono spesso caratterizzato da un’incompleta separazione, essendo rintracciabili comportamenti e comunicazioni permeate da collera, colpevolizzazioni, ecc. Si direbbe fuor di dubbio, però, che la dimensione del “legame disperante” (Cigoli F. – Galimberti C. – Mombelli M., 1988) sia maggiormente ravvisabile nel caso del PD, dove collera e sensi di colpa (provati o instillati da altri), speranza e rancore paiono circolare con particolare intensità nella fase attuale.

Se queste sono considerazioni, anche un po’ ovvie, sugli aspetti esteriori, quelli cioè riguardanti i comportamenti manifesti, più interessanti, sempre in termini di parallelismo tra divorzi e scissioni o separazioni nei partiti, sono i ragionamenti inerenti il tipo di legame, e ancor prima quelli sulla natura del contratto, su cui si fondano la costruzione di un partito o di un movimento e la successiva adesione ad esso.

Sempre citando Cigoli (Scabini E. – Cigoli V., 2000), si potrebbe supporre che anche in tali casi, come nella relazione coniugale, vi sia l’incastro fluido e dinamico tra un patto esplicito e un patto implicito. Il primo è la dichiarazione di impegno reciproco formulata esplicitamente e che è formalizzata per iscritto. Tale patto può essere stipulato da una o da entrambe le parti solo in termini formali, senza essere in realtà sentito o, all’opposto, può essere interiorizzato perché fortemente voluto dai sottoscrittori. Può anche essere voluto sul momento, per effetto di un’emozione, però, di carattere meramente transitorio: una sorta d’infatuazione.

Nel caso di molti fuorusciti dal Movimento Cinque Stelle, come da Forza Italia o, adesso, dal PD, è alquanto probabile che il patto esplicito fosse particolarmente sentito e interiorizzato dagli interessati. Tuttavia, vi è anche chi come Massimo Cacciari, anch’egli ospite della Gruber a Otto e Mezzo del 2 febbraio, arriva a obiettare a quanto espresso da Piero Fassino, intervistato da Giancluca Luzi su La Repubblica, che c’è ben poco di incomprensibile nella scissione del PD (che Cacciari ribattezza “frantumazione”), essendo stata la sua fondazione, a parer suo, una «fusione a freddo» tra componenti fondamentalmente inconciliabili. Impiegando la terminologia di Cigoli, la valutazione di Cacciari, dunque, potrebbe essere riformulata come constatazione di un partito sorto di un patto meramente formale, quindi fragile.

Però, il patto esplicito nella coppia si accompagna con il “patto implicito”. E questo si colloca a cavallo tra il conscio e l’inconscio e rappresenta i bisogni, anche psicologici, i desideri, gli interessi, le paure, le speranze che i sottoscrittori del patto esplicito mettono nella relazione, aspettandosi di trovarvi risposte appaganti. Nella vita coniugale il patto implicito può adattarsi ai diversi cambiamenti cui la coppia va incontro, venendo rilanciato e riformulato, in base alle variazioni nei bisogni e nelle attese, alle crisi, ai nuovi compiti, alle sfide e così via, che la vita propone.

Ma non sempre ciò accade, talora in luogo dell’intesa tra i partner si si sviluppa l’incomprensione, poi la frustrazione, la delusione, l’amarezza, la rabbia… Ora, ammesso che una sorta di patto implicito sia ravvisabile anche nel partito o nel movimento politico, è chiaro che l’andamento di questo può ripercuotersi significativamente sulla tenuta del patto esplicito.

In sintesi, è possibile che ciò a cui si sta assistendo oggi nel PD – e ieri, in modi diversi, in altri partiti – sia anche riconducibile ad un mancato funzionamento del cosiddetto patto implicito. Cioè, sui ruoli, poteri, funzioni, regole, si è stati pressoché tutti d’accordo, però, sul piano delle spinte ideali e motivazionali, sul piano dei bisogni e degli interessi, sul piano dei sentimenti nutriti l’uno verso l’altro, il patto implicito non ha più funzionato.

Non ha più funzionato, in realtà, perché non ha mai funzionato, essendo il PD in realtà solo il frutto di una necessità del momento, una reazione alla realtà in atto – quindi, una costruzione politica fondata su di un patto esplicito non profondamente voluto e interiorizzato dai suoi sottoscrittori – oppure, nel dare luogo alla conflittualità attuale ha avuto una certa influenza il patto inconscio?

Stando al livello di tensione e alla reattività attualmente in atto, verrebbe da supporre che il patto implicito abbia svolto un ruolo non da poco nel suo non riuscito processo di adattamento: è difficile, per fare un solo esempio, sospettare Pierluigi Bersani, segretario del PD prima di Matteo Renzi, di essere stato un sottoscrittore poco convinto del patto costitutivo.

Perciò, non è del tutto campata in aria l’ipotesi che quanto accade nelle coppie quando il patto implicito non funziona, si sia anche verificato nel PD. Dopo aver sperimentato una fase caratterizzata dal rispetto solo formale dei ruoli e delle norme (il patto esplicito), mentre in realtà, si cercava di approfittare della altrui debolezza del momento ai fini dell’esautorazione di chi era avvertito come partner-compagno deludente, sgradito o sgradevole, si è approdati ad una fase di conflittualità aperta (in particolare durante la campagna sul referendum costituzionale), per poi arrivare a deprezzare il patto esplicito stesso, in un duplice senso: in certi casi, rimproverandosi reciprocamente di avervi aderito solo formalmente, ma tradendone o travisandone lo spirito fin dall’inizio; in altri meno frequenti casi, contestando il valore, la qualità stessa del partito che su quel patto esplicito è stato costituito.

Tutto ciò non lascia presagire una breve durata del carattere conflittuale della separazione, anzi, francamente lascia intravvedere un’estensione della mappa dei conflitti in corso.

Infatti, non è tanto la ri-articolazione del quadro politico ad essere interessante per questo Blog, quanto lo sviluppo di una nuova area conflittuale, che pare caratterizzarsi per un’escalation di rilevante intensità, caratterizzata com’è da delegittimazioni e da squalificazioni che passano continuamente dal piano personale (perciò, ad esempio, cacciando Renzi, si risolverebbe tutto) al piano istituzionale (deprezzamento degli altrui progetti e contenitori politici).

Insomma, si direbbe che i toni e le forme delle definizioni svalutanti, riservate fin qui dagli esponenti PD ai contenuti e ai contenitori politici dei Cinque Stelle e della Lega Nord, un po’ meno all’indirizzo di Forza Italia, siano stati applicati dapprima con qualche moderazione agli scambi comunicativi interni, poi senza più alcuna moderazione, ed ora danno l’impressione di essere diventati la sostanza della comunicazione tra dem ed ex-dem.

Il che non è privo di ripercussioni aventi una portata ben più ampia di quella delle ricadute sugli umori e sui rapporti personali degli esponenti politici di sinistra e di centrosinistra.

Tuttavia, come afferma Fassino nell’intervista citata, nulla è irreparabile. E sussiste sempre la possibilità  di fermare la spirale distruttiva e autodistruttiva di un conflitto politico, che (come già sostenuto in un altro post sul conflitto nel PD) invece di arricchire il dibattito  lo immiserisce, facendo perdere di credibilità a tutti i suoi protagonisti, alle loro idee e ai loro programmi.

Tra le opzioni possibili si può anche annoverare l’impiego delle risorse proprie del Political Conflict Management. E, in realtà, nel post precedente a questo, pur non esplicitandolo, proprio a tale possibilità si faceva indiretto riferimento.

Alberto Quattrocolo

Grillo e Renzi rivendicano le cose buone fatte dalle loro maggioranze, rispettivamente, a livello comunale e nazionale. La sollecitazione del riconoscimento altrui vista come conseguenza e come rilancio del conflitto in ambito politico.

Sul suo Blog Matteo Renzi scrive: «Quando il premier Gentiloni firma l’accordo del Progetto-periferie a Cagliari, quando il ministro Delrio presenta il nuovo Polo Mercitalia — strategico per il futuro dei nostri trasporti — insieme ai vertici di FS, quando il ministro Padoan spiega alle aziende tutti i benefici della Legge di Bilancio 2017 a cominciare da Industria 4.0 e dall’abbassamento delle tasse, quando il ministro Minniti prova a definire una nuova visione di sicurezza (e ho fatto solo quattro esempi, ma potrei continuare a lungo) tutti gli italiani che si sentono davvero patrioti hanno il dovere di sperare che le cose vadano meglio, non lamentarsi e criticare soltanto». In tale discorso vi è un riconoscimento a quanto sta facendo il governo Gentiloni e di quanto il precedente governo, di cui Renzi era premier, ha realizzato (ponendo ad esempio, Padoan nelle condizioni di spiegare alle aziende tutti i benefici della legge di Bilancio. Sul Blog di Grillo vi è un post del 19 febbraio dal titolo Rifiuti, così stiamo ripulendo Roma. Inizia così: «La politica ambientale dell’amministrazione 5 stelle di Roma è fatta di passi concreti. Come i risultati dei primi due mesi di raccolta degli ingombranti:“Riciclacasa”: “la nuova raccolta gratuita a domicilio dei rifiuti ingombranti, attivata da Ama e Comune di Roma dallo scorso 1º dicembre».

Sempre sul blog delle stelle alcune settima fa, Beppe Grillo aveva scritto «Noi ci siamo buttati a capofitto in questa avventura e, nonostante le difficoltà, stiamo iniziando a cambiare la città. Non sono parole, sono fatti. Di seguito trovate i 43 successi più importanti di Virginia Raggi e della sua giunta nei primi 7 mesi di governo». Poco più avanti è riportato un elenco di 43 provvedimenti, iniziative compiute o messe in campo dalla giunta capitolina, guidata da Virginia Raggi.

Sul suo blog l’allora segretario del PD grosso modo negli stessi giorni aveva scritto: «Noi siamo quelli che hanno da offrire mille giorni di lavoro al Governo, che hanno portato tanti risultati. Con alcuni errori, certo, ma nella stragrande maggioranza abbiamo fatto passi in avanti per noi e per il Paese. Oggi l’Italia ha qualche diritto in più e qualche tassa in meno: dal Cantiere sociale ai diritti civili fino agli 80 euro o all’abolizione dell’Imu sulla prima casa. Ha attraversato, indenne dal terrorismo, eventi come Expo e Giubileo mentre in altre zone d’Europa le cose andavano diversamente. Ha recuperato in tre anni 600mila posti di lavoro, di cui tre quarti a tempo indeterminato ed è passata dal meno due per cento del PIL 2013 al più uno per cento di oggi. Ha sbloccato opere pubbliche ferme da decenni e ha iniziato l’operazione banda larga che cambierà il volto delle città. Ha investito nelle periferie, nello sport, nelle scuole, nelle imprese, nei musei e nei teatri perché con la cultura si definisce l’identità di un popolo. Noi siamo fieri dei nostri mille giorni».

Li proponiamo insieme, questi esempi di comunicazione e in particolare, gli ultimi due discorsi citati, perché offrono lo spunto per una riflessione più ampia che interessa il conflitto nei suoi diversi ambiti di manifestazione e, parrebbe, anche in ambito politico.

Infatti, in generale, si rileva che il conflitto può essere innescato da una dinamica relazionale – tra individui, tra gruppi, tra comunità, ecc- – interessata dalla frustrazione di un fondamentale bisogno relazionale: quello di sentirsi riconosciuti dall’interlocutore. Pensiamo al figlio adolescente che non si sente riconosciuto nel suo bisogno di autonomia, libertà, emancipazione e/o capacità dal genitore; e pensiamo al genitore che non si sente riconosciuto dal figlio nel suo ruolo, non sente legittimati i suoi sentimenti e le sue preoccupazioni, ecc. Oppure pensiamo al medico che non si sente riconosciuto nel suo impegno professionale e nella sua umanità da un paziente che ne ha contestato il comportamento attraverso una segnalazione critica, ovvero al paziente che ha proposto quel reclamo contro il sanitario avendo avuto l’impressione di essere stato considerato da quello come un caso e non come una persona.

Il mancato riconoscimento, però, è anche un aspetto relazionale che accompagna e rinforza la dinamica conflittuale, talora esasperandola.

Quando tale aspettativa relazionale non trova realizzazione, una tra le reazioni possibili è quella di cercare di conseguirne l’appagamento. Ad esempio: il coniuge che ricorda al partner tutto quanto ha fatto o sopportato per preservare la qualità della relazione; il responsabile di un’associazione che cerca di ricapitolare agli associati, totalmente o parzialmente insoddisfatti della sua gestione, l’impegno e le competenze dispiegate, magari anche i sacrifici e le rinunce personali.

In breve, abbiamo bisogno di sentirci riconosciuti, e sarebbe sbrigativo liquidare tale esigenza qualificandola come istanza puramente narcisistica. Anche ammesso che a tale risvolto psicologico sia riconducibile, essa afferisce ad un fattore di marca relazionale imprescindibile per la qualità del rapporto. In assenza di reciprocità di riconoscimento, la relazione può essere fonte di frustrazione e può dare luogo al conflitto, spesso doloroso, il quale, a loro volta, potrebbe ripristinare il riconoscimento, magari con modalità, presupposti e su registri nuovi o parzialmente innovati rispetto ai precedenti. Oppure il conflitto può condurre all’interruzione della relazione, ovvero ad un assetto relazionale connotato da una conflittualità, latente o manifesta, permanente.

Il tentare di far ricordare quanto di buono si è fatto, si sta facendo e si farà, all’interlocutore, da cui non ci si sente più riconosciuti, o si teme di non esserlo più o di non esserlo sufficientemente, può quindi essere considerato come un comportamento che chiunque può trovarsi a porre in essere.

Ma tale comportamento, normale nel rapporto tra politici e opinione pubblica, assume sfumature particolari per il leader politico, in relazione alla competizione con gli altri partiti, oppure in presenza di soggetti interni alla sua forza politica tesi a metterne in discussione la leadership.

Talora, infatti, in simili circostanze gli avversari sono impegnati in un opera di continua svalutazione delle cose fatte, magari potendo contare su argomenti non superficiali né falsi.

Il leader, allora, in relazione ad un elettorato, ad una base o a dei compagni di partito la cui memoria teme che possa essere corta, può cercare di preservarne o di riacquisirne la fiducia.

L’attività di recupero del ricordo sui traguardi compiuti è efficace? Questo è un aspetto pratico da non sottovalutare. Ma prima della sua efficacia, occorrerebbe soffermarsi sul sentimento del leader che precede tale comportamento. Non vi è da escludere, talvolta, che possa sentirsi oggetto di un’ingratitudine, attuale o potenziale, e che provi il timore di un voltafaccia da parte di una porzione del suo elettorato e dei suoi sostenitori.

Se tali, sono i vissuti del leader, è da prendere in considerazione anche la possibilità che siano innescati dalla percezione dell’esistenza effettiva di un’insoddisfazione e di una delusione circolante nel gruppo di cui è alla guida.

Allora, il quesito di cui sopra è suscettibile di essere trasformato in un altro: il ricordare le cose buone fatte serve a far superare le delusioni, le frustrazioni, le insoddisfazioni e l’eventuale sensazione di tradimento sperimentati dai membri del gruppo , o che si teme che essi provino?

A volte probabilmente sì, altrimenti non si spiegherebbe come mai, nei più diversi assetti relazionali, gli esseri umani ricorrano a tale tipo di comportamento.

L’8 febbraio Beppe Grillo annunciava un nuovo sito (Comuni5Stelle.it) in cui si poter vedere i risultati dell’azione amministrativa del Movimento Cinque Stelle nei comuni che governa. Tale annuncio era preceduto da esplicite sollecitazioni a conoscere e considerare i positivi esiti di tali amministrazioni: «5 milioni di italiani hanno un’amministrazione 5 Stelle e nessuno di loro rimpiange la gestione dei partiti che hanno fatto dei comuni un bancomat. In 10 dei nostri comuni non esiste più da tempo Equitalia e in nessuno dei comuni 5 Stelle è aumentato il debito. Abbiamo preso in mano città in macerie come Roma e stiamo lavorando sodo per farla ripartire ottenendo anche alcuni incoraggianti successi nei primi 7 mesi di governo. Abbiamo città come Livorno e Pomezia dove abbiamo sperimentato il Reddito di Cittadinanza comunale restituendo la dignità a tante persone. Abbiamo introdotto pratiche innovative come il bilancio partecipato. Stiamo cambiando l’Italia a partire dai comuni: i cittadini sanno che è possibile».

Ha senso, dunque, supporre che simili comunicazioni, almeno a volte, funzionino.

Ma qualche volta non è così. Le vicissitudini del PD di queste settimane sembrano confermare l’eventualità che questo tipo di messaggio può essere inefficace o addirittura controproducente.

In politica,perciò, capita che questi messaggi non funzionino proprio con tutti i destinatari.

Nella prima intervista dopo il referendum costituzionale concessa dal segretario del Partito Democratico, costui affermò: «il Pd potrebbe vantarsi di un Jobs act votato dalla sinistra, di unioni civili votate dai cattolici, della legge sul caporalato e del miliardo e otto stanziato per la povertà, degli oltre 17 miliardi di recupero dalla lotta all’evasione, dell’abbassamento delle tasse». A tali parole, Ezio Mauro, che lo intervista, ribatté: «Non starà qui a snocciolare la propaganda, visto che lo ha fatto ad ogni ora del giorno e della notte in tv e non le è servito, non le pare?»

Le ragioni di questa inefficacia, ipotizzata da Ezio Mauro, del “ricordati quel che di positivo ho fatto” sono indubbiamente molteplici e vi giocano risvolti di diversa natura.

Ad esempio, vi è la possibilità che i destinatari del nostro invito a ricordare non siano disponibili a farlo, perché sono in conflitto in noi. Se abbiamo sete di riconoscimento da parte dei nostri avversari, verosimilmente troveremo solo deserto e arsura, finché il rapporto con costoro è un conflitto di elevata intensità e, quindi, connotato dalla svalutazione reciproca. La replica Mauro a Renzi, forse, sorvolò sulla possibilità che questi non si stesse rivolgendo agli elettori, ma ad una parte del personale politico del PD. Le parole del segretario prima dell’intervento di Ezio Mauro erano state le seguenti: «Invece i nostri votano in Parlamento, e tacciono nel Paese, anche sulle cose più positive». Si potrebbero interpretare le parole di Renzi proprio come una denuncia di una dinamica nella quale l’avversario (interno, in tal caso), pur rilevandole, mai ammetterà ad alta voce l’esistenza di esiti virtuosi del suo operato.

Ciò in termini reattivi, potrebbe indurre chi vive la frustrazione derivante dal mancato riconoscimento a riservare lo stesso trattamento alla controparte, perpetuando la dinamica conflittuale.

Ma molti altri possono essere gli elementi che costituiscono ostacoli o impedimenti insormontabili alla preservazione o al ripristino di una relazione contrassegnata da riconoscimento e fiducia.

Tra questi vi è qualcosa che si colloca a monte e che riguarda, per dirla banalmente, il rapporto tra le promesse fatte e quelle mantenute. Ma, se aguzziamo un po’ di più la vista, è possibile che si scorga qualcosa che di nuovo rinvia al conflitto (e, nel caso particolare al conflitto politico e alla sua escalation).

Potrebbe essere opportuno, infatti, non sottovalutare il fatto che, per cercare di prevalere nel conflitto possiamo essere indotti a cercare di rinforzare ed estendere il supporto dei terzi (si pensi ad una competizione particolarmente accesa tra candidati come al conflitto interno ad un partito/movimento), proponendogli gli obiettivi della nostra lotta in termini capaci di affascinarli e sedurli. Certamente crediamo negli ideali che proponiamo, siamo sinceri nei nostri propositi di cambiamento della realtà, ritenuta da noi e da altri insoddisfacente o ingiusta. Tuttavia, per elettrizzare gli animi di coloro che vogliamo si schierino con noi e per sollecitarne un’adesione forte ai nostri obiettivi, presentiamo in termini ideali i nostri disegni di modificazione del reale. Anzi, spesso descriviamo la realtà contro cui ci battiamo per cambiarla in termini più foschi di quanto forse non siano, non necessariamente esagerandone i difetti, ma sottovalutando o tacendo ciò che funziona e, soprattutto, comunicando che la nostra azione avrà un effetto davvero realmente trasformativo. A volte, ci spingiamo a dire che, in verità, basterebbe poco per rimediare ai mali della realtà attuale, precisando che la fiducia dei più occorre per mandare o tenere a all’opposizione l’avversario, il quale con la sua inattività, disonestà o incompetenza, come amministratore, o con il suo fazioso ostruzionismo, come opposizione, è causa dei vizi della realtà.

Insomma: da un lato, proponiamo una visione molto negativa della realtà che vogliamo cambiare e ne attribuiamo la responsabilità ai nostri avversari; dall’altro; rivestiamo di splendide vesti i nostri programmi, i nostri ideali da realizzare.

Nel momento in cui ci troviamo ad avere vinto la battaglia contro gli avversari, però, si pone il problema di essere all’altezza delle aspettative che la nostra cupa descrizione del reale e splendente presentazione dell’ideale hanno alimentato. Peraltro, a volte tali aspettative sono anche più elevate di quelle che volevamo suscitare.

A quel punto, può capitare che la dinamica conflittuale, tutt’altro che conclusasi con la vittoria di una battaglia, ci sia di ostacolo nel ristabilire, attraverso il dialogo con la comunità, un equilibrio tra ideale proclamato e atteso dagli elettori e ideale realizzato o in corso di realizzazione. Infatti, l’avversario sconfitto, ma non eliminato, avendo ancora voce, la farà udire per suggerire o mettere in risalto le discrepanze tra ideale proposto e ideale realizzato.

Non si contano, ad esempio, le critiche all’azione del governo Renzi o della giunta Raggi da parte delle opposizioni (nel caso di Renzi soprattutto da quella che prima era interna e che ora è diventata esterna) e in (quasi) nessuna di esse, com’è consuetudine, si rinvengono anche apprezzamenti per risultati positivi rispettivamente conseguiti dall’ex presidente del Consiglio e dalla sindaca di Roma. Afferma Beppe Grillo nell’articolo citato che «Da settimane ormai i media attaccano frontalmente il MoVimento 5 Stelle con lo scopo di dimostrare che non siamo in grado di governare il Paese e quindi tengono nascosto tutto il nostro buon governo nei comuni».

A simili offensive dell’avversario (che sono, dal punto di vista di chi la mette in atto, una controffensiva) può seguire una controffensiva del leader, il quale, a sua volta, può porre in risalto i benefici derivanti dal suo operato con un vigore tale che la sua descrizione dell’ideale concretamente realizzato (o in corso di realizzazione) assume gli stessi toni e le stesse forme della precedente presentazione dell’ideale annunciato. Se ciò accade, è possibile che tutto il suo ragionamento di oggi, considerato alla stregua di sparata propagandistica fuori tempo massimo, non venga preso sul serio e sia oggetto di radicale scetticismo.

Forse ciò può contribuire a spiegare le ragioni della almeno parziale frustrazione del bisogno di riconoscimento, da un lato, e, dall’altro, del rilancio del conflitto politico, nella sua progressione di reciproca delegittimazione e svalutazione.

 

Alberto Quattrocolo

Il precario equilibrio tra scissione e unione, o separazione all’insegna del rispetto reciproco, potrebbe risolverlo un “best man” con un gesto unilaterale di de-escalation senza attesa di contropartite

Ancora un post su quanto accade nel Partito Democratico, ma questo è più breve del precedente.

In una comunità si entra e si resta, poiché e finché se ne condividono valori, principi, finalità, programmi e metodi, ma anche perché, ad esempio, si pensa di potervi realizzare i propri interessi, di appagare i propri bisogni, desideri e aspirazioni di realizzazione e/o di partecipazione, di crescita personale o professionale, ecc.

Da una comunità si esce, quando le aspettative non trovano più soddisfazione, quando i diversi precedenti motivi per restare vengono meno, quando si dissente a tal punto dalla politica svolta da quella comunità, o dai modi in cui è declinata, da non riuscire più a sentirsene parte integrante, sia pure in posizione minoritaria.

Più in generale, in una comunità ci si confronta, si dibatte e ci si divide sulle questioni più diverse, fino a raggiungere la sintesi, la decisione e la sua esecuzione. E in tutto ciò sono fondamentali gli aspetti istituzionali: regole, organi, funzioni, ecc.

Accanto a  tali aspetti istituzionali, però, ve ne sono altri di non minor rilievo e che vengono sottoposti a stress proprio nelle situazioni di conflitto.

Gli organi, i ruoli, le procedure e gli altri paletti istituzionali previsti dalle regole, sono fondamentali per contenere un conflitto interno ad una comunità, ma anche alcuni accorgimenti relazionali sono rilevanti per rendere efficaci, dal punto di vista contenitivo, le norme gli assetti organizzativi suddetti. In assenza di quelle attenzioni, infatti, il rischio è che le regole siano vissute da una porzione della comunità come comodi alibi formali per impedire il dibattito, la competizione, mantenere lo status quo e addossare agli scontenti la responsabilità dello scontento e dei comportamenti da esso provocati. E, per l’altra parte della comunità, che al valore contenitivo e regolativo di quelle norme si richiama, vi è il rischio che esse paiano come argini solo apparentemente sicuri, data la scomodità di sentirsi incolpare di un formalismo fazioso e interessato e di apparire arroganti e rigidi nel far rilevare che non si possono mettere in  discussione le norme quando la loro osservanza pregiudica i propri fini.

Ci si riferisce ad un ingrediente solo apparentemente impalpabile ma che in realtà è assai spesso una componente essenziale di quel collante che tiene insieme una comunità: l’ascolto.

Ci si è già soffermati più volte su tale parola in questo blog, ma quel che qui si vuol porre in rilievo è che è possibile e utile anche ascoltare colui che si considera il nemico.

In realtà, proprio questo aspetto è stato posto in apertura dell’Assemblea del PD dal segretario dimissionario Matteo Renzi, ponendo l’accento sul concetto di rispetto: «In questi mesi il Pd non si è rispettato, ha buttato del tempo, ha bestemmiato il suo tempo, ha perso l’occasione per parlare fuori. Guardiamoci negli occhi rispettandoci e proviamo a capire se esiste lo spazio per immaginare un domani».

Per guardarsi negli occhi nei termini cui si riferisce Renzi, è necessario voler ascoltare il nemico, non proponendolo più agli altri e non rappresentandoselo e non vivendolo più come tale, ma sentendolo e trattandolo come un interlocutore con cui si è in disaccordo, ma che non è da sconfiggere, non è da emarginare, né da abbattere, umiliare o eliminare.

Quindi l’ascolto in tale situazione implica l’essere disposti a mettersi in gioco, a rischiare un po’, a ferire un po’ il proprio narcisismo, a scoprirsi e ad essere scoperti. Inoltre, presuppone anche l’essere disposti a rivelare di essere stati un po’ inadeguati e un po’ deludenti rispetto alle nostre e altrui aspettative, significa soffermarsi sugli errori commessi e sulle esagerazioni compiute nel parlare o sparlare dell’altro, comporta il riconoscere di averlo colpito sotto la cintura e di averlo attaccato a volte anche prescindendo dal merito dei fatti in discussione.

Se si riesce ad ascoltare queste nostre parti, senza far scattare la tagliola del giudizio, ma iscrivendole nella cornice costituita dalla logica reattiva della dinamica conflittuale, vuol dire che, come il protagonista del film più avanti citato, ci stiamo ascoltando.

Del resto, la condizione ideale, ma anche necessaria, com’è noto, per poter riuscire realmente ad ascoltare l’altro è l’aver prima ascoltato se stessi. Infatti, il rispetto a cui allude Matteo Renzi presuppone la compresenza di alcuni aspetti tra i quali: la sospensione dal giudizio e la disponibilità alla comprensione autentica delle ragioni, delle istanze e dei vissuti altrui. Sono elementi, questi due, normalmente assai compromessi nelle relazioni conflittuali, e che sono certo di non facile attivazione anche in quelle non conflittuali.

Tuttavia, tutto ciò non è sinonimo di impossibilità. Ascoltare e, facendolo contenere le spinte all’escalation conflittuale, è un’operazione certamente difficile e impegnativa, ma assai più realizzabile di quanto siamo propensi a pensare allorché siamo coinvolti nel conflitto.

Peraltro, la soluzione del conflitto, come dimostra, ad esempio, l’attività di mediazione familiare, non necessariamente implica il mantenimento del legame con le forme precedenti. Può anche procurare lo scioglimento di quel tipo di legame e la costruzione di un rapporto fondato su basi nuove: una condizione relazionale in cui la sospensione dei gesti ostili poggia, da un lato, sul superamento di vissuti di tradimento, rifiuto e abbandono e sulla conseguente cessazione dei rimproveri reciproci inerenti a tali vissuti e, dall’altro, sull’accettazione dell’inconciliabilità delle differenze all’interno di una condizione di convivenza e sulla loro integrazione in un assetto relazionale diverso, supportato dal reciproco ascolto.

Peraltro, alcuni passaggi dell’Assemblea del Partito Democratico di domenica 19 febbraio – non si esplicita a quali si sta facendo riferimento per rispetto vero i singoli e per non risultare giudicanti – sono sembrati sostenuti da un precedente, a volte sofferto, ascolto di sé, e spesso contenevano più o meno evidenti manifestazioni di un tentativo di ascolto della controparte.

A questo riguardo si richiamano alla mente alcuni importanti passaggi della lunga intervista di Robert McNamara (ex professore di Harvard, ex presidente della Ford, ma soprattutto ex segretario alla difesa degli Stati Uniti prima per John Kennedy e poi per Lyndon B. Johnson) proposta nel film girato da  Errol Morris, nel 2003, The Fog of War: Eleven Lessons from the Life of Robert S. McNamara (vincitore dell’Oscar come miglior documentario). Il film si sviluppa in lezioni. La prima è “empatizza con il tuo nemico”; la seconda è “la razionalità non ci salverà”, la terza “c’è qualcosa al di là di se stessi”.

Riguardo a quest’ultimo punto, per restare in ambito cinematografico, si può pensare alla situazione proposta in un celebre film di 53 anni fa. Nel 1964 veniva distribuito un film di Franklin J. Shaffner[1], il cui titolo originale era The Best Man (quello italiano era L’amaro sapore del potere). I protagonisti erano due candidati contrapposti alle primarie di un partito, che si lasciava intendere essere il Partito Democratico. Ad interpretarli erano Henry Fonda e Cliff Robertson[2]. L’amaro sapore del potere raccontava la lotta senza esclusione di colpi tra i due candidati. Quello interpretato da Fonda (William Russell, segretario di Stato) era largamente ispirato ad Adlai Stevenson, mentre quello interpretato da Robertson (Joe Cantwell, senatore) era invece parzialmente ispirato a Richard M. Nixon[3].

The Best Man, anche rivisto oggi, sembrerebbe dire molte cose sulla dinamica conflittuale in ambito politico. Infatti, nella pellicola si assiste a colpi bassi, diffamazioni, attacchi personali, e alleanze segrete, per contrastare un nemico più forte, stipulate tra candidati quanto mai diversi per cultura, ideali, programmi e visioni (inciuci, si direbbe nel gergo politico italiano). Ma poi emerge quello che secondo la visione dello sceneggiatore Gore Vidal, sarebbe il vero Best Man: cioè, quello che, assaporato l’amaro sapore del potere e soprattutto l’amaro sapore dell’escalation spersonalizzante del conflitto politico, compie la scelta che ritiene più giusta. Pur di non spaccare il partito e di non arrivare ad assumere comportamenti analoghi, per bassezza, a quelli messi in atto dal suo più competitivo rivale, il personaggio di Fonda spiazza tutti, decidendo di ritirarsi dalla Convention e di far convergere i suoi voti su di un candidato minore, sconosciuto ai più, ma che egli ritiene intelligente, preparato ed onesto, il governatore John Merwin.

Non si vuole, con tale esempio, sostenere la necessità o l’opportunità che Renzi, Rossi, Speranza, Emiliano o altri compiano un analogo gesto, né esprimere un parere sulla candidatura alternativa a Matteo Renzi, su cui, si legge su Il Fatto Quotidiano, starebbero ragionando Andrea Orlando, Cesare Damiano e Gianni Cuperlo. Si vuole invece porre in rilievo come il personaggio interpretato da Henry Fonda sia mosso alla sua azione decisiva da qualcosa di ben diverso da quel che, secondo altri personaggi del film, è interpretabile come eccessiva inclinazione a riflettere o come un’irresolutezza caratteriale. Tra coloro che lo sospettano di indecisionismo vi sono non solo il suo antagonista ma anche il presidente uscente, ormai malato terminale, il quale, pur incline per ideali e stima personale a sostenere Bill Russell, è quasi disgustato dal suo fair play, da lui considerato come sintomatico di una mancanza di grinta. Profondamente convinto della necessità di essere duri e decisi nella lotta politica, il presidente Hockstader non comprende che Russell si sta concedendo il tempo per ascoltarsi – per riconoscere i suoi sentimenti, i suoi desideri, le sue paure, le sue pulsioni e la sua rabbia –  e per ascoltare gli altri. Tutti gli altri.

E Russell, pur tenendo moltissimo all’opinione del presidente su di lui, decide di fare quel che gli pare essere il meglio (the best). Perché c’è qualcosa al di là di se stessi e perché, quando si pone in essere quella che si ritiene sinceramente essere l’azione giusta, non lo si fa in vista di contropartite. Lo si fa per sé e per gli altri, ma non lo si negozia.

Ascoltare unilateralmente, nel senso qui proposto, però, in alcun modo implica o comporta la rinuncia alla tutela di visioni, principi, obiettivi, programmi. Non equivale a eliminare le differenze, ma a concretamente accoglierne l’accettazione.

Vuol dire uscire, cioè, dalla logica del botta e risposta, che non appagherà mai completamente i protagonisti del conflitto, per affermare un proprio diverso modo di relazionarsi all’altro.

Quando anche una sola parte interrompe la realizzazione dei comportamenti conflittuali-distruttivi e rivede la sua modalità relazionale precedente, tale condotta può produrre conseguenze sulla controparte, che, almeno entro certi limiti, si trova ad essere un po’ disarmata.

Più ci si chiama fuori dal gioco al massacro, dunque, più si pongono le condizioni perché tale condotta sia più facilmente seguita dalla controparte. O, almeno, si pone questa nella situazione di chi si trova a confliggere prevalentemente o esclusivamente con la propria ombra – il che, si rileva incidentalmente, secondo un certo punto di vista psicologico, è profondamente vero in ogni caso.

Ma questi effetti non possono essere posti come condizioni se si vuole uscire dalla dinamica un po’ hollywoodiana su chi per primo deve abbassare la pistola (e sarebbe interessante, talvolta, tenere presente come vanno a finire tali scene nei film di Quentin Tarantino).

Il ripristino della comunicazione, dunque, tra gli esponenti del PD, che prevenga la scissione o che serva ad accompagnare una separazione non traumatica, su cui si sta qui ragionando potrebbe suonare come un invito irrealistico e generico a porgere l’altra guancia. Non lo è e non vuole esserlo. Però, si ponga mente al fatto, che gestire il conflitto dall’interno, esercitando un’effettiva attività di ascolto di se stessi e degli altri, avversari inclusi, non è una cosa così infrequente nell’ambito delle umane relazioni. Altrimenti l’umanità si sarebbe estinta da un pezzo.

Che poi sia un’impresa difficile, non occorre di certo un grande sforzo per ammetterlo.

 

Alberto Quattrocolo

[1] Fu regista di alcune costose e pluripremiate produzioni spettacolari, ma spesso impregnate di risvolti politici, negli anni sessanta e settanta: la prima versione, del ’68, del Pianeta delle scimmie, Patton, generale d’acciaio, Nicola e Alessandra, Papillon, I ragazzi venuti dal Brasile.

[2] Il primo in quegli anni interpretò altre due volte la parte di un uomo politico (Tempesta su Washington e A prova di errore). Il secondo aveva interpretato la parte di JFK in PT 109, un film del ’63, imperniato sulle esperienze belliche del giovane futuro presidente in Pacifico, allorché come sottotenente di vascello, nella Seconda Guerra Mondiale, fu autore di un memorabile salvataggio dei suoi uomini a seguito del naufragio della sua motosilurante da parte dei giapponesi, nel corso di un’azione bellica.

[3] I punti di contattato tra il film e la realtà politica del periodo, però, non riguardano solo i personaggi e la trama. Il film, infatti, venne girato a Los Angeles e alcune scene all’Ambassador Hotel dove, nel 1968, sarebbe stato ucciso il senatore e candidato alla presidenza Robert Kennedy. L’attore Lee Tracy, candidato al premio Oscar e al Golden Globe coma miglior attore non protagonista (è il presidente uscente  Art Hockstader), ebbe dei guai con l’HUAC (House Committee on Un-American Activities), così come lo sceneggiatore Gore Vidal, che trasse lo script da una sua opera teatrale.

Il conflitto in corso nel PD potrebbe essere l’occasione per una trasformazione della qualità del dibattito politico

La Direzione del PD di lunedì 13 febbraio, visibile in streaming su l’Unità TV è stata variamente commentata, ma in generale, le diverse chiavi di lettura la propongono come contrassegnata dall’emersione di una sempre più prossima possibilità di scissione. Lo stessa dicasi  per l’assemblea del 19 febbraio, anch’essa seguita resa visibile in streaming dall’Unità TV .

Riguardo alle vicende interne al Partito Democratico non pochi già la settimana scorsa avevano osservato che nel giorno di San Valentino era ben poco l’amore circolante tra i dem.

Marco Travaglio, ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, aveva affermato che il livello di conflitto interno al partito era indicativo di una incapacità politica dei suoi esponenti o addirittura di una volontà di rottura del contenitore-partito, che egli imputa in particolare a Matteo Renzi.

Anche Gianni Cuperlo ospite del videoforum di Repubblica, esprimeva un punto di vista non troppo dissimile nel sostenere che «la responsabilità fondamentale è sempre di chi regge il timone» che, sì, deve avere a cuore le sorti del Paese ma «anche la tenuta dell’equipaggio che sta su quella imbarcazione». E nello stesso videforum aggiungeva: «Mi auguro, io ci provo, che ci sia un sussulto di coscienza di chi ha la responsabilità primaria dell’esito, Renzi in primis. Questo fuorionda è indicativo della consapevolezza della gravità della cosa anche tra i renziani». Com’è noto, «il fuorionda» cui si riferiva Cuperlo è quello del ministro Graziano Del Rio.

Sulle tensioni interne al PD, con toni e con una prospettiva molto diverse da quelle espresse da Marco Travaglio, era intervenuto anche Veltroni, intervistato da Aldo Cazzullo sul Corriere. All’interno di questo blog risultano interessanti alcune sue affermazioni, non tanto nelle parti in cui esprime le sue opinioni sulla gestione renziana del Governo del Paese e del PD («Ha fatto molte cose positive, dalle unioni civili all’elezione di Mattarella… Bisogna riconoscere a Renzi di aver dato una scossa a un Paese fermo da troppo tempo. Quello che è mancato è il disegno d’insieme. La capacità di dire all’Italia dove si andava e sulla base di quali sistema di valori. La guida di un Paese non è mai solitaria; è la guida di una comunità. Tagliar fuori tutte le forme di rappresentanza sociale, dall’associazione magistrati ai sindacati, e presentarle come nemiche, è stato un errore. Ho sempre in mente il modo in cui Ciampi e Prodi affrontarono la politica dei redditi e l’entrata in Europa. Renzi deve riconoscere che la politica è fatica, costruzione, mediazione»), né quelle in cui critica un atteggiamento connotato da un problema di memoria («Non mi piace la damnatio memoriae, è il grande difetto di un Paese che ha l’8 settembre come dna: prima tutti aedi entusiasti, poi tutti contrari»), ma soprattutto nella parte in cui schiettamente si propone come osservatore partecipe, interessato e anche affettivamente coinvolto. Infatti, se dapprima afferma di voler  «guardare alle cose della politica con lo sguardo che suggeriva Vittorio Foa: compassione, compartecipazione, senza invadenza», poco dopo aggiunge: «voglio bene a questa comunità, la vorrei vedere unita e vincente».

Lasciamo perdere l’aggettivo “vincente”, che qui non ci può interessare, e soffermiamoci su quello precedente e sul sostantivo cui si riferisce: “comunità unita”.

Una comunità, com’è noto, soprattutto se è una comunità attiva, non può essere priva di conflitti. Infatti, una comunità che non discute non produce alcunché. Si discute, si litiga anche, proprio perché si cerca di produrre, di fare qualcosa, anzi di fare meglio e di fare del proprio meglio. Allora si dibattono i mezzi e gli obiettivi, si mettono in discussione i compiti e le funzioni, si giudicano e discutono le capacità di ideazione, progettazione programmazione, gestione ed esecuzione dei membri del gruppo. E si discutono anche le capacità relazionali connesse a quelle. Il tutto in un’ottica di assunzione di corresponsabilità verso la comunità di appartenenza.

La comunità unita di cui parlava Walter Veltroni con Cazzullo non è, dunque, una comunità che non produce e non discute, ma una comunità che fa o dovrebbe fare entrambe le cose all’interno di un perimetro di garanzia per tutti. Quale? Quello nel quale si pone una certa attenzione alla qualità della comunicazione e, pertanto, in correlazione con essa, alle rappresentazioni reciproche. Infatti, nella citata intervista afferma non solo che le posizioni di D’Alema «avessero nel PD la giusta cittadinanza», ma, aggiunge, «in clima diverso». E il clima diverso, il perimetro di garanzia per tutti cui allude è proprio quello caratterizzato poco prima e poco dopo. Cioè, a livello di rapporti interpersonali nella misura in cui sono intra-gruppali e politici, auspica da un lato, che Renzi non sia considerato «l’avversario principale»; dall’altro che Renzi dimostri «maggiore capacità di inclusione e accoglienza delle diversità inevitabili in un grande partito». Mentre, rispetto alla qualità della comunicazione ricorda che: «Le parole contano, nella politica come nella vita. E le parole che ci si incrocia, da entrambe le parti, non sono quelle che si possono usare restando nello stesso partito. Si dà un’idea di disarmonia, di conflitto, di scontro anche personale che non aiuta».

In effetti, l’ultima frase, presumibilmente, non va interpretata alla lettera, poiché è assai raro, se non forse impossibile, che non solo un conflitto organizzativo ma un conflitto in generale, se combattuto da esseri umani, sia esente da risvolti personali.

Peraltro, è lecito supporre che la prospettiva di Veltroni risenta, di un aspetto personale, cioè della forza del legame che egli sente per il Partito Democratico («Quando leggo al fianco della parola Pd la parola scissione mi sale una grande angoscia»), tanto che le sue dichiarazioni prendono anche la forma dell’appello accorato («Voglio cogliere l’occasione della posizione in cui mi trovo, di uno che guarda e vive le cose della politica con il cuore, senza parteciparvi e senza avere nulla da chiedere, per rivolgere a tutti i dirigenti del Pd una richiesta: fermatevi un minuto prima che questo avvenga»). Del resto tale è il tono e il contenuto anche dell’intervento di Veltroni all’Assemblea del Pd del 19 dicembre.

Ma è interessante un secondo aspetto del ragionamento svolta da Veltroni con Cazzullo (e poi da lui riproposto in sede assembleare): la connessione tra le tensioni interne e l’esterno. E, a suo giudizio (ed è oggettivamente difficile contraddirlo), tale connessione è tutt’altro che inedita: «Nella storia della sinistra, quasi sempre nelle fasi di crisi si è pensato che la cosa migliore fosse separarsi; e queste separazioni sono sempre nel dichiarato nome dell’unità».

Quel che, dunque, si vuole evidenziare, a questo riguardo è, da un lato, la frequente permeabilità tra i rapporti interni ad una comunità (si tratti di un’associazione, di un’equipe di professionisti, di un reparto di un’organizzazione sanitaria o di un partito) e le sue difficoltà relazionali con l’esterno (i suoi utenti, clienti, pazienti oppure, nel caso di un partito, i suoi elettori e militanti e, in generale, i cittadini del Paese).

Infatti, non sempre, ma spesso, le criticità incontrate da un gruppo nella gestione dei suoi rapporti con gli interlocutori esterni, si traducono in una dialettica interna, sconfinante in conflitto anche esasperato e  lacerante. Così, ad esempio, un’equipe di operatori socio sanitari di una casa di cura può finire con l’adottare dinamiche conflittuali interne al gruppo di lavoro assai simili a quelle sperimentate con gli ospiti e i loro famigliari.

Una prospettiva non tanto dissimile è quella fatta propria da Francesco Bei su La Stampa del 16 febbraio (“L’irresistibile istinto di dividersi”): «C’è forse bisogno della psicoanalisi più che della scienza politica per comprendere come una classe dirigente di persone stia allegramente correndo incontro al suicidio collettivo». Nelle righe seguenti, Bei propone l’interessante paragone con una fabbrica di automobili i cui manager cominciassero a dire ai potenziali acquirenti che il prodotto è scadente, mentre le auto della concorrenza sono valide e si rimproverassero in pubblico l’un l’altro la colpa del deperimento della qualità delle auto messe in produzione dalla loro fabbrica.

Parrebbe, dunque, una situazione paradossale, ma non è detto che sia proprio così. E, d’altronde, da sempre, nelle organizzazioni (si tratti di un’azienda, di una struttura amministrativa, di un esercito, di un’organizzazione di volontariato, di un’organizzazione sindacale o politica, ecc.), le contestazioni rivolte al gruppo dirigente si traducono, in ultima analisi, in una messa in discussione della sua gestione dell’ente sul piano della qualità dei prodotti o dei servizi o delle iniziative che quell’ente è deputato a svolgere.

Succede, quindi, che all’interno del gruppo di lavoro si affaccino comportamenti conflittuali, mutuati dal rapporto con l’esterno, di portata particolarmente dannosa rispetto al senso di appartenenza e allo spirito di squadra. Così, tornando all’esempio della casa di cura, un operatore, per l’invidia (distruttiva) nutrita verso un collega, capace di intrattenere un buon rapporto con un ospite con cui egli non riesce ad interagire senza essere aggredito verbalmente o fisicamente, può arrivare a far circolare il sospetto che quell’operatore abbia dei riguardi eccessivi verso il malato a discapito degli altri. E simili comportamenti, dettati da rivalità e invidie, a seguito di un’accurata osservazione, si possono rivelare analoghi agli attacchi al legame tra operatori e ospiti portati da alcuni parenti, che proiettano sui primi i loro vissuti di figli o mariti, di mogli o fratelli comprensibilmente angosciati e addolorati, ma anche altrettanto comprensibilmente arrabbiati con il loro caro che magari non li riconosce più o li tratta male o li fa involontariamente sentire in colpa, e, invece, va d’amore e d’accordo con l’OSS di turno.

Non si creda che in tali situazioni conflittuali tra colleghi non ci si richiami a principi e valori di alto e nobile profilo. Non tanto per nascondere agli occhi degli altri il proprio livore, quanto perché è un aspetto intrinseco del conflitto che ciascun attore si rappresenti come colui che è dalla parte della ragione e, nel farlo, si appelli, anche in buona fede, a dei contenuti di alto livello morale o etico, ritenendoli assolutamente pertinenti e spesso potendo contare su di una buon aggancio alla realtà. Così, all’interno della casa di cura tutte le parti in conflitto propongono come argomento a favore delle proprie posizioni quello di voler perseguire la miglior tutela e assistenza del malato e tutte rinfacciano alla controparte il tradimento di tale nobile scopo.

Analogamente, si potrebbe supporre, quando un esponente del PD, quale ad esempio, Pierluigi Bersani, afferma che la scissione è già avvenuta nella base, forse, per i suoi detrattori lo fa per addossare la colpa di tale imminente frattura alla leadership attuale, ma altrettanto probabilmente propone un argomento del quale è convinto, ricco di implicazioni di altissimo profilo e contenenti a sua volta un’accusa alla segreteria di tradimento dei fini fondativi e naturali del PD. In tal modo, però, con simili contestazioni, si corre il rischio di assorbire all’interno lo scontento percepito nei rapporti con l’elettorato e con gli iscritti, invece di elaborarlo e trasformarlo in una dialettica interna costruttiva, che aspiri a mutare le cose. Cioè: si spendono energie nella ricerca e nella demonizzazione del colpevole, dando luogo ad  atteggiamenti antitetici e ostativi alla realizzazione di una vera Root cause analysis (RCA); non si assume un atteggiamento informato alla presunzione della buona fede nelle ragioni dell’altro, pur ritenendole eventualmente molto errate, ma se ne assume uno di colpevolizzazione non soltanto degli atti, ma ancor di più delle intenzioni, della cultura e della mentalità che avrebbero plasmato quegli atti. In altre parole, in casi simili, invece di rinvenire “il nocciolo di verità contenuto nell’errore”, cui si riferiva Papa Luciani, e di collaborare in amicizia, aiutando a pensare e superare insieme, sia pur in ruoli e con responsabilità diversi, le cause dello scontento diffuso all’esterno, lo si agisce all’interno.

Ciò, nella dinamica conflittuale, non solo consente di acquisire un po’ di credibilità, agli occhi altrui e ai propri, nel respingere l’accusa di agire per meri rancori e inconfessabili insofferenze personali, ma permette anche di avere argomenti a supporto della delegittimazione dell’altro.

Sulla stessa falsa riga, la leadership del partito costruisce tutte le premesse per rilanciare al proprio interno nei rapporti con l’opposizione, una dinamica di mancato riconoscimento e di mancato ascolto, se sminuisce costantemente la portata delle preoccupazioni, cui dà voce la minoranza, in ordine ai rapporti deteriorati con la base e alla crescente mancanza di fiducia di quello che si ritiene dovrebbe essere l’elettorato di riferimento, a prescindere dal fine per cui quella minoranza leva le sue contestazioni. In talo modo, infatti, inavvertitamente o meno la maggioranza fornisce argomenti alla minoranza che, sentendosi vittima di mancato ascolto all’interno del partito, può asserire che il suo farsi interprete del malcontento popolare è vero e  sincero, ma frustrato dall’indisponibilità ad ascoltare del vertice del partito e i cittadini.

Infatti, ove si desse un simile atteggiamento del gruppo dirigente dell’organizzazione, ne deriverebbe una franca difficoltà per gli altri, soprattutto per la minoranza di un ente di tipo democratico, di concorrere in maniera collaborativa, leale e costruttiva al miglioramento della gestione complessiva. Infatti, la percezione di una mancata legittimazione di sé in quanto voce critica, può, dapprima, scoraggiare dal partecipare costruttivamente e incoraggiare a mugugnare e, poi, indurre a ribellarsi apertamente. Gianni Cuperlo, ad esempio, ha usato la parola “umiliazione” sia prima che durante l’assemblea del PD, nel descrivere quella che, a suo parere, è stata la modalità di rapportarsi del vertice del partito con gli interlocutori interni dissenzienti su alcuni provvedimenti legislativi (quali, tra gli altri il Jobs Act o la legge sulla “buona scuola”).

Lo stress sul fronte esterno, in simili casi, pertanto, è suscettibile di comunicarsi all’interno, anche attraverso queste dinamiche. Ma può naturalmente accadere anche l’opposto: il conflitto interno ad un’organizzazione può dare luogo a performances produttive o a modalità relazionali con la clientela/utenza tali da dare luogo a insoddisfazioni e reclami. Questi ultimi possono incrementare il livello di contrasti interni, che a loro volta si ripercuotono sui rapporti con l’esterno, dando luogo ad un circolo vizioso all’insegna della sfiducia sui vari fronti: quella dei clienti/utenti/pazienti, verso l’ente, e quella degli operatori, nutrita l’uno per l’altro e verso l’organizzazione. Numerosi, infatti, sono gli studi sui costi economici del malessere organizzativo che si producono anche sotto tale riguardo.

Non v’è ragione, pertanto, per non accettare che analoghi fenomeni possano interessare i partiti. E, rispetto al Partito Democratico, si può supporre che non senza fondamento sarebbero le tesi di chi ritenesse la sua conflittualità interna come originata o acuita da difficoltà di rapporto con l’esterno. Con pochi cenni, che lasciano intendere una più complessa analisi, e con rimandi all’esperienza storica della sinistra italiana, questo aspetto parrebbe essere preso in considerazione da Veltroni nell’intervista con Aldo Cazzullo e in maniera più elaborata nel suo intervento all’Assemblea del PD.

Ma neppure infondate potrebbero essere le ipotesi circa una difficoltà di relazione con l’elettorato derivante da una precedente, elevata e diffusa, conflittualità interna. Quante volte, infatti, nella recente storia del centrodestra e del centrosinistra tale condizione si è avverata? E non è anche indicativo di ciò quanto rilevava il sondaggio dell’Istituto di Nicola Piepoli, compiuto per La Stampa nella settimana della Direzione del Pd.

Come per il conflitto interno alle altre organizzazioni, perciò, anche in quelle politiche, essendo popolate e costituite da esseri umani, è naturale che il conflitto ci sia. Allora, è fondamentale tentare di comprendere: a) se è riconosciuto; b) se ha cittadinanza; c) come si sviluppa.

Rispetto ai primi due punti, si deve riconoscere che nel PD il conflitto è certamente riconosciuto e che ha indubbiamente cittadinanza. Lo stesso Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia, ha esplicitamente riconosciuto tale caratteristica.

Resta, dunque, il tema del come si sviluppa. Ebbene, a tale riguardo riesce davvero difficile non rilevare una forte somiglianza tra i toni e le forme della dialettica interna e le modalità di espressione del conflitto con gli altri partiti, soprattutto, in questa fase con quello politicamente più competitivo, il Movimento Cinque Stelle.

Questo può forse spiegare come vi sia un dato di realtà nelle parole pronunciate nella Direzione del PD di lunedì 13 febbraio da Matteo Renzi, allorché aveva osservato che gli avversarsi sono soltanto quelli fuori dal PD, sono la destra. Tale osservazione polemicamente indirizzata alla minoranza, forse, in realtà, illustrava fedelmente il livello di escalation conflittuale maturato all’interno del partito. Un’escalation, infatti, che come quella con gli altri partiti e movimenti, si è caratterizzata per la frequenza degli attacchi sul piano personale, all’insegna della svalutazione dell’altro, della sua messa in ridicolo o della sua demonizzazione.

È certamente vero che vi sono in tale conflitto anche momenti caratterizzati da riconoscimenti reciproci e da richiami al comune legame, i quali non sono, invece, frequentemente ravvisabili nella conflittualità tra i partiti. In particolare, ve ne sono stati molti nel corso dell’Assemblea di domenica, che parevano anche sinceramente e profondamente sentiti e sofferti dai relatori. Ma ciò costituisce il naturale correlato di una conflittualità interna ad un’organizzazione, in cui la prospettiva separativa si rivela con tutta la sua forza lacerante e dolorosa. Un’organizzazione, che, per giunta, è anche impegnata a fronteggiare gli attacchi dall’esterno, soprattutto intesi ad approfittare proprio delle tensioni interne per screditare il partito intero e non solo questo o quell’esponente della sua maggioranza o minoranza.

In conclusione, si osservano due cose: la prima è che non c’è alternativa all’attraversamento del conflitto, come del resto, affermava Frost. il conflitto interno al PD – che sia originato dalle difficoltà incontrate dalla mancata vittoria elettorale del 2013 in poi e dalle criticità sperimentate nel governare l’Italia in tali 4 anni, ovvero che nasca da tensioni interne risalenti all’elezione di Renzi a segretario o addirittura a prima, oppure ancora, com’è forse più probabile, che sia frutto di una combinazione tra aspetti e fattori esterni ed interni -, assume rilevanza per la cittadinanza non soltanto in virtù delle conseguenze sulla legislatura, dei temi dibattuti, certamente importanti, e per le idee sulla politica interna ed estera che finiranno con il prevalere in un partito il cui elettorato si aggira per ora attorno al 30%, ma, ancor prima, in virtù della sua capacità di incidere sulla qualità del dibattito politico.

Infatti, da un lato, è possibile che la qualità del confronto tra la maggioranza e la minoranza del PD possa influenzare anche la qualità del dibattito tra tale partito e gli altri con cui è in competizione e anche, chissà?, forse quello interno alle altre forze.

Dall’altro, è altrettanto possibile che, se il conflitto interno al PD si collocasse su livelli qualitativi alti, in termini di contenuti e di modalità di proposizione degli stessi, riallacciandosi così, e in maniera percepibile immediatamente, alla vita e alle preoccupazioni dei cittadini, ne conseguirebbe un riconoscimento nella cittadinanza di un esempio concreto dell’utilità e della potenziale grandezza trasformativa del conflitto politico.

Si può facilmente rilevare come tale conseguenza potrebbe essere di non poco conto rispetto alla questione del rapporto tra cittadini e istituzioni, potendo interrompere quel circolo vizioso all’insegna della sfiducia più sopra proposto, nel caso si fosse innescato, oppure potendo prevenirlo se ancora non si è avviato.

 Alberto Quattrocolo

PD a rischio scissione? L’unico modo di superare un conflitto è attraversarlo (R. Frost): ma l’attraversamento richiede tempo.

Su di un Blog come questo, gestito da un’Associazione la cui denominazione è Me.Dia.Re. e che si occupa di gestione dei conflitti in molteplici ambiti (familiare, penale, sanitario, civile e commerciale), è quasi inevitabile porre una particolare attenzione a quanto sta avvenendo all’interno del Partito Democratico e che ha visto nella giornata di domenica 19 febbraio 2017 compiersi un’Assemblea, visibile da chiunque fosse interessato, grazie alla diretta streaming su l’Unità TV e alla copertura offerta dai media, tra cui lo speciale telegiornale su La 7, condotto dal direttore Enrico Mentana.

Il commentare, però, implica il pensare. E il pensiero richiede tempo. I primi non troppo avventati pensieri che vengono in mente riguardo alle vicende in corso, si fermano ad una sorta di constatazione: sono di veloce svolgimento. Di particolarmente veloce svolgimento.

Con ciò non si vuole in alcun modo entrare nel merito del dibattito in ordine ai tempi del Congresso, alla proposta di una Conferenza programmatica, ecc. Ma semplicemente porre in evidenza quel che spesso si produce nello sviluppo dei conflitti, da quelli interni ad una coppia o ad una famiglia a quelli che possono prodursi in ambito lavorativo o all’interno di un’organizzazione di volontariato e, perché no?, in un partito.

Infatti, spesso il conflitto riguardante individui che fanno parte di gruppi (di lavoro, familiari o di altra natura) matura dapprima lentamente e assai spesso sotterraneamente, attraverso interazioni che lasciano, però, via via più insoddisfatte le persone. Si tratta di scambi che segnalano più o meno sommessamente che una pare nutre perplessità, disaccordi o dissensi rispetto alla condotta dell’altra. Vi possono essere alla base malintesi e incomprensioni, però possono anche svilupparsi dubbi sulle motivazioni e sulle intenzioni altrui, e tali dubbi possono essere in realtà circolanti.

Col tempo si procura una dimensione relazionale punteggiata da “non-detti”. Anche se tale non è l’impressione delle parti in gioco, i “non-detti” sono molto più frequenti e condizionanti di quanto non ci si accorga allorché si è all’interno della dinamica. Anzi, il più delle volte non ci si rende affatto conto che si sta dando luogo ad un clima relazionale attraversato da non-detti.

Certamente l’impressione, il convincimento di una parte del gruppo può essere quella di aver sempre parlato chiaro e  di avere invitato la controparte a fare altrettanto, ma spesso e volentieri si tratta di un’impressione che sorge ex post, quando si è arrivati al punto di rinfacciarsi gli errori e di ribattere  alle critiche inerenti la cattiva qualità della comunicazione che avrebbe portato all’escalation conflittuale successiva.

Anche chi ha sottaciuto alcuni argomenti di preoccupazione o perplessità, spesso, adduce a giustificazione di ciò, la mancanza di ascolto della controparte, la sua elusività o la sua indisponibilità ad essere oggetto di critiche.

A tale reazione, la controparte, solitamente ribatte che le critiche ricevute sono state sempre ascoltate, per quanto fossero numerose, anzi perfino rumorose al punto tale da creare disagio ed imbarazzo nei rapporti con il mondo esterno all’organizzazione.

Che tale dinamica sia facilmente riscontrabile nell’ambito dei rapporti tra maggioranza e minoranza all’interno di un gruppo democraticamente costituito e gestito, non esclude che possa avverarsi anche la condizione opposta.

In entrambi i casi, però, la successiva dialettica, connotata da scambi di accuse e da reciproci rimproveri di errori, sgombra dal campo lo scomodo tema dei non-detti, senza, tuttavia, risolverli. Anzi assai spesso lascia che continuino ad esistere e a condizionare l’interazione, a discapito delle possibilità di un chiarimento che valga risolvere il conflitto in termini separativi, senza strascichi conflittuali, o ri-conciliativi nella sostanza e non solo nella forma.

Infatti, una volta che la conflittualità viene corposamente alla luce del sole ed è anche dibattuta sulla pubblica piazza, si crede che il parlarsi, il dirsi le cose in faccia, il superamento del confronto tra pochi davanti ad un caminetto, per sostituirlo con una dialettica fitta e diffusa, valgano a risolvere il problema dei non-detti. Ma ciò non è automatico. Dipende da cosa si dice e da come lo si dice.

Infatti, se in una certa fase del conflitto, soprattutto nella prima, il non-detto può essere anche figlio della paura di compromettere irreparabilmente la relazione e di perderla, nella seconda,  quando la paura di troncare la relazione non inibisce più l’escalation del conflitto, i non-detti possono avere alla radice istanze ancora più profonde, spesso percepite come indicibili e talora come inconfessabili. Ma quelle motivazioni, emozioni e aspettative, che paiono permeate di oscurità sinistre, sono naturali componenti delle relazioni umane, sono un correlato dell’ombra junghiana, componente irrinunciabile e, talvolta, perché no?, anche particolarmente utile non solo dell’essere umano, ma soprattutto dell’essere umano in relazione con gli altri.

E a volte sono proprio queste parti inconfessate, sebbene naturali, che ci fanno reagire e ci riducono lo spazio, o meglio il tempo, per pensare.

Facciamo un esempio: un gruppo di giovani amici parte per una vacanza del tipo “zaino in spalla” in un Paese sudorientale, ma, giunti sul posto, una parte di essi, numericamente minoritaria, patisce il fatto che la vacanza sta prendendo una piega diversa da quella progettata. Poco per volta il loro malcontento emerge e si palesa anche l’insofferenza della maggioranza del gruppo verso la minoranza scontenta. Così una sera si arriva a discutere tutti quanti davanti ad un tavolo. In quella discussione volano parole forti, una parte della maggioranza rinfaccia a qualcuno della minoranza di aver preso parte all’iniziativa comune con scarsa convinzione e con atteggiamento ipercritico fin da prima della partenza, qualcun altro osserva che le critiche fanno bene e bisogna saperle accettare, qualcun altro ancora, sempre, facendo parte della minoranza aggiunge che la maggioranza, e in particolare quello che tutti considerano il suo principale portavoce, non sa ascoltare, ecc. Per farla breve, un parte del gruppo, quella minoritaria, annuncia l’intenzione di separarsi e di proseguire il viaggio autonomamente. Cala il gelo per qualche istante, poi la discussione riprende con toni più accesi e con accuse esplicite di dirigismo autoritario o di dittatura della maggioranza e di ricatto o dittatura della minoranza, arricchendosi di rinfacci reciproci di voler boicottare l’unità del gruppo e la bellezza di una vacanza lungamente attesa e sognata.

Quali sono i non-detti, si potrebbe obiettare, se questi amici si stanno dicendo tutto? Be’, per esempio, il non-detto potrebbe essere che in realtà uno ha sempre nutrito dei dubbi sulla meta, ma ha aderito perché trascinato dall’entusiasmo dei più e ora è arrabbiato con se stesso per avere fatto ciò che non voleva e, piuttosto consapevolmente, sta facendo pagare (proietta) agli altri questo suo vissuto; oppure per un altro può essere l’irrinunciabile propensione a non volersi soffermare sulle cose che non funzionano, preferendo vedere il bicchiere mezzo pieno, perché il posare l’occhio sulla parte vuota significherebbe, per lui, ammettere e assumere la colpa di un fallimento non tollerabile, ecc.

Nel caso di quanto sta avvenendo nel Partito Democratico ovviamente le cose sono infinitamente più complesse e di portata incommensurabilmente superiore all’esempio citato, ma anche in tal caso, all’occhio di un profano, esterno a tutto e sommamente ignorante di quali possano essere le motivazioni di tutti, fatte salve quelle rese pubbliche, sembra che il tempo per pensare stia subendo una contrazione improvvisa, frutto di un’accelerazione fenomenale delle reazioni.

Che i protagonisti possano essere persuasi di aver concesso tempo più che sufficiente alla controparte per discutere e  meditare, è quanto emerge assai spesso nelle dichiarazioni dell’una  e dell’altra parte, però si trascura la possibilità che tale percezione sia figlia di una propensione alla reazione immediata, forse impulsiva, dettata dagli stati d’animo della rabbia, della frustrazione, del disagio, dell’angoscia.

Si può arrivare in un conflitto coniugale, familiare o interno ad un gruppo organizzato a preferire l’azione veloce, per quanto distruttiva, piuttosto che l’attesa. Si preferisce agire in qualche modo, e al diavolo le conseguenze, pur di risolvere la sensazione di impotenza e di porre termine alla sofferenza che la situazione relazionale crea. E,  magari, si crede, rompendo gli indugi posso portare ad un auspicato chiarimento che risolva finalmente questo esasperante disordine.

Tuttavia, raramente, quelli che in psicologia si chiamano agiti risolvono davvero e definitivamente i conflitti. Certo la tensione derivante dall’altalena tra l’andare e il restare, lo stress delle scelte sul punto di essere fatte ma non ancora sottoscritte e la confusione che ammanta il tutto, sono test assai onerosi e provanti. Tanto che può accadere che si dica: ora basta, finiamola qua e occupiamoci di cose più importanti.

Così facendo, però, vi è proprio il rischio di dare libero corso ad un’azione che traduce pulsioni, emozioni e sentimenti in comportamenti non sorretti da un esame accurato delle implicazioni e delle conseguenze di breve, medio e lungo termine che ne potrebbe derivare.

Che l’esito di un conflitto coniugale, tra amici o all’interno di un gruppo di lavoro o di una comunità politica sia di tipo separativo non è necessariamente sinonimo di un peggioramento o di una catastrofe per i suoi attori o per gli altri soggetti interessati (i figli, gli altri amici, la collettività), – come tra gli altri ha sostenuto Achille Occhetto ospite di Gaia Tortora nel programma Omnibus su La 7 -,  né il compromesso che tenga ancora tutti insieme è automaticamente indicativo di un progresso.

Il primo, infatti, potrebbe essere frutto di un accordo basato sul rispetto cui si riferiva Matteo Renzi, il segretario dimissionario del PD, nel suo discorso di apertura dell’Assemblea.

Il secondo potrebbe essere in realtà una finta tregua, nascostamente armata e prodromica ad un più o meno ravvicinato rigurgito di spinte distruttive.

In entrambi i casi, ad essere decisivo sul piano del positivo attraversamento del conflitto, cui si riferisce il celebre aforisma di Robert Frost, è, dunque, l’approdo ad una situazione relazionale in cui tutti interloquiscono, essendosi prima concessi il diritto di ascoltare attentamente e coraggiosamente se stessi, e sono pertanto inclini ad assumersi la responsabilità e l’onere di ascoltare attentamente gli altri: sospendendo il giudizio in entrambe le fasi.

Infatti, questa, per lo più, è la precondizione per approdare al ripristino o alla costruzione ex novo di un patto di fiducia che strutturi, all’insegna del riconoscimento e della legittimazione reciproca, il futuro della relazione, sia, questa, tra “divorziati” o tra “conviventi”.

In mancanza di ciò, è facile profetizzare, con buoni margini di riscontro a breve termine, che si avveri  quel che proponeva la frase di lancio di Alien vs. Predator, un film, vincitore del Razzie Award (peggior film della stagione) nel 2004: «Whoever wins… We lose.».

Alberto Quattrocolo

Il venticinquesimo anniversario di Mani Pulite e lo stimolo di una cultura del sospetto nel conflitto politico: cosa succederebbe se una legge fosse frutto di mera “politica difensiva”?

L’intervista rilasciata da Piercamillo Davigo a Giuseppe Guastella consente di riprendere il discorso avviato con due precedenti post (cioè, L’indagine sulla Raggi e il conflitto politico. Può il conflitto politico generare una “politica difensiva” come il contenzioso in sanità ha stimolato la “medicina difensiva”? e Un’altra ipotesi di reato per la Raggi, nuova indagine a Napoli per violazione della legge elettorale e archiviazioni per “Mafia Capitale”. Altre considerazioni sulla “politica difensiva ) in cui si ipotizzava che la pratica costosa e dannosa della medicina difensiva potesse avere un contraltare in sede politica, in particolare in riferimento a comportamenti che, mutatis mutandis, potrebbero essere sottesi da una simile logica.

Riguardo alla legge Severino, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), pubblico ministero ai tempi di Mani Pulite e oggi presidente di sezione della Corte di cassazione, afferma che essa «non contrasta la corruzione ma è stata gabellata per una legge che la contrasta». Guastella osserva: «Monti, il premier di allora, non era sospettabile di essere vicino ai corrotti». La replica di Davigo è: «Quella legge l’ha fatta il Parlamento. Ricordo che il ministro della Giustizia rispose alle obiezioni: “Era il massimo che si potesse fare in quel momento con quelle Camere”».

Da simili considerazioni sorge l’interrogativo sulla possibilità che alcuni atti politici siano derivanti da una consapevole o inconsapevole tendenza alla politica difensiva.

Si precisa da subito, però, che non vanno eluse, né sottovalutate le differenze tra le situazioni che costituiscono lo sfondo in cui si incorniciano le pratiche della medicina difensiva e quelle che potrebbero alimentare atteggiamenti che qui sono state un po’ avventurosamente chiamati come comportamenti di politica difensiva.

Nel caso delle vicende per responsabilità professionale del personale sanitario, infatti, si tratta sempre e solo di supposti errori commessi per negligenza, imprudenza o imperizia. Cioè di fatti colposi e non dolosi (si veda l’art. 43 del Codice Penale).

Anzi, va evidenziato che si tratta di errori, quando davvero vi sono stati e non si è trattato di incolpevoli complicanze, realizzati nell’atto di prendersi cura del malato, all’interno di un processo terapeutico che è inteso a tutelare la salute del paziente anche da parte di chi eventualmente ha provocato il danno.

I comportamenti illeciti contestati al personale politico, invece, per lo più, rientrano in comportamenti dolosi, e l’accusa è di averli posti in essere volutamente, e per mere finalità egoistiche, e non all’interno di un percorso di cura rivolta all’altro funestata da una svista o da un’errata valutazione.

È pur vero che, talora, l’amministratore è fatto oggetto di azione penale per comportamenti colposi, ma, ovviamente, non quando si parla di corruzione o di voto di scambio.

Tuttavia, vanno presi in considerazione elementi di prossimità tra il contenzioso per responsabilità in ambito sanitario e i procedimenti a carico di politici. In entrambi i casi, il soggetto passivo dell’azione legale (il medico e il politico) è in una posizione di debolezza di fronte all’opinione pubblica. Cioè, salvo alcune eccezioni, entrambi sanno di non poter contare sulla solidarietà popolare. Quindi, se entrambi sono, per lo più, condannati dalla pubblica opinione, ancor prima di essere stati giudicati, possono anche avere la sensazione di una quasi totale indisponibilità dei cittadini ad ascoltare la loro versione. Possono sentirsi entrambi emarginati all’interno della loro comunità. La loro sofferenza è sottovalutata dai più, quando non è derisa o considerata come una forma di giusta punizione per il fatto di avere tradito la fiducia di chi aveva loro affidato la cura della salute o della res publica.

Inoltre, entrambe le vicende possono mettere in moto il fenomeno della “vittima potenziale”: cioè, quella forma di ansia che interessa i membri di una comunità che si sentono esposti al rischio di un danno che qualcuno di essi ha già patito. In sintesi, si può tradurre così: se è successo al dottor X di essere indagato per una cosa del genere (ipotetico errore in sanità o un’ipotesi di abuso d’ufficio), perché non dovrebbe succedere anche a me?

Tale ansia è uno degli aspetti emotivi che sottendono la medicina difensiva. E non si può negare che abbia un contatto con la realtà, vista l’elevata percentuale di professionisti sottoposti ad azione legale.

Analogamente, il timore di essere stritolati dalle spire del conflitto politico, allorché sfrutta le indagini giudiziarie, può condizionare certe scelte e certe modalità di azione da parte del personale politico.

Nell’intervista sul Corriere della Sera, Davigo, come, del resto, altri magistrati, pone in rilievo il rischio che si carichi «sulla decisione del giudice la selezione della classe politica». Il che è tanto più possibile quando le vicissitudini giudiziarie (avvisi di garanzia, interrogatori, ecc.) vengono assurte al ruolo di strumenti di conduzione del conflitto politico, allo scopo di tentare la delegittimazione dei personaggi politici coinvolti, e dei relativi partiti, agli occhi del loro elettorato. E ciò pare essere particolarmente evidente allorché i fatti giudiziari interessano politici di partiti i cui elettori sono considerati particolarmente sensibili ai temi della legalità e della moralità della classe dirigente.

Ma ancora più significativo sembra un altro atteggiamento ascrivibile alla categoria della politica difensiva, intesa come insieme di condotte politiche che sollecitano un’associazione mentale con la pratica della medicina difensiva.

Ci si riferisce, ad esempio, all’approvazione, poi parzialmente o totalmente rimpianta da alcune forze politiche, della legge Severino: tralasciando il tema della sua efficacia nel contrastare la corruzione (trattandosi di un aspetto che non è di competenza di questo blog), sollevato dal presidente dell’Anm nell’intervista citata, l’approvazione quasi unanime di tale legge potrebbe essere letta come una forma di politica difensiva accostabile alle situazioni richiamate da Cantone, da Cacciari e della Gruber nella trasmissione Otto e mezzo (vedi: L’indagine sulla Raggi e il conflitto politico. Può il conflitto politico generare una “politica difensiva” come il contenzioso in sanità ha stimolato la “medicina difensiva?”)?

Soffermarsi sull’opportunità, sull’efficacia, sulla giustezza di tale legge, in questo Blog, giova ripeterlo, sarebbe oltre che inopportuno, insensato, incoerente e contraddittorio. Mentre potrebbe essere opportuno, pertinente e sensato soffermarsi su di una possibilità interpretativa: cioè, che questa o altre leggi siano non il frutto di una larga e condivisa presa di coscienza da parte del legislatore circa la necessità di adottare provvedimenti di particolare portata per contrastare e/o prevenire l’illegalità, ma che siano, invece, generate dalla dinamica del conflitto politico. In particolare, che siano leggi, non condivise fino in fondo da chi le vota in Parlamento ma approvate, soprattutto, per disarmare l’avversario politico, per dimostrare ai cittadini di essere invulnerabili agli attacchi colpevolizzanti e demonizzanti degli altri partiti.

Si potrebbe ritenere che, anche in tali casi, se una legge è buona, in fondo, poco importa se il Parlamento l’ha approvata con una virtuale pistola alla tempia costituita dall’uso politico degli scandali riguardanti i suoi componenti. Può darsi, ma inquietante è il dubbio –  insinuato, forse, da una cultura del sospetto, che può condizionarci tutti – che il vizio “ricatto” possa, in realtà, condizionare o corrodere l’operatività concreta della legge (non ci si riferisce  all’applicazione da parte della magistratura), o dare luogo a revisioni radicali, anche se magari non apparenti, non appena la forza del ricatto sia venuta meno.

Con ciò non si vuole dire che non siano da tenere nella giusta considerazione leggi di portata epocale, adottate almeno un po’ “a furor di popolo”, come, per citarne una soltanto, la legge Rognoni-La Torre. Troppe vite, troppo sangue, troppo dolore, sono costate molte leggi fondamentali per la lotta alla criminalità. Quel che si vuole sottolineare è la preoccupazione che, se da chi la approva una legge è vissuta come imposta dalla necessità di difendersi nel conflitto, tale legge abbia prevalentemente una portata propagandistica e una scarsa efficacia, in quanto non “sentita” dai suoi autori o da una cospicua parte di essi.

Talvolta, poi, è proprio su tale registro che si colloca la conflittualità politica esasperata. Si pensi, per fare un esempio, alle polemiche che accompagnarono la legge che introdusse per la prima volta nell’ordinamento italiano il reato di voto di scambio: tra gli altri un titolo del Fatto Quotidiano può aiutare a ricordare la vicenda: Voto di scambio, Senato approva riforma. Bagarre in Aula: espulsi 2 senatori M5S. All’epoca il Movimento Cinque Stelle obiettava che si trattava sostanzialmente di un’operazione di facciata e contestava la credibilità di coloro che votavano a favore. Che avesse ragione o meno sul piano del merito, ciò che si colloca sul registro della radicalizzazione del conflitto, con potenziali effetti etero e autodistruttivi, è la polemica giocata sul registro della credibilità e della legittimazione delle altre forze.

Infatti, come si è più volte affermato in questo Blog, ci pare che l’aspetto più costoso per le parti e per la società della conflittualità in ambito politico risieda proprio nella delegittimazione dell’altro.

Ciò tipicamente accade quando la discussione si sposta dall’oggetto al soggetto e, ancor di più, quando, passando dalle argomentazioni sulla cosa discussa o contesa a quelle ad personam, si sviluppano queste ultime in termini di attribuzione alla controparte di finalità recondite alla base del suo comportamento, siano esse precise o vaghe, contestualizzate e supportato da indizi oppure no.

Provo a chiarire. Un conto è dire: “Attenzione! Così facendo il Parlamento produce una norma che non funziona come dovrebbe”. Altra cosa è affermare: “Proponete una legge inefficace perché siete tutti collusi con la mafia”.

Questa seconda asserzione – di cui non ha alcuna esclusiva il Movimento Cinque Stelle, trattandosi di una tesi sentita in molteplici occasioni nella storia repubblicana e anche prima -, che sia veritiera in larga parte oppure no, costituisce l’attribuzione all’altro di una motivazione o di un’intenzione di tal natura, al fine di farlo desistere dal suo proposito. Però, non solo può screditarlo agli occhi dell’opinione pubblica (il che può essere un effetto voluto all’interno del conflitto politico esasperato) ma pone anche le premesse per una delegittimazione di tutta la classe politica, poiché innesca ex novo o rinvigorisce e rilancia una “cultura del sospetto” (e tale effetto potrebbe non essere esattamente quello voluto da chi effettua quella attribuzione di intenzioni).

Infatti, stando solo sull’esempio citato, supponiamo che venga indagato un politico del Movimento per voto di scambio: è possibile che, in tal malaugurato caso, alcuni avversari politici rinfaccino quel voto in aula contrario al 416 ter, sostenendo che tale decisione fu presa dai parlamentari pentastellati perché, in realtà, essi o i vertici del Movimento sapevano di avere tra i propri esponenti taluni macchiatisi delle condotte da quella norma punite.

Poco aiuta di fronte a simile dinamiche relazionali il fatto che la parte politica sotto accusa possa suggerirne  la riconducibilità a Bias e errori di attribuzione individuati nella psicologia sociale, cioè all’Errore fondamentale di attribuzione (Ross, L. “The intuitive psychologist and his shortcomings: Distortions in the attribution process”. In Berkowitz, L. Advances in experimental social psychology. 10. New York: Academic Press, pp. 173–220, 1977) e, forse ancora di più, all’Errore definitivo di attribuzione (Pettigrew, T. F. “The ultimate attribution error: Extending Allport’s cognitive analysis of prejudice”. Personality and Social Psychology Bulletin, pp. 461–476, 1979). Secondo quest’ultima teoria, le spiegazioni che ci diamo del comportamento di un soggetto appartenente ad altri gruppi (nel nostro caso, politici) sono distorte dalla nostra appartenenza gruppale, sicché si verificano attribuzioni asimmetriche su atti simili per l’ingroup (il mio partito/movimento) e l’outgroup (il partito/movimento avversario). Più verosimilmente, il Movimento 5 Stelle potrebbe obiettare che il suo voto contrario al testo della proposta legislativa sul voto di scambio sorgeva dal rilievo di una sua ridotta efficacia. Si tratterebbe, di una difesa debole, però. E non perché non veritiera o non verosimile, ma perché è una difesa. Perché chi è accusato, e cerca di discolparsi, è in una condizione svantaggiata rispetto a chi attacca e accusa. Ed è ancora più disagevole il ruolo dell’accusato quando la contestazione non verte sui fatti ma sulle intenzioni. Come faccio a dimostrare che il mio pensiero e il mio sentimento erano diversi da quelli imputatimi? Non è detto che ci riesca, non è detto che sia persuasivo agli occhi di tutti, non è detto che l’ombra del sospetto svanisca anche nella mente di coloro dai quali più di ogni altra cosa vorrei essere considerato una persona perbene.

Si pensi, ad esempio, a come fu commentato il codice di comportamento degli eletti dall’ex pentastellata sindaco di Quarto, Rosa Capuozzo, stando a Repubblica: «Rosa Capuozzo – sindaca di Quarto espulsa dal M5s – spiega che quel testo Grillo “più che per il caso-Roma lo ha scritto su misura per la storia delle firme false a Palermo”. (…) “Finora – ha aggiunto Capuozzo  – il M5s aveva sospeso chi riceveva un avviso di garanzia, ma si vede che i vertici hanno preso atto che le cose cambiano. D’altra parte, il sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, continua a governare con due avvisi di garanzia sulle spalle. Spero che la base si ribelli”». Oppure al ragionamento (un fiume in piena di rabbia e certezze lo definisce Giacomo Talignani che lo intervista su L’Huffington Post) di carattere più generale, svolto da Federico Pizzarotti, nell’ambito del quale contesta al Movimento 5 Stelle di interpretare le regole a favore degli amici e di applicarle, invece, per i nemici

Per i non addetti ai lavori – la gran parte di noi -, ancora una volta, ci si imbatte nella difficoltà di capire dove stia la verità se si verifica l’esempio fantasioso sopra immaginato (un’accusa degli altri partiti al M5S di avere votato contro l’introduzione dell’art. 416 ter per il timore che potesse applicarsi a qualche eletto cinque stelle) così come la possiamo sperimentare di fronte alle critiche di Capuozzo e Pizzarotti. Ancora una volta dovremmo decidere in base alle simpatie. Ma, soprattutto, potrebbe anche in tal caso insinuarsi il sospetto e col tempo deteriorarsi il nostro sentimento di fiducia verso tutte le organizzazioni politiche e le istituzioni.

Infine, anche la produzione di norme che moltiplicano i passaggi burocratici e sfarinano le possibilità di assunzione, attribuzione e ricostruzione della responsabilità potrebbe essere considerata accostabile alla pratica della medicina difensiva, o meglio ad una sua nozione estesa – e  a dire il vero più suggestiva che corretta. Ci si riferisce alla crescente burocratizzazione lamentata da molti professionisti della sanità e da cittadini, tra cui per esempio, quella inerente la tematica del consenso informato. Trattandosi, però, di un tema troppo vasto e complesso, ci si ferma qui.

 

Alberto Quattrocolo

Proseguono gli incontri dei job club, i gruppi che aiutano le persone a trovare lavoro

Sono iniziati ormai gli incontri dei primi due Job Club organizzati dall’Associazione Me.Dia.Re. ad Alessandria e Torino. I Job Club sono gruppi di persone che si aiutano a vicenda a cercare un lavoro, trovandosi a cadenze regolari per supportarsi nella fase attiva della ricerca. Lo fanno seguendo il metodo messo a punto dagli ideatori del Progetto Job Club: Riccardo Maggioli, giornalista autore di alcuni libri tra cui l’e-book “Brucia il tuo curriculum – e trova davvero lavoro in 10 passi, e Nicola Giaconi, psicologo e autore di libri sulla scelta e la ricerca del lavoro quali “Trovare il lavoro che piace” e “Trovare lavoro da timidi”.

Gli incontri sono condotti da due trainer certificati dell’Associazione Me.Dia.Re. Nel corso degli incontri si affrontano diversi temi utili nella ricerca del lavoro, partendo dal principio che “cercare un lavoro è un lavoro. E come tale – oltre a essere fatto con regolarità – non si dovrebbe improvvisare. Eppure, in troppi lo fanno, pagandone le conseguenze”. Obiettivo del Job Club è quello di permettere alle persone di uscire dallo stato di isolamento in cui spesso si trova chi cerca lavoro e recuperare un ruolo attivo nella ricerca lavoro, affinando le sue strategie di ricerca grazie all’acquisizione di tecniche specifiche tramite esercizi pratici. Ciò è reso possibile grazie sia alla forza del gruppo, che aiuta a essere costanti nell’attività di ricerca, sopportare la fatica e la frustrazione e coltivare la positività, sia all’efficacia di un percorso che parte dalla definizione e ridefinizione professionale di sé stessi e che mira ad accompagnare le persone alla presentazione di un progetto di autocandidatura presso aziende ben selezionate. Secondo Riccardo Maggioli, infatti, “non si può pensare di trovare lavoro inviando una mail. Bisogna proporre un progetto che faccia capire a un’azienda il vantaggio competitivo di una collaborazione, anche a un’impresa che apparentemente non sembra intenzionata ad assunzioni”.

Obiettivo del Job Club è anche quello di favorire lo scambio di informazioni, il confronto reciproco e la condivisione dei propri contatti. Secondo i dati rilasciati dall’Isfol, infatti, fino al 73% delle aziende italiane utilizza la propria rete di contatti per la ricerca di personale (Isfol, 2010), il ché significa che la maggior parte delle opportunità di lavoro vengono ricoperte ancor prima di essere pubblicizzate sul web o sui giornali. Sempre secondo l’Isfol, in Italia circa il 70% delle persone trova lavoro con il passaparola, il 25% attraverso agenzie per l’impiego, istituzioni e concorsi pubblici, e meno del 5% inviando curriculum in risposta ad annunci. Oggi chi cerca lavoro da solo e senza contatti vede quindi ridotte di molto le sue possibilità di successo. Nei Job Club le persone condividono i propri contatti, rovesciando l’approccio classico al mercato del lavoro.

Aderire a un Job Club non costa nulla: il servizio è offerto gratuitamente dall’Associazione Me.Dia.Re. grazie al sostegno delle Fondazioni SociAL (ad Alessandria) e CRT (a Torino).

Oltre al Job Club, l’Associazione Me.Dia.Re. gestisce a Torino, Collegno ed Alessandria il servizio gratuito SOS CRISI, dove un’équipe di psicologi e psicoterapeuti offre uno spazio di ascolto e sostegno psicologico per le persone e le famiglie che attraversano un disagio generato da difficoltà occupazionali. Lo sportello SOS CRISI mette a disposizione dei cittadini di Torino, Collegno e Alessandria la possibilità di ricevere ascolto e sostegno psicologico da parte di operatori qualificati.

Per informazioni e appuntamenti scrivete a [email protected] Maggiori dettagli su www.soscrisi.it e www.me-dia-re.it/job-club

Un’altra ipotesi di reato per la Raggi, nuova indagine a Napoli per violazione della legge elettorale e archiviazioni per “Mafia Capitale”. Altre considerazioni sulla “politica difensiva”

Si apprendono nell’arco di una manciata di ore notizie sulle archiviazioni di Nicola Zingaretti (presidente della Regione Lazio), Gianni Alemanno (ex sindaco di Roma), del consigliere regionale Eugenio Patanè e di altri circa 110 indagati e quelle sull’iscrizione nel registro degli indagati del consigliere comunale del PD Salvatore Madonna, per violazione della legge elettorale (nove persone sarebbero state candidate a loro insaputa alle ultime lezioni comunali in una lista civica a favore della candidata del PD Valente). Quasi contestualmente perviene la notizia di un avviso di garanzia per la sindaca di Roma, indagata per abuso di ufficio, in concorso con Salvatore Romeo.

Non sappiamo se e come tali fatti verranno commentati nei prossimi giorni, ma qui non ci si occupa del merito di simili fatti, bensì di altri aspetti: in particolare, in tal caso, di quelli connessi al conflitto e ai suoi effetti.

Tra questi, va segnalato che uno dei costi dello sfruttamento delle vicende giudiziarie, all’interno del conflitto politico, è certamente sopportato dalle persone che finiscono in tale tritacarne (si pensi al caso di Ilaria Capua o a quello di Federica Guidi).

Proseguendo il ragionamento svolto in un altro articolo, relativamente a possibili analogie con quanto accade in rapporto al contenzioso per “malpractice sanitaria”, si possono ravvisare reazioni emotive e situazioni di fatto non tanto dissimili da quelle sofferte da professionisti della sanità coinvolti in procedimenti giudiziari. Avendo ascoltato medici accusati di malpractice e avendo svolto la supervisione a favore di team aziendali di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, che avevano svolto tali colloqui nelle aziende sanitarie pubbliche di Emilia Romagna, Piemonte e Lombardia, in alcune pubblicazioni dedicate al tema della gestione dei conflitti in sanità, e in Elementi di vittimologia e di Victim Support (Giusio M., Quattrocolo A., 2013), si è fatto notare che, convenuti davanti a un Tribunale civile o imputati in un processo penale, essi sentono che ad essere messo in discussione non è soltanto il singolo intervento, ma l’intera carriera professionale, anzi la loro stessa moralità. Il medico accusato, anche nel caso di un’assoluzione successiva, ritiene spesso di aver subito un danno permanente all’immagine. Un danno, che nessuna iniziativa giudiziaria nei confronti del suo accusatore potrà risarcire completamente. Tante volte, come accade al politico indagato, è messa in risalto dai media la notizia delle accuse rivoltegli, ma raramente la stessa enfasi è accordata al suo proscioglimento. Come talora succede al  politico rispetto al partito o alla schieramento di cui fa parte, anche il professionista della salute accusato di malasanità, spesso si sente tradito dai vertici dell’ente cui appartiene (l’Azienda Sanitaria): infatti, non è raro che l’Azienda Sanitaria, ad esempio, per le richieste risarcitorie collocate nei limiti della franchigia, decida di procedere al risarcimento, senza o contro il parere del o dei professionisti il cui comportamento sarebbe stato lesivo: le strutture sanitarie e le compagnie di assicurazione, infatti, dato l’elevato rischio di una pronuncia sfavorevole in sede civile, per l’estrema difficoltà di provare in giudizio la correttezza di tutte le condotte effettivamente realizzate, per ragioni economiche, molto spesso preferiscono accordarsi con la controparte e liquidare il danno lamentato, anche se ritengono che non sussista alcuna responsabilità del professionista e/o dell’organizzazione. Analogamente, non è raro che il partito, soprattutto i suoi vertici, prenda le distanze dall’esponente politico indagato. Per costui, dunque, si tratta di entrare in una sorta di limbo (a detta di coloro che ci sono stati, poco gradevole, in verità), per il partito, a volte, sembra che si tratti di evitare che quella vicenda giudiziaria diventi un’arma formidabile nelle mani degli altri avversari e così, si cerca di prevenire e contenere gli effetti dannosi. Quest’ultimo aspetto parrebbe essere un effetto del conflitto che condiziona le condotte e gli atteggiamenti delle parti, le quali sono indotte dalla dinamica conflittuale ad adottare reazioni intese a ridurre le possibilità di essere ferite dalla controparte. Ma assai spesso si tratta di una situazione di scacco matto: perché per il partito/movimento allontanarsi dal proprio amministratore indagato può essere considerato impossibile e ingiusto, non solo perché si ha fiducia nella sua innocenza, ma anche perché il farlo vorrebbe dire ammettere l’errore dell’intero partito o della sua leadership per la fiducia riposta in quella persona; il non farlo significa procurarsi come minimo l’accusa di arroganza e incapacità di ammettere gli errori, ma in presenza di toni polemici più esasperati, le contestazioni delle controparti politiche si sostanziano per lo più in accuse di omertà, connivenza, ipocrisia, doppiopesismo, spregiudicatezza, indifferenza al tema della legalità e della moralità della politica, ecc. (a titolo esemplificativo si pensi al diverso atteggiamento avuto dai diversi partiti e dai diversi giornali per le vicende che interessarono Piero Marrazzo, prima, e Silvio Berlusconi poi)

Dunque, se il politico indagato fa, o se è invitato a fare dal suo partito, il cosiddetto “passo indietro”, in verità, ciò dovrebbe corrispondere ad una semplice e doverosa assunzione di responsabilità politica da parte del singolo e/o della sua organizzazione. Ovvero, si fa o si chiede il passo indietro, se il politico indagato, alla luce di una valutazione nel merito sul suo operato di tipo politico risulta inidoneo. Marginalmente si annota che tale valutazione dovrebbe essere indirizzata anche ai non indagati.

Però, non si può escludere che, talora, in presenza di indagini della magistratura, sia un’istanza di politica difensiva a svolgere un ruolo determinante nel portare al passo indietro, laddove la valutazione politica sull’amministratore, parlamentare, ecc. sia, invece, di segno positivo. Si tratta, in simili casi, di una scelta che, sì, è tesa a prevenire le conseguenze politiche negative della vicenda giudiziaria, ma che ha ricadute personali per i soggetti coinvolti e produce effetti sui loro rapporti con la forza politica cui appartengono e con le altre. Inoltre, si profila anche un costo per la comunità.

Perché, talvolta, non è di poco conto anche per i cittadini il costo derivante dalla richiesta di dimissioni e/o dall’ostracismo inflitto al politico capace ed efficace nella sua opera, poi riconosciuto giuridicamente immune da ogni responsabilità. Se si perde un politico o un amministratore bravo, la comunità subisce un costo correlato ai mancati vantaggi che la sua opera avrebbe potuto procurare. E soprattutto vi è un altro ancor più costoso prezzo: l’allargamento della lacerazione del rapporto di fiducia tra politica e società. Analogamente a quanto può accadere in relazione al conflitto tra paziente e  medico, ciò che si spezza è il legame.

Infatti, si è già detto che ad incidere sul rapporto società-politica non sono soltanto i troppi fatti corruttivi ma anche la loro manipolazione a fini politico-conflittuali.

Si potrebbe obiettare che la causa principale di tale perdita resta il comportamento illegale acclarato di molti politici malfattori. Probabilmente è così, ma non si può escludere che un ruolo concausale non marginale lo abbia anche questo aspetto del conflitto politico.

In conclusione: si tratta di una perdita che sta interessando o che potrebbe interessare sostanzialmente tutte le forze politiche. E, nella logica del conflitto, il fatto che il numero degli indagati o condannati sia più alto per una forza politica e più basso per l’altra rileva solo entro certi limiti e, tendenzialmente, soltanto per i militanti e i simpatizzanti, ma conta assai poco per coloro il cui cuore non batta per questo o quel partito.

 

Alberto Quattrocolo