9° rapporto tra gli italiani e le Stato di Demos & Pi: le difficoltà dell’ascolto politico e il divario (conflitto?) tra politica e società

Il IX RAPPORTO GLI ITALIANI E LO STATO curato da Demos & Pi è stato pubblicato, e subito accompagnato dai commenti di alcune autorevoli firme, sulla Repubblica di sabato 7 gennaio 2017.

Nel paragrafo GLI ITALIANI NELLO SPAZIO PUBBLICO del Rapporto, Luigi Ceccarini evidenzia che nella graduatoria del consenso sociale alle organizzazione pubbliche il fanalino di coda è costituito dalle «istituzioni della rappresentanza: Parlamento (11%) e partiti (6%). Entrambe accennano una timida crescita (+1) rispetto al 2015 e ad un leggero calo rispetto al 2010. Di fatto, restano stabili in fondo alla graduatoria. Considerate nel loro assieme, però, le istituzioni della politica sembrano avere esaurito quella perdita di credito cui lo scoppio della crisi globale ha contribuito: nel 2005 l’indice di fiducia globale nelle istituzioni politiche si attestava al 41% ed è sceso linearmente fino al 2014 dimezzandosi (21%). Nelle ultime due rilevazioni si riassesta intorno al 25-26%. Difficile dire se si tratta dell’inizio di un ritorno al passato. Certo è che il coinvolgimento pubblico dei cittadini, mostrato anche di recente con l’elevata partecipazione referendaria, appare considerevole. Praticamente, tutte le forme di impegno considerate mostrano segni positivi. Cresce l’indice di partecipazione politica (+7). Crescono le “nuove” forme di coinvolgimento attraverso la rete Internet o il consumerismo politico (+8). Appaiono stabili le modalità di impegno sociale. Dunque, gli italiani si mostrano cittadini critici, esigenti nei confronti delle istituzioni della democrazia rappresentativa. Ma al tempo stesso attenti. E disponibili a coinvolgersi attraverso forme articolate, e flessibili, di impegno, anche politico».

L’analisi di Stefano Folli, a pagina 4 della Repubblica del 7 gennaio, si apre con l’affermazione «gli italiani vorrebbero avere fiducia nella politica e nelle istituzioni ma non ci riescono» e prosegue: «La crisi di credibilità delle classi dirigenti ha frantumato le antiche certezze e creato una frattura profonda che non è ancora stata riparata: né sappiamo se e quando lo sarà. L’ampia ricerca di Ilvo Diamanti e dei suoi collaboratori in parte conferma le più malinconiche considerazioni già note sui rapporti fra cittadini e cosa pubblica, ma in buona misura va oltre, suggerendo temi nuovi a chi avrà capacità di ascolto».

Sempre in riferimento allo stesso rapporto Concita De Gregorio scrive: «La fiducia è un bene delicatissimo e fragile, per sua natura anti-autoritario. Difatti, come l’amore, non si può pretendere, chiedere, intimare, pietire. Si può solo suscitare. Non è soggetto alla volontà ma all’esperienza. È uno stato di moto, mai di quiete: è sentimento maratoneta che costantemente va e torna fra noi e chiunque altro, fa la spola. Nella relazione la fiducia si nutre e quando cresce – cresce in una ininterrotta valutazione di fatti, circostanze anche minime, a volte impercettibili o dilazionate negli anni, che nel tempo concorrono a costruire l’immagine dell’altro così come noi la percepiamo. È un sentimento-castello, come i bambini sanno, ci vuole tanto a costruirlo e un attimo a distruggerlo. Il suo contrario, la diffidenza, è ugualmente figlia dell’esperienza. Spesso indiretta: quando molte volte si è patita un’ingiustizia, una frustrazione, una delusione si è portati a diffidare, appunto. A generalizzare». E poi ancora: «la fiducia è un sentimento personale, sta con gli occhi negli occhi e appassisce nella folla. Muore nella moltitudine. Non si addice alle categorie. Fidarsi o non fidarsi degli uomini – dei cinesi, dei benzinai, dei politici – non significa niente. È delle persone che ci si fida, una per una».

Crisi di credibilità, bisogno di fidarsi, sfiducia, diffidenza, frustrazioni, delusioni… Ci pare che vi siano un bel po’ di argomenti a favore di un ascolto politico, per quanto sia ovvio che non si intende qui sostenere che questo basti a procurare il lavoro che non c’è, né a rimediare alla Tangentopoli infinita di cui nello stesso quotidiano parla, a pagina 5, Massimo Giannini, o creare quell’integrazione la cui mancanza spiegherebbe la paura del 40% degli italiani verso gli immigrati, secondo Gianluca Di Feo, nella stessa pagina.

Appare scontato rilevare che il mancato ascolto della politica – anche e, forse, soprattutto, quando inconsapevole o parzialmente tale – può facilmente dare luogo a risposte inadeguate da parte dei rappresentanti rispetto ai bisogni percepiti dai rappresentati, con ciò generando o incrementando il distacco tra i due gruppi.

Agire senza avere prima davvero ascoltato, senza avere davvero compreso i bisogni dei cittadini (si tratti di singoli o di gruppi di varia grandezza), può facilmente portare a formulare risposte o a introdurre soluzioni che nulla, oppure non abbastanza, hanno a che fare con le esigenze da essi vissute.

Incidentalmente, inoltre, si potrebbe notare che assai spesso le criticità nei rapporti tra politica e cittadini, riconducibili alle difficoltà di ascolto, sono l’anticamera dell’insorgere di conflitti di complessa gestione. Ad esempio il politico, il cui ascolto dei cittadini fosse orientato solo a ciò che egli è interessato o disponibile a sentire del loro vissuto,  presto o tardi procurerà, con tale atteggiamento, una delusione negli interlocutori-cittadini, cioè uno stato d’animo che è frequentemente fonte di conflitto, latente o manifesto: una condizione relazionale, dunque, che può prendere le forme del discredito e del rigetto  da parte dei cittadini non ascoltati nei confronti di quel politico, del suo partito, o perfino della politica e della quasi totalità dei suoi esponenti.

Il non sapere di essere stati ascoltati, dunque, sia sul piano dei rapporti personali che su quello di quelli sociali e politici, equivale al non esserlo stati: infatti, i cittadini, spesso, possono essere indotti a non apprezzare correttamente la portata delle risposte politiche, legislative e amministrative fornite dai loro rappresentanti di quartiere, comunali, regionali o nazionali, proprio perché non sanno se, o dubitano che, siano connesse con la comprensione delle loro istanza (per loro non verificatasi).

Una certa circolarità tra un inadeguato ascolto dei vissuti dei cittadini da parte della politica e il condizionamento di tali vissuti sulle decisioni politiche

 Soprattutto, però, il mancato ascolto da parte di coloro che rappresentano le istituzioni politiche comprime, o addirittura azzera, la possibilità dei rappresentati, dei cittadini, di essere supportati nel compiere un’elaborazione dei vissuti individuali e collettivi che ne influenzano pensieri, atteggiamenti e comportamenti. Si pensi a come sovente talune angosce, delusioni, frustrazioni e sentimenti di solitudine, di confusione, di smarrimento e di insicurezza presenti nella cittadinanza manifestino una tendenza a tradursi anche in paure, sospetti, fobie e rabbia indirizzati verso obiettivi specifici (normalmente verso minoranze religiose, etniche, culturali o politiche, o verso  categorie, professionali o di altro tipo, oppure verso organizzazioni specifiche, fatte oggetto di categorizzazioni e stereotipi negativi), spesso, in verità, alieni da ogni reale nesso causale con le autentiche fonti del disagio patito, oppure solo parzialmente collegabili con esso. Si possono citare, a titolo esemplificativo, gli stereotipi e l’ostilità di cui sono o sono stati fatti segno gli stranieri, i meridionali, i nomadi, i dipendenti pubblici, le banche, i sindacati, gli imprenditori, i magistrati, gli operatori sanitari, i politici di questo o quello schieramento, o di tutti gli schieramenti. E si potrebbe porre mente a come, non raramente, in mancanza di un’elaborazione da parte della leadership politica (di maggioranza e di opposizione, a livello nazionale e locale), le suddette rappresentazioni mentali stereotipiche, i pregiudizi e i sentimenti ostili, coltivati da una parte della popolazione – spesso su proposta, incoraggiamento e rinforzo di alcuni partiti -, finiscano poi con il condizionare larga parte della politica, almeno sul piano della comunicazione.

Infatti, tra gli esiti derivanti dalla difficoltà della leadership di supportare e accompagnare l’elaborazione delle ansie, delle frustrazioni e delle angosce, ridimensionandole alfine, se e quando necessario, e, comunque, collocandole nella corretta cornice eziologica, il rischio più grave, spesso inverato, è il seguente: che tali vissuti si traducano in azioni, in “agiti” si direbbe in gergo psicodinamico, posti in essere proprio da alcuni o molti esponenti politici, o addirittura da leader. Che sia per il timore di perdere consensi e potere o per attenuare la frustrazione e l’impotenza del non riuscire a trasformare i pregiudizi e le paure dei cittadini, o che sia per entrambe le ragioni, non raramente sulla scena politica italiana e internazionale sono apparse e appaiono dichiarazioni di rappresentanti istituzionali e, addirittura, interi programmi politici, o singole proposte o disposizioni di natura normativa, permeati dai sentimenti più pericolosi e meno razionalizzati presenti nella popolazione. Presenti, cioè, nella maggioranza della popolazione, oppure anche solo in una sua parte, magari numericamente minoritaria, ma, proprio perché alterata ed esasperata, particolarmente capace di attrarre l’attenzione e di estendere la propria influenza in senso orizzontale e verticale.

D’altra parte, anche il mondo occidentale ha visto diversi movimenti politici non soltanto compiere gli “agiti” suddetti, ma indurre e stimolare, sfruttare e strumentalizzare le passioni e le pulsioni, anche le più oscure, presenti nelle fasce più frustrate e meno ascoltate della popolazione, per raccogliere i consensi necessari ai loro fini o, addirittura, per cercare un’affermazione plebiscitaria: nel Novecento alcuni di tali movimenti politici si dichiaravano programmaticamente antiliberarli e antidemocratici, intrisi com’erano di aspirazioni totalitarie – tra questi, il partito fascista in Italia e quello nazionalsocialista in Germania, sono gli esempi di conquista del potere di governo e del suo monopolio più devastanti, tragici e sanguinosi, per i loro e per altri interi popoli, -, altri, invece, qualificantisi come democratici, lo erano solo a parole, pur dichiarandosi come i veri difensori delle libertà e dei diritti democratici – ad esempio, il maccartismo negli Stati Uniti tra la seconda metà degli anni ’40 e la prima metà degli anni ’50.

Negli anni Duemila, non sono rari i movimenti in Italia e all’estero, che, restando nel campo dello stato democratico di diritto e del rispetto della sua legalità costituzionale – talvolta, in verità, appena al di qua del confine, talaltra ritenendosene addirittura i migliori tutori -, si propongono come i porta-voce genuini di una cittadinanza che non si sente ascoltata nel suo essere delusa, sfiduciata, angosciata, arrabbiata, abbandonata, tradita, ingannata e amareggiata.

Dal conflitto tra cittadini “non ascoltati” e leadership politica al “conflitto tra forze politiche” che compromette, di nuovo, l’ascolto

Nelle situazioni in cui ciò accade, sembrerebbe che dal mancato ascolto di una parte più o meno corposa della società, la quale, perciò, si sente in conflitto con i governanti (si veda al riguardo anche l’articolo su questo blog: Il conflitto politico-amministrativo), derivi il progressivo allargarsi di tale conflitto (“politico-amministrativo”), forse, com’è naturale che sia, anche su un altro piano: quello che, nella chiave di lettura di questo blog, un po’ schematica e, quindi, giocoforza riduttiva, è stato denominato “conflitto politico”, cioè quello che interessa soprattutto il rapporto tra forze politiche diverse o che si svolge all’interno di una stessa forza politica.

Non vi sono di per sé risvolti negativi, in tale propagazione del conflitto dal piano dei rapporti tra cittadini e istituzioni politico-amministrative a quello della lotta politica tra partiti e/o movimenti. Si tratta di qualcosa di naturale e congenito, cioè, da sempre intrinseco alla natura stessa delle trasformazioni politiche, sociali, culturali ed economiche delle società. Peraltro, come per i tanti che li hanno preceduti (i partiti liberali, socialdemocratici, socialisti e comunisti e quelli cristiano-popolari, per dire), la finalità stessa dei movimenti o partiti di protesta e/o di proposta alternativa all’esistente, nati dal malcontento attuale, è proprio di colmare la distanza prodottasi, almeno a livello di vissuto, tra la popolazione e le istituzioni politiche.

Il risvolto negativo della traduzione della tensione tra amministratori e amministrati in conflitto tra le forze politiche, si potrebbe, semmai, ravvisare nella possibilità, non tanto eccezionalmente verificatasi, di una radicalizzazione del conflitto politico. Cioè, il prodursi in tale ambito di fenomeni importanti di delegittimazione unilaterale o, più spesso, reciproca, che accompagnano e provocano un’escalation tale da compromettere gravemente, o perfino annullare, ogni forma di ascolto: tanto quello tra le forze politiche in conflitto tra loro, quanto l’ascolto dei cittadini, magari anche di coloro in nome e per assicurare la migliore tutela dei quali si è sviluppato questo o quello specifico movimento politico.

Infatti, quando siamo presi dentro il conflitto, tutti – quindi, si può supporre, anche i rappresentanti politici -, abbiamo bisogno di poter contare su una certa dose di consenso da parte dei terzi, cioè del pubblico. E ciò può condizionare significativamente il nostro modo di rapportarci proprio con i terzi: cercando di guadagnarne l’appoggio contro il nostro nemico, può accadere che, invece di ascoltarli con attenzione, ci rapportiamo con essi con l’animo condizionato da rilevanti e pressanti aspettative circa il loro sostegno e la loro approvazione alla nostra lotta.

Il passo dall’ascolto-per-capire all’ascolto-per-lusingare può essere breve. E, a tal punto, consapevolmente o no, invece di ascoltare le esigenze delle persone, si trasformano queste in strumenti della nostra lotta, riducendo gli individui ad oggetti, cioè, appunto, strumentalizzandoli.

Ascoltare, in conclusione, giova ripeterlo, è una faccenda complessa e delicata, anche perché non è una condizione passiva, ma attiva, che, oltre al comprendere punti di vista, bisogni, paure, frustrazioni, rabbie, desideri e speranze altrui, implica l’esplicito riconoscimento dell’altro. Il che è cosa ben diversa dall’approvazione dei suoi pensieri, aspettative, timori, risentimenti e ostilità o dei suoi atti. Si tratta di un’attività, dunque, che si colloca sul territorio della comunicazione, forse la più difficile e complessa delle attività umane.

 

Alberto Quattrocolo

Un esempio di escalation conflittuale: l’intervento del Vicepresidente della Camera dei Deputati, Roberto Giachetti, all’Assemblea Nazionale del Partito Democratico

Per esplicitare maggiormente la relazione tra le riflessioni proposte in questo blog e la quotidianità del confronto politico, prendiamo spunto dall’intervento di Roberto Giachetti all’Assemblea Nazionale del Partito Democratico (PD) di domenica 18 dicembre 2016. Ma è, appunto, solo un’occasione, uno spunto per ragionare,  e chiediamo scusa agli interessati per l’uso che stiamo facendo delle loro parole, sperando nei nostri ragionamenti di non risultare irrispettosi delle loro idee e dei loro sentimenti. È infatti esattamente ciò che vorremmo evitare.

Tornando all’intervento di Giachetti, il Vicepresidente della Camera, dopo aver asserito di aver riscontrato un clima di distensione, alimentato da maggioranza e minoranza interne al partito, nell’ambito dei precedenti interventi e nella relazione del Segretario, Matteo Renzi, assume esplicitamente una posizione difforme, precisando che non intende unirsi “ad un clima nel quale sembra che non sia accaduta nulla”, spiegandone le ragioni, che sono correlate anche alle dichiarazioni alla stampa rilasciate dall’On. Roberto Speranza («il partito del Noi è un obiettivo condivisibile», «sul Mattarellum noi siamo d’accordo perché si riconsegna ai cittadini la possibilità di scegliere i deputati”, “Quanto detto da Renzi è positivo e sostengo la sua apertura»). Giachetti commenta le parole di Roberto Speranza, invocando il recupero di «quella politica nella quale qualcuno ha la moralità, l’etica e la dignità di domandarsi che cosa ci fa in questa comunità». In breve, da qui parte il suo attacco, inequivocabilmente anche sul piano personale (dato che nomina aspetti quali: moralità, etica e dignità), all’On. Speranza e ad altri esponenti dell’opposizione interna, che vedrà un momento di ulteriore impennata allorché, per illustrare quella che a suo avviso è una condotta contraddittoria sul tema della legge elettorale, si rivolge direttamente a Speranza dicendogli: «hai la faccia come il culo». Successivamente, accogliendo il richiamo rivoltogli dal Presidente del PD, Matteo Orfini, riformula la frase con l’espressione «faccia di bronzo» (successivamente Roberto Giachetti si scuserà con l’On. Speranza).

Da qui in poi, salvo che per i più preparati osservatori, è probabile che per il pubblico sia stato difficile seguire adeguatamente il prosieguo del ragionamento. Ma anche gli osservatori distratti, probabilmente, avranno percepito che lo stato d’animo di Giachetti sembrava essere quello di chi ritiene di avere troppo a lungo sopportato e di avere il diritto, e forse anche il dovere, di reagire ad un comportamento altrui, considerato come scorretto.

Quando ci troviamo a provare simili sentimenti, quando stiamo reagendo ad una condotta che ci pare offensiva nei riguardi della nostra persona e/o di quello che ci sta a cuore e in cui crediamo, la nostra temperatura emotiva spesso sale: l’indignazione e lo sconcerto provati, il gusto amaro del tradimento percepito, la fatica della precedente sopportazione, forse anche il dolore di delusioni sofferte e la preoccupazione di riviverle («mi sembra di trovarmi al gioco dell’oca», dice ad un certo punto Giachetti), la frustrazione accumulata per non aver potuto esprimere la nostra disapprovazione (oppure per non averla sentita adeguatamente ascoltata), possono accrescere la rabbia e spingerla a tradursi in comportamento aggressivo.

Scriveva Brian Muldoon in The Heart of Conflict che si reagisce all’ingiustizia chiedendo giustizia.

In tal caso, infatti, non troppo indirettamente, Giachetti interpella Renzi affinché prenda più netta posizione rispetto a quei comportamenti della minoranza del PD da lui considerati come incompatibili con l’essere moralmente ed eticamente degni membri di una comunità.

Come si è accennato in Il conflitto politico-amministrativo, le parti di un conflitto tendono inevitabilmente a cercare nell’autorità o nella leadership qualcuno che ne supporti le posizioni. Così la neutralità del leader, specie se affermatasi dopo una fase di partecipazione alla lotta, può essere vissuta da chi ne aveva condiviso le posizioni dall’inizio come un’incoerenza, perfino come una manifestazione di debolezza, finanche di resa al nemico, e può far sorgere un senso di tradimento.

Se questo è lo stato d’animo, cioè la percezione di essere stati lasciati soli nella lotta dai nostri alleati o dai nostri originari condottieri, scesi a più miti consigli, non è raro che si reagisca cercando di rilanciare l’escalation. E non lo facciamo perché siamo dei piantagrane o dei guastafeste, ma lo facciamo in nome di un principio, per difendere dei diritti e dei valori, per tutelare o affermare l’interesse che reputiamo comune a tutti. Lo facciamo, ritenendoci nel giusto.

Il punto è che la ripresa della spirale crescente del conflitto può non facilitare quegli obiettivi che la nostra ricerca di giustizia ambivano a realizzare.

Tra questi, in primo luogo, sempre secondo Muldoon, vi sarebbe l’appagamento del bisogno di riconoscimento. Occorre precisare al riguardo, però, che non è un bisogno narcisistico di tipo infantile: è un’umana esigenza, ed è propria della nostra natura sociale di esseri umani.

Per semplificare le cose, pur sperando di non banalizzarle troppo, le frasi pronunciate da Speranza a margine dell’Assemblea, quale commento sulla relazione del Segretario del PD, prima dell’intervento di Giachetti, e quelle di quest’ultimo nel corso del suo intervento in quell’assemblea, paiono proprio contenere una richiesta di riconoscimento. Che però la logica del conflitto inesorabilmente nega.

Si è già asserito che l’escalation del conflitto impoverisce e a volte mortifica le possibilità per i terzi di cogliere le profondità e lo spessore dei temi dibattuti (si veda l’articolo su questo blog Il conflitto politico e la sua escalation). E ciò potrebbe essere accaduto anche a coloro che partecipavano all’Assemblea o, più probabilmente a chi la seguiva in streaming, anche per via delle reazioni del pubblico innescate dalla frase di Giachetti sopra citata.

In effetti, ci pare che nel discorso di Giachetti si potessero rinvenire anche spunti di particolare rilevanza e problematicità circa aspetti fondamentali per la vita di un gruppo organizzato. Ad esempio i seguenti: l’individuazione di confini interni all’organizzazione tra la libertà di espressione di tutti, e in particolare della minoranza, e il rispetto da parte di questa delle posizioni della maggioranza; la ricerca di una distinzione tra dissenso legittimo dalle opinioni altrui e la delegittimazione di chi le esprime; più, in generale, la precisazione del limite tra libertà e anarchia all’interno di un’organizzazione democratica; in termini ancora più vasti e complessi, la definizione di regole applicabili concretamente di volta in volta nella dialettica tra diritti e doveri della maggioranza e della minoranza.

Presumibilmente di non minore spessore erano i temi accennati o implicati nelle dichiarazioni di Speranza all’esterno dell’Assemblea, nei suoi riferimenti alla necessità da parte del Partito Democratico di porre in essere una maggiore attenzione ai problemi delle persone reali, alle questioni sociali, al disagio e alla sofferenza.

Infine, va rilevato come anche nel conflitto (ci permettiamo di definirlo così) preso ad esempio vi sia un intreccio non trascurabile tra valori, principi, obiettivi, strategie e vissuti personali delle parti.

Anche su tale piano, il fattore riconoscimento probabilmente non andrebbe sottovalutato. Infatti, appena accennato, peraltro in maniera indiretta, nelle parole di Giachetti vi era il riferimento al suo sciopero della fame (ne ha fatti due, uno di 123 e l’altro di 68 giorni, ricorda egli sul suo sito), condotto proprio per sollecitare il Parlamento al superamento del sistema elettorale stabilito dal Porcellum.

Non vi è nulla di inedito in tale intreccio: i conflitti, anche quelli che interessano il mondo della politica, sono conflitti tra esseri umani. E, sarebbe, se non assurdo, almeno poco pratico voler negare l’importanza del lato umano.

Del resto è proprio l’umano sentimento della diffidenza reciproca quello che pervade i commenti degli uni e degli altri interlocutori di un conflitto circa le manifestazioni reciproche – magari timide – di apertura.

A titolo esemplificativo, si può pensare a come il Presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, il giorno seguente a quello dell’Assemblea, alla domanda postagli dalla conduttrice Bianca Berlinguer nel programma Cartabianca, circa la fase “zen” annunciata da Renzi (cioè, la fase del dialogo e dell’ascolto), abbia risposto manifestando tutto il suo scetticismo: ha parlato, infatti, della necessità di una psicoterapia affinché tale cambiamento di atteggiamento del Segretario del suo partito si avveri.

In effetti, uno degli elementi strutturali del conflitto, particolarmente rilevabile nell’escalation dello stesso, è proprio la propensione dei protagonisti a interpretare in maniera rigida i comportamenti della controparte suscettibili, astrattamente, di plurime possibilità interpretative. Sicché, spesso, anche quegli atti compiuti da una parte con l’intenzione di segnalare una, magari prudente, disponibilità all’apertura dalla controparte non vengono creduti sinceri e sono intesi, invece, come dettati dalla scoperta di essere soccombenti nel conflitto in corso, oppure come caratterizzati da finalità recondite, da intenti manipolativi o da qualcosa di ancora più pericoloso.

In fondo non sarebbe strano, se si affacciasse alla mente delle parti il ricordo (il fantasma) del Patto di Monaco del ’38: cioè, quell’accordo – frutto della conciliante politica di appeasement con Adolf Hitler condotta dal premier britannico, Neville Chamberlain, con l’approvazione dall’allora ambasciatore statunitense a Londra, Joseph Patrick Kennedy, padre del futuro  presidente John F. Kennedy – il cui ricordo influenzò più di vent’anni dopo, anche per motivi biografico-familiari, i rapporti di JFK con il Segretario del PCUS, Nikita Sergeevič Chruščëv (cfr. JFK. John Fitzgerald Kennedy, una vita incompiuta di Robert Dallek).

In breve, quando il sentimento umano della fiducia è stato ferito, la guarigione non è scontata. Anzi molte volte più che ad una guarigione occorrerebbe dare luogo ad una resurrezione.

Chissà che non vi sia anche una simile – naturale e umana – dimensione nelle difficoltà di dialogo che interessano spesso i rapporti politici: quelli interni al Partito Democratico, cui si è fatto qui un breve e “strumentale” cenno, quelli tra esponenti di forze politiche diverse e quelli tra politici e cittadini.

Abbandoniamo ora questo esempio, scusandoci ancora una volta con gli interessati per l’uso che abbiamo fatto delle loro dichiarazioni e reazioni.

 

Alberto Quattrocolo

L’ascolto politico

Alla base di tutti i progetti di Me.Dia.Re., inclusi i Servizi di Ascolto e Mediazione dei Conflitti e quelli di Sostegno Psicologico, vi è una premessa, una sorta di convincimento, che ne permea l’ideazione e la messa in atto: che l’ascolto sia importante.

Per ascolto intendiamo una forma di relazione con l’altro in cui gioca un ruolo centrale l’empatia.

Ascoltare, dunque, in questa prospettiva, vuol dire entrare in risonanza con ciò che l’altro prova.

Esercitare la capacità di ricezione è la premessa non tanto per capire razionalmente quanto per comprendere emozionalmente, cioè calarsi nel vissuto altrui e apprenderlo. L’apprendimento delle emozioni e dei sentimenti del soggetto che parla non è, però, un esercizio di dietrologia, un andare a cercare motivazioni occulte, è più semplicemente un sentire e un riconoscere le emozioni e i sentimenti di chi sta parlando.

Prendiamo, ad esempio, la rabbia o l’angoscia: esortare la persona incollerita o angosciata a recuperare il controllo potrebbe costituire un messaggio di disapprovazione e di censura rispetto a ciò che quell’individuo sta sperimentando, e non costituisce un momento di ascolto. Cioè la sua emozione è, sì, stata avvertita dall’ascoltatore, ma la comunicazione di questi è stata respingente e non accogliente. Mentre l’ascolto che si intende qui delineare ha l’obiettivo di accogliere gli stati d’animo, di legittimarli in quanto tali, e ha la caratteristica di essere avalutativo.  L’atteggiamento giudicante, infatti, poco si accorda con l’attività di ascolto, la quale, in termini relazionali, invia, invece, alla persona ascoltata contemporaneamente più messaggi: puoi essere sicura del fatto che non solo cerco di capire ciò di cui mi parli ma anche che ho sentito (o almeno ci sto provando) ciò che provi. Molto spesso, infatti, quando si ascolta si acquisisce l’informazione sui sentimenti e sulle emozioni di chi ci parla, ma costui/costei non necessariamente si rende conto di questa nostra acquisizione (anzi, più è preso dai suoi stati emotivi e meno ne è consapevole).

In effetti, quando troviamo qualcuno interessato non solo a capire ciò che gli stiamo dicendo, ma anche a comprendere ciò che proviamo, siamo meno soli: ci sentiamo riconosciuti come persone, e abbiamo condiviso, ad esempio, il nostro dolore, ‘buttandolo fuori’ e rendendolo così un po’ più tollerabile. Nessuno ci ha giudicato, né si è schierato dalla nostra parte, nessuno ci ha piegati alla sua visione del mondo e della vita, né si è uniformato alla nostra.

Il valore politico dell’ascolto

Se tale dimensione di ascolto si sviluppa all’interno di contesti istituzionali, come nei loro limiti, ambiscono a procurare i progetti messi in piedi da Me.Dia.Re. (si pensi tra gli altri a quelli di Ascolto e Mediazione in Sanità, di Mediazione Penale, di sostegno psicologico alle persone e alle famiglie colpite dalla Crisi, alle donne vittime di violenza o a rifugiati e richiedenti asilo adulti e minori), allora esso costituisce una concreta manifestazione di interesse di una comunità per la condizione dei suoi membri. Infatti, come spesso chiosano i paragrafi dedicati alle finalità dei suddetti progetti, l’attività di ascolto proposta mira a far sentire al cittadino che proprio nei momenti di angoscia, insicurezza, sofferenza e tensione, quando non sa dove trovare solidarietà e comprensione, la comunità gli è vicina: pronta a supportarlo nella gestione del dolore, della rabbia o della paura, ad accogliere i suoi stati emotivi – e ad indirizzarlo, all’occorrenza, ad altri servizi del pubblico o del privato sociale -, affinché possa superare le condizioni di disagio e ansia, ed eventualmente di chiusura, diffidenza, risentimento e sfiducia che sta vivendo.

Secondo noi, nello svolgimento di tali progetti si pone in essere un ascolto che ha un intrinseco valore politico, ma l’ascolto politico che intendiamo proporre è ancora qualcosa di diverso.

Le caratteristiche dell’ascolto politico

In questo blog, infatti, per “ascolto politico” s’intende un ascolto

  • rivolto ai membri di una comunità
  • posto in essere direttamente da personale politico
  • riguardante aspetti di rilevanza politica
  • che non persegue fini ulteriori a quelli che gli sono intrinsecamente propri (lo scopo di ascoltare è ascoltare)
  • caratterizzato da un atteggiamento empatico

Riguardo a quest’ultimo aspetto, per comodità e sintesi, possiamo limitarci a recuperare le osservazioni di Heinz Kohut, pioniere della psicologia psicoanalitica del Sé, che, nell’opera Introspezione, empatia, psicoanalisi: indagine sul rapporto tra modalità di osservazione e teoria, definisce l’empatia come “la capacità quotidiana di provare ciò che un’atra persona prova, anche se di solito, e giustamente, in maniera attenuata”. Questo riferimento ad un’attenuazione nella ricezione dell’esperienza emozionale dell’altro è di fondamentale aiuto per illustrare meglio l’ascolto cui si fa qui riferimento: per utilizzare ancora un’espressione di quest’autore, tale ascolto non è quello del neonato che ha “una percezione empatica del mondo circostante che equivale a una fusione totale con lo stato emotivo dell’altro […] a un’invasione empatica opposta a quel sapore attenuato delle esperienze altrui, che caratterizza l’adulto”. L’ascolto cui ci riferiamo è quello di chi avverte la sofferenza dell’altro, ma non diventa l’altro. D’altra parte, noi adulti, al pari dei neonati, abbiamo bisogno di un’empatia attenuata piuttosto che di un’empatia totale e totalizzante. Se chi ci ascolta, mentre narriamo qualche nostra angoscia, si spaventa, ci fermiamo, così come, se, parlando di qualche situazione dolorosa, facciamo scoppiare l’altro in lacrime, ne siamo dispiaciuti e, magari, restiamo interdetti, provando anche un po’ di senso di colpa; è possibile perfino che, a quel punto, ci troviamo a compiere una metaforica inversione a U, attenuando la portata di ciò che abbiamo espresso per procurare sollievo all’altro. Ci trasformiamo in “contenitori”, mentre poco prima stavamo cercando comprensione e contenimento. Simili reazioni dell’altro possono anche infastidirci, non solo perché ci privano della presenza di un interlocutore, o per dirla ancora una volta con Bion, di un contenitore, ma anche per altre ragioni, quali, ad esempio, il sentire che l’altro si è inopportunamente infilato nei nostri abiti oppure che, se l’altro ha una tale reazione al solo sentire raccontare quel fatto, ciò significa che esso è davvero disturbante e che faremmo meglio a tacere – anche perché il prossimo interlocutore potrebbe alzare una barriera davanti al nostro sfogo emotivo, proprio per evitare di stare male a sua volta. E allora, tanto vale arginare noi stessi, prima, trattenere le nostre urgenze emotive ed evitare di esprimerle. Kohut, a proposito della relazione madre – bambino, afferma che se il neonato è ansioso e la madre sente la sua ansia, prendendolo in braccio e tenendolo stretto, il bambino si calma, poiché avverte di essere stato compreso, percepisce che la madre ha provato non tutta l’ansia che lo afferrava, ma una versione attenuata di essa; invece, se la madre non riesce a provare una versione più debole di quell’ansia e vi reagisce con il panico oppure erigendo un invalicabile parete tra sé e il neonato, indurrà in lui una propensione alla diffusione incontrollata di ansia o la formazione di una “organizzazione psichica impoverita” .

L’ascolto politico, dunque, presuppone in chi lo realizza la capacità e la disponibilità ad accogliere le emozioni dei suoi interlocutori, sapendo, però, nei limiti delle umane possibilità, gestire le proprie: il cosiddetto controtransfert. Ciò non significa, naturalmente, che il personale politico impegnato in tale attività di ascolto sia privo di emozioni e sentimenti e che nel corso dell’incontro non vengano stimolati in esso degli stati emotivi, ma significa che esso cerchi di evitare che questi prorompano nel momento dell’ascolto. Il che, però, è più facile a dirsi che a farsi.

Particolarmente indicata perciò sarebbe per tale personale una formazione ad hoc e non poco rilevante sarebbe anche uno spazio di contenimento. Anche il personale politico, infatti, impegnato in un’attività di ascolto politico, presumibilmente ha bisogno di essere ascoltato. Il politico, infatti, è un essere umano (forse occorrerebbe ricordarlo più di quanto non lo si faccia abitualmente), con umane esigenze, quali, ad esempio, quella di sentirsi compreso e riconosciuto. E, del resto, solo se la sua umanità ha diritto di cittadinanza ed espressione, egli potrà riconoscere e accogliere l’umanità altrui.

Infatti, proprio a tale dimensione rinvia l’ascolto politico cui ci si riferisce qui. Una dimensione che, è opportuno precisarlo, richiede il rapporto diretto, il contatto, il guardarsi negli occhi e che pertanto non può essere compiutamente concretizzata da pochi individui a benefici di molti, né soltanto attraverso discorsi tenuti in comizi, interviste sui media, partecipazioni a dibattiti, post su blog o tweet.

L’ascolto politico va svolto di persona, dal vivo, incontrando singoli e gruppi per udire le loro parole e sentire i loro vissuti.

Soltanto così, infatti, si può svolgere un reale ascolto che è anche politico. Un’attività, cioè, in grado di dare un rilevante contributo al rapporto tra cittadini e istituzioni di rappresentanza. Un’attività capace di concorrere concretamente a nutrire il legame e realizzare, sul piano relazionale, un aspetto non trascurabile della democrazia: il rapporto tra eletti ed elettori come rapporto improntato al reciproco riconoscimento dell’umanità dell’altro, sicché i secondi non si sentono trattati solo alla stregua di appositori di croci su simboli elettorali al momento delle consultazioni, ma come esseri umani, e pertanto sono propensi a riconoscere l’umanità dei primi e a non catalogarli con rappresentazioni stereotipiche e spersonalizzanti.

Del resto, è noto che il leader “buono” individualizza i suoi interlocutori, mentre il leader “cattivo” li tratta come una massa informe da plasmare a suo capriccio.

 

Alberto Quattrocolo

Il conflitto politico-amministrativo

Chiamiamo, per pura comodità, conflitto politico amministrativo quello che si produce talora nel rapporto tra cittadini e amministrazione pubblica.

Occorrerebbe, a tale riguardo, soffermare l’attenzione sul fatto che compito tradizionale di chi si occupa della cosa pubblica sono anche la prevenzione, quando è possibile, necessario o opportuno, e la gestione dei conflitti presenti in una data comunità (locale, regionale o nazionale). Si fa riferimento non all’azione dell’autorità che applica senza indugio e direttamente le norme ponendo termine alla controversie sul piano giuridico, ma all’attività svolta dall’ente pubblico nella ricerca di una composizione della controversia, non tanto a livello giuridico ma, soprattutto, sul piano sociale e, in senso lato, sul piano politico-amministrativo, attraverso scambi, comunicazioni e confronti tra le parti.

Talora, tale funzione è assolta in posizione di completa terzietà, ma, forse, più spesso, è nella natura delle condizioni date che essa sia svolta in presenza di una maggiore prossimità verso una delle parti, in ragione di un vincolo normativo, oppure per una convergenza di interessi, per una comune sensibilità o prospettiva sulla questione controversa, oppure per una più profonda affinità culturale o politica.

La difficoltà di essere riconosciuti come neutrali (quando lo si è)

Tuttavia la gestione della neutralità è problematica anche allorché, il terzo – l’istituzione pubblica impegnata nella gestione del conflitto – è davvero completamente neutrale.

Infatti, caratteristica tipica del conflitto è quella di stimolare gli attori a cercare nei terzi (giudici o incaricati di svolgere una gestione alternativa della contesa) più degli alleati e dei sodali, che dei soggetti neutrali. E, su questo terreno, le “trappole operative” per chi si propone quale gestore non giurisdizionale di un conflitto sono assai insidiose.

Vi entrano in gioco attese esplicite e implicite, perfino inconsce, riposte su tale figura dalle parti e, talora, anche quelle nutrite, consapevolmente e inconsapevolmente, da essa su di sé, così come da chi l’ha chiamata o sollecitata a svolgere la funzione manageriale del conflitto.

A complicare le cose, in realtà, concorre il fatto che spesso sono molteplici non solo i livelli del conflitto tra le parti (l’eterogeneità degli interessi materiali, dichiarati e nascosti, il carattere talora elusivo talaltra granitico degli aspetti simbolici, valoriali e identitari implicati), ma anche quelli dei rapporti tra queste e il terzo.

Vi sono le dimensioni di tipo razionale ed emotivo più pertinenti all’oggetto disputato, e agli esiti perseguiti o temuti della contesa, e quelle, di nuovo di entrambi i tipi, afferenti alla qualità del rapporto tra le parti e il terzo. Ci si riferisce, cioè:

  • alle aspettative e alle preoccupazioni nutrite da ciascuna parte circa il suo rapporto con il terzo
  • a come ciascuna parte percepisce e valuta il rapporto stabilitosi tra la controparte e il terzo.

Entrambe le dimensioni sono di rilevanza cruciale sul piano dell’efficienza e dell’efficacia dell’intervento di gestione del conflitto. Lo dimostra il fatto che la scarsa attenzione su uno dei due piani spesso condiziona, inficiandola, la comprensione delle posizioni reali delle parti contrapposte, del significato profondo dei loro messaggi espliciti e impliciti, delle posizioni e delle intenzioni dichiarate e di quelle sottostanti le dichiarazioni rese.

Dall’incomprensione da parte del terzo delle motivazioni, degli interessi o delle istanze e dei significati simbolici, affettivi o valoriali in gioco per questo o quell’attore del conflitto al peggioramento del rapporto tra le parti in lite il passo è breve, ma altrettanto breve, e forse di più, è la distanza che il conflitto deve compiere per allargarsi al coinvolgimento passivo, dapprima, attivo, quasi inevitabilmente poi, del terzo stesso.

Infatti, il peggior risultato che si può concretizzare nel tentativo di gestire un conflitto –  esito negativo che spesso, in verità, si concretizza – non è la mancata risoluzione del conflitto, ma la sua estensione anche alla figura dell’arbitro/conciliatore/mediatore-negoziatore.

Un’apparente paradosso si compie allorché le parti scoprono di condividere la stessa irritazione e/o sfiducia verso il terzo.

Spesso accade, infatti, che le due o più parti contrapposte percepiscano e ritengano il terzo schierato pregiudizialmente e/o sostanzialmente contro di loro, oppure che si sentano da esso tradite nella loro aspettativa di un occhio di riguardo, di una maggiore solidarietà, ecc. Non meno raramente le parti in lite, allora, finiscono con il delegittimare il terzo, diventandogli ostili e facendo sfumare ogni auspicio di tipo collaborativo in ordine alle trattative in corso o prospettate.

Neutralità e applicazione delle norme

Difficoltà di non minor rilievo si pongono allorché l’istituzione si trovi a dovere gestire un conflitto rispetto al quale, in ossequio alla legge, la sua posizione non possa dirsi neutrale in ordine alla risoluzione da conseguire, vale a dire: l’applicazione della legge stessa.

Anche in tali casi, infatti, l’obiettività e l’equità della legislazione, magari contestate da una o più parti, non garantiscono l’autorità che tenta di provvedere alla sua esecuzione dall’essere coinvolta nella contestazione stessa. Non è sufficiente richiamarsi al principio della inderogabile necessità di conformarsi alla legge per evitare di essere intrappolati nelle spire polemiche, che possono portare ad atteggiamenti e messaggi finalizzati alla delegittimazione dell’autorità stessa. Il che, se è in ogni caso non poco problematico, lo è ancor di più, sotto certi riguardi, quando si tratta di un’autorità pubblica di natura elettiva.

Anche in tali situazioni, pertanto, notevoli sono i risvolti critici con cui fare i conti nel caso in cui si opti per la via della gestione del conflitto e non della sua risoluzione con la forza dell’autorità legale. D’altra parte, non necessariamente minori sono gli aspetti problematici connessi alla scelta di una modalità direttiva di intervento concretizzantesi nella diretta esecuzione delle disposizioni normative pertinenti.

Nell’uno e nell’altro caso, in effetti, un criterio guida spesso adottato è quello di tentare di produrre il minor malcontento possibile: ciò per lo più, operativamente, si traduce nell’avvio di percorsi che si differenziano per una maggiore o minore rilevanza attribuita al confronto con e tra le parti di plasmare la soluzione concreta nel merito. Ma, in ogni caso, fa capolino, in entrambe le tipologie di percorso, ancora una volta l’importanza di un ascolto non meramente formale degli interlocutori. Quindi, anche in tali situazioni, l’ascolto e la comunicazione ad esso intrecciata sono essenziali.

Tuttavia, anche in simili circostanze, spesso l’autorità interveniente non riesce a far sì che le parti sappiano distinguere tra l’ascolto e la comprensione, da un lato, e le risposte concrete che essa darà, dall’altro. Spesso perché tale distinzione, teoricamente semplice e di schietta evidenza, non è chiara neppure per l’autorità stessa.

 

Alberto Quattrocolo

Il conflitto politico e la sua escalation

Rispetto al conflitto interno al mondo della politica, lungi dall’auspicarne la soppressione in nome di una pacificazione omologante e, in definitiva repressiva della libertà e della democrazia, e lungi dal voler adottare un approccio valutativo rispetto a coloro che ne sono coinvolti, non si può non rilevarne l’emersione di alcune dinamiche che lo privano del carattere di fisiologica capacità generativa, innescandone invece derive degenerative.

Ciò si manifesta in maniera assai plastica soprattutto nei confronti tra esponenti politici, giornalisti, esperti in particolari materie, intellettuali, opinionisti, ecc., all’interno di programmi televisivi, nelle loro comunicazioni sui social, negli articoli e nelle interviste televisive o pubblicate sulla stampa o sul web, come anche nelle dichiarazioni e nei dibattiti in sedi istituzionali (dal Parlamento ai Consigli regionali o comunali alle assemblee o direzioni di partito).

Da fonte di arricchimento a fattore di impoverimento del confronto

Quando per contrastare o confutare le tesi di chi è portatore di pensieri, interessi, valori, principi, istanze, obiettivi o strumenti diversi, non ci sofferma sui contenuti per come sono formulati e presentati, ma li si distorce; quando si passa dal dibattito sulle cose (programmi, idee, proposte, metodi, principi e valori) all’attacco personale; quando i ragionamenti altrui non sono ascoltati ma riformulati per essere contestati, magari ridicolizzati; quando la validità delle proprie ragioni è sinonimo di torto marcio di quelle dell’altro; quando la discussione sui temi in oggetto sterza verso la delegittimazione delle posizioni, delle storie collettive e personali e anche delle vicende umane altrui; quando si riduce l’altro a stereotipo, raffigurandolo come una caricatura, lo si ridicolizza e deride, oppure lo si demonizza…Quando accade tutto ciò e altro ancora – e sta accadendo da molti anni in qua, e con notevole frequenza, nel dibattito pubblico -, inevitabilmente il conflitto perde la sua capacità creativa e la profondità e la complessità dei problemi, dei valori e dei principi in discussione si perdono. Infatti, il dibattito pubblico si riduce alla contrapposizione di slogan, di diversa efficacia persuasiva, confezionati per ampliare e cementare la cerchia dei simpatizzanti, e così si impoverisce.

 

Com’è noto, la prima vittima del conflitto è la verità, ma non necessariamente perché gli attori del conflitto mentono deliberatamente, bensì perché la semplificazione della visione della realtà dibattuta e la monodimensionalità della percezione dell’avversario, che sono fenomeni tipici dell’escalation conflittuale, riducono di molto le capacità di lettura e di interpretazione dei fatti e portano a modalità di rappresentazione di sé e degli altri tendenti alla rigidità, al manicheismo: tutto ciò che è bene, giusto, vero, sensato, moralmente sano e intellettualmente onesto sta da una parte –  la mia/nostra -, mentre l’ingiustizia, la malafede, l’insensatezza, l’incapacità, ecc. stanno dall’altra – la sua/loro.

In altri termini, l’escalation porta le parti a registrare – e a riproporre all’attenzione dei terzi, specie di coloro dei quali si cerca di mantenere o acquisire l’appoggio o il consenso – solo i fatti, i gesti e le azioni della controparte che ne confermano la visione negativa.

Aspetti etero e auto distruttivi

Così, da un lato, il conflitto, in tali modi dispiegato, impoverisce la qualità dello scambio, mentre, dall’altro, innesca dinamiche autodistruttive quali naturali e fatali prodotti degli atteggiamenti aggressivi eterodistruttivi.

In effetti, è di sconcertante ovvietà rilevare come sistematicamente chi più, e più metodicamente, adotta forme comportamentali di confronto con l’altro di tipo aggressivo – cioè: delegittimazione, demonizzazione, spersonalizzazione e deumanizzazione altrui, su un fronte; tentativi di conseguire un’identificazione di tutti i cittadini con la propria parte e di promuovere l’idea di una propria capacità rappresentativa totale e  totalizzante, che esclude tutti o quasi gli altri gruppi ed esponenti da tale aspirazione o competenza, sostenendo l’idealizzazione di sé presso il pubblico e asserendo la propria infallibilità, sull’altro fronte -, in realtà, sta già scavando accuratamente, anche se inconsapevolmente, la propria fossa. In altri termini, tale soggetto (individuo o gruppo politico) finisce, prima o poi (ma non molto tardi, anzi, in verità, in tempi sempre più rapidi), per subire lo stesso trattamento riservato precedentemente agli avversari, spesso corredato da pregiudizi e faziosità ancora più pesanti e con esiti ancora più devastanti e definitivi.

Con ciò non si vuol dire che la modalità di stare nel conflitto in termini di aggressività esasperata sia necessariamente frutto di una malvagità che finisce con l’essere punita in virtù di naturali meccanismi – conflittuali – reattivi. Che quella modalità sia consapevole o meno, che sia programmata, pianificata, calcolata al dettaglio, oppure derivante da un’istanza emotiva, che si ammanta o è realmente pervasa di istanze valoriali, essa quasi invariabilmente si accompagna con la convinzione nutrita da chi la sviluppa e la agisce di essere nel giusto. Raramente, in effetti, si sta in conflitto pensando a sé come alla parte che ha dato ingiustificatamente il via alle ostilità.

Ne deriva, però, che la reazione della parte che si sente attaccata finisce con l’essere non solo simmetrica ma di pari, se non superiore, intensità ed efficacia distruttiva, non appena le circostanze lo consentano.

Inevitabilmente, però, le circostanze lo consentono, poiché chi vince il primo round, spesso pone già le basi per il suo successivo finire al tappeto. Specie nella misura in cui, per acquisire consenso, come da sempre avviene nei conflitti, a prescindere dall’ambito relazionale in cui si collocano, attraverso ciò che può definirsi propaganda, si creano nei terzi aspettative così alte la cui soddisfazione piena è di raro conseguimento.

Fatalmente, infatti, occorre essere all’altezza delle aspettative che si sono, consciamente o inconsciamente, stimolate nel pubblico, con la propaganda messa in atto, e di quelle, inconsciamente, ulteriormente sviluppatesi in esso. E queste possono essere ancora più imprevedibilmente elevate, perfino irrealistiche. Sicché il sospetto prima, l’accusa subito dopo e, in ultimo, il giudizio definitivo di incapacità, impotenza, tradimento e millanteria, non tardano ad arrivare da parte di un pubblico, la cui delusione diventa facile oggetto di sfruttamento da parte degli antagonisti.

Infine, un’ultima considerazione: il rischio, non esclusivamente teorico, di un esito all’insegna dell’autodistruttività è anche intrinseco ad una conflittualità che, spesso, costituisce il fondamento della legittimazione di una o molte parti politiche. Sicché, proprio in virtù di tale matrice ferocemente conflittuale della propria identità, una volta distrutto o neutralizzato il nemico, il vincitore entra in crisi, profondamente. Da tale crisi d’identità, in mancanza di una capacità di rinnovamento o rifondazione della propria finalità costitutiva, è la stessa ragione d’esistere del vincitore a sbiadire, soprattutto agli occhi dei terzi, del cui appoggio in realtà, ha vitale necessità.

L’esperienza, in realtà, pare proprio confermare la concretezza di una simile eventualità in termini di epilogo estintivo di forze politiche e/o movimenti di opinione o culturali o sociali, che, forse, avrebbero avuto ben altra e ulteriore utilità e capacità di rinnovamento generale o locale, se fossero sopravvissute alla loro matrice esclusivamente conflittuale.

 

Alberto Quattrocolo

Il Political Conflict Management: Ascolto (Politico) e Mediazione

Tra le molteplici possibilità e modalità di gestione dei conflitti inerenti ai rapporti interni alla sfera della politica strettamente intesa e a quelli tra politica e società, vi è anche quello proposto in questo blog: il Political Conflict Management, che è strutturato sulle caratteristiche e sulle dinamiche maggiormente ricorrenti del conflitto e della sua escalation, ma, attento com’è alle motivazioni esplicite e implicite delle parti e alloro ascolto e riconoscimento, presenta particolari capacità di adattamento alle specifiche, concrete, vicende conflittuali che la realtà di volta in volta propone.

A suo fondamento si colloca, infatti, il modello dell’intervento di Ascolto e Mediazione dei Conflitti, elaborato da Me.Dia.Re. e da essa proposto in molteplici ambiti istituzionali (penale, sanitario e lavorativo, oltre a quello della conflittualità interna alla famiglia), la cui impalcatura di fondo ne fa qualcosa di diverso tanto da un semplice modus operandi, quanto da un percorso rigidamente articolato, rendendolo, invece, uno strumento adattato alla realtà concreta con cui ci trova a confronto.

L’attività di Ascolto e Mediazione non si riduce, infatti, ad un percorso di natura squisitamente negoziale-conciliativo, poiché:

  • oltre all’attenzione agli interessi coinvolti, tiene nel dovuto conto anche gli aspetti emotivi, affettivi, relazionali, di principio, valoriali e simbolici sottesi o esplicitamente presenti nel rapporto conflittuale
  • si presta ad essere applicata sia allorché le parti sono almeno formalmente disponibili alla trattativa, al pari dei primi modelli mediativi (quello harvardiano di Fischer e Ury, in primis), sia nelle situazioni in cui tale disponibilità non è ravvisabile.

Non è configurabile neppure come mera applicazione del modello Umanistico di mediazione dei conflitti (come quello elaborato da Jacqueline Morineau o, in altro ambito, da Bush e Folger), di cui pure fa propria l’attenzione alle componenti cosiddette irrazionali (emozioni, sentimenti, principi…), poiché l’attività di Ascolto e Mediazione, a differenza di tale modello, per poter essere operativamente dispiegata non presuppone la presenza nelle parti:

  • della volontà di partecipare ad un confronto regolato e condotto in vista di un fine specifico di particolare profondità personale e relazionale, che presuppone l’attraversamento da parte dei protagonisti del conflitto di fasi catartiche
  •  della disponibilità di fondo a pervenire ad esiti profondamente trasformativi di sé e della relazione.

Il Political Conflict Management, dunque, non solo non elude, ma valorizza la consapevolezza circa la presenza di elementi, spesso connaturati al conflitto, che ne fanno una materia delicata e complessa da trattare:

  • l’indicibilità di alcuni interessi perseguiti o di talune strategie disegnate o celatamente messe in atto
  • la potente rigidità delle contrapposizioni e la sua incidenza condizionante sul piano cognitivo e comportamentale
  • il fastidio nutrito dalle parti verso le sollecitazioni di terzi ad un’auto-osservazione e/o all’autodisciplina
  • l’indisponibilità sostanziale delle parti a mettersi nei panni dell’altro
  • la convinzione di fondo presente in tutte le parti di essere dalla parte della ragione o ameno del minor torto, accompagnata o sorretta da potenti meccanismi di giustificazione della propria condotta, non dissimili da quelli rinvenuti in ambito criminologico circa le modalità di autolegittimazione del reo rispetto al proprio comportamento illecito
  • l’incidenza che hanno emozioni e sentimenti forti quali la sfiducia, il disgusto, la rabbia, il bisogno di far pagare il pegno di un tradimento, la risolutezza nel non darsi per vinti, la paura di perdere la faccia, la convinzione di condurre una lotta carica di valore etico e sociale, l’odio
  • il sospetto con cui le parti guardano alle, magari timide, aperture di una di esse.

Il Political Conflict Management, infatti, si presta ad essere declinato anche in presenza di prese di posizione irremovibili, vertendo non sull’intenzione o sul bisogno inconsapevole di mediare delle parti, sulla loro disponibilità a mettersi in discussione, ecc., ma sulle loro necessità o aspettative di riconoscimento e sull’accoglimento e/o legittimazione di differenti altre istanze di cui sono portatrici.

Dunque, nelle situazioni in cui si pensi che dalla immutata prosecuzione del conflitto si abbia più da perdere che da guadagnare, oppure allorché si ritenga che, per conseguire il successo inseguito, le modalità e le risorse fin lì impiegate si siano mostrate inadeguate, oppure quando si profili l’ipotesi che sia meritevole di sforzo il tentativo di ridurne i costi di varia natura implicati, la risorsa del Political Conflict Management è disponibile: infatti, è declinabile efficacemente anche quando la/e controparte/i non mostri/ino alcuna propensione ad approdare ad una più mite modalità di confronto dialettico.

 

Alberto Quattrocolo