Raggi, Renzi, Grillo, Salvini, Meloni, Berlusconi, Bersani, D’Alema, Fini, Boldrini…. La personalizzazione della politica e la spersonalizzazione dell’avversario negli attacchi ad personam

La personalizzazione non è soltanto un fatto correlato alla personalità dell’interessato, al suo carisma, ecc. Un minimo di personalizzazione nella politica, probabilmente, vi è sempre stato e sempre vi sarà. Almeno, se per personalizzazione si intende ad un livello minimo, l’importanza che la personalità del politico ha rispetto al suo proporsi dialetticamente con gli interlocutori politici e con i cittadini. Sono le persone in carne e ossa, con nomi e cognomi, quelle che pensano, propongono, agiscono, comunicano e lottano. Limitandoci a pochi esempi, non si possono non ricordare i tanti politici italiani, i cui nomi sono stati dati alle vie delle nostre città, né si potrebbe negare l’incidenza sulle cose della politica che hanno avuto i caratteri personali di diversi leader degli ultimi 70 o 80 anni, quali: Neville Chamberlain o Winston Churchill, Harold Macmillan o Margaret Thatcher; Konrad Adenauer o Willy Brandt, Helmut Kohl o Gerhard Schröder; Charles De Gaulle o Valéry Giscard d’Estaing, François Mitterrand o Jacques Chirac; F. D. Roosevelt o Harry Truman, Dwight Eisenhower o John F. Kennedy e così via elencando gli altri presidenti degli Stati Uniti fino a Donald Trump.

Interessante, dal punto di vista di questo Blog, dunque, non è il fenomeno della personalizzazione della politica in sé, ma la sua connessione e la sua declinazione con la dimensione conflittuale.

Per certi versi è normale che il conflitto in ambito politico sia personalizzato: è più semplice e concretamente agevole, oltre che psicologicamente percorribile, dare un volto e un nome ai fenomeni e ai processi politici, economici, sociali o culturali che appoggiamo o contrastiamo; così come, ad un altro livello, è decisamente più facile convogliare verso individui specifici, invece che verso entità o processi, il favore o lo scontento delle persone delle quali cerchiamo di procurarci o di conservare l’appoggio (si pensi alle diverse battaglie politiche, che, in sede di comunicazione, vengono presentate come contrapposte oppure come affini ad Angela Merkel o a Frauke Petry, a Theresa May o a Jeremy Corbyn, a Marine Le Pen o a Benoît Hamon).

Certamente non si può negare che maggiore è la propensione alla costruzione di una leadership politica incarnata in pochi individui carismatici, di governo e di opposizione, e maggiore è la tendenza del conflitto a produrre un aspetto non secondario della sua escalation: la personalizzazione degli attacchi, tesi a contrastare gli argomenti, gli atti e le proposte della controparte, delegittimandola anche sul piano personale (cioè, non solo politico, il che già non è poco, ma anche su quello delle capacità, dell’etica o della morale del soggetto).

Compaiono, così, forme di interazione conflittuale, talora all’insegna dell’insulto e, più spesso, caratterizzate dalla finalità di squalificare e, finanche, ridicolizzare, i leader della controparte. Il tentativo, cioè, è di esautorarli. Come spiega un dizionario, tale verbo significa: privare dell’autorità una persona o un organismo a cui sono attribuite funzioni direttive o di comando e, per estensione, privare qualcuno o qualche istituto della stima, del credito, della reputazione, rendendo impossibile o difficile l’esercizio delle sue funzioni.

Be’, quasi non si contano i tentativi di una parte di privare gli esponenti della parte avversa della fondamenta su cui si fonda la loro leadership: si pensi al confronto interno al Partito Democratico tra maggioranza e minoranza e il suo frequente ruotare intorno alle caratteristiche psicologiche di Matteo Renzi o, sull’altro fronte, l’incentrarsi sulla contestata irrisolutezza della precedente leadership del partito e sulla sua presunta indisponibilità a cedere il posto ai nuovi esponenti.

Un aspetto dell’escalation del conflitto politico, pertanto, è proprio quello di concorrere a rinforzare una naturale tendenza alla personalizzazione della politica, accompagnandola talora con attacchi che sono spersonalizzanti. La personalizzazione della politica, infatti, nello sviluppo del conflitto politico, genera la spersonalizzazione dell’avversario quando questo è fatto bersaglio di messaggi e commenti tesi a disconoscerne la dignità di persona.

Si pensi: alla definizione di Beppe Grillo, data da Maurizio Gasparri, come campione di ipocrisia, in un rapido commento su Rainews24 del 3 gennaio; a quando Gasparri invitava i cattolici a prendere le distanze dall’ateo Gianfranco Fini; al termine “populista” utilizzato soprattutto da esponenti della maggioranza di governo per screditare Grillo, Salvini o la Meloni; ai soprannomi inventati da Beppe Grillo per ridicolizzare tra gli altri, Monti (Rigor Montis), Pisapia (Pisapippa), Fornero (Frignero), Alemanno, (Aledanno), Bersani (Gargamella, zombie), Veronesi (cancronesi); agli attacchi alla Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini; all’espressione bambolina imbambolata, utilizzata dal Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, in riferimento alla Sindaca di Roma, Virginia Raggi; ai commenti apparsi sui social da parte di esponenti del Partito Democratico, riguardo all’avviso di garanzia pervenutole il 24 gennaio. Oppure si consideri la trasformazione dei commenti alla sentenza della Corte costituzionale, del 25 gennaio, sulla legge elettorale, in uno scambio di attacchi sul piano della delegittimazione politica, come quelli di Alessandro Di Battista e Andrea Romano.

Se c’è, qual è, allora, il costo sociale di tale aspetto dell’escalation conflittuale?

A prima vista, si direbbe che la riduzione di una rilevante parte del conflitto politico, irrinunciabile per la vita di una democrazia, ad uno scambio di offese e attacchi personali, può intaccare o addirittura soverchiare le capacità di attenzione della cittadinanza; una porzione della quale, quindi, si allontanerebbe dalla politica, classificandola come una sorta di noiosa e irresponsabile lite condominiale, o vi parteciperebbe con spirito da ultras. Il che, in entrambi i casi, può presentare ricadute non impercettibili sulla qualità stessa della partecipazione democratica e del contributo popolare alla politica di una comunità.

Naturalmente, sarebbe alquanto superficiale e inutile puntare con arroganza il dito contro tali aspetti della conflittualità politica, rimproverando i singoli per i loro comportamenti e per quelli reattivi delle controparti.

In un’ottica di Political Conflict Management, invece, risulta più utile e interessante tentare di comprendere gli eventi e le persone che ne sono protagoniste o comunque coinvolte.

Così, dietro ciascuno degli attacchi sul piano personale che sono stati qui citati si potrebbero ricostruire le motivazioni razionali ed emotive che sottendono quei comportamenti. E, probabilmente, sono proprio quelle motivazioni il terreno sul quale dovrebbe proporsi chi volesse cimentarsi in un’attività di Political Conflict Management.

 

Alberto Quattrocolo

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Mattarella aveva denunciato i rischi della violenza verbale nella lotta politica

Nel suo discorso di fine anno il Presidente della Repubblica ha affermato: «Vi è un altro insidioso nemico della convivenza, su cui, in tutto il mondo, ci si sta interrogando. Non è un fenomeno nuovo, ma è in preoccupante ascesa: quello dell’odio come strumento di lotta politica. L’odio e la violenza verbale, quando vi penetrano, si propagano nella società, intossicandola».

In queste parole si tengono insieme dimensioni che riguardano ciò che accade all’interno delle persone, della loro mente, e ciò che accade all’esterno, vale a dire il comportamento che esprime, porta fuori, agisce, ciò che sta dentro. Il Capo dello Stato, infatti, non asserisce che l’«insidioso nemico della convivenza» è l’emozione della rabbia, ma è «l’odio come strumento di lotta politica». Cioè, avverte che il suscitare e diffondere odio, utilizzandolo nella competizione politica, con il ricorso alla violenza verbale, significa propagare entrambi – odio e violenza – nella società, intossicandola.

Si tratta di una considerazione di non poco conto, espressa, peraltro, con una certa preoccupazione. «Una società divisa, rissosa e in preda al risentimento, – prosegue il Presidente – smarrisce il senso di comune appartenenza, distrugge i legami, minaccia la sua stessa sopravvivenza».

La violenza, infatti, ha indubbiamente una portata distruttiva che non si esaurisce nei danni arrecati alla vittima diretta della condotta lesiva, poiché, come da sempre e con le più diverse prospettive è stato detto, la violenza chiama la violenza.

Il tema della violenza è a dir poco immenso, accostabile da prospettive scientifiche, culturali, religiose, etiche e morali molteplici, perciò qui ci limiteremo ad alcuni sommari cenni, connettendolo con la questione dell’escalation del conflitto politico. Su tale registro, infatti, prosegue il discorso di Matterella, che afferma: «Tutti, particolarmente chi ha più responsabilità, devono opporsi a questa deriva».

Le sue parole, però, non paiono aver trovato grosso seguito. Viene alla mente l’Enrico VI di Shakespeare, quando, nella Parte prima, Atto terzo, Prima scena, il Re Enrico, che cerca di placare il contrasto furioso che oppone suo zio, il Duca di Gloucester, al vescovo di Winchester, prozio del Re, rivolgendosi ad entrambi, dice: «Credetemi, signori, la mia età – sebbene ancora tenera – osa dichiarare la civile discordia vipera velenosa che corrode le viscere dello Stato». Il suo appello sarà recepito solo a parole, i due si daranno la mano, restando in realtà nemici giurati.

Quante volte nella storia degli ultimi vent’anni si sono prodotte situazioni analoghe? Quanti sono stati gli ignorati richiami ad una moderazione dei toni nel confronto politico, al contenimento della sua preziosa e irrinunciabile conflittualità all’interno di quei limiti di forma che ne permettano l’effettiva realizzazione dei suoi scopi, alti e, contemporaneamente, concreti? Non pochi, in realtà. Si ricordino tra gli altri gli ultimi discorsi di fine anno, proposti al termine dei rispettivi settennati, dal Presidente Oscar Luigi Scalfaro, il 31 dicembre del ’98  («Ma, come fa la gente ad avvicinarsi  – alla politica, n.d.a. – quando incontra persone che dicono di essere persone politiche e che, nell’assenza totale di ogni pensiero politico, hanno come surrogato battute, ingiurie di qualsiasi tipo, dove l’educazione non si sa più dove stia, insinuazioni, se non addirittura il falso? Ma, questo può essere politica? E con questo sistema, si pensa che le persone perbene si avvicinino alla politica?») e dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi, il 31 dicembre del 2005 («Come Presidente della Repubblica Italiana mi sono proposto di esercitare imparzialmente il mio mandato, e ho costantemente rivolto a tutti l’esortazione al dialogo, al confronto leale, aperto, reciprocamente rispettoso»), nonché quello del Presidente Giorgio Napolitano del 31/12/2013 («La sola preoccupazione che ho il dovere di esprimere è per il diffondersi di tendenze distruttive nel confronto politico e nel dibattito pubblico – tendenze all’esasperazione, anche con espressioni violente, di ogni polemica e divergenza, fino a innescare un “tutti contro tutti” che lacera il tessuto istituzionale e la coesione sociale»).

Tornando a Shakespeare, immediatamente dopo aver pronunciato quelle parole, Enrico VI vede comparire il Sindaco di Londra che lo informa del fatto che «gli uomini di Gloucester e quelli del vescovo, cui era stato fatto divieto di portare le armi, si sono empite le tasche di pietre divelte dai selciati e, divisi in due squadre avverse, si bersagliano, quei matti nel cervello, con tale furia che molti ne escono con la testa rotta. Per ogni strada – aggiunge il Sindaco – è tanto fracasso di vetri che per precauzione abbiamo dovuto far chiudere tutte le botteghe» («Oh, come mi fa male questa discordia», dirà poco dopo il Re, ottenendo una tregua apparente e provvisoria).

Si vede qui come lo scontro tra due rappresentanti delle istituzioni («custodi designati alla prosperità del nostro Stato» e «alti dignitari», li definisce il Re Enrico), con le loro «mani fratricide», suscitino «disordini» e «risse».

Il conflitto politico, infatti, com’è naturale, non si dispiega soltanto tra politici, ma si sviluppa a partire dalle divergenze di opinione e dai contrasti presenti nella società sul piano dei valori e dei principi, degli interessi e delle esigenze, degli obiettivi e delle istanze.

Tuttavia, ciò che segnala il Presidente è che, spesso, la sua escalation violenta si diffonde e si nutre delle modalità verbalmente violente di conduzione della lotta politica da parte dei rappresentanti del popolo.

A tale riguardo si collega un articolo, scritto, circa 3 settimane prima del voto sul Referendum costituzionale, da Monica Rubino che, su Repubblica, segnalava episodi in cui gli eletti hanno palesato la volontà di aggredire verbalmente gli elettori della parte avversa.

Sul sito www.pensierocritico.eu, si trovano corpose considerazioni sull’incitamento all’odio (hate speech) e si citano esempi piuttosto precisi. Tra questi figurano i commenti apparsi sui siti di Repubblica e sulle pagine Facebook del Fatto Quotidiano, quando diedero notizia dell’ictus che aveva colpito Pierluigi Bersani: alcune persone si dicevano felici della sua condizione, lo insultavano e gli auguravano di morire. Quel sito di pensierocritico rinvia anche ad un altro, www.tecnoetica.it, di Davide Bennato, che spiega tali manifestazioni in un’ottica sociologica: «la figura di Bersani si è progressivamente televisionificata, complice l’ipermediatizzazione di cui è stato oggetto (le parodie di Crozza, il format X-Factor delle primarie, le continue apparizioni televisive, le dirette streaming con i grillini). Bersani sempre meno persona, sempre più racconto televisivo. In questo modo vanno considerate alcune battute terribili o affermazioni incivili di cui è stato oggetto: inveire contro Bersani è inveire contro un personaggio televisivo icona della casta politica che – secondo un classico refrain – “tanti danni ha fatto all’Italia di questi anni”. Che poi sia una persona vera, in carne ed ossa, è assolutamente circostanziale». Aggiunge ancora Davide Bennato: «I commenti violenti sono frutto della spirale del silenzio», e più avanti spiega: «I commentatori violenti hanno espresso apertamente ed in forma non anonima il proprio odio verso Bersani, perché hanno “sentito” nell’aria che la propria opinione era legittima. È stata legittimata dalla violenza dei commenti verbali quotidiani, dalla violenza della narrazione giornalistica, dalla violenza di alcuni movimenti politici o di alcune frange di movimenti politici (non solo Grillo….), da alcune trasmissioni televisive. Insomma per questa tipologia di commentatori, esprimere violenza verbalmente non è socialmente sanzionato, anzi è socialmente legittimo, poiché hanno la percezione che il mondo intorno a loro sia violento».

Su Repubblica del 7 gennaio 2014, Stefano Batterzaghi, chiariva che il problema non è internet: «Siamo puri nomi, o nomignoli. Molti di questi commenti sono tranquillamente firmati: non ci curiamo di nasconderci dietro all’anonimato perché non vediamo più la persona, la carne e la vita, dietro ad alcun nome proprio».

Riallacciandoci a queste considerazioni e ad integrazione di quanto sopra riportato delle riflessioni di Bennato, ci pare possa essere collocato anche un altro, non troppo dissimile, ragionamento inerente la legittimazione della violenza. Cioè: la possibilità che il commentatore che augura la sofferenza e la morte a Bersani – non diversamente dal deputato M5S, Massimo Felice De Rosa che, in una seduta del 29 gennaio 2014, della Commissione Giustizia, ha insultato le deputate del Partito Democratico («Voi donne del PD siete qui perché siete brave solo a fare i pompini») -, ritenga legittima la sua violenza. Sempreché la consideri tale.

Infatti, non andrebbe sottovalutato un aspetto, ripetutamente esaminato in ambito criminologico e facilmente rinvenibile ascoltando gli autori del reato nei percorsi di mediazione penale: la tendenza del soggetto a giustificare la propria condotta lesiva, colpevolizzando la vittima per quel che gli ha inflitto. Così, l’uomo che sconta una pena per averne aggredito e ferito un altro, che aveva parcheggiato l’auto nell’unico spazio disponibile della via in cui stava per farlo lui, non si sente responsabile di un atto di violenza ingiusta, ma si percepisce come autore di una reazione ad un’ingiustizia intollerabile.

Ascoltando le donne vittime di violenza emerge assai spesso, ad esempio, che l’uomo che picchia la moglie pensa e dice che è colpa della donna se lui la mena. Se lei non lo facesse arrabbiare, lui non la picchierebbe. Ovvio, no? Non tanto, ma… Per lui, sì. E – tanto per eliminare eventuali dubbi alla radice – non si tratta di un malato di mente.

Così, spesso accade di sentire dire da un politico, cui si rimprovera di aver usato frasi offensive verso un avversario, che la sua è solo una replica alle accuse dell’altro, che l’altro si merita l’insulto per quello che sta facendo al Paese, ecc.

Come il rapinatore, il ladro, il truffatore e lo stupratore, così anche l’aggressore verbale, protagonista di un conflitto di vicinato, si giustifica con se stesso ancor prima che con gli altri, dicendo(si) che il suo interlocutore, la vittima, se l’è meritato. Oppure che, in realtà, quello non ha subito nessun reale danno. Oppure ancora sostiene che di quanto accaduto è responsabile qualcun altro o qualcos’altro: la società o il sistema, ad esempio. Il ladro dice che la società è ingiusta, che la vittima era più ricca di lui, ecc.; l’evasore afferma che il fisco è persecutorio, che lo Stato spreca i soldi dei contribuenti, che evadono tutti.

Nel conflitto politico l’argomento “così fan tutti” non è meno frequente di quello che attribuisce all’altro la colpa dell’inizio dell’escalation: “ha cominciato lui”. Ricorda un po’ il linguaggio infantile, ma ricorda anche alcune sequenze, del grottesco, tragico, film di Denis Tanovic, No Man’s Land, in cui il tormentone consiste nel reciproco rinfacciarsi la responsabilità dello scoppio della guerra da parte dei due protagonisti, schierati su fronti contrapposti.

In The Heart of Conflict Brian Muldoon scrive che è la convinzione di aver subito un torto «che dà fuoco alle polveri del conflitto».

Anche nel conflitto politico, dunque, non dissimilmente da quanto accade in quelli di vicinato, tra famigliari o sul posto di lavoro, le parti si attribuiscono l’un l’altra non soltanto la responsabilità dell’inizio delle ostilità, ma anche quella dell’innalzamento del loro livello sul piano comportamentale.

Però, una criticità è data dal fatto che una delle caratteristiche della dinamica reattiva dell’escalation conflittuale è che, una volta varcata una certa soglia, non si torna indietro. Cioè: fintanto che tra le parti sussiste un disconoscimento reciproco e si percepiscono come nemici da abbattere, ogni impennata sul piano dei comportamenti aggressivi messi in atto da una parte si accompagna ad un consolidamento del nuovo più alto livello di aggressione, in virtù della reazione simmetrica della controparte, con un aumento delle probabilità di ulteriori impennate, quanto più gli animi sono accessi di indignazione, rabbia e sentimento di dignità offesa.

Si tratta di una dinamica azione-reazione ininterrotta, che rinforza nella mente delle parti in conflitto la visione dell’altro come entità malefica e insensibile.

Si possono e si devono, dunque, certamente biasimare e condannare le manifestazioni di violenza verbale, ma occorre cercare di comprenderle (il che nulla ha a che vedere con il giustificarle), se si vuole tentare di contenerle e, soprattutto, di prevenirle.

L’unico modo, allora, per determinare la de-escalation del conflitto è quello di recuperare un’etica del confronto, una sorta di regolamento, che contempli i comportamenti inammissibili, verificandosi i quali scatta la censura, anche se a porli in essere è un soggetto appartenente al proprio schieramento. Non si tratta di inventarsi nuove regole: esistono già e sono quelle della forse vecchia, ma mai logora, buona educazione. Si tratta, invece, di recuperarle, applicandole e avendo l’accortezza di non farlo solo a condizione che anche le controparti vi si uniformino. Questa condizione pregiudiziale assai spesso richiamata, infatti, si inserisce magistralmente negli argomenti proposti dalle parti, ormai avvolte dal vortice dell’escalation, a chi le sollecita ad abbassare i toni (“lo faccio soltanto se lo fa anche lui”).

Tuttavia, per fare davvero proprie e concretamente osservare tali regole, occorre prima, o almeno contemporaneamente, realizzare ed esplicitamente riconoscere che anche l’avversario che più ci è odioso, che più crediamo colpevole di averci danneggiato o deluso e tradito, è un essere umano, una persona in carne e ossa.

In assenza di tale passaggio, che avviene sul piano cognitivo ed emotivo e, quindi, anche su quello comportamentale, pare assai improbabile che il personale politico possa tradurre in azione la sollecitazione dell’attuale Capo dello Stato.

In ogni caso, in attesa e nell’auspicio che i rappresentanti effettuino tale svolta, sussistendo anche una significativa responsabilità dei rappresentati, non sarebbe male se anche noi, cittadini comuni, cominciassimo a mettere in discussione il nostro modo di pensare ai leader, ai portavoce, agli eletti, ai militanti e agli elettori di cui non condividiamo l’appartenenza politica e le idee, superandone una rappresentazione demonizzante, denigratoria e superficiale.

 

Alberto Quattrocolo

Politica e antipolitica. Politica dell’antipolitica. Antipolitica della politica. Cioè: la tendenza del conflitto politico ad uniformare i modi di acquisizione del consenso sul registro dei pregiudizi antipolitici.

Angelo Panebianco sul Corriere della Sera aveva scritto mesi fa un articolo dal titolo La cattiva coscienza della nostra politica nella cui apertura si leggeva: «I tentativi della politica di rintuzzare la sfida dell’antipolitica sono fiacchi, controproducenti, spesso corrivi, culturalmente subalterni al nemico. Come quando, ad esempio, a proposito della riforma costituzionale, si liscia il pelo al gatto dell’antipolitica presentando come una delle virtù principali della riforma la riduzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica, un aspetto secondario rispetto a quelli che davvero contano: fine del bicameralismo paritario, indebolimento dei (oggi fortissimi) poteri di veto, maggiore stabilità e maggiore capacità decisionale dei governi».

Oltre all’interpretazione fornita da Panebianco, ci pare che possa proporsi anche un’altra chiave di lettura.

Una delle tendenze dei conflitti che si sviluppano pubblicamente è quello di indurre le parti ad adottare quegli atteggiamenti delle controparti che paiono avere maggiore successo nella riscossione di un’approvazione diffusa presso i terzi e che sembrano efficaci nel trasformarli da avversi o imparziali in simpatizzanti più o meno entusiasti ed attivi.

Nel conflitto politico anche tale dimensione è tutt’altro che rara. Né si può dire che sia propria soltanto degli ultimi anni del secondo millennio. Già ai tempi di Tangentopoli, al tramonto della Prima Repubblica, se n’era visto dispiegare l’effetto in un’area non trascurabile degli schieramenti politici: quelli presenti sulla scena da tempo e quelli che si affacciavano alla ribalta politica in quel periodo. Per gli ultraquarantenni, infatti, può non essere difficile rammentare le proteste in sede parlamentare che riecheggiavano comportamenti di cittadini comuni, quali quello del lancio delle monetine contro Bettino Craxi all’Hotel Raphael il 30 aprile del 1993.

Ancora oggi, come già accadde con l’affermazione di De Gaulle, Reagan e poi di Berlusconi, secondo quanto sostiene Donatella Campus (in L’antipolitica al governo. De Gaulle, Reagan, Berlusconi), tale tendenza spesso si concretizza in una rincorsa al consenso sul terreno dell’insofferenza di una parte rilevante dell’elettorato verso la categoria dei politici. Non tanto paradossalmente capita, allora, che forze politiche contrapposte, nel combattersi, utilizzino gli stessi argomenti. Cioè, quelli che paiono essere di sicuro successo e che, sia pure declinati con stili e sfumature differenti, invariabilmente rinviano alla diffidenza, al sospetto e alla rabbia verso i politici in quanto tali. I politici tout-court.

La differenza dell’attuale sviluppo del conflitto politico rispetto agli esempi citati dalla Campus pare, però, consistere soprattutto nella tendenza di molte, se non tutte, le parti politiche a proporsi con modalità comunicative e proposte tese a stimolare il credito in chi nutre sentimenti antipolitici. Ingaggiate in una lotta contrassegnata da costanti tentativi di delegittimazione reciproca, si trovano costrette a proporre all’elettorato, di cui cercano di riscuotere l’approvazione e la fiducia, argomenti che paiono essere di sicura presa.

In particolare, non è raro che oggi si sviluppi una gara per convincere il pubblico sulla propria autentica ed esclusiva detenzione di una genuina natura anti-politica, esplicitando che si intende risollevare la fiducia dei cittadini verso la politica, la politica buona, che funziona, che non ruba e non inganna, che non crea i problemi e le ingiustizie ma li sa risolvere, cioè la propria politica – un esempio in tal senso era individuato sul Corriere della Sera da Giovanni Belardelli in merito agli slogan sui manifesti per il Sì sul Referendum costituzionale.

Non è detto, però, che l’effetto cercato si realizzi. Non solo può registrarsi lo scacco di chi appare meno convincente nel proporre tali argomenti (il che è più facile che accada a chi è al governo della Città, della Regione o del Paese), ma è anche possibile che lo scacco sia di tutte le parti in gioco. È possibile, cioè, che si diffonda un clima emotivo tale per cui a prodursi non è tanto il radicarsi e diffondersi di un sentimento di fiducia nella nuova politica rappresentata dal vincitore di tale competizione, quanto semmai un diffuso tasso di maggior sfiducia verso la parte sconfitta e uno minore verso l’altra. In breve, la delegittimazione dell’altro, proposta per ottenere la propria legittimazione, produce, invece, le premesse di una comune delegittimazione agli occhi dei cittadini.

Inoltre, non andrebbe escluso un altro effetto: tale tipologia di comportamento conflittuale, essendo sostanzialmente teso a compiacere e lusingare l’elettorato, non lo aiuta a svolgere un’autocritica in ordine alle scelte politiche precedentemente compiute. Così, di fatto, si esentano i cittadini dall’assumersi la loro quota di responsabilità per aver concorso a produrre, con le loro richieste o con il loro favore, proprio quelle politiche (economiche, sociali, sanitarie, di ordine pubblico, ecc.), verso cui oggi nutrono disapprovazione e rancore.

In conclusione: invece, di creare una condizione relazionale tra rappresentanti e rappresentati di tipo adulto, si trattano i secondi come se fossero clienti “che hanno sempre ragione”, come se avessero avuto ragione, prima, quando sostenevano una determinata tesi politica, e continuassero ad averla pochi anni o mesi dopo, quando plaudono a chi afferma la tesi opposta.

Secondo Andrea Zhok, su l’Espresso del 15/01/2017, sarebbe questo uno dei modi di porsi dei partiti populisti (Populisti figli nostri).

Senza volere entrare nel discorso sul populismo, ma limitandoci alla prospettiva del conflitto, parrebbe proprio che anche in quello politico la ricerca di una legittimazione di sé, tentata dalle parti coinvolte, possa, spesso, dare luogo all’esatto contrario, non diversamente da quanto sovente accade nei conflitti che interessano la vita di tutti i giorni.

 

Alberto Quattrocolo

Psiconani ed ebetini, gufi e rottami, rosiconi e alessitimici, infami e bamboline: l’autolegittimazione delle aggressioni verbali nel conflitto politico

Nella vita di tutti i giorni capita che i protagonisti di un conflitto – in famiglia, sul luogo di lavoro, sul pianerottolo, ecc. – assumano atteggiamenti che rasentano il codice penale oppure che varchino decisamente le soglie del lecito, commettendo reati quali: ingiuria (per l’art. 594 del Codice penale, punito con la reclusione fino a sei mesi o la multa fino a 516 Euro), percosse (l’art. 581 prevede la reclusione fino a sei mesi o la multa fio a 309 Euro) e violenza privata (che l’art. 610 punisce tale azione con la reclusione fino a 4 anni ed è perseguibile d’ufficio). Quando tali comportamenti criminosi o comportamenti simili si verificano ai danni di pubblici ufficiali (si veda la definizione data dall’art. 357 del Codice Penale), si concretizzano reati più gravi e più gravemente sanzionati: l’oltraggio a pubblico ufficiale è represso dall’art. 341 bis con la reclusione fino a tre anni, mentre per la violenza o minaccia a p.u. e per la resistenza a p.u. l’art. 336 e l’art. 337 prevedono, in entrambi i casi, la reclusione da sei mesi a  cinque anni.

Che nella realtà quotidiana vengano fatti o meno portate in tribunale, l’ordinamento giuridico prevede e punisce le offese, le minacce e le percosse, e lo fa a prescindere dalle intime ragioni o motivazioni dei loro autori (con qualche eccezione su cui qui non importa soffermarsi). Ma per i loro autori le motivazioni non sono un aspetto irrilevante.

In ambito criminologico, infatti, si prende in considerazione proprio il punto di vista dell’autore della violenza (verbale o fisica) e si cerca di comprendere quali siano i meccanismi mentali ed emotivi che ne sorreggono la condotta lesiva.

L’aspetto interessante di tali meccanismi di auto-giustificazione consistono nella tendenza alla neutralizzazione della consapevolezza circa la portata del proprio gesto: si fa riferimento all’oscuramento della prospettiva delle vittima per distanziarsi emotivamente da essa, fino a ridurla alla consistenza di un oggetto. Il volto umano della vittima della violenza viene oscurato nella mente dell’aggressore, che così la spersonalizza. In effetti, tra i vissuti pesanti della persona che subisce un’aggressione vi è proprio quello di essere stata trattata alla stregua di un oggetto – peggio di un animale, si sente spesso dire dalle vittime quando le si ascolta.

Il processo che si sviluppa nella mente dell’aggressore, quindi, conscio o inconscio che sia, è caratterizzato da un aspetto di non poco conto: l’annullamento dell’umanità della vittima.

Non penso, né sento, nel caso di un’aggressione verbale (quale potrebbe essere l’offesa lanciata direttamente contro l’interessato, in presenza o in assenza di terzi, o alle sue spalle, denigrandolo in pubblico), che le mie parole possano farti male, ferirti, addolorarti.

Secondo la suddetta impostazione criminologica, non mi preoccupo del fatto che posso procurarti una sofferenza, nel momento in cui – pubblicamente – dico che sei un ebetino o una scrofa ferita (Grillo di Renzi), un coglione o uno che si lava poco (Berlusconi su chi vota a sinistra e sugli esponenti della sinistra,) uno psiconano (Grillo su Berlusconi), un rottame, un gufo, un rosicone (Renzi sui dirigenti del PD che lo avevano preceduto e su coloro che avevano espresso critiche e scetticismo, dall’interno e dall’esterno del partito, a proposito degli 80 Euro in busta paga e degli sgravi Irpef), una mezza pippa (Vincenzo De Luca su Alessandro Di Battista, Luigi Di Maio e Roberto Fico), un infame da uccidere (De Luca su Rosy Bindi), una bambolina imbambolata (De Luca su Virginia Raggi), un alessitimico (Grillo su Renzi).

Riguardo a quest’ultima espressione viene facile compiere un’associazione mentale: su State of Mind Elisabetta Virginia Marinucci scrive: «Deriva dal greco “Alexis thymos” e letteralmente  significa non avere parole per le emozioni. Nello specifico Peter Sifneos coniò questo termine per indicare un disturbo delle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo dei pazienti psicosomatici. L’alessitimia si manifesta attraverso una serie di difficoltà rispetto a: identificare, descrivere e interpretare i propri e gli altrui sentimenti; distinguere gli stati emotivi dalle percezioni fisiologiche; individuare quali siano le cause che determinano le proprie emozioni; utilizzare il linguaggio come strumento per esprimere i sentimenti, con conseguente tendenza a sostituire la parola con l’azione fisica».

Orbene l’autore dell’aggressione (fisica o verbale)  – ad esempio, colui che dà del rottame, del gufo o dell’alessitimico ad altri -, nel momento in cui aggredisce, non si cura di come si sentirà il bersaglio del suo attacco, cioè non prova la minima prossimità empatica nei confronti di colui che si sta aggredendo.

Può anche darsi, come talvolta si sente affermare, che chi si cimenta nell’arena della politica abbia la corazza ispessita dalla consapevolezza che essere offesi faccia parte del gioco. Un gioco duro, in cui solo i duri possono giocare.

Ma chi in quell’arena non entra da protagonista attivo, ma vuole parteggiare, appoggiare, sostenere moralmente, o anche fattivamente, questo o quel partito e questo o quell’esponente politico, inevitabilmente viene ad essere vittima degli stessi comportamenti che colpiscono i suoi referenti politici. Infatti, in vittimologia si rileva come la vittima non sia solo la persona contro cui l’azione violenta è diretta, ma anche coloro che le sono affettivamente legati. A titolo esemplificativo, si può pensare a: i figli e, in generale, coloro che vogliono bene alla donna vittima della violenza domestica perpetrata contro di lei dal marito, il fidanzato o la fidanzata della persona rapinata e stuprata, la madre e il padre e i fratelli del giovane perseguitato dai bulli a scuola e/o sul web…

Fatte le dovute proporzioni rispetto alla gravità dei fatti considerati, può anche darsi, dunque, che un leader politico non soffra (non troppo) per le diffamazioni di cui è oggetto alla stregua di quanto patirebbero, invece, il mio vicino di casa, mio cognato, il mio collega oppure il passante cui mi rivolgessi con violenza verbale, indirizzandogli insulti o minacce o denigrandolo presso dei terzi. Può darsi che effettivamente il personale politico sia dotato dalla natura di una pelle più dura. Ma può darsi anche che, come gli amici e i famigliari del mio vicino di casa o del mio collega, soffrano gli elettori, gli iscritti, i militanti, i simpatizzanti della parte politica cui appartiene la persona che è stata reso oggetto di offese e diffamazione. Se colui dal quale mi sento rappresentato è definito come un gufo o un rottame, come un ebete, come un alessitimico, come un dittatore, allora, un po’ potrei sentirmi offeso anche io. Se lui è un dittatore, allora io, che credo convincenti le sue tesi, sarei un antidemocratico? Se è un gufo, lo sono anche io perché condivido le sue idee? Se è un coglione… Ci si ricorderà delle magliette e delle felpe su cui era stata stampata la frase “sono un coglione” dopo che Berlusconi il 6 aprile del 2006, a Confcommercio, aveva detto: «Ho troppa stima per l’intelligenza degli italiani per credere che ci possono essere in giro tanti coglioni che votano per il proprio disinteresse».

Tali manifestazioni del conflitto politico, o meglio della sua escalation, presentano inoltre una non trascurabile capacità “infettiva”. Infatti, se mi sento toccato dall’offesa rivolta a coloro da cui mi sento rappresentato (ad esempio, se sono un militante, un elettore o un simpatizzante del M5S o del PD, e sento definire un suo esponente come una mezza pippa, una bambolina o un ebete o un serial killer), non è escluso che sorgano in me l’indignazione, la rabbia e il bisogno di esprimerla, cioè di replicare.

Soprattutto, però, simili manifestazioni conflittuali presentano un costo sociale che andrebbe  considerato: riducono gli spazi di attenzione dedicato al merito delle discussioni, cioè riducono la possibilità dei cittadini di essere informati e di capire la plausibilità, la ragionevolezza e la valenza politico-culturale degli argomenti proposti dalle diverse forze politiche.

Del resto, com’è noto, l’escalation del conflitto isterilisce il confronto e genera e diffonde risentimenti e aggressioni, allargando la cerchia dei belligeranti e riducendo la parola a strumento di offesa e non di conoscenza.

In conclusione, si potrebbe osservare che non a caso, forse, il web rigurgita di botte e risposte che si collocano su tale registro: ma, parafrasando Kipling, questa è apparentemente un’altra storia.

 

Alberto Quattrocolo

Affronte, Zanni, Battistini, Pizzarotti e Grillo. D’Alema, Emiliano, Cuperlo e Renzi. Berlusconi e Fini, ecc.: la radicalizzazione del conflitto come fabbrica del “tradimento”

Alcune vicende politiche – quali quelle dell’uscita dell’eurodeputato Marco Affronte dal Movimento 5 Stelle, e ancor prima, sempre in riferimento alla stessa forza politica, quella del Sindaco di Parma, Federico Pizzarotti – rinviano ad una dinamica relazionale piuttosto frequente nelle organizzazioni coinvolte in situazioni di conflitto.

Affronte, nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, ha affermato: «Per me sì, è stata una decisione che mi ha provocato una grande sofferenza. Ho pianto, non mi vergogno a dirlo. Adesso sono sereno anche se so che riceverò molti insulti. Con i Cinque Stelle è così, quando sei dentro, sei molto dentro, quando sei fuori, sei fuori davvero».

Pare, dunque, che anche all’interno delle organizzazioni politiche e non solo in quelle di altra natura, la dimensione della relazione interpersonale conti, anzi possa contare molto. Tale aspetto emerge, sia pure meno esplicitato anche nelle parole di un altro eurodeputato Cinque Stelle, Marco Zanni, anch’egli intervistato dal Corriere.

Sul suo blog, Beppe Grillo ha chiesto ad Affronte e Zanni di «dimettersi», annunciando che pretenderà il pagamento della penale che sottoscrissero, 250.000 Euro.

Sullo stesso Blog viene ricordata la battuta che costò a Grillo l’ostracismo dalla RAI, ai tempi della Prima Repubblica: la battuta sui socialisti.

Sembrerebbe esservi una contraddizione, ma è bene andare oltre le apparenze, se si vuole tentare di comprendere.

È vero che ad un parlamentare europeo che, dissentendo dalle decisioni del suo gruppo, vi si contrappone criticamente e si dissocia da un comportamento che non condivide, si chiedono le dimissioni, oppure il versamento di una penale cospicua, e contemporaneamente si ricorda, con giustissima indignazione, l’antidemocratico allontanamento dall’emittente televisiva pubblica di un comico, “reo” di aver espresso una certa “contrarietà” rispetto ai comportamenti di una forza politica al vertice del Governo del suo Paese. In entrambi i casi si potrebbe asserire che non si sia data cittadinanza alla critica, al dissenso, all’indignazione.

Certo tra le due situazioni vi sono differenze enormi sul piano delle implicazioni e dei risvolti, ma ciò che apparentemente potrebbe accomunarle sarebbe la difficoltà vissuta da chi è al governo (dello Stato o del Movimento) di tollerare il dissenso.

Si parlò di tendenze autoritarie e liberticide al tempo in cui il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi da Sofia accusò Enzo Biagi, Daniele Luttazzi e Michele Santoro di uso criminoso della tv pubblica: era il cosiddetto editto Bulgaro.

Ma tali vicende, dal punto di vista del conflitto politico e della sua escalation, diventano rilevanti su un altro registro: quello degli aspetti emotivi e relazionali. Infatti, è possibile, prendere spunto da tali fatti, sperando di non risultare sgradevoli nei confronti di nessuna delle persone coinvolte, per svolgere un ragionamento di carattere più generale: nel momento in cui siamo protagonisti di una lotta in cui sono in gioco elementi di rilevantissimo valore per noi, ci può risultare intollerabile la presa di distanza dalle nostre scelte e posizioni da parte di chi nominalmente e sostanzialmente fa parte della nostra fazione, del nostro gruppo o della nostra comunità. Possiamo considerare tale presa di distanza come un tradimento. Un tradimento, che procura vantaggi ai nostri nemici, che minaccia di indebolirci, almeno in termini di immagine. E che può costituire anche un elemento preoccupante. Cioè può insorgere il timore che il dissenso di questo o quel membro del gruppo produca una crepa, l’inizio di un’emorragia di fuoriusciti o, peggio, il principio di una piccola o grande rivolta. Quante volte in fondo si sono riproposti nella storia politica e nelle esperienze di tutti i giorni, le idi di Marzo? Potrebbe, quindi, sorgerci angosciati e angoscianti dubbi, come: se altri tra i miei sodali pensassero che forse il traditore ha ragione? Se altri tra i nostri dicessero tra loro che, magari, anche io ho un po’ di colpa per il suo tradimento?

A volte, per azzittire tali dubbi nella nostra mente e prevenirne l’insorgere in quella degli altri, sferriamo attacchi vigorosi, carichi di accuse e che ambiscono a delegittimare “il traditore”, così da depotenziarne le possibilità argomentative.

Certamente il Movimento 5 Stelle e il suo portavoce si sentono ingaggiati in una lotta vitale. Tanto che sul Blog Beppe Grillo, il 9 gennaio, ha scritto: «L’establishment ha deciso di fermare l’ingresso del MoVimento 5 Stelle nel terzo gruppo più grande del Parlamento Europeo. Questa posizione ci avrebbe consentito di rendere molto più efficace la realizzazione del nostro programma. Tutte le forze possibili si sono mosse contro di noi. Abbiamo fatto tremare il sistema come mai prima. Grazie a tutti coloro che ci hanno supportato e sono stati al nostro fianco».

Quando ci si sente in lotta contro il Leviatano, chi dall’interno del nostro schieramento dei “buoni contro i cattivi” esprime dubbi o contrarietà, assume atteggiamenti critici e adotta comportamenti divergenti, rapidamente slitta ai nostri occhi nello schieramento nemico. Non siamo, infatti, facilmente propensi a considerarne le ragioni e le motivazioni, perché troppo ci brucia la ferita procurata dal suo disaccordo manifestato al mondo, di cui probabilmente vorrebbero avvantaggiarsi “i cattivi”, nella loro azione di screditamento delle nostre ragioni e della nostra persona.

Il fatto che, magari come ha fatto Zanni in chiusura dell’intervista a Emanuele Buzzi del Corriere della Sera, il “traditore” dica «La mia è una svolta di coscienza» potrebbe anche lasciarci indifferenti.

Infatti, cosa accadrebbe alla nostra titanica lotta, se ci fermassimo a meditare sulle sue ragioni?

In tali situazioni, inevitabilmente, vengono ad essere coinvolti principi e valori di carattere fondamentale: libertà, trasparenza, partecipazione, da un lato; lealtà, coerenza, rispetto dei patti, dall’altro.

A fronte del contestatore interno, che si propone come paladino della democrazia interna, ci viene da ricordargli che stiamo lottando proprio per dare realizzazione al nostro ideale di democrazia, contrapponendoci contro chi intende impedirci di cambiare le cose, e che egli con il suo comportamento si sta oggettivamente schierando proprio con tali forze («Tutte le forze possibili si sono mosse contro di noi», ha scritto il garante del M5S, e altrove non sono mancati gli accenni all’esigenza di condurre riservatamente le trattative per prevenire l’avverarsi di temute contromosse di un nemico così potente quale è l’establishment).

Qualcosa di simile potrebbe essere rinvenuto rispetto al deferimento dei probiviri del M5S del consigliere regionale ligure Francesco Battistini, secondo quanto ha affermato La Repubblica, ma pare accadere anche all’interno del Partito Democratico: nelle tensioni interne che hanno tra i principali protagonisti Michele Emiliano e Massimo D’Alema, da un lato, e il Segretario del PD, Matteo Renzi, dall’altro, spicca fra le tante una dichiarazione del Presidente del PD, Matteo Orfini, nell’ambito dell’Assemblea degli amministratori del Partito Democratico svolta a Rimini il 29 gennaio. La riporta anche Il Sole24Ore: «ieri Massimo D’Alema ha detto che ora arrivano i riservisti, che sono pronti a dare una mano. Ora, a noi serve il contributo di tutti. Ma siamo un partito strano perché siamo l’unico partito in cui i riservisti invece di dare una mano al partito vengono chiamati in guerra e danno una mano all’esercito avversario». E presa di posizione espressa da Michele Emiliano, intervistato da Lucia Annunziata nella trasmissione In mezz’ora, Orfini ha replicato: «Io credo che in questo momento il nostro popolo voglia unità, stiamo provando a praticarla. Veniamo da due giorni a Rimini in cui abbiamo discusso insieme con gli amministratori di tutte le anime del partito, sindaco, presidenti di regione. Mi spiace che qualcuno invece di venire a discutere con noi abbia preferito andare in televisione ad attaccare, accusare, dire bugie, e provare a dividere il partito».

Del resto è già accaduto che i dissidenti interni ad un partito o ad uno schieramento siano finiti definitivamente o provvisoriamente nel campo avversario. Non soltanto Tabacci e Baccini e poi Follini, nonché successivamente Alfano e Casini, si sono allontanati dal fronte berlusconiano, ma anche Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre, Monica Gregori, Carlo Galli, Vincenzo Folino e Giovanna Martelli sono usciti dal PD e alla Camera hanno costituito, insieme a 25 deputati di SEL e a Claudio Fava (già eletto con SEL e poi passato al Gruppo Misto), “Sinistra Italiana – Sinistra Ecologia Libertà”, mentre due eletti Cinque Stelle, cinque di SEL e Corradino Mineo hanno costituito un analogo gruppo al Senato.

In breve è l’escalation del conflitto il principale fattore produttivo di dinamiche relazionali in cui si sviluppano le accuse di tradimento. E non è peregrino ricordare che non sono unilaterali: quante volte, infatti, chi si pone in disaccordo con il leader di un gruppo (un’organizzazione politica, in questi casi) ed è da questi accusato di favorire il nemico, ribatte con un’identica accusa, rimproverando la leadership di avere tradito le proprie radici, venendo meno ai principi e ai valori sulla cui condivisione si era sviluppato il legame. Il dissenziente, cioè, ribatte alla leadership, che lo taccia di eresia, di essere egli il vero custode dell’ortodossia.

Si pensi a quanto riporta la Stampa rispetto alle “bordate” del prof. Aldo Giannulli, il quale rimprovera al M5S un comportamento assai peggio che eretico: un comportamento da Democrazia Cristiana. Ma ancor prima viene alla mente il Sindaco Federico Pizzarotti, che, anche nel suo libro Una rivoluzione normale, accusava il M5S di essere venuto meno ai suoi principi fondamentali, tra cui quello “uno vale uno”, e la cui polemica continua ancora ad inizio 2017, come racconta, tra gli altri, il Giornale. E come del resto si rileva da un suo post sulla sua pagina Facebook del 2 gennaio: «Il punto è semplice: chi fa notare le incongruenze e i gravi errori di una forza politica non è un traditore, né un infiltrato, ma una persona che con onestà intellettuale dice le cose esattamente come stanno, proponendo giuste soluzioni e senza aver paura delle conseguenze di tenere la testa alta. Chi tace, piega la testa e non sa formulare un benché minimo pensiero critico è solo uno yesman. E oggi continuo a vedere molti yesman, ma pochi politici con una loro coerenza e una loro autonomia».

Anche nel campo del centro destra, sia pure con toni e sfumature diverse circolano ragionamenti che potrebbero essere apparentati agli episodi prima citati.

Già a suo tempo, Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi si trovarono a sperimentare sulla loro pelle qualcosa di simile nel 2010. Nella ricostruzione fatta allora da Repubblica si legge: «Avrei preferito che dicesse ‘me ne vado’ – dice in serata il Cavaliere ai suoi – invece non ci pensa proprio: vuole restare e logorarmi. Ma non ho nessuna intenzione di lasciarglielo fare e ora, con il documento approvato dalla Direzione Nazionale, abbiamo lo strumento per sbattere fuori dal partito chi non si allinea alle decisioni». Mentre Fini sosteneva il suo diritto ad avere idee diverse da quelle dominanti nel partito.

Un’esperienza non tanto dissimile pare sia stata quella che ha riguardato l’uscita di Flavio Tosi e Matteo Salvini: su il Post se ne può trovare una sintesi.

Qualcosa di non troppo diverso, sembra che si sia affacciato all’orizzonte di Gianni Cuperlo, almeno stando ad alcune interviste, tra cui quella ad Alessandro De Angelis dell’Huffington Post allorché, raggiunto l’accordo e ottenuta la firma di Renzi sull’impegno a modificare l’Italicum, facendo venire meno la principale ragione di indisponibilità della minoranza PD a votare a favore della riforma costituzionale, ha dovuto fare i conti con la contrarietà proprio della “sua parte”, cioè la sinistra PD, rispetto alla sua decisione di votare Sì. Ma, come si rileva dalla sua intervista, l’ex Presidente del Partito Democratico, si è mantenuto su un registro comunicativo di costante riconoscimento delle ragioni e dei vissuti altrui, di sobria ma non reticente esplicitazione dei propri, senza arretrare dalla decisione assunta, ma contenendo la radicalizzazione dello scontro o, almeno, limitandone le ricadute distruttive sui rapporti con gli altri soggetti.

In chiusura di questi ragionamenti ci scusiamo con le persone qui citate per l’ “uso” che abbiamo fatto delle loro esperienze, ribadendo che l’intento è soltanto quello di riflettere sull’esistenza di processi relazionali che possono accadere nei più diversi contesti, incluso quello della politica.

 

Alberto Quattrocolo

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Le aggressioni a Roberto Speranza e ad Osvaldo Napoli: la radicalizzazione del conflitto dal vertice alla base e ritorno

Nel messaggio agli italiani del 31/12 il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella,  aveva proposto la seguente riflessione: «Internet è stata, e continua a essere, una grande rivoluzione democratica, che va preservata e difesa da chi vorrebbe trasformarla in un ring permanente, dove verità e falsificazione finiscono per confondersi». Queste parole chiudevano il suo commento preoccupato circa l’impiego dell’«odio come strumento di lotta politica».

Il messaggio di fine anno è stato preceduto da un’aggressione ai danni dell’ex deputato di Forza Italia Osvaldo Napoli e seguito da un’altra ai danni di Roberto Speranza.

In entrambi i casi i due politici sono stati fisicamente attaccati in quanto rappresentanti del cosiddetto establishment. Infatti, sulla sua pagina Facebook Roberto Speranza scrive che a lanciargli contro l’iPad è stato «un ragazzo che mi imputava la foto tra Renzi e Erdogan e gridava che andavo ammazzato perché parlamentare del Pd che vende le armi all’Isis».

Nel caso del consigliere comunale di Torino, Osvaldo Napoli, riporta l’Avvenire che gli aggressori hanno detto: «“Siamo un gruppo di cittadini, abbiamo bisogno di notificarle, fra virgolette, un atto”, per poi leggergli il “capo d’imputazione” citando  gli articolo 287 (“Chiunque usurpa un potere politico, ovvero persiste nell’esercitarlo indebitamente, è punito con la reclusione da sei a 15 anni”) 294 del Codice penale (“Attentati contro i diritti politici del cittadino. Chiunque con violenza, minaccia o inganno impedisce in tutto o in parte l’esercizio di un diritto politico, ovvero determina taluno a esercitarlo in senso difforme dalla sua volontà, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”»).

Poche settimane dopo, come ricordato, tocca a Roberto Speranza essere bersaglio di un altro attacco fisico commesso a suo danno per ciò che rappresenta agli occhi dell’aggressore. Al racconto che il parlamentare del Partito Democratico propone su Facebook  segue un commento: «Fate gli affari più sporchi che possano esistere, portate la gente all’esasperazione e ti meravigli???? Quando il lupo ha fame esce dalla tana….. state provocando troppo….». Un altro aggiunge: « Speranza, il tuo aggressore era uno squilibrato, forse da compatire umanamente e tu ci hai rimesso solo l’iPad… Non fare l’eroe da libro cuore e non citare la democrazia che non c’entra niente».

A prima vista si potrebbe rilevare che queste due persone non hanno fatto proprio il “suggerimento” di Mattarella più sopra riportato. Ma, invece, di assumere un approccio valutativo, che qui striderebbe rumorosamente, è più opportuno soffermarsi sulle dinamiche del conflitto che potrebbero sottendere le manifestazioni violente.

In tal senso, del resto, si collocano le parole dello stesso Osvaldo Napoli e, per certi versi, anche quelle scritte dai due autori dei post rivolti a Speranza. Costoro, infatti, sia pur polemicamente, fanno riferimento esplicito o implicito alla dimensione della rabbia (“esasperazione” si legge nel primo commento) e della sofferenza  (“squilibrato forse da compatire umanamente”, scrive il secondo), cioè ai vissuti che avrebbero agito da propulsore delle azioni aggressive messe in atto.

Vale la pena soffermarsi su questi vissuti. Essi sono stati oggetto di interesse da ben prima che si affermassero la psicologia, la sociologia, la criminologia o la mediazione come pratica professionale e ramo di studi. San Tommaso, ad esempio, parlava di: ira biliosa, intendendo lo stato d’animo che si attiva subito dopo aver subito un torto; iracondia, cioè la rabbia duratura che si acutizza ripensando al torto patito; furore, vale a dire l’emozione provata nella consumazione della vendetta. Come San Tommaso, anche Thomas Hobbes considerava quel che accade all’interno del soggetto. Sosteneva, infatti, che la rabbia si attiva quando ci si sente disprezzati e diventa aggressività quando si è mossi dal desiderio di vendetta. Anche Cartesio parlava di aggressività, definendola la collera che si scatena quando qualcuno subisce un torto.

In questi pensatori, dunque, vi era già l’idea di assumere il punto di vista di chi agisce violentemente e ciò li portava ad individuare una componente emotiva determinante alla base della condotta aggressiva. E a proposito di aggressività la Teoria della frustrazione di Dollard e Miller (1939), che è una delle prime teorie su tale aspetto supportata da rilevanti dati empirici e sperimentali, ipotizza che essa sia una risposta indotta da situazioni di frustrazione. In particolare, l’aggressività si attiverebbe quando si impedisce alla persona il raggiungimento di una meta e subirebbe un incremento esponenziale in funzione dell’avvicinamento alla meta. Inoltre, si attiverebbe quando vengono fatte delle promesse alla persona, senza che poi vengano mantenute. Dollard e Miller, però, precisano che non necessariamente ne derivano ritorsioni aggressive  verso quella che è considerata la fonte originaria della frustrazione, ma verso chi per caratteristiche personali (maggiore vulnerabilità o raggiungibilità, ad esempio, e minore potere) si presta facilmente a divenire oggetto dei comportamenti aggressivi. Il che potrebbe spiegare come mai si sia tirato un iPad a Speranza, come se fosse un surrogato di Renzi e di Erdogan, o si sia “arrestato” Osvaldo Napoli e non, per dire, un parlamentare o un ministro in carica.

E.A. Fattah, in Victimology: Past, Present and Future (2000), a proposito della complessa e delicata relazione tra reo e vittima, parla anche di fattori in virtù dei quali un soggetto è scelto come oggetto della violenza: il ruolo sociale costituisce il fattore principale.

Ma sono anche interessanti le riflessioni sul “passaggio all’atto”, cioè sulla traduzione delle emozioni in comportamenti, e in tal caso della rabbia in violenza. Al riguardo si può osservare che quest’ultima, dal punto di vista dell’autore, vale ad assicurare a chi agisce alcuni esiti rilevanti, tra i quali superare la sensazione di impotenza e conseguire la percezione da parte dell’altro. Ciò rinvia al “mi arrabbio dunque esisto” di cui parla Brian Muldoon in The Heart of Conflict, come forma di reazione, emotiva e comportamentale, ad una percezione di mancato riconoscimento di sé (non ti accorgi di me, allora strillo, batto i pugni sul tavolo o ti colpisco).

Ciò che implicitamente o esplicitamente emerge dalle analisi degli autori citati e di altri ancora è che, dal punto di vista dell’aggressore, la vittima se l’è meritato. In sostanza chi commette violenza non si sente colpevole di un comportamento diretto a violare i limiti individuali di una persona, danneggiandola ingiustamente, ma si vive come se stesse reagendo ad una violazione dei suoi diritti, o come se fosse autorizzato da qualche altra istanza. In ogni caso, di nuovo, la vittima è spersonalizzata e, mentre la offendo fisicamente e/o moralmente, non mi sento responsabile della sua sofferenza.

Questo punto di vista, però, non è proprio solo dell’autore della violenza, perché come testimoniano le osservazioni di alcuni dei commentatori della pagina Facebook di Speranza, può essere fatto proprio anche da chi non ha agito la violenza fisica né intende farlo. Il che, nel momento in cui è comunicato al soggetto in questione (Roberto Speranza o Osvaldo Napoli, ma si può anche ricordare l’aggressione di Massimo Tartaglia contro Berlusconi nel 2009), in realtà significa mettere in atto un comportamento che, al pari di quello fisicamente danneggiante, comunica lo stesso messaggio di colpevolizzazione della vittima (tra i commenti sulla pagina del parlamentare PD si legge: “Ma non menatela tanto per un iPad che non ha mai ucciso nessuno”) e di irrilevanza dei suoi vissuti.

Uno degli aspetti intrinseci della violenza è proprio l’indifferenza del suo autore rispetto all’umanità della vittima; e uno dei vissuti della persona che la subisce è proprio quello di essere stato de-umanizzato.

In ambito vittimologico si parla di ri-vittimizzazione allorché alla vittima, anziché accoglienza, ascolto, comprensione e contenimento dei suoi vissuti, vengono proposti feedback di tipo spersonalizzante e colpevolizzante. Si pensi alla donna molestata o violentata cui si rimprovera di essersela cercata per aver indossato un certo tipo di abbigliamento.

Infine, particolarmente interessanti, sempre dal punto di vista degli argomenti proposti in questo Blog, sono le considerazioni relative a quanto accadutogli svolte dallo stesso Osvaldo Napoli. Se ne riportano alcune: «L’aggressione che ho subito davanti a Montecitorio non era certamente rivolta alla mia modesta persona, ma aveva come bersaglio la politica. (…) Il brutto clima che si respira in Italia non è di oggi, esso nasce da lontano e in tanti abbiamo contribuito a crearlo. (…), la violenza del linguaggio sostituisce le argomentazioni perché tutti, smarrito il sentimento del bene comune, ritengono di avere una ragione più forte di qualsiasi altra ragione e da far valere con qualsiasi mezzo. Ma quello che è accaduto a me, davanti a Montecitorio, è quello che troppo spesso accade davanti agli occhi del Paese quando assiste ai dibattiti in Aula. Il linguaggio violento sentito ancora questi giorni nelle Aule parlamentari è un fiammifero acceso lanciato sui cattivi umori che scorrono nel Paese. Mi auguro che la politica recuperi il senso della misura, per il bene della politica stessa e del Paese. Voglio ringraziare tutti, dalle cariche istituzionali ai colleghi di Forza Italia e di tutti i partiti, per le espressioni di solidarietà e di vicinanza ricevute in queste ore. A loro dico: proviamo a stare più sereni se vogliamo riportare serenità fra le persone».

Ciò che il consigliere comunale, ex parlamentare, pone in evidenza, assumendosene anche una parte di responsabilità, è la costruzione di una dinamica estesa, di tipo sociale e culturale, che, caratterizzata da una conflittualità esasperata, porta alla demonizzazione dell’altro e alla sua spersonalizzazione. Atteggiamenti mentali, cioè, che costituiscono potenti fattori di sprigionamento delle pulsioni violente e di trasformazione della rabbia, dell’indignazione (di per sé lecite e perfino irrinunciabili per il progresso di una società), della denuncia e della richiesta politiche (ad esempio, di opporsi al regime di Erdogan e ancor prima di cessare ogni collaborazione con il suo governo) in comportamenti distruttivi.

Le parole di Osvaldo Napoli richiamano assai da vicino quelle pronunciate da Oscar Luigi Scalfaro, nel suo ultimo messaggio di fine anno, nel ’98 al termine del suo settennato da Presidente della Repubblica. Chiudiamo questa riflessione citandole: «Io vorrei fare un appello a tutti, ma, in particolare, ai responsabili dei vari partiti, a quelli che si chiamano i leader, di tutti i partiti: diamo un tono, eleviamo questo tono della politica! La politica è pensiero, è cultura. La politica è pensare al bene comune. È veramente un atto di carità l’azione politica: fu detto da un Pontefice. La politica deve essere l’arte del pensare e del servire. Se non torniamo a questo, se lasciamo scorrazzare persone con il tono dell’irresponsabilità, con il senso – assolvetemi – del trivio… Questo non può essere politica, non lo può essere, non lo sarà mai! Però, attenzione, ché il pericolo è serio. Perché, se il cittadino si allontana, la colpa, allora, è nostra; e senza partecipazione, non c’è democrazia»

 

Alberto Quattrocolo

Dal conflitto tra cittadini “non ascoltati” e leadership politica al “conflitto tra forze politiche” che compromette, di nuovo, l’ascolto

Nelle situazioni in cui una parte più o meno corposa della società sente di non essere stata ascoltata dai governanti finisce, vengono a crearsi i presupposti per un conflitto tra questi e i cittadini-non ascoltati, che può dare luogo al progressivo allargarsi di tale conflitto (che si potrebbe definire “politico-amministrativo”), com’è, forse, naturale che sia, anche su un altro piano: quello che, nella chiave di lettura, un po’ schematica e, quindi, giocoforza riduttiva di questo blog, è stato denominato “conflitto politico”, cioè quello che interessa il rapporto tra forze politiche diverse o che si svolge all’interno di una stessa forza politica.

Non vi sono di per sé risvolti negativi, in tale propagazione del conflitto dal piano dei rapporti tra cittadini e istituzioni politico-amministrative a quello della lotta politica tra partiti e/o movimenti, fintantoché questi ultimi – che si propongano su scala internazionale, nazionale, regionale o locale – si muovono entro i limiti e siano conformi ai principi di base della legalità democratica in senso formale e sostanziale. Si tratta di qualcosa di naturale e congenito, cioè, da sempre intrinseco alla natura stessa delle trasformazioni politiche, sociali, culturali ed economiche del consorzio umano. Peraltro, come per i tanti che li hanno preceduti (i partiti liberali, socialdemocratici, socialisti e comunisti e quelli cristiano-popolari, per dire), la finalità stessa dei movimenti, o partiti, di protesta e/o di proposta alternativa all’esistente, nati dal malcontento attuale, è proprio di colmare la distanza prodottasi, almeno a livello di vissuto, tra la popolazione e le istituzioni politiche.

Il risvolto negativo della traduzione conflittuale del rapporto con le altre forze politiche, si potrebbe, semmai, ravvisare nella possibilità, non tanto eccezionalmente verificatasi, di una radicalizzazione del conflitto politico, con fenomeni importanti di delegittimazione unilaterale o, più spesso, reciproca, che accompagnano e provocano un’escalation tale da compromettere gravemente o perfino annullare ogni forma di ascolto: tanto quello tra le forze politiche in conflitto tra loro, quanto l’ascolto dei cittadini, magari anche di coloro in nome e per assicurare la migliore tutela dei quali si è sviluppato questo o quello specifico movimento politico.

Infatti, quando siamo presi, sommersi, dentro il conflitto, tutti, quindi anche i rappresentanti politici, abbiamo bisogno di poter contare su una certa dose di consenso da parte dei terzi, cioè del pubblico. E ciò può condizionare significativamente il nostro modo di rapportarci proprio con i terzi: cercando di guadagnarne l’appoggio contro il nostro nemico, può accadere che invece di ascoltarli con attenzione, ci rapportiamo con essi con l’animo condizionato da rilevanti e pressanti aspettative circa il loro sostegno e la loro approvazione.

Il passo dall’ascolto per capire all’ascolto per lusingare può essere breve. E, a tal punto, consapevolmente o no, invece di ascoltare le esigenze delle persone, si trasformano queste in strumenti della nostra lotta, riducendo gli individui ad oggetti, cioè, appunto, strumentalizzandoli.

Ascoltare, in conclusione, giova ripeterlo, è una faccenda complessa e delicata, anche perché non è una condizione passiva, ma attiva, che, oltre al comprendere punti di vista, bisogni, paure, frustrazioni, rabbie altrui, implica l’esplicito riconoscimento dell’altro, che è cosa diversa sia dall’approvazione dei suoi pensieri, aspettative, timori, risentimenti e ostilità o dei suoi atti. Si tratta di un’attività, dunque, che si colloca sul territorio della comunicazione, forse la più difficile e complessa delle attività umane.

Una certa circolarità tra un inadeguato ascolto dei vissuti dei cittadini da parte della politica e il condizionamento di tali vissuti sulle decisioni politiche

Probabilmente è risaputo che il mancato ascolto da parte di coloro che rappresentano le istituzioni politiche comprime, o addirittura azzera, la possibilità dei rappresentati, dei cittadini, di essere supportati nel compiere un’elaborazione dei vissuti individuali e collettivi che ne influenzano pensieri, atteggiamenti e comportamenti. Si pensi a come sovente talune angosce, delusioni, frustrazioni e sentimenti di solitudine, di confusione, di smarrimento e di insicurezza presenti nella cittadinanza manifestino una tendenza a tradursi anche in paure, sospetti, fobie e rabbia indirizzati verso obiettivi specifici (normalmente verso minoranze religiose, etniche, culturali o politiche, o verso  categorie, professionali o di altro tipo, oppure verso organizzazioni specifiche, fatte oggetto di categorizzazioni e stereotipi negativi), spesso, in verità, alieni da ogni reale nesso causale con le autentiche fonti del disagio patito, oppure solo parzialmente collegabili con esso. Si possono citare, a titolo esemplificativo, gli stereotipi, i pregiudizi e l’ostilità di cui sono o sono stati fatti segno gli stranieri, i meridionali, i nomadi, i dipendenti pubblici, le banche, i sindacati, gli imprenditori, i magistrati, gli operatori sanitari, i politici di questo o quello schieramento, o di tutti gli schieramenti. E si potrebbe porre mente a come non raramente, in mancanza di un’elaborazione da parte della leadership politica (di maggioranza e di opposizione, a livello nazionale e locale), le suddette rappresentazioni mentali stereotipiche, i pregiudizi e i sentimenti ostili, coltivati da una parte della popolazione – spesso su proposta, incoraggiamento e rinforzo di alcuni partiti -, finiscano poi con il condizionare larga parte della politica, almeno sul piano della comunicazione.

Infatti, tra gli esiti derivanti dalla difficoltà della leadership di supportare e accompagnare l’elaborazione delle ansie, delle frustrazioni e delle angosce, ridimensionandole alfine, se e quando necessario, e, comunque, collocandole nella corretta cornice eziologica, il rischio più grave, spesso inverato, è il seguente: che tali vissuti si traducano in azioni, in “agiti” si direbbe in gergo psicodinamico, posti in essere proprio da alcuni o molti esponenti politici, o addirittura da leader. Che sia per il timore di perdere consensi e potere o per attenuare la frustrazione e l’impotenza del non riuscire a trasformare i pregiudizi e le paure dei cittadini, o che sia per entrambe le ragioni, non raramente sulla scena politica italiana e internazionale sono apparse e appaiono dichiarazioni di rappresentanti istituzionali e addirittura interi programmi politici, o singole proposte o disposizioni di natura normativa, permeati dai sentimenti più pericolosi e meno razionalizzati presenti nella popolazione. Presenti, cioè, nella maggioranza della popolazione, oppure anche solo in una sua parte, magari numericamente minoritaria, ma, proprio perché alterata ed esasperata, particolarmente capace di attrarre l’attenzione e di estendere la propria influenza in senso orizzontale e verticale.

D’altra parte, anche il mondo occidentale ha visto diversi movimenti politici non soltanto compiere gli “agiti” suddetti, ma indurre e stimolare, sfruttare e strumentalizzare le passioni e le pulsioni, anche le più oscure, presenti nelle fasce più frustrate e meno ascoltate della popolazione, per raccogliere i consensi necessari ai loro fini o, addirittura, per cercare un’affermazione plebiscitaria: nel Novecento alcuni di tali movimenti politici si dichiaravano programmaticamente antiliberarli e antidemocratici, intrisi com’erano di aspirazioni totalitarie – tra questi, il partito fascista in Italia e quello nazionalsocialista in Germania, sono gli esempi più devastanti, tragici e sanguinosi, per i loro e per altri interi popoli, di conquista del potere di governo e del suo monopolio -, altri, invece, qualificantisi come democratici, lo erano solo a parole, pur dichiarandosi come i veri difensori delle libertà e dei diritti democratici – ad esempio, il maccartismo negli Stati Uniti tra la seconda metà degli anni ’40 e la prima metà degli anni ’50. Negli anni Duemila, non sono rari i movimenti in Italia e all’estero, che, restando nel campo dello stato democratico di diritto e del rispetto della sua legalità costituzionale – talvolta, in verità, appena al di qua del confine, talaltra ritenendosene addirittura i migliori tutori -, si propongono come i porta-voce genuini di una cittadinanza che non si sente ascoltata nel suo essere delusa, sfiduciata, angosciata, arrabbiata, abbandonata, tradita, ingannata e amareggiata.

Alberto Quattrocolo

La campagna di ascolto lanciata da Renzi offre l’occasione per ribadire che l’ascolto politico non è un’azione di seduzione politica

Nell’ambito dell’Assemblea Nazionale del Partito Democratico del 18 dicembre scorso, Renzi ha dichiarato «Chiedo al Pd che tutto il mese di gennaio sia dedicato ad una campagna d’ascolto sul territorio». Il termine ascolto ha destato il nostro interesse. Perché?

Perché, dal punto di vista di questo blog, pare un’iniziativa meritevole di particolare interesse. E perché non sarebbe male, se fosse una prassi costante, svolta da tutte le forze politiche.

Ma che tipo di ascolto ha in mente il Segretario del PD? Quale tipo di ascolto andranno a svolgere coloro che vi daranno attuazione?

Non lo sappiamo. Quindi, ci limitiamo a considerazioni di carattere generale riguardo al fatto che  la realizzazione dell’ascolto politico non è immune da difficoltà rilevanti e può capitare che si diano situazioni in cui tale attività, posta in essere dal personale politico, di fatto sia permeata da un atteggiamento che ne contraddice alla radice le premesse e le finalità.

Ciò si verifica quando l’ascolto non è svolto per realizzare il suo fine, che è soltanto quello di ascoltare, ma per conseguirne un altro ulteriore. In tali casi, l’ascolto diventa lo strumento di un’azione comunicativa tesa a modificare pensieri, sentimenti, emozioni e comportamenti dell’altro.

Così, ad esempio, se affermando di essere interessato ad ascoltare le ragioni del dissenso di alcuni cittadini (costituenti o meno un gruppo organizzato), in ordine ad un determinato provvedimento legislativo o di altra natura, il personale politico rappresentativo di una maggioranza di governo tenta di persuadere costoro dell’infondatezza delle loro ragioni, e lo fa senza aver segnalato di averle prima considerate seriamente e comprese, non può dire di avere realmente compiuto un momento di ascolto politico.

Infatti, è probabile che ne derivi in tali cittadini un vissuto di mancato riconoscimento, condito dalla sensazione che il personale politico li giudichi negativamente, li disapprovi, solo perché essi hanno opinione e stati d’animo diversi da quelli attesi o auspicati da quei politici: il che può procurare nei cittadini (non) ascoltati una reazione di disapprovazione verso quel personale politico, da essi percepito come autoreferenziale.

Si crea, dunque, in tal caso, un vuoto. Un vuoto, che può essere immediatamente riempito dalle forze politiche concorrenti, nel caso in cui queste sappiano proporsi come interlocutori capaci di sintonizzarsi con i cittadini non ascoltati, risultando ai loro occhi come comprensivi e fedeli interpreti delle loro ragioni e dei loro vissuti.

A volte, però, anche in tale ipotesi non si realizza un vero ascolto politico, poiché le altre forze politiche, che subentrano nel suddetto “vuoto di ascolto”, non riescono ad essere specchio fedele del dissenso di quella popolazione, cercando invece di accentuarlo per i propri fini competitivo-conflittuali.

Ciò fa sì che in questa relazione triangolare sia possibile che i politici di governo finiscano con l’irrigidirsi, arrivando a percepire i cittadini dissenzienti come irragionevolmente ostili o come schierati con gli avversari politici, oppure che li ritengano da questi “plagiati”.

Quando si verificano circostanze di questo tipo, gli eventuali, successivi, ripensamenti dei politici di governo, invece di essere percepiti come realmente tali – cioè come frutto di una riflessione supportata dall’arricchimento del discorso a seguito della discussione con i cittadini – possono essere rappresentati come cedimenti alla forza prevalente delle controparti politiche. Queste, infatti, avrebbero buon gioco a sostenere di essere state capaci di coagulare attorno a sé il consenso, avendo saputo accogliere e legittimare il malcontento e il dissenso di quella parte della cittadinanza.

Ciò rende per il politico di governo più arduo sviluppare e soprattutto comunicare i suoi eventuali ripensamenti rispetto alle decisioni precedentemente prese. Infatti, il fondato timore  è che tali ripensamenti  siano interpretati dalle forze di opposizione e dai cittadini come una resa, come una manifestazione di debolezza politica, o come confessioni implicite di un errore, che però non si vuole ammettere.

In breve, in tali casi, per il politico di governo si tratta di temere di perdere la faccia e di procurare una vittoria agli avversari politici.

Così, invece  di rafforzare il legame e il rapporto di fiducia e riconoscimento reciproci tra personale politico e cittadini (fiducia e riconoscimento non sono sinonimo di voto nell’urna e non sarebbe male se sussistessero sempre anche tra politici ed elettori di schieramenti diversi), grazie anche all’attività di sensibilizzazione svolta dalle diverse forze politiche e sociali, si incrementano gli aspetti di diffidenza e sospetto.

Analogamente non è ascolto politico, nel senso proposto in questo blog quello di chi, relazionandosi con i cittadini, crede (e cerca di far credere) di voler dare loro voce, mentre in realtà amplifica, suggerisce, insinua pensieri e sentimenti.

Ciò accade anche quando il personale politico propone, calandola dall’alto, un’interpretazione del disagio o della sofferenza dei cittadini, riconducendola ad una causa specifica, di cui esalta la valenza di male assoluto. In particolare, in tal caso quello che dovrebbe essere l’ascolto, il dare voce ai cittadini, si traduce nella denuncia di un fatto dannoso, magari generato, provocato oppure aggravato o non convintamente contrastato, dagli avversari politici. Ciò, di per sé, non è un male, ma può contraddire il senso dell’ascolto, che è quello di comprendere e far sentire riconosciute e rispettate le persone ascoltate, e non è quello di strumentalizzarne i vissuti, né di crearli. Se ciò si verifica, si dà luogo ad un’accentuazione del normale rapporto asimmetrico tra il politico e i cittadini (il primo, infatti, è detentore di un sapere e di competenze che i cittadini non hanno), spingendolo fino all’infantilizzazione dei secondi. Il che non soltanto significa rispettarli poco come persone e trattarli come un gregge, ma anche rischiare di procurare un ostacolo alle loro possibilità di riflessione autocritica e all’assunzione da parte loro di una certa dose di responsabilità nell’appoggio a certe decisioni politiche.

 

Alberto Quattrocolo