13 settembre 1982: la legge Rognoni-La Torre introduce il reato di associazione di tipo mafioso
Il 13 settembre 1982, con l’approvazione della legge n. 646 (detta “”Rognoni-La Torre”” dal nome dei promotori), venne introdotto come fattispecie autonoma il reato di associazione di tipo mafioso, inserendo un apposito articolo (416-bis) nel V titolo del Codice Penale, nella parte disciplinante i delitti contro l’ordine pubblico.
Il preesistente art. 416 c.p. (associazione per delinquere) si era rivelato inefficace di fronte alle dimensioni del fenomeno mafioso e alle sue manifestazioni tipiche: tra le finalità perseguite dai soggetti uniti dal vincolo associativo ve n’erano anche di lecite, e ciò limitava enormemente le possibilità di applicare quella norma.
La legge 646 definì invece i tratti specifici dell’associazione di tipo mafioso, evidenziando in particolare l’uso dell’intimidazione e la condizione di soggezione che ne deriva:
“L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.”.
La menzione dell’interferenza nelle attività di voto fu inserita nel 1992, con la cosiddetta legge Falcone – Borsellino, a seguito delle stragi di Capaci e Via D’Amelio. L’art. 416-bis dispose inoltre la confisca dei beni, per tutte le associazioni riconducibili a quelle di tipo mafioso, comunque localmente denominate, e la legge 109/1996 introdusse poi la previsione del riutilizzo dei beni sequestrati per finalità sociali assegnandoli a enti locali, associazioni o cooperative.
Pio la Torre fu tra i primi a riflettere sull’importanza strategica del patrimonio per i mafiosi, avendo osservato in prima persona l’evoluzione della mafia di un tempo, quella agraria dei “gabellotti”
e dei “campieri” che legava il proprio potere al controllo del latifondo.
Nato nel 1927, attivista del PCI, ancora giovanissimo alla Camera del Lavoro di Corleone raccolse l’eredità politica e morale del sindacalista Placido Rizzotto, ucciso nel 1948 da Luciano
Liggio; avviò il movimento di occupazione delle terre incolte da parte dei contadini, lanciando lo slogan “la terra a tutti” e, nei duri scontri che seguirono, fu incarcerato per un anno e mezzo. Tornato in libertà, lanciò una massiccia campagna di raccolta firme per la messa al bando delle armi atomiche. Consigliere comunale a Palermo, Segretario Regionale della CGIL e del PCI
siciliano, eletto nel 1968 all’Assemblea Regionale Siciliana e dal 1969 dirigente nazionale del PCI a Roma, nel 1972 fece il suo ingresso alla Camera dei deputati, dove restò per tre legislature partecipando ai lavori delle commissioni Bilancio e Agricoltura e della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia.
Le posizioni via via ricoperte gli consentirono di vedere i Corleonesi conquistare Palermo e la leadership di Cosa Nostra, e gli fecero comprendere le dinamiche della trasformazione di una
mafia non più ancorata ai vecchi meccanismi di accumulazione del capitale attraverso le rendite fondiarie, bensì proiettata in una dimensione transnazionale e globalizzata. Il sistema di potere stava evolvendo, dal latifondo delle origini all’edilizia urbana, grazie alle connivenze con la politica locale, fino all’imprenditoria legale e illegale con agganci nell’alta finanza internazionale.
Il politico siciliano capì che per dare una svolta alla lotta contro le organizzazioni criminali si rendeva fondamentale colpirle nelle ricchezze e nei patrimoni accumulati, indebolirle
diminuendo il loro prestigio e potere. Era infatti grazie alle floride entrate garantite dai nuovi business — su tutti il traffico di droga — che le cosche rafforzavano la loro posizione all’interno della società siciliana, pronte ormai a sedersi al tavolo degli affari con rappresentanti della politica,
dell’imprenditoria, delle stesse istituzioni.
La Torre non ebbe paura di fare i nomi dei conniventi politici, memorabili i suoi giudizi su Vito Ciancimino, assessore ai lavori pubblici e poi sindaco ai tempi del c.d. “Sacco di Palermo”; dalla sua analisi del rapporto tra il sistema di potere mafioso e pezzi dello Stato emerge la sua convinzione che:
[la] compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico). La mafia è quindi un
fenomeno di classi dirigenti.
Per gli uomini dello stato impegnati nella lotta alla mafia, la situazione era drammatica, anche per gli insuccessi registrati in ambito giudiziario, con la raffica di assoluzioni per insufficienza di prove che, sul finire degli anni Sessanta, chiuse i processi alle cosche palermitane. La legge che
prese il nome da lui e dall’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni costituì una “rivoluzione copernicana” per le sue ricadute operative immediate.
La legge ha reso possibili indagini sul tenore di vita, sul patrimonio e sulle disponibilità finanziarie
di tutte le persone indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, ma anche nei confronti dei familiari e conviventi e di quelle persone fisiche o giuridiche, associazioni o enti, dei cui patrimoni costoro risultassero poter disporre. La confisca scatta quando il soggetto non riesce a dimostrare la legittima provenienza delle ricchezze sotto sequestro, e i beni confiscati finiscono nella disponibilità dello Stato.
“Cosa più brutta della confisca dei beni non c’è. Quindi la cosa migliore è quella di andarsene”, dichiarò il mafioso Francesco Inzerillo, sintetizzando il pensiero di Cosa Nostra circa la confisca dei beni: il carcere o l’uccisione sembrano meno dannosi del sequestro dei beni, che permette di colpire l’organizzazione dove è più vulnerabile.
Rientrato a Palermo nel 1981 come segretario regionale del PCI, promotore della battaglia politica contro la militarizzazione del territorio a Comiso, Pio la Torre non vide diventare legge dello stato la proposta da lui presentata in Commissione: il 30 aprile 1982 fu assassinato a Palermo insieme al compagno di partito Rosario Di Salvo. Il quadro delle sentenze intervenute sul caso ha permesso di individuare nell’impegno antimafia la causa determinante della condanna a morte inflittagli; un collaboratore di giustizia ha identificato i mandanti dell’omicidio nelle persone di Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Antonino Geraci.
Le nuove possibilità investigative e giudiziarie rese possibili dall’introduzione nel Codice penale
dell’art. 416 bis trovarono una prima conferma pochi anni dopo, con l’istruzione del cosiddetto maxiprocesso alle cosche palermitane. Ma fu il vasto movimento innescato nell’opinione pubblica dalle stragi del 1992-93 a dare nuova linfa alle intuizioni di Pio la Torre, avviando ulteriori riflessioni sulla centralità della dimensione economica nel contrasto alle mafie. Cittadini, associazioni e soggetti collettivi di vario orientamento politico, religioso, ideale presero coscienza del fatto che non era più possibile delegare a magistrati e forze dell’ordine la lotta alla mafia:
si doveva agire in ambito educativo, nell’animazione democratica del territorio, per coinvolgere i cittadini nell’affermazione della legalità quotidiana, nella realizzazione di quei principi costituzionali che sono l’unico vero antidoto alla cultura mafiosa e all’impresa illegale.
“Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, il neonato network associativo per l’affermazione della legalità e il contrasto al crimine organizzato, raccolse oltre un milione di firme per un disegno di legge che introducesse il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati alle cosche. Con la legge n. 109/1996 i beni immobili confiscati potevano rimanere nel patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile oppure, tramite l’Agenzia del Demanio, essere trasferiti ai Comuni per finalità istituzionali o sociali, con la successiva assegnazione in
comodato a enti, associazioni del volontariato e della società civile.
Oltre ai danni materiali, la legge ha avuto un altro innegabile effetto simbolico, etico ma anche molto concreto, offuscando l’immagine di prestigio e preminenza che gli “uomini d’onore” tendono ad accreditarsi nei territori che controllano. Pur con innegabili criticità e un supporto governativo altalenante, grazie alla legge sono nate in Sicilia, Calabria e Puglia esperienze imprenditoriali e
cooperativistiche, dimostrando nei fatti che lavoro e dignità sono compatibili e che è praticabile una seria alternativa al controllo mafioso dell’economia e del territorio.
Silvia Boverini
Fonti:
www.archiviopiolatorre.camera.it;
www.piolatorre.it;
www.wikimafia.it;
www.wikipedia.org;
L. Frigerio, “La confisca dei beni alle mafie”, www.legalite.net
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