1967, Muhammad Ali rifiuta l’arruolamento per il Vietnam
La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato ‘negro’, non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Allora portatemi in galera. Siete voi il mio nemico, il mio nemico è la gente bianca, non i Vietcong i cinesi o i giapponesi. Voi siete i miei oppositori se voglio la libertà, siete voi i miei oppositori se voglio giustizia. Siete voi i miei oppositori se voglio uguaglianza. Voi non mi sosterrete mai in America per il mio credo religioso. E volete che vada da qualche parte a combattere. Ma difenderete mai voi me qui a casa?
Il 28 aprile 1967 Muhammad Ali rifiuta di combattere nella guerra del Vietnam, dichiarandosi pubblicamente obiettore di coscienza, e per questo viene arrestato, accusato di renitenza alla leva, privato del titolo di Campione del Mondo dei pesi massimi e della licenza per combattere sul ring. Una scelta coraggiosa sotto tutti i punti di vista: prima di essere riabilitato passano oltre tre anni, tra l’altro nell’età migliore per un pugile, dai venticinque anni ai ventotto, durante i quali perde ingaggi milionari e subisce il linciaggio mediatico di una grossa parte degli Stati Uniti, che lo giudica un vigliacco. Ma la sua battaglia lo rende un’icona nella controcultura degli Anni Sessanta e un simbolo per il popolo nero e per tutti gli oppressi della terra.
No, non andrò a diecimila miglia da casa per aiutare a bruciare e assassinare un’altra nazione povera solo per conservare la dominazione dei padroni bianchi sui popoli di pelle scura in tutto il mondo. […] Mi hanno avvertito che prendere questa posizione metterà a rischio il mio prestigio e potrebbe farmi perdere milioni di dollari che guadagnerei come campione di boxe. Ma non disonorerò la mia religione, la mia gente e me stesso per diventare uno strumento per la riduzione in schiavitù di coloro che stanno combattendo per la giustizia, la libertà e l’uguaglianza.
Evita il carcere, ma al momento della sua dichiarazione non può esserne certo. Negli anni Cinquanta Elvis Presley aveva sfruttato la leva obbligatoria, che avrebbe potuto evitare facendosi assegnare ai servizi speciali, per rifarsi l’immagine; Ali potrebbe fare la stessa cosa, invece sceglie una strada che polarizza ancora di più la società americana.
Figura d’eccezione dello sport mondiale del XX secolo, il loquace Ali è solito parlare in un modo polemico (“le uniche cose più veloci dei sui pugni e dei suoi piedi erano la sua mente e la sua bocca”) che l’America tradizionale non è ancora pronta ad ascoltare dalla voce di un giovane nero. Porta il giocoso trash-talking della tradizione afro-americana fuori dal campo di basket e dagli angoli delle strade, mettendo in scena sui compassati media statunitensi le rime e il flow che, decenni dopo, diventeranno stilema dei rapper più famosi, e trasforma profondamente il ruolo e l’immagine dell’atleta afroamericano: secondo la scrittrice Joyce Carol Oates, fu uno dei pochi sportivi a “definire con i suoi termini la propria reputazione pubblica”.
Poco dopo aver sconfitto Liston, il 25 febbraio del ‘64, il nuovo campione dei pesi massimi annuncia di aver cambiato il suo “nome da schiavo”, Cassius Clay, in Muhammad Ali, quello scelto per lui dalla setta separatista di Elijah Muhammad, la Nation of Islam, che preoccupa i benpensanti e l’FBI (ma anche diversi attivisti per i diritti civili) per il suo rifiuto dell’integrazione razziale (aderirà in seguito all’Islam più tradizionale); ai molti giornalisti sportivi e rivali che rifiutano di rivolgersi a lui con il suo nuovo nome risponde: “So dove sto andando e so la verità e non devo essere quello che voi volete che io sia. Sono libero di essere quello che voglio.”.
Proprio nel ‘64 Ali era stato classificato ai test dell’U.S. Armed Forces come “abile ai servizi sedentari” in quanto “his writing and spelling skills wera sub-par” (gravi deficit nella lingua scritta); ma nel ‘67 la guerra in Vietnam è nel terzo anno di inutile escalation, i soldati impegnati oltre oceano sono 47.000 e non bastano a vincerla: perciò viene abbassata la soglia minima di punteggio ai test e l’ufficio leva di Louisville riclassifica Cassius Marcellus Clay come “immediatamente arruolabile”, inducendolo al clamoroso rifiuto.
Il suo pacifismo, la sua amicizia con Elijah Muhammad e Malcolm X, le sue dichiarazioni contro la guerra irritano politici, vertici militari e probabilmente anche il presidente Lindon Johnson, che ha ereditato da John Kennedy il problema-Vietnam e non sa più come risolverlo. L’opinione pubblica si indigna, mettere in discussione l’intervento militare è, come minimo, “mancanza di rispetto verso i ragazzi che muoiono laggiù”, e due leggendari campioni dei massimi (bianchi) dichiarano: “Clay ha disonorato il titolo e la bandiera americana” (Gene Tunney) e “Bisogna esiliarlo, cacciarlo dalla nostra terra” (Jack Dempsey).
Ma per molti giovani che cominciano a contestare l’intervento in Vietnam nelle università Muhammad Ali è un idolo: alla Howard University di Washington accorrono in 4000 ad ascoltare le sue parole contro il conflitto in corso; la sua presa di posizione contribuisce a incoraggiare Martin Luther King a schierarsi contro la guerra. Il filosofo Bertrand Russell gli scrive:
Nei prossimi mesi il suo governo cercherà indubbiamente di danneggiarla in tutti i modi, ma io so che lei si rende conto di parlare a nome della sua gente e degli oppressi di tutto il mondo. Cercheranno di spezzarla, perché lei è il simbolo di una forza che non riescono a distruggere, cioè la ritrovata consapevolezza di un popolo deciso a non farsi più massacrare, degradare dalla paura e dall’oppressione. Lei ha il mio appoggio incondizionato.
Alle 8.30 del 28 aprile 1967, Ali è convocato dalla Commissione Locale di Trasferimento. Test e visite, in fila con altri ragazzi pronti per l’arruolamento, poi alle 10 il tenente Steve Dunkley pronuncia la formula di rito: “Cassius Marcellus Clay, esercito, faccia tre passi avanti per prestare giuramento”. Ali resta nella fila. L’ufficiale ripete la formula. Stessa reazione. Un superiore chiama Ali in un’altra stanza, gli spiega che se rifiuta l’arruolamento lo aspetta il carcere. Il suo avvocato ha in mano una lettera riservata che gli garantisce la scappatoia di prestare servizio militare a Houston in attesa che si esauriscano i ricorsi. Lo riportano nell’altra stanza, dove sono arrivati anche due funzionari dell’FBI. Dunkley ripete per la terza volta la formula, Ali va alla scrivania e firma la dichiarazione di rifiuto. Appena le agenzie battono la notizia si scatena un pandemonio. La Commissione Pugilistica dello Stato di New York gli toglie la licenza di pugile.
Il 20 giugno, al processo, il pubblico ministero conclude: “Signor giudice, non possiamo lasciare andar libero quest’uomo. Se lui se la cava, tutti i neri diventeranno musulmani per passarla liscia allo stesso modo”. In pochi minuti una corte di uomini bianchi stabilisce che le motivazioni religiose non sono sufficienti per giustificare il rifiuto all’arruolamento e condanna Clay a 5 anni di carcere e 10.000 dollari di multa. La WBA lo dichiara immediatamente decaduto e vara un torneo per proclamare un nuovo campione. Muhammad Ali è sportivamente finito.
Cominciano i ricorsi: il 20 giugno ‘70 la Corte Suprema degli Stati Uniti decide con verdetto unanime che l’arruolamento possa essere rifiutato per motivi religiosi. L’opinione pubblica ormai è cambiata, l’America benpensante si è accorta che la guerra nel Sud Est asiatico non è come l’avevano dipinta politici e militari, e Muhammad Ali vince la sua battaglia, tuttavia sul piano sportivo le cose si muovono più lentamente: gli restituiscono il passaporto ma non la licenza pugilistica, perché la Commissione di New York non torna sulla decisione. Si trova una scappatoia nello stato della Georgia e in ottobre Ali riprende la sua luminosa carriera. E’ stato lontano dal ring per 3 anni, 7 mesi e 4 giorni, i migliori nella vita di un atleta, ha perso borse milionarie, ma è diventato un simbolo.
I suoi incontri con Foreman in Zaire (“the Rumbe in the Jungle”) e Frazier a Manila hanno acquisito valenza iconica per l’immaginario mondiale, non solo in ambito pugilistico; nominato “sportivo del secolo” dai maggiori media del pianeta, la sua figura carismatica è stata celebrata da innumerevoli pellicole e pubblicazioni. In una delle ultime apparizioni pubbliche, in veste di tedoforo alle Olimpiadi di Atlanta nel ‘96, accende la fiamma olimpica scosso dai tremiti del morbo di Parkinson, mostrandosi al mondo per sensibilizzarlo sulle malattie genetiche e sulle discriminazioni nei confronti dei disabili. Continua fino all’ultimo a impegnarsi in azioni a sfondo umanitario; nel ‘90, grazie alla sua mediazione, quindici giovani soldati americani lasciano le carceri irachene, e nel 2000 l’ONU lo nomina Ambasciatore di Pace.
Ali muore il 3 giugno 2016. Come egli stesso ebbe a dire:
I campioni non si fanno nelle palestre. I campioni si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione.
Silvia Boverini
Fonti:
www.it.wikipedia.org; www.radio24.ilsole24ore.com; V. Peroncini, “Cassius Clay, il gigante buono leggero come una farfalla, dentro e fuori”, www.artspecialday.com; L. Panella, “Morto Muhammad Ali, la leggenda del pugilato sempre in prima fila per i diritti civili”, www.repubblica.it; M. Rubin, “Muhammad Ali e i quattro modi in cui ha cambiato l’America”, www.rollingstone.it; D. Redaelli, “Boxe, 76 anni fa nasceva Ali. Quel no al Vietnam che gli costò una condanna”, www.gazzetta.it
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