1942, inizia la seconda battaglia sul fiume Don

So che per qualcuno sarà ridicolo quello che sto per dire, ma la differenza tra la prima e la seconda guerra mondiale è la stessa che c’è tra il rugby e il calcio: la guerra antica/il fattore terra.
Il calcio è più veloce, si fanno i blitz, la guerra lampo, il contropiede, c’è il possesso di palla, il fattore tempo e c’è la novità del pubblico che è coinvolto nel conflitto. Per la prima volta nella guerra moderna era ammesso il tiro a segno sui civili con ogni tipo di arma disponibile. La seconda guerra mondiale è stata una gara tra potenze industriali, tra chi aveva le armi più potenti, i mezzi più veloci, più micidiali, e a volte una gara tra chi ha avuto prima le armi segrete e quelle più semplici, l’atomica e il kalajnikoff.
Gli italiani furono mandati a giocare a calcio con un pallone da rugby.
(M. Paolini, “Quaderno del sergente”)

L’11 dicembre 1942, nel settore sud del fronte orientale della Seconda Guerra Mondiale, l’Armata Rossa avviò una serie di azioni belliche preliminari a quella che la storiografia internazionale ricorda come Operazione Piccolo Saturno ma per la storia militare italiana fu la Seconda Battaglia Difensiva del Don, il cui esito si tradusse in una disfatta materiale e simbolica per l’Asse Roma-Berlino.

L’8ª Armata italiana in Russia (ARMIR), al comando del generale Italo Gariboldi, era stata attivata a luglio per potenziare il corpo di spedizione già presente sul fronte orientale e contava quasi 230.000 uomini, di cui circa 57.000 alpini; avversata da molti generali del Comando Supremo, corrispondeva alle esigenze di prestigio di Mussolini e alle richieste di supporto di Hitler.

Le forze italiane non vennero impegnate accanto alle formazioni mobili tedesche nella grande avanzata dell’estate 1942 verso il Volga e il Caucaso, ma furono collocate lungo i 40 km del fronte sud, in copertura ai tedeschi che combattevano a Stalingrado, in mezzo a reparti alleati ungheresi e romeni lungo il corso del fiume Don: i tedeschi infatti utilizzarono le deboli divisioni alleate in funzione anti-partigiana o per mantenere le linee del fronte, mentre per sfondare le linee nemiche fecero affidamento sulle proprie armate. Le peculiarità dei corpi scelti del Regio Esercito non furono valorizzate in un contesto ove tutti i reparti venivano impiegati per la tenuta delle linee, con gli uomini sovente esposti al tiro dei cecchini russi: così gli alpini, truppe scelte da montagna, furono inizialmente destinati alle pianure del Caucaso assieme ai loro muli, mentre i bersaglieri, truppe d’assalto e da movimento rapido, furono lasciati ad ammuffire nelle trincee. Pietro Gay, comandante del 3º Reggimento artiglieria da montagna, scrisse una lettera di protesta all’allora Presidente del Senato italiano, che si concludeva con queste parole:

Io affermo e denuncio che, non so se per ambizioni o incompetenze di comandanti o per altre ragioni, si sta addivenendo a una determinazione d’impiego delle truppe alpine che non esito a definire bestiale e delittuosa.

Gay fu rimosso dall’incarico da Mussolini nel dicembre 1942. La lettera è integralmente riportata nel romanzo di Giulio Bedeschi “Centomila gavette di ghiaccio”.

Dopo una prima offensiva sovietica nell’estate del ’42, che impegnò anche le truppe italiane, in novembre i tedeschi a Stalingrado furono accerchiati e poco dopo i russi sferrarono l’operazione Piccolo Saturno, con lo scopo di allontanare il fronte tedesco dalla sacca di Stalingrado.

Con attacchi violenti alle posizioni italiane, le meno dotate di mezzi di tutto lo schieramento, una superiorità numerica in rapporto di sei a uno e la preponderanza assoluta nei corazzati, il piano sovietico prevedeva lo sfondamento del fronte e l’aggiramento delle unità italiane. L’11 dicembre l’Armata Rossa attaccò a nord le Divisioni Ravenna, Cosseria e 385ª Germanica e a sud la 3ª Armata Romena; mentre dai superiori Comandi italiani giungevano soltanto messaggi di incitamento a tenere duro con fede incrollabile, le truppe sovietiche travolsero le retrovie sconvolgendo i servizi logistici e i collegamenti, avvolsero i reparti rimasti in prima linea e ripresero possesso del territorio.

Tra il 16 e il 17 dicembre arrivò per i primi reparti italiani l’ordine di ripiegare: la situazione era disperata, l’equipaggiamento invernale fortemente deficitario o addirittura assente, le armi obsolete e a corto di munizioni, il cibo iniziava a scarseggiare e l’ARMIR era stata accerchiata. Dalla metà di gennaio il ripiegamento fu esteso anche agli alpini, che per ultimi erano rimasti a coprire il fronte del Don, riparando la ritirata di altre grandi unità. I soldati italiani coprirono circa 120 km a piedi, senza cibo, continuamente attaccati da piccole incursioni sovietiche, nella neve alta e con punte di -42°C: i feriti e congelati sfiorarono le 30.000 unità; nelle parole di un testimone, furono “lacrime e dita mozze, piedi verdi di cancrena, fame e pidocchi”. Solo dopo il 26 gennaio ’43 e la battaglia di Nikolajevka (oggi Livenka) i militari italiani sopravvissuti raggiunsero le retrovie.

Qualche volta, il percorso riservò delle sorprese, come narrato da Rigoni Stern:

Sento che ho fame e il sole sta per tramontare. Passo lo steccato, una pallottola mi sibila accanto. I russi ci tengono d’occhio. Corro e busso alla porta dell’isba, entro. Soldati russi, armati, stella rossa sul berretto. Io ho il fucile e li guardo, loro mangiano. Prendono col cucchiaio di legno dalla zuppiera comune, mi fissano col cucchiaio sospeso nell’aria… “Mnié khocetsia iestj” – “Datemi da mangiare”. Una donna mi riempie il piatto di latte e miglio, faccio un passo avanti, metto il fucile in spalla, mangio… I russi mi guardano, non fiata nessuno, solo i cucchiai. “Spaziba”, “Pasausta”. Mi guardano uscire senza che si siano mossi.
…così è andato questo fatto nel febbraio 1943, durante la ritirata di Russia. E oggi a pensarci non mi sembra affatto strano. Sono entrato, ho chiesto permesso… In quel momento non eravamo nemici.

Nel corso del ripiegamento maturò invece, tra ufficiali e soldati italiani, una generale ostilità nei confronti dell’alleato germanico, spesso protagonista di episodi di scarsa solidarietà verso gli italiani oltre che di azioni criminali nei confronti dei civili locali. La realtà fu che i Comandi italiani non avevano previsto la ritirata e nulla era stato approntato in tal senso, eppure

[…] era la presenza di mezzi di trasporto che poteva fare la differenza, garantendo pezzi anticarro e munizioni, viveri e generi di conforto, collegamenti radio e assistenza medica: quello che avevano i reparti tedeschi che fecero la ritirata con il corpo alpino.

Le veline del regime fascista, che esaltavano “le gravi perdite inflitte al nemico”, tentarono di nascondere la realtà della disfatta; nel finale del romanzo di Bedeschi, i militari nei treni che rientrano in Italia immaginano di essere festeggiati dalla popolazione, ma le sofferenze dei loro corpi non devono essere viste e i vetri dei treni, giunti al Brennero, vengono oscurati:

– La popolazione non vi deve vedere: è l’ordine – spiegò seccamente al più vicino grappolo d’uomini che si affannavano sbracciandosi dal finestrino.
– Non abbiamo la peste, noi! Siamo gli alpini che tornano dalla Russia, cavallo vestìo da omo! – gli gridò esasperato Scudrera, mentre il treno già si muoveva.
– Che alpini o non alpini! Ma vi vedete? – urlò allora ai rinchiusi il ferroviere; – vi accorgete sì o no, Cristo, che fate schifo?

Tra marzo e maggio del 1943 i resti dell’ARM.I.R. furono rimpatriati: mancavano all’appello 84.830 uomini. Oggi, dopo approfondite indagini del Ministero della Difesa, il numero degli italiani che non hanno fatto ritorno dal Fronte Russo risulta di circa 100.000; tenuto conto che circa 5.000 erano caduti per i fatti d’arme antecedenti all’11 dicembre, le perdite della ritirata furono di 95.000 uomini. Particolarmente colpito fu il Corpo d’armata Alpino: per riportare dalla Russia gli 11.000 alpini superstiti bastarono quattro tradotte, all’andata ce ne erano volute 55.

Secondo i dati più recenti, desunti dalla documentazione esistente negli archivi russi, 25.000 militari italiani sono morti combattendo o di stenti durante la ritirata e 70.000 sono stati fatti prigionieri. Questi prigionieri furono costretti a marciare per centinaia di chilometri e poi a viaggiare su carri bestiame per settimane, senza mangiare, senza poter riposare la notte, con temperature siberiane. Coloro che riuscirono a raggiungere i lager di smistamento – improvvisati, disorganizzati, con condizioni igieniche medioevali – erano talmente denutriti e debilitati che le epidemie di tifo e dissenteria ne falciarono ben presto la maggior parte. Solo tra il 1945 e il ‘46 circa 10.000 sopravvissuti furono restituiti dall’Unione Sovietica.

Silvia Boverini

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Fonti:
www.unirr.it; www.it.wikipedia.org; G. Tedeschi, “Centomila gavette di ghiaccio”; M. Rigoni Stern, “Il sergente nella neve”; M. Paolini, “Quaderno del sergente” (allegato al DVD “Il sergente”, Einaudi/Stilelibero); F. Tegani, “16 dicembre 1942. Inizia la ritirata di Russia”, www.ilritaglio.it; M. Innocenti, “16 dicembre 1942: la morsa russa sugli alpini”, www.ilsole24ore.com; A. Ferioli, “Un testimone della resistenza dei prigionieri italiani in Russia”, www.bibliotecapersicetana.it

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