1916: inizia la settima battaglia dell’Isonzo, tre giorni di carneficina
Certo che la stanchezza, la fatica, l’ebetudine, la macerante attesa, e poi le atroci esperienze, l’odore di interi reggimenti accatastati ad aspettare il destino, e quei volti destinati allo spasimo, di quegli uomini che sbranavano del manzo malvagio nell’ultimo sole della lor vita, e inutilmente deglutivano l’ultimo pane, certo tutto questo non era fanfara d’orgoglio. Né il lamento degli abbandonati su da le forre paurose, tra le due linee; né l’odor funebre, a ventate, sulla scheggiata groppa del monte; né i cenci, né il sangue, né le mosche verdi d’attorno l’orrida turpitudine della morte: né il sibilo dei pronti colpi lungo gli orecchi, né lo schianto atroce di quegli altri, che arrivavan da via.
C. E. Gadda, “Impossibilità di un diario di guerra”
La valle del fiume Isonzo fu teatro delle maggiori operazioni militari sul fronte italiano dal 1915 al 1917, fino alla disfatta di Caporetto. Vi trovarono la morte oltre 300.000 soldati, fra italiani e austroungarici; dodici battaglie, che, a parte la conquista di Gorizia, fruttarono al Regio Esercito guidato dal generale Cadorna ben pochi successi; vi combatté anche Carlo Emilio Gadda, che partì volontario e fu fatto prigioniero dagli austriaci proprio a Caporetto: lo scrittore stilò un accurato recosonto giornaliero che per decenni rifiutò di dare alle stampe, considerandolo un fatto privato, testimonianza di intima sofferenza.
Le battaglie dell’Isonzo furono molto simili a quelle combattute sul fronte occidentale: praticamente una guerra di trincea. Non era intenzione del generale Cadorna prodigarsi in una guerra statica, ma gli eventi ben presto portarono l’avanzata italiana a una fase di stallo; gli austro-ungarici infatti difendevano il territorio facente parte, a tutti gli effetti, dell’Impero e pertanto scelsero una tattica conservativa e prettamente difensiva, aiutati in questo dal terreno stesso.
A metà settembre 1916 il Comando Supremo italiano ordinò di iniziare una nuova offensiva sul Carso, dando così il via alla Settima Battaglia dell’Isonzo.
Obiettivo finale della Terza armata era, come sempre, Trieste: vicina ed irraggiungibile, la città sembrava un miraggio, nonostante il suo valore fosse più simbolico che strategico; tra gli italiani e Trieste si ergevano i bastioni del Carso, culminanti nel massiccio dell’Hermada, che sbarrava la via costiera per il capoluogo, e che, nel corso del conflitto, non sarebbe mai stato conquistato dai soldati in grigioverde: obiettivo tattico di questa settima offensiva era, soprattutto, il Fajti Hrib, un dosso di circa 430 metri di altezza.
Cadorna, convinto che la perdita di Gorizia – avvenuta in agosto, nella battaglia precedente – avesse indebolito gli avversari, cercò di approfittare anche dell’entrata in guerra della Romania, ritenendo che ciò avrebbe costretto l’Impero austro-ungarico a trasferire nuove divisioni sul fronte balcanico.
Invece le truppe asburgiche non erano affatto impreparate: i rinforzi, specialmente quelli materiali, erano arrivati in poco tempo e nessun uomo venne spostato verso il nuovo fronte rumeno; inoltre ventimila prigionieri russi furono spostati sul Carso per scavare nuove trincee e costruire appostamenti e postazioni di artiglieria (in spregio alla Convenzione di Ginevra, che vietava un tale impiego dei prigionieri di guerra). Nella zona del Vallone sorsero così quattro linee difensive di nuova concezione, che disorientarono gli attaccanti italiani.
I manuali di strategia militare insegnano che, in una guerra, l’elemento sorpresa funziona quando è in grado di cogliere alla sprovvista l’avversario, ma, se si ripetono le modalità con cui la sorpresa aveva funzionato, è quasi certo che si andrà incontro a un fallimento.
La settima battaglia dell’Isonzo è, appunto, la storia di un sanguinoso fallimento, venuto subito dopo una formidabile vittoria. Sul fronte italiano, dopo la conquista di Gorizia, il Regio Esercito e i suoi comandanti erano animati da un notevole entusiasmo: questo portò Cadorna a sottovalutare tanto le capacità di reazione degli avversari quanto la loro volontà di resistenza. Il risultato fu una battaglia brevissima e cruenta, che vide, in uno spazio di fronte molto breve, affrontarsi grandi masse di uomini (solo gli italiani schierarono 240 battaglioni, 100.000 soldati, su un fronte di nemmeno 8 chilometri), a contendersi pochi metri di terreno.
La tattica delle c.d. “spallate” prevedeva forti bombardamenti per distruggere le difese nemiche, consentire l’occupazione alle fanterie e infine respingere i contrattacchi austriaci ancora per mezzo dell’artiglieria. L’attacco iniziò la mattina del 14 settembre con un fitto bombardamento che distrusse la prima linea austro-ungarica, ma la pioggia torrenziale vanificò gli sforzi dei fanti, né il successivo miglioramento climatico consentì di ottenere risultati significativi nei tre giorni di combattimenti.
In compenso, per i militari coinvolti, fu una carneficina: le lettere inviati ai familiari dai sopravvissuti parlavano di “pioggia disperata” che impedisce la visuale, di “fuoco infernale” dell’artiglieria che “sembrava impazzita”, di bombe che esplodono nelle mani dei soldati prima di poter essere lanciate. Così il soldato Imerio Gherlinzoni descrisse ai genitori le circostanze del suo ferimento in battaglia:
Ci fecero sfilare allo scoperto, per squadra per uno di corsa; come dissi l’azione era già cominciata, e la reazione nemica era terribile. Il nemico diffendeva, accanitamente, le sue posizioni, con un terribile fuoco di mitragliatrici, e fucileria, e bombe a mano, mentre le artiglierie, battevano le retrovie. Come dissi noi si andava per uno, in fila indiana, e di corsa perché, la zonna era assai batuta. Ad un tratto sentii un gran colpo al fianco destro, che mi fece traballare. […] Quando ripresi i sensi il sole era presso al tramonto, feci per rialzarmi da terra, e non vi riuscii; un dolore acuto, e lancinante, alla schiena e alla anca sinistra mi fece riccadere e solo allora, mi accorsi di essere stato ferito; mi guardai attorno, e vidi che il terreno tutto seminato di corpi di soldati, qualcuno ancora si moveva e si lamentava, ma la maggior parte non si movevano più!!! Intanto non si sentiva più il fragore della battaglia ma le pallottole fischiavano terribilmente, e le granate passavano rombando, sopra di mè, e continuavano a passare di corsa, vari reparti di truppa di tutte le armi Genio, fanteria, finanza, Artiglieria da montagna, bersaglieri, senza curarsi dei lamenti e richiami di noi feriti e compresi che l’azione ancora continuava, e questi reparti andavano di rincalzo. Io continuavo a raccomandarmi a quelli che mi passavano vicino: Portatemi giù, per carità! ho quattro bambini! salvatemi la vita!!! ma quelli badavano ai casi loro, senza curarsi dei miei lamenti!!.
Il soldato Gherlinzoni fu portato in salvo alla fine di quella giornata e curato delle ferite. Altri ebbero minor fortuna. Il 17 settembre, quando la battaglia terminò, col solo risultato, per le truppe di Cadorna, di avere conquistato qualche trincea e un caposaldo avversario, le perdite italiane ammontavano a 21.144 uomini, di cui 5.773 tra morti (2.487) e dispersi (3.286) e 15.371 feriti; gli austriaci avevano perduto circa 15.000 uomini. La Prima Guerra Mondiale andava avanti.
Silvia Boverini
Fonti:
E. Edallo, “La prima “spallata” autunnale”, A. S. Fontana, “Penso alla pace”, I. Gherlinzoni, “Dissanguato”, www.espresso.repubblica.it;
www.itinerarigrandeguerra.it;
www.wikipedia.org;
www.alpinigenovaquarto.wordpress.com;
M. Cimmino, “Grande Guerra, Pillola 91: dalle stelle alle stalle, la settima battaglia dell’Isonzo”, www.bergamonews.it;
C. E. Gadda, “Impossibilità di un diario di guerra” e “Giornale di guerra a prigionia”.
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