18 ottobre 1912: l’armistizio e il macello “umanitario e sentimentale” in Libia
Era un 18 di ottobre quando l’Italia firmò a Losanna l’armistizio con la Turchia, chiudendo così la guerra italo-turca, iniziata l’ottobre precedente. Ma, in quel 18 ottobre 1912, per gli abitanti della Libia – cioè di quelle terre per il cui dominio si erano scontrate le truppe del Regno d’Italia e l’Impero ottomano -, gli spargimenti di sangue e le sofferenze erano appena gli inizi.
L’annessione italiana della Tripolitania, della Cirenaica e del Dodecaneso
Il 29 settembre 1911, previo invio di un ultimatum di appena 24 ore, il Regno d’Italia aveva dichiarato guerra all’Impero Ottomano per impossessarsi delle due province libiche della Tripolitania e della Cirenaica.
La guerra era stata non esattamente fulminea come previsto dal governo presieduto da Giolitti, perché, se le truppe turche di stanza in Libia erano incomparabilmente inferiori per numero e armamenti rispetto al contingente italiano, la condotta degli italiani (su cui ci si è soffermati in un altro post del 5 ottobre 2018), e il fatto che l’Italia, già il 5 novembre 1911, appena un mese dopo lo sbarco delle sue truppe sulle coste libiche, con il regio decreto n. 1247, pur controllando soltanto un’esigua fascia costiera, avesse dichiarato unilateralmente l’annessione delle due province ottomane, ebbero l’effetto di scatenare l’insurrezione della popolazione contro il nuovo invasore. Che tale era, in effetti.
L’insostenibilità della situazione turca
I turchi presenti in Libia, in effetti, avrebbero potuto essere efficacemente aiutati dalla madre patria soltanto via mare, ma ad impedirlo c’era la marina italiana[1]. Inoltre, proprio per forzare la mano al governo turco, l’Italia aveva occupato le isole del Dodecaneso, sottraendo, così, un’altra porzione di possedimenti alla dominazione ottomana[2]. In tal modo, le forze italiane si erano significativamente avvicinate allo stretto dei Dardanelli, arteria vitale per l’Impero ottomano.
Ad un anno di distanza dall’inizio dei combattimenti, la resistenza turca in Libia era, quindi, sostanzialmente debellata, mentre nei Balcani le truppe ottomane si trovavano a fronteggiare l’attacco della Lega Balcanica (l’alleanza fra i regni di Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria), che a partire dall’8 ottobre (lo abbiamo ricordato qui), con la dichiarazione di guerra da parte del Montenegro, diedero il via al primo conflitto balcanico.
I colloqui di pace e i contenuti del Trattato
Il 18 ottobre, a Losanna, i plenipotenziari italiani e ottomani firmarono il trattato, che prevedeva oltre, naturalmente, alla cessazione delle ostilità e allo scambio dei prigionieri, anche alcuni importanti aspetti che furono però in larga parte disattesi[3]. L’autonomia della Tripolitania e della Cirenaica dall’Impero ottomano era attenuata dal mantenimento della sua sovranità giuridica e religiosa, e dalla garanzia da parte dell’Italia della presenza di un rappresentante religioso del califfo nelle due province. All’Italia sarebbe spettata l’amministrazione civile e militare, ma doveva concedere l’amnistia alle popolazioni arabe che avevano partecipato alle ostilità.[4]
La mancata revoca dell’annessione di Tripolitania e Cirenaica
Il Regno d’Italia, però, non revocò mai il regio decreto con il quale aveva proclamato unilateralmente l’annessione delle Tripolitania e della Cirenaica. Così come non ritirò i propri contingenti dal Dodecaneso. Il mancato rispetto di tale clausola venne giustificata da parte italiana come ritorsione per la prosecuzione degli atti di ostilità delle popolazioni arabe contro la propria amministrazione: l’accusa alla Turchia era di avere fomentato e appoggiato la resistenza libica.
La repressione della resistenza anti-italiana in Libia: “Abbiamo sparso solo il sangue indispensabile”
Il fatto è che le truppe italiane in Libia controllavano appena il 10% dell’intero territorio e anche laddove si erano insediate si trovavano di fronte all’aperta ostilità della popolazione, comprensibilmente risentita per l’invasione, l’annessione e le rappresaglie cruentissime operate dagli italiani.
Questi ultimi, però, parevano incapaci di comprendere che l’inasprimento continuo della loro repressione della rivolta non faceva che alimentarla. Arrivavano perfino a rammaricarsi di eccessiva indulgenza.
Ezio Maria Gray, ad esempio, che la notte del 23 ottobre 1911 aveva partecipato per le vie di Tripoli alla caccia all’arabo di cui si dato conto nel precedente post, considerava la repressione troppo prudente, perfino gentile.
Un pugno fermo? Non diciamolo neppure per pudore! Il sentimentalismo, che è una malattia tipica e torpente della nostra razza, inquinò anche in quel giorno la nostra difesa
Quattromila trucidati in quella rappresaglia. Altri quattromila, poi, deportati nelle colonie penitenziarie italiane delle Tremiti, di Gaeta, Caserta, Ponza e Favignana.
A quelli come Gray non importava che i libici venissero impiccati in maniera totalmente arbitraria, che a cadere sotto i colpi della violenza coloniale fossero anche anziani, donne e bambini. Per Gray quella in atto era una lezione annacquata, blanda.
Una repressione sentimentale e bonaria, un colonialismo debole umanitario
Anche Filippo Tommaso Marinetti considerava la condotta degli italiani come una conquista all’acqua di rose. Affermava:
«Abbiamo subito la sanzione fatale del nostro umanitarismo coloniale».
In un passo del suo La bella guerra Gray, non gli era da meno e scriveva:
«Abbiamo sparso solo il sangue indispensabile, e neppure quello necessario. Mentre il tradimento rinnovabile avrebbe imposto il massimo rigore».
A costoro, evidentemente, parevano dettate da fatale umanitarismo coloniale e da italica assenza di rigore le deportazioni di migliaia di libici nelle colonie penitenziarie italiane (a Gaeta, Caserta, Ponza, Ustica, Favignana e sulle isole Tremiti), così come le incessanti fucilazioni e impiccagioni.
«Io mi domando se siamo in Italia, e se il Governo sappia che un tal Cesare Beccaria è nato in Italia»
A svelare inequivocabilmente il volto disumano di quella che il Re aveva chiamato «una missione di civiltà», fu l’Avanti, che il 5 dicembre del 1913, pubblicava sei fotografie che mostravano dei soldati italiani intenti a ad impiccare degli arabi.
Il 18 dicembre Filippo Turati in Parlamento denunciava l’infamia italiana:
«Ogni soldato che compie la nobile funzione del boia riceve, per mezzo dei carabinieri, una sportula di 5 franchi». E aggiungeva: «Io mi domando se siamo in Italia, e se il Governo sappia che un tal Cesare Beccaria è nato in Italia».
Quella era l’Italia, evidentemente, e quel Governo sapeva chi era Cesare Beccaria, ma non se ne curava granché. Ancora meno se ne sarebbe curato il governo Mussolini quando procedette alla riconquista della Libia, puntando su una brutalità ancor più sistematica di quanto non fosse accaduto sotto i governi liberali.
All’interno di questi governi, ad esempio, il non proprio sentimentalista ministro delle Colonie, Ferdinando Martini – come già il suo predecessore Pietro Bertolini – nel 1914, aveva più volte ripreso il governatore della Cirenaica, il generale Ameglio, per l’uso arbitrario e incessante della forca ai danni di libici ritenuti “traditori”.
Se Bertolini e Martini non contestavano esplicitamente il fatto che venissero fucilati e impiccati così tanti libici, limitandosi ufficialmente a deplorare che ciò avvenisse senza reali accertamenti di colpevolezza, senza alcuna procedura formale, sotto il regime fascista caddero anche questi scrupoli.
Alberto Quattrocolo
Del Boca, Gli italiani in Libia, Vol. I, Roma-Bari, Laterza, 1986.
Del Boca, Italiani, brava gente?, Vicenza, Neri Pozza, 2005
Del Fra, Sciara Sciat. Genocidio nell’oasi: l’esercito italiano a Tripoli, Roma, Daranews, 1995
Labanca, La guerra italiana per la Libia 1911-1931, Bologna, Il Mulino, 2011
Quirico, Lo squadrone bianco, Milano, Mondadori, settembre 2003,
Romano, La quarta sponda. La guerra di Libia, 1911/1912, Bompiani, 1977
[1] Inoltre, l’Impero ottomano aveva già il suo bel daffare sul fronte balcanico, dove le popolazioni ad esso assoggettate gli rendevano particolare faticoso e oneroso il mantenimento della dominazione.
[2] L’Impero ottomano era già seriamente in difficoltà anche per le tensioni politiche interne che vedevano l’affermazione del movimento dei “Giovani turchi”
[3] I colloqui di pace tra Italia e Turchia erano iniziati a Losanna, già a luglio del 1912, protraendosi fino a settembre senza alcun progresso, ma la mobilitazione della Lega Balcanica fece precipitare le cose. Ad ottobre, il governo turco dovette ammettere di non poter reggere ulteriormente il confronto con l’Italia.
[4] Inoltre, si impegnava a versare annualmente alla Turchia un importo pari alla media delle somme da quella introitate dalle due province nei tre anni precedenti al conflitto.
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