17 anni dopo il G8 di Genova sono ancora attuali i contenuti del Movimento no-global
Genova per noi
Ho iniziato questo articolo troppe volte. Non sapevo da che “parte” iniziare.
C’erano allora, e ci sono adesso, troppi temi e troppe lotte ancora estremamente attuali e urgenti .
Ora cerco di scrivere per chi a quel G8 non c’era, o per chi era troppo piccol* per ricordarselo, per chi è arrivat* dopo.
Io nel 2001 avevo poco più di vent’anni.
Il G8 di Genova rappresenta per me un’esperienza eccezionale e collettiva. Un’esperienza enorme in termini di mobilitazioni, con decine di migliaia di manifestanti presenti ogni giorno nei cortei, un’esperienza complessa in termini di contenuti e saperi che venivano messi in campo grazie alla presenza di tantissime lotte che convergevano a quel vertice da tante parti del mondo diverse, una ferita profonda, insanabile, per la repressione senza limiti messa in atto da uno stato che, dal 20 luglio in poi, nel giorno in cui Carlo è stato ammazzato, non ho mai più considerato come “democratico”.
Il G8 di Genova segna un momento fondamentale di conflitto sociale e globale all’inizio del nuovo millennio. Un momento che ha cambiato la “mia” storia e sicuramente quella della mia generazione. Un momento preciso da cui non si torna più indietro.
È un’esperienza che ha segnato la vita di migliaia di persone sotto ogni punto di vista e di cui non riesco a parlare facilmente.
È la prima volta, dopo 17 anni, che provo a scriverne.
Andare a Genova. Avere vent’anni.
Ciò che ho vissuto a Genova – con le persone che erano insieme a me, amici, compagne, persone conosciute, sconosciute, incontrate per caso, scappando dalle cariche o restando negli scontri – ha determinato le mie scelte di vita negli anni che sono seguiti.
Dopo Genova ho continuato ad approfondire questioni per me importanti (i processi di dominio coloniale, post-coloniale, il “governo” dei processi migratori, il razzismo…), ho cercato di comprendere meccanismi di sfruttamento e oppressione “da vicino” andando a lavorare in un paese lontano, ho iniziato a capire che la mia vita, insieme ai nuovi contratti di “lavoro” che mi venivano propinati, sarebbe stata strutturalmente precaria.
Le istanze e le rivendicazioni “portate” a Genova per contrastare quel vertice dei G8[1] non solo anticiparono in modo estremamente preciso la violenza politica, economica e sociale che stava già massacrando enormi masse di popolazione in paesi già poveri (“quelli del sud e est del mondo”), ma prefigurarono anche le politiche di crisi permanente e di austerity che presto avrebbero impoverito e precarizzato anche gli abitanti del “primo mondo”. Soggetti di una “cittadinanza” che forse contava ancora con qualche forma di protezione sociale e di welfare.
Il movimento no-global, o new-global, o altermondialista. Non importa la definizione.
Il movimento dei movimenti fu, prima di tutto, la configurazione di uno spazio politico globale in cui non esisteva più una gerarchia di “saperi” e di “storie”.
Quel movimento era stato capace di eliminare una gerarchia delle lotte e delle rivendicazioni e di elaborare documenti comuni e pratiche di azione in modo orizzontale.
I movimenti in Europa erano finalmente parte di movimenti di lotta e di resistenza “globali” in questo e in altri continenti. Le popolazioni originarie (indigene) avevano preso la parola da tempo, dimostrando ad un “occidente” già vecchio, quale fosse stata la loro capacità di resistenza e di autodeterminazione in difesa dei territori durante secoli di saccheggio e genocidio coloniale.
Il primo parallelismo che mi viene in mente ora è proprio il moltiplicarsi di quelle lotte, in ogni angolo del pianeta, contro mega-progetti nocivi e devastanti, o processi di accaparramento ed estrazione di risorse (estrazione mineraria, monocolture imposte dalle ex-colonie, ecc.) uniti a tentativi di deportazione forzata di intere popolazioni attraverso l’intervento militare e l’occupazione di interi territori.
No borders
Il 19 luglio 2001 ci fu la prima grande manifestazione contro il vertice del G8 per la libertà di circolazione e per i diritti di migranti, rifugiati e richiedenti asilo.
Nel manifesto che lanciava quella giornata di mobilitazione, e che vide la partecipazione di almeno 50.000 manifestanti, c’era scritto “Libertà di movimento – Freedom without borders”. Evidentemente già allora i termini della questione, rispetto alla repressione e al disciplinamento dei “corpi migranti”, erano molto chiari e la Fortezza Europa aveva già dispiegato ovunque dispositivi fisici e amministrativi di detenzione extra-giudiziale.
Nel 1998 la legge Turco-Napolitano aveva già istituito i CPT (centri di permanenza temporanea), poi divenuti CIE (Centri di identificazione ed espulsione) con la legge Bossi Fini, e infine rinominati C.P.R. (Centri di Permanenza per i Rimpatri) dalla recente legge Minniti-Orlando.
In queste poche righe non mi dilungherò nello spiegare che cosa siano ancora oggi dei campi di concentramento creati nei centri di molte città italiane o nelle “periferie”, in paesi di frontiera, sui confini o vicino al mare. Da nord a sud, da est a ovest.
Superando i confini nazionali, dove i “centri-lager” appena citati cambiano nome ma continuano ad esistere da vent’anni, osserviamo come si sviluppa la guerra aperta scatenata della UE contro i migranti insieme a tutto un dispiegamento di forme neocoloniali di concentramento e “gestione” di corpi, di vite, all’interno di altri campi (altri lager) situati in qualche tipo di enclave, o sui confini, su isole o direttamente costruiti e finanziati da paesi come Italia e Germania e “gestiti” dalle mafie locali in Libia, Turchia, ecc.
Sicuramente il 19 luglio di tanti anni fa non avrei potuto immaginare un potere di morte così esteso e capillare attuato nello spazio del Mediterraneo dall’Unione Europea e dai suoi “alleati”.
Allo stesso tempo le attuali politiche in voga, “sovraniste” (o nazionaliste, protezioniste, ecc.), espresse da governi europei di ogni genere e “colore”, spiegano una volta per tutte chi è eliminabile e chi non lo è.
Una guerra contro migranti, rifugiati e richiedenti asilo che ora i “democratici” cercano di condannare. Gente varia, partiti, che provano tanto orrore verso le forze populiste, fasciste e anti-europeiste alla vigilia di qualsiasi tornata elettorale ma che di fatto hanno portato avanti la stessa guerra, fino a poco tempo fa, solamente con più “stile” e discrezione.
Non sembra che il “ritorno della nazione” – non solo in Paesi come l’Italia, l’Austria o l’Ungheria, ma più in generale nella congiuntura globale che stiamo vivendo – sia destinato a mettere in discussione il “neo-liberalismo” che abbiamo criticato nelle politiche dell’Unione Europea. Al contrario, la sovranità rivendicata dalla nazione si mostra tanto feroce contro i poveri e gli estranei quanto spettrale di fronte al capitale finanziario e accondiscendente al cospetto delle retoriche e dei processi che puntano all’intensificazione dello sfruttamento del “capitale umano” di popolazioni impoverite e impaurite da anni di crisi. (Sandro Mezzadra, Il Manifesto, 4 luglio 2018).
Conflitto.
Da Seattle in poi, “il movimento dei movimenti” aveva fatto capire che l’azione diretta contro i mega-vertici neoliberisti era possibile: forme di conflitto anticapitaliste, varie e differenziate, furono in grado di attaccare e far saltare, in quel caso, la conferenza del WTO (World Trade Organization).
Da quel momento (1999) era stato possibile concentrare l’attenzione mediatica globale sull’espansione di un movimento che finalmente rendeva possibile il passaggio dal classico conflitto capitale-lavoro a tutta una vasta rete di confluttualità antiliberista, mentre il capitalismo aveva già cambiato forme, discorsi, rappresentazioni, in mille rivoli e nuovi tentacoli.[2]
A Genova il G8 si incontrava per esaltare il processo di globalizzazione dell’economia di mercato.
Alle mobilitazioni contro il vertice aderirono oltre mille organizzazioni, da oltre 50 nazioni.
In quei giorni il manifesto “globale” delle proteste recitava: “ Voi G8, noi 6.000.000.000.”
Il 16 luglio Susan George dichiarò: “Se andrà avanti la finanziarizzazione dell’economia, l’Europa andrà incontro a una delle più grandi crisi sociali ed economiche della propria storia moderna”. E, da quello stesso movimento, nasceva l’idea della Tobin Tax, la tassazione sulle operazioni speculative finanziarie, la denuncia dei derivati e la campagna contro i paradisi fiscali. Temi che mi sembrano ancora piuttosto attuali.
Anche i movimenti ambientalisti attaccarono fortemente quel modello di sviluppo globale, evidenziando il cambiamento climatico già in atto e lo sconvolgimento degli equilibri in diverse zone del pianeta.
In questo senso è impressionante rileggere ora, a distanza di 17 anni, i documenti ufficiali usciti dal Forum Sociale di Porto Alegre.[3] È sconcertante leggere con quale chiarezza si prefigurassero da parte di quel movimento una serie di scenari, elaborati da un’intelligenza collettiva, che spiegavano in modo dettagliato le conseguenze dirette del modello neoliberista.
A Genova si era concentrato un movimento enorme, globale, articolato che finalmente andava da un continente all’altro, da una lotta all’altra, da un territorio ad un altro. C’erano popoli e c’erano conflitti connessi tra loro, c’erano voci che finalmente avevano preso la parola e denunciavano le condizioni in cui vivevano intere popolazioni in seguito alla ratifica di vari trattati internazionali di “libero scambio”, o paesi “terzi” che rimanevano ostaggi del debito, all’interno di una progressiva finanziarizzazione dell’economia che non è mai stata normata o limitata, e che invece è peggiorata.
Il vertice di Doha ha confermato l’illeggitimitá del Wto. La presunta “agenda per lo sviluppo” adottata in realtá difende solo gli interessi delle multinazionali. Con il lancio di un nuovo round il Wto si sta avvicinando al suo obiettivo di trasformare ogni cosa in merce. Per noi, cibo, servizi pubblici, agricoltura, salute, istruzione e i geni non sono in vendita. Inoltre rifiutiamo il brevetto di qualsiasi forma vivente. L’agenda del Wto viene estesa a livello continentale attraverso gli accordi di libero commercio e investimenti. Organizzando proteste come le grandi dimostrazioni contro l’Alca, i popoli hanno rifiutato questi accordi che rappresentano una ricolonizzazione e la distruzione di valori fondamentali, sociali, economici, culturali e ambientali.[4]
Da li a pochi mesi in Argentina ci sarebbe stata una crisi economica e istituzionale senza precedenti, provocata dalle ricette ultraliberiste imposte dal Fondo Monetario Internazionale attraverso feroci privatizzazioni.
Il 19 dicembre del 2001, dopo anni di crisi economica e debiti accumulati dai governi precedenti, il sistema bancario argentino tracolla e lo Stato dichiara la bancarotta. In quello stesso giorno scoppia la rivolta.
Ancora una volta possiamo azzardare un qualche tipo di parallelismo e ricordare come la minaccia di default nei confronti della Grecia nel 2015 abbia permesso alla allora chiama “Troika” (formata da FMI, BCE ed UE) di imporre misure pesantissime di austerità e di ridurre allo stremo (e alla fame) enormi settori di popolazione.
Corpi. Desideri.
Genova è stata anche una grande alleanza globale di corpi, di complicità, di sperimentazione e di pratiche di conflitto che provarono a sovvertire in diversi momenti e luoghi della città l’immaginario cristallizzato tra movimento “non-violento” e scontro di piazza.
Già durante le manifestazioni a Praga, nel 2000, durante le riunioni dell’Fmi e Banca Mondiale, il blocco pink aveva scelto la “frivolezza tattica” che risultò la più efficace per infrangere e invadere la “zona rossa”.
L’anno dopo, a Genova, prima dell’inizio del “vertice ufficiale”, il 15 e 16 giugno 2001 la rete delle donne (che allora era riunita sotto la sigla Marcia mondiale delle donne) aprì le iniziative politiche del Genova Social Forum con tre giorni di dibattiti, seminari e una manifestazione/happening per le vie della città, dal titolo Punto G: Genere e Globalizzazione.
Si può dire che a Genova, e soprattutto dopo Genova, nacque un numero significativo di collettivi e gruppi “inclassificabili”, accomunati dalla diversità delle pratiche, che proponevano strategie di protesta più ironiche e inclusive.
Istanze creative come le Sambe Internazionali (Rhythms of Resistance) e i movimenti più radicali e antagonisti LGBT furono in grado di sovvertire le rappresentazioni mainstream della protesta e dello scontro con “l’autorità”. Questa onda eretica cercò di analizzare la violenza estrema e la repressione che avevano massacrato e fatto a pezzi il movimento proprio a Genova. Diventava urgente creare “altri corpi” di protesta, inventare altri linguaggi, altre forme di conflitto e decostruire gli stereotipi interiorizzati dei “generi” presenti anche all’interno dei movimenti.
All’interno di questa ricerca, a “partire da sé”, e attraverso nuove pratiche spesso imprevedibili e perturbanti anche per gli/le stesse attiviste che le ideavano e realizzavano, l’immaginazione si fece carne e le modalità di stare in piazza e di occupare lo spazio pubblico, anche nello scontro, si moltiplicarono, diventando finalmente più spiazzanti e erotiche.
L’urgenza e il desiderio di cambiare l’esistente, o di sfidare il potere e la possibilità di arrivare anche allo scontro diretto con le forze dell’ordine, si accompagnava al desiderio rappresentato da ogni corpo e soggetto differente (dissidente) che voleva esserci, che voleva partecipare, perché si sentiva a proprio agio, perché il linguaggio era condiviso e le pratiche erano state decise insieme, in modo orizzontale.
[…]Ancora in questo ambito è da collocare il movimento pink, un insieme disperso di pratiche libertarie del desiderio e del piacere anche sessuale, di etiche hacker “black, pirate”, le cui radici affondano nelle sottoculture punk dagli anni settanta in poi: “La chiave di volta del Pink è costituita da forme di convergenza fra tendenze e forme d’espressione pink queer e attivismo noglobal, secondo una progressione/commistione di significati che possiamo sintetizzare come pink, punk, no global […] Pink vuol dire femminista, queer, strano, libertario, vuol dire dissenziente, deviante, vuol dire aggressività gioiosa. Tutte qualità intrinsecamente eretiche e noglobal” (Foti 2009: 46, 47).
È interessante notare come, per i motivi esplicitati in apertura a questa introduzione, in Italia spesso attivismo pink, antagonismo queer, teorie e pratiche anti-autoritarie convergano, senza necessariamente auto-definirsi anarcoqueer come invece avviene in altri Paesi: con l’eccezione delle mailing-list “Deviazioni” (http://www.ecn.org/deviazioni/) sul sito Ecn (Isole nella rete) e il blog “anarcoqueer.wordpress.com” di recente formazione, si tratta perlopiù di collaborazioni internazionali e di attività – dalla circolazione di materiali in Rete all’organizzazione di raduni, convegni, gruppi di discussione e interventi – da parte di movimenti attivi in varie zone sul territorio nazionale. Basandomi su scritti che trattano di networking, antagonismo radicale e sottoculture queer (A/I 2012; Bazzichelli 2006; Foti 2009; Ilardi, 2009, a cura di; Warbear 2009a, 2009b) e su informazioni tracciabili in Internet fino al passaparola di contatti negli ultimi due anni, in questo studio discuterò dei gruppi Antagonismogay/Smaschieramenti, FrangettEstreme, Mujeres_Libres, Sexyshock di Bologna; A/Matrix, OrgogliosamenteLGBTIQ, Phag Off! e il collettivo Facciamobreccia di Roma; Pornflakes queer crew di Milano e la Torino Samba Band.[5]
Media e conflitto.
Un altro elemento cruciale che vorrei sottolineare è l’esperienza ricchissima che da Seattle in poi rappresentò l’informazione libera, indipendente, radicale. Un network globale di media attivist* che raccontò e documentò in ogni momento, in diretta, cosa stava accadendo per le strade di Genova. E poi la mattanza della Diaz, le torture di Bolzaneto, i feriti portati via dagli ospedali dalla polizia e rinchiusi in commissariati in cui accadde di tutto.
Tutto questo immenso lavoro di registrazione e documentazione indipendente rappresenta un materiale prezioso per la memoria e per la rabbia. Per non dimenticare. Per continuare a lottare.
Un lavoro che risultò imprescindibile anche per i processi contro vari agenti o interi reparti delle forze dell’ordine presenti a Genova in quei giorni, così come per “eventuali” procedimenti disciplinari nei confronti dei loro diretti superiori (responsabili).
Imprescindibile per la forza delle mobilitazioni fu il lavoro di Indymedia Italia, di Radio Gap (circuito di radio indipendenti), Candida TV, Isole nella Rete, Tactical Media Crew e moltissimi altre/altri videomaker, giornalisti/e, fotografe/i, registi, ecc.
Sappiamo come è finita.
Le proteste contro il vertice furono represse in modo devastante.
Con la terribile giornata del 20 luglio, con l’assassinio di Carlo e le cariche infinite, gli spari. Con centinaia di persone ferite alla fine di quella giornata che non andarono in ospedale per il timore di essere arrestate.
Forse chi aveva progettato e gestito la repressione in quei giorni, in quelle ore, pensò che la manifestazione del sabato non ci sarebbe stata. O che sarebbe arrivata poca gente, e molta avrebbe avuto paura e sarebbe rimasta a casa.
Invece alla manifestazione di sabato 21 luglio partecipano circa 300.000 persone. Il corteo, immenso, il più grande che abbia mai visto in vita mia, venne caricato ripetutamente dalle forze dell’ordine e spezzato in più punti.
E poi l’epilogo, quando la maggior parte di noi era già sui treni “speciali”, allontanati apposta dalla città per non scatenare una reazione, magari rimanendo bloccati per ore sui binari a pochi chilometri da Genova.[6]
“Alle 00.10 tra il 21 e il 22 luglio, quando ormai gli scontri sono finiti e tutti si apprestano a cercare di riposare o di rientrare a casa, le forze dell’ordine fanno un blitz al Media center del Gsf (dove si trovano anche l’Indymedia center e la sede dell’assistenza legale) e alla scuola di fronte, la scuola Pertini-Diaz, dove stanno dormendo un centinaio di manifestanti, accusati di appartenere al black bloc. L’operazione si conclude con 61 ragazzi feriti e 93 fermi, 68 dei quali non convalidati dai giudici perché illegittimi.” [7]
Indymedia a Genova era alloggiata al terzo piano della scuola Pertini di fronte alla scuola Diaz. In quella scuola si trovava anche la segreteria del Legal Forum, gli avvocati del Genova Social Forum, al primo piano e le redazioni di Carta e Manifesto al secondo. Questa sistemazione ha permesso di riprendere l’irruzione nella scuola di fronte quasi in tempo reale. Nella stessa scuola era presente il network radiofonico Radio GAP che trasmise in diretta fino a quando la polizia non fece irruzione anche lì lasciando alla cronaca e alla storia la disperata testimonianza dei cronisti al microfono. L’audio di Radio GAP fu messo in coda al film “Lavorare con Lentezza” di Guido Chiesa facendo un parallelo con un’analoga irruzione della polizia negli studi di Radio Alice a Bologna durante il ’77. Mentre il video di Indymedia fu trasmesso dal TG5 di Enrico Mentana poche ore dopo il 21 Luglio, con il logo oscurato, e fu la prima volta che un pubblico più ampio della piccola comunità della rete italiana, allora davvero accessibile a pochi, poté vedere quello che era successo alla scuola Diaz oltre le cronache modellate sulla versione della polizia.[8]
Finale. Ma l’amore non finisce.
Non parlo a nome di nessun* e per nessun*.
Questo testo non ha alcuna pretesa di raccontare un movimento così ampio in modo esaustivo. Un mondo che conteneva tanti mondi, estremente variegato per la sua potenza, per l’energia che ha mosso centinaia di migliaia di persone a essere parte di un movimento globale, per la complessità delle istanze che si opponevano ad un modello unico di “sviluppo” già ampiamente cambiato e superato in questo presente, pieno di trappole e contraddizioni.
In questo articolo non riesco a parlare della morte di Carlo, non riesco a descrivere un dolore immenso. In questo testo non analizzo le pratiche di repressione, le sue conseguenze, le nostre condanne, le assoluzioni (e le promozioni) dei “loro” vertici politici. Non riesco a parlare del senso di morte che ha accompagnato quei giorni e tutti i giorni che sono seguiti.
Per ogni soggetto che ha vissuto Genova in quei giorni di luglio 2001 ricordare ad alta voce, ricordare le ore, i dettagli, i sogni, i risvegli, può risultare ancora difficile. A volte impossibile.
Manuela Cencetti
Torino, luglio 2018.
[1] Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti d’America e i rappresentanti dell’Unione Europea.
[2] In questo senso leggere o rileggere oggi il saggio di Naomi Klein “No Logo”, pubblicato nel 2000, che analizzava la crescita dello strapotere culturale e patrimoniale delle multinazionali, la ricerca sul branding, lo spostamento della manodopera per la produzione di “grandi marchi” dagli Stati Uniti a Indonesia, Cina, Vietnam, Filippine, ecc., il dilagare in occidente di una massa di lavoratori e lavoratrici precarie, atipiche, “interinali”, risulta impressionante.
[3] http://www.repubblica.it/online/mondo/portodue/documento/documento.html
[4] Punto 15 del documento finale del Forum sociale mondiale di Porto Alegre.
[5] https://femminismo-a-sud.noblogs.org/post/2014/02/16/anarchismo-queer-introduzione/
[6] Partito alla sera del 21 luglio, il treno per Torino arrivò a Porta Nuova alle sei e mezza del mattino del 22 luglio.
[7] http://matteopasquinelli.com/docs/Pasquinelli_Media_Activism.pdf, p. 85
[8] https://comune-info.net/2015/04/g8-media-indipendenti/
grazie. ho letto l’articolo, che mi ha girato Liliana Ellena. condivido tutto, il senso di possibilità, di cambiamento d’amore. il senso di sconfitta, di fine, di morte. fatico anche io a parlare di genova, se non in termini molto razionali. eppure sono di un’altra generazione, ho dieci anni più di te, ero già “grande” a Genova. ma anche per me quella è stata una svolta umana totale