06.10.2000. Milošević si dimette da Presidente della Jugoslavia
In quel giorno di ottobre, ventiquattro ore dopo aver riconosciuto la sconfitta alle elezioni, Slobodan Milošević lascia ufficialmente la guida del proprio paese. Sono passati 4 anni dall’investitura a Presidente della Repubblica Federale Jugoslava e 11 da quella della Serbia.
Figlio di un catechista e di un’insegnante, entrambi morti suicidi prima che il figlio compisse 35 anni, Milošević si mosse tra i partiti socialisti e comunisti serbi negli Anni 80. All’epoca, la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia comprendeva ancora Serbia, Montenegro, Slovenia, Bosnia ed Erzegovina, Croazia e Macedonia. Tito, ovvero Josip Broz, nel ruolo di Presidente della Repubblica aveva cercato di mantenere l’unità, soffocando i respiri nazionalisti di ciascun paese, al grido di Fratellanza e Unità. Dopo la sua morte, nel 1980, le cose iniziarono lentamente a cambiare.
Al giro di boa del decennio in questione, si registrano forti tensioni in Kosovo, provincia autonoma della Serbia (al pari della Vojvodina). Qui, Serbi e Albanesi iniziano a scontrarsi violentemente, a differenza di quanto avviene in Croazia e in Bosnia, laddove la convivenza è pacifica. È Milošević a muoversi verso quelle terre, con l’iniziale intento di seguire la linea del suo partito, cioè ristabilire la quiete. Considerato, però, lo stato di discriminazione in cui versavano i Serbi presenti in quelle zone, si schiera dalla parte del proprio popolo, fino a revocare l’autonomia un paio d’anni dopo.
Da questo porto prese il largo, spinto dal vento nazionalista serbo, che sfruttò per raggiungere la presidenza della nazione: la Serbia, in quanto maggiore repubblica della Federazione, avrebbe dovuto guidare la Jugoslavia, da cui era estromessa la minoranza albanese. Siamo intanto giunti al 1990, anno in cui Sloveni e Croati si rendono conto che le proprie posizioni, indipendentiste, sono inconciliabili con quelle del Presidente serbo: un anno dopo, due referendum sanciscono l’uscita di queste due nazioni dalla Federazione e, di fatto, l’inizio della guerra.
Per quanto concerne la Slovenia, la Guerra dei dieci giorni risolve in fretta il conflitto, conclusosi con gli Accordi di Brioni. Milošević aveva molto più interesse a occuparsi della Croazia, laddove c’era una consistente minoranza serba: avrebbe annesso territori croati e, poi, bosniaci, per costituire la Grande Serbia. In effetti, anche la Bosnia ed Erzegovina, nel 1992, si proclamò indipendente per mezzo di un referendum, attirando su di sé la violenza del conflitto bellico. Conflitto che si spegnerà tre anni dopo, con la firma degli Accordi di Dayton, sottoscritti in terra americana.
In seguito allo smembramento della Federazione, avvenuto nel 1992, Serbia e Montenegro si riunirono nella Repubblica Federale di Jugoslavia, presieduta dallo stesso Milošević. Tale realtà combatterà anche in Kosovo, laddove l’esercito di liberazione albanese seminò il terrore, in risposta a presunti crimini di guerra commessi dalle forze armate federali. Solo l’intervento militare della NATO, a suon di bombardamenti, riuscì a riportare i diplomatici al tavolo delle trattative. Era il 1999.
Milošević, a questo punto, non vantava più l’appoggio, interno né esterno, di cui godette dieci anni prima: alle elezioni del 2000, come accennato all’inizio, fu sconfitto dai moderati, che lo costrinsero alle dimissioni. Si concluse in prigione la parabola del politico serbo: il Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex-Jugoslavia non riuscì a processarlo, poiché spirò nel maggio del 2006 nel carcere dell’Aia.
Alessio Gaggero
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